Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!
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mercoledì 29 maggio 2013

Depressione, e non recessione

di Roberto Romano - sbilanciamoci -
I dati Eurostat mostrano che parlare di recessione è ormai un eufemismo a buon mercato. Nel periodo 2008-2012 l'Italia ha strutturalmente imboccato la strada della depressione
La crisi economica internazionale ha colpito tutti i paesi a capitalismo avanzato. A partire dal 2008 tutti i principali indicatori economici europei, Pil, occupazione, investimenti, produzione industriale, hanno il segno meno davanti ad ogni indicatore da almeno 4 anni, ma l’Italia ha manifestato una caduta di reddito, occupazione, produzione e investimenti molto peggiore della media dei paesi europei. Per l’Italia, infatti, più che di recessione è più corretto parlare di depressione. La crisi ha costretto un po’ tutti i Paesi a misurarsi con una situazione inedita e senza precedenti, se non per alcuni tratti simile alla grande crisi del ’29, ma l’Italia ha indicatori economici (Eurostat) che travalicano la recessione economica: il nostro paese consuma (brucia) il presente e, aspetto ben più grave, rinuncia al futuro.
Utilizzando i dati Eurostat (2008-2013) relativi a Pil, investimenti, produzione industriale e al tasso di occupazione, indicatore molto più rappresentativo della crisi occupazionale, l’Italia è un paese in piena depressione. I tassi di crescita del Pil (cumulati) tra il 2008 e il 2013, prendendo per buone le previsioni per 2013 di Eurostat e Def, sono negative per 8,3 punti percentuali, contro una crescita del 4,3% della Germania. Nel periodo considerato nessun paese di area euro è riuscito a fare peggio. Solo la Spagna si avvicina un po’ all’Italia con una crescita negativa di 5,6 punti percentuali. Quindi l’Italia ha maturato un gap di crescita molto prossimo a quello di un paese sull’orlo di un precipizio. Non bisogna mai dimenticare che un punto di Pil è pari a quasi 15 mld di euro.
Ma come spesso accade, dietro il Pil si celano fattori e oggetti che meglio di altri fotografano la crisi di struttura. Infatti, tra il 2008 e il 2012 i tassi di variazione della produzione industriale cumulata è pari a meno 21%. Tutti i paesi hanno eroso una parte della propria struttura produttiva, ma il meno 21 per cento dell’Italia non regge il confronto con nessun paese europeo. L’area euro tra il 2008 e il 2012 ha contratto la propria produzione di 10 punti percentuali, mentre la Francia, altro grande ammalato dell’Europa, ha perso il 16%. Quindi, solo l’Italia ha compromesso così in profondità la sua struttura produttiva.
Gli effetti sociali potevano anche essere peggiori se non ci fosse lo stato sociale, al quale, però, non si possono chiedere miracoli.
Le ricadute occupazionali, più precisamente il tasso di occupazione, sono senza precedenti storici. Se consideriamo che il tasso di occupazione dell’Italia, già mediamente più basso di 7 punti percentuali di quello medio europeo, l’ulteriore contrazione di 2 punti percentuali intervenuta tra il 2008 e il 2012, la maggiore tra i paesi di area euro, è lecito sostenere che l’Italia non è più un Paese europeo. La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, fanno dell’Italia un malato particolare. Parlare di recessione è un eufemismo a buon mercato. L’Italia ha strutturalmente imboccato la strada della depressione.
Ma la situazione economica e industriale è ancora più grave se guardiamo al futuro, cioè alla volontà del sistema industriale nazionale di uscire dalla crisi attraverso nuovi investimenti. L’Italia è sempre stato un paese che ha investito più della media dei paesi europei, ma il crollo intervenuto tra il 2008 e il 2012 ha un significato economico storico e senza precedenti. Infatti, l’industria italiana ha sempre investito per inseguire i paesi che generavano innovazione, cioè gli investimenti, pur non giocando il ruolo strategico che meritavano, hanno concorso a tenere agganciato il paese all’Europa; nell’attuale situazione, invece, le imprese italiane de-industrializzano. Utilizzando sempre i dati Eurostat, il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17 per cento tra il 2008 e il 2013, contro una media europea del meno 10 per cento. Non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo. Per esempio, nello stesso periodo, la Germania ha investito il 5,5 per cento in più, la Finlandia l’1 per cento e gli Stati Uniti il 6,5 per cento. In qualche modo l’industria italiana produce beni di consumo immediati, e non si preoccupa più della produzione futura.
Il governo Letta punta su un riordino della pressione fiscale e qualche altro intervento di tutela del lavoro, ma l’impressione è quella di un governo, ma forse anche di un Paese, che ha deciso di rimuovere dalla discussione politica dai problemi veri del paese. Prima iniziamo a discutere di questi problemi, cioè di depressione, de-industrializzazione, assenza di investimenti, meglio sarà per tutti.
Solo in questo modo sarà possibile discutere dell’abissale distanza dell’Italia dai paesi che formano l’euro, e impostare una discussione seria su industria, bilancio, occupazione e giovani.

mercoledì 22 maggio 2013

Lavoro, giovani disposti a tutto. Il 34% farebbe lo spazzino

- controlacrisi -
Il 34% dei giovani pur di avere un lavoro farebbe lo spazzino. Questa percentuale arriva addirittura al 49% per chi cerca lavoro, mentre cala al 19% per gli studenti.

Questo emerge da un'analisi Coldiretti/Swg su ''I giovani e la crisi'', dell'Assemblea di Giovani Impresa Coldiretti in vista della presentazione del piano giovani del Governo.

"Il 34 per cento dei giovani - aggiunge la ricerca - accetterebbe un posto da pony express e il 31 da operatore di call center. Anche in questo caso per i disoccupati la percentuale sale al 49 per cento per il posto da pony express e al 39 da operatore di call center.
Oltre 4 giovani disoccupati su 10 (43 per cento) sarebbero peraltro disposti, pur di lavorare, ad accettare un compenso di 500 euro al mese a parita' di orario di lavoro, mentre il 39 per cento sarebbe disposto ad un maggiore orario di lavoro a parita' di stipendio.

''L'analisi evidenzia un forte spirito di sacrificio delle giovani generazioni che li porta addirittura a rinunciare a diritti del lavoro fondamentali'', ha dichiaratoSergio Marini, il presidente della Coldiretti, nel sottolineare che ''questo non puo' essere consentito in un Paese civile come l'Italia''.

La situazione cambia per i giovani occupati che solo nel 7% dei casi sono disponibili ad accettare lo stipendio ribassato, mentre nel 23% sono pronti a lavorare piu' a lungo.

"Vista la nera realta' occupazionale - conclude Coldiretti - il 51% dei giovani sotto i 40 anni e' pronto ad espatriare per trovare lavoro mentre il 64 per cento e' disponibile a cambiare citta'.

Questo perche' il 73 per cento dei giovani ritiene che l'Italia non possa offrire un futuro. I risultati si invertono tra i giovani agricoltori: il 45% credono che l'Italia possa offrire un futuro.

domenica 19 maggio 2013

I nani d’Europa e la società dimenticata

Politici europei e tecnocrati, imponendo l’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa. Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera e ottusa?

- sbilanciamoci -
La sera del 6 maggio scorso, Antonio Padellaro, parlando di Andreotti e della sua epoca su “la7”, diceva che se i politici di adesso sono normali quelli di allora erano dei giganti o che, se erano normali quelli... Personalmente riserverei il termine di gigante a personaggi quali Churchill e Roosevelt, quelli che avevano voluto Bretton Woods ancor prima che la guerra terminasse nella convinzione che i conflitti commerciali erano la premessa di quelli armati, e ai padri fondatori dell’Europa, animati da convinzioni simili. Forse la classe politica successiva, quella che ha gestito il periodo del benessere, era un tantino meno gigante, ma sempre fatta di figure che avevano una discreta cultura e comunque il senso dello stato. Evidentemente la statura è andata diminuendo con il tempo, ma era difficile prevedere che si potesse cadere così in basso.
Per additare i perversi protagonisti della finanza negli anni ’50 Harold Wilson parlò dei banchieri svizzeri come gli “gnomi di Zurigo”. Oggi, per dipingere politici europei e tecnocrati che, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa, mi sembra il caso di parlare dei “nuovi nani” della scena politica europea. La loro infima statura culturale, associata a pervicace arroganza, è infatti al di là di ogni possibilità di redenzione, come vorrei di seguito argomentare. L’idea che una società possa organizzarsi, che possa agire attraverso la mano pubblica anche fuori dai tempi di guerra sembra estranea alla sensibilità e al cervello dei nuovi nani. La tragicità, in termini di frustrazione e di spreco sociale ed economico, della disoccupazione giovanile che affligge gran parte d’Europa non scuote il loro animo. E la cosa più grottesca è che le sofferenze da questi nani imposte sono inutili. Gli stupidi possono ravvedersi a fronte di evidenze certe e semplice buon senso. Questi nani no.
Diagnosi, correzioni, nuove prospettive
Negli ultimi mesi vi sono state importanti ammissioni di errori da una parte dei tecnici e degli accademici che avevano sostenuto l’esigenza dell’austerità fiscale. Sono anche emersi sempre più nitidamente fatti che, senza bisogno di tante riflessioni, pongono in evidenza le possibilità di successo di politiche espansive. I nani sembrano non essersene resi conto e mantengono la rotta della perdizione europea.
A porre i primi dubbi sulla saggezza della drastica terapia di austerity hanno cominciato quelli dell’Fmi, Blanchard (chief economist di quella struttura) in testa. Come ho argomentato (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Il-bilancio-espansivo-che-serve-all-Europa-16614) non si è trattato certo di un “pentimento completo”, ma si è tornati ad ammettere, come negli anni ’70, che i “moltiplicatori” di spesa pubblica e imposizione possono essere diversi da zero e diversi tra loro. Come conseguenza imprevista dell’errore sui moltiplicatori l’austerità, nella misura in cui è stata praticata in Europa, ha prodotto recessione e di ciò il Fmi ha dato atto. In qualche misura il Fmi sembra essere tornato a modelli interpretativi simili a quelli che le banche centrali di tutto il mondo usavano negli anni 1970, quando i “moltiplicatori” venivano stimati e pubblicati.
Quasi contemporaneamente lo Iags (un’associazione tra tre autorevoli centri di ricerca europei) ha prodotto un rapporto che, anche esso sulla base di una rivisitata stima dei moltiplicatori, suggerisce, sulla base di un adeguato modello di ottimizzazione dinamica, di rimodulare nel tempo le politiche di rientro dal debito per i paesi cui è stato prescritto (tra i quali l’Italia) in modo da minimizzare l’impatto recessivo delle politiche stesse. Una proposta certo timida ma che va nella direzione giusta, anche se non abbastanza. Vi sarebbe infatti bisogno di politiche effettivamente espansive, piuttosto che solamente meno recessive.

mercoledì 15 maggio 2013

Senza più un tetto, solo disperazione

Fonte: il manifesto | Autore: Federico Scarcella
 
La tragedia a Vittoria, nel Ragusano, dove un uomo si è dato fuoco per difendere la sua abitazione, ancora da finire, che era stata messa all'asta per un debito di 10mila euro con la banca
Sfrattato con la sua famiglia. Una figlia che non può andare all'università. Rabbia e dolore per la povertà senza scampo PALERMO. Ha provato a difendere la sua casa, costruita un pezzo dopo l'altro e mai finita. Davanti a quell'edificio - con la facciata senza intonaco, con i mattoni sbreccati e una parete di tufo giallo a murare uno dei due ingressi, chissà, per difendere meglio quel rifugio - Giovanni Guarascio, muratore disoccupato di 64 anni, si è dato fuoco per impedire che il nuovo proprietario della sua abitazione, gli potesse togliere l'unica cosa che gli dava ancora una speranza: un tetto per sé, la moglie e le sue due figlie di 28 e 32 anni, anche loro senza lavoro.
La casa di Guarascio è stata venduta all'asta un anno fa per 26 mila euro, a causa di un debito di 10 mila euro con una banca; una rogna che va avanti da 12 anni e che ha finito per condizionare la sua vita e quella della sua famiglia. Oggi era la giornata dello sfratto, reclamato da oltre sei mesi dal nuovo proprietario, un trentacinquenne di Scoglitti, paese poco distante da Vittoria, che non ha l'aria di navigare nell'oro. Guarascio avrebbe dovuto lasciare le sue quattro mura, portare via i pochi mobili e trasferirsi con altre quattro persone. Dove? Sarà stata la domanda che si è posto prima di tentare d'uccidersi. Il quando era già determinato: subito, ieri stesso, come aveva disposto la legge. Ma poco prima delle 14, mentre era in corso una trattativa tra gli avvocati, alla presenza dell'ufficiale giudiziario, Guarascio si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. La moglie, Giorgia Famà, sua coetanea, una delle figlie e due poliziotti sono subito intervenuti e sono stati investiti dalle fiamme. Portati all'ospedale Guzzardi di Vittoria, le condizioni di Guarascio (che ha ustioni di secondo e terzo grado sul 60% del corpo) sono subito sembrate gravi, tanto da richiedere il trasferimento in elisoccorso al Cannizzaro di Catania, dove è ricoverato anche uno dei poliziotti, Antonio Terranova, che ha ustioni di primo e secondo grado su braccia e torace. Le condizioni degli altri tre feriti non sembrano gravi.
Il braccio di ferro tra Guarascio e la banca era cominciato nel 2001. Il muratore cercava di mandare avanti la famiglia con lavori saltuari e sperando che un giorno avrebbe potuto estinguere il suo debito. Ma le cose sono man mano peggiorate anche dalle sue parti, dove in un tempo non lontano, grazie alla serricoltura, il territorio aveva raggiunto un livello di benessere invidiabile per i canoni del Mezzogiorno.
Guarascio, però, non ce l'aveva fatta e non riusciva a perdonarsi che la figlia più piccola, per mancanza di soldi fosse stata costretta ad abbandonare gli studi universitari. Il muratore le ha tentate tutte, ma la banca è stata inflessibile.
Dopo ripetuti tentativi di trovare un accordo con l'acquirente, spiega l'avvocato di Guarascio, Giulia Artini, stamane il muratore aveva giocato l'ultima carta, proponendo di continuare a vivere da affittuario in quella che fino a quel momento era stata la sua casa. Almeno per un periodo breve, fino al prossimo dicembre, il tempo per cercare un'altra sistemazione. Ma il nuovo proprietario, che già dallo scorso settembre chiedeva lo sfratto, è stato irremovibile. La discussione si è subito animata, e i vicini di casa hanno pensato di chiamare la polizia, che si trovava sul posto quando Guarascio si è dato fuoco. Gli agenti Marco Di Raimondo e Antonio Terranova sono subito intervenuti per soffocare le fiamme, che invece hanno investito anche loro, oltre alla figlia dell'uomo e alla moglie.
Il sindaco di Vittoria, Giuseppe Nicosia, parla di allarme sociale: «E'
arrivato il momento di fermare tutte le procedure di recupero dei crediti e avviare una moratoria che possa consentire alla gente di mantenere la propria casa. Di fronte ad una tragedia immane bisogna agire». Sempre che le sue parole attraversino i muri di palazzo Chigi o delle abbazie dove il governo medita attorno al dilemma dei dilemmi che vive il Paese: Imu o non Imu?

I nani d’Europa e la società dimenticata

Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Sergio Bruno
                
Analisi economiche sbagliate, nessuna attenzione a disoccupazione, giovani e problemi sociali. Politici europei e tecnocrati, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa. Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera e ottusa?
La sera del 6 maggio scorso, Antonio Padellaro, parlando di Andreotti e della sua epoca su “la7”, diceva che se i politici di adesso sono normali quelli di allora erano dei giganti o che, se erano normali quelli… Personalmente riserverei il termine di gigante a personaggi quali Churchill e Roosevelt, quelli che avevano voluto Bretton Woods ancor prima che la guerra terminasse nella convinzione che i conflitti commerciali erano la premessa di quelli armati, e ai padri fondatori dell’Europa, animati da convinzioni simili. Forse la classe politica successiva, quella che ha gestito il periodo del benessere, era un tantino meno gigante, ma sempre fatta di figure che avevano una discreta cultura e comunque il senso dello stato. Evidentemente la statura è andata diminuendo con il tempo, ma era difficile prevedere che si potesse cadere così in basso.
Per additare i perversi protagonisti della finanza negli anni ’50 Harold Wilson parlò dei banchieri svizzeri come gli “gnomi di Zurigo”. Oggi, per dipingere politici europei e tecnocrati che, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa, mi sembra il caso di parlare dei “nuovi nani” della scena politica europea. La loro infima statura culturale, associata a pervicace arroganza, è infatti al di là di ogni possibilità di redenzione, come vorrei di seguito argomentare. L’idea che una società possa organizzarsi, che possa agire attraverso la mano pubblica anche fuori dai tempi di guerra sembra estranea alla sensibilità e al cervello dei nuovi nani. La tragicità, in termini di frustrazione e di spreco sociale ed economico, della disoccupazione giovanile che affligge gran parte d’Europa non scuote il loro animo. E la cosa più grottesca è che le sofferenze da questi nani imposte sono inutili. Gli stupidi possono ravvedersi a fronte di evidenze certe e semplice buon senso. Questi nani no.
Diagnosi, correzioni, nuove prospettive
Negli ultimi mesi vi sono state importanti ammissioni di errori da una parte dei tecnici e degli accademici che avevano sostenuto l’esigenza dell’austerità fiscale. Sono anche emersi sempre più nitidamente fatti che, senza bisogno di tante riflessioni, pongono in evidenza le possibilità di successo di politiche espansive. I nani sembrano non essersene resi conto e mantengono la rotta della perdizione europea.
A porre i primi dubbi sulla saggezza della drastica terapia di austerity hanno cominciato quelli dell’Fmi, Blanchard (chief economist di quella struttura) in testa. Come ho argomentato (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Il-bilancio-espansivo-che-serve-all-Europa-16614) non si è trattato certo di un “pentimento completo”, ma si è tornati ad ammettere, come negli anni ’70, che i “moltiplicatori” di spesa pubblica e imposizione possono essere diversi da zero e diversi tra loro. Come conseguenza imprevista dell’errore sui moltiplicatori l’austerità, nella misura in cui è stata praticata in Europa, ha prodotto recessione e di ciò il Fmi ha dato atto. In qualche misura il Fmi sembra essere tornato a modelli interpretativi simili a quelli che le banche centrali di tutto il mondo usavano negli anni 1970, quando i “moltiplicatori” venivano stimati e pubblicati.
Quasi contemporaneamente lo Iags (un’associazione tra tre autorevoli centri di ricerca europei) ha prodotto un rapporto che, anche esso sulla base di una rivisitata stima dei moltiplicatori, suggerisce, sulla base di un adeguato modello di ottimizzazione dinamica, di rimodulare nel tempo le politiche di rientro dal debito per i paesi cui è stato prescritto (tra i quali l’Italia) in modo da minimizzare l’impatto recessivo delle politiche stesse. Una proposta certo timida ma che va nella direzione giusta, anche se non abbastanza. Vi sarebbe infatti bisogno di politiche effettivamente espansive, piuttosto che solamente meno recessive.
Più tardi, con forte eco nelle ultime due-tre settimane, è scoppiato lo scandalo R&R (il riferimento è a un articolo di Reinhart e Rogoff del 2010). I due autori, il cui articolo era sostanzialmente privo di teoria e che si basava solo su evidenze econometriche, argomentavano che i paesi il cui debito pubblico superava il 90% del Pil non potevano che soffrire sul piano dello sviluppo. Il loro articolo era divenuto, al di qua e al di là dell’Atlantico, l’argomento forte dei fautori dell’austerità pubblica e dei mercati non regolamentati, e quindi dell’esigenza di limitare interventi e indebitamento pubblici.

giovedì 18 aprile 2013

6 miliardi di persone, la crisi ora è di rigore

6 miliardi di persone, la crisi ora è di rigore

Pubblicato il 17 apr 2013

di Andrea Baranes -
Spesso sembra che le politiche di austerità siano prerogative dell’Unione Europea. È vero che Bruxelles e la Troika (Commissione, Bce e Fmi) si sono contraddistinte per una visione a senso unico della crisi e soprattutto di come uscirne: diversi Paesi europei sono “indisciplinati”, hanno speso troppo per lo stato sociale e devono ora rimettere a posto i propri conti pubblici, pena la condanna dei mercati. È però altrettanto vero che la situazione non è certo limitata all’Europa.
Di fatto molte delle misure più dure sono state approvate nei Paesi del Sud del mondo. Secondo dati del Fondo Monetario Internazionale nel 2013 ben 119 paesi del mondo passeranno attraverso un qualche «aggiustamento» della propria spesa pubblica. Nel 2014 il numero di stati coinvolti dovrebbe salire a 131 e il trend dovrebbe continuare almeno fino al 2016. È quanto emerge da uno studio appena pubblicato dall’Initiative for Policy Dialogue della Columbia University in collaborazione con il South Centre: The Age of Austerity – A Review of Public Expenditures Adjustment Measures in 181 Countries (L’era dell’austerità – studio delle politiche di aggiustamento della spesa pubblica in 181 paesi).
La ricerca esamina i dati del Fmi per 181 nazioni, mettendo a confronto quattro periodi: 2005-2007 (pre-crisi), 2008-2009 (prima fase della crisi ed espansione fiscale), 2010-2012 (seconda fase della crisi e contrazione fiscale), 2013-2015 (terza fase della crisi e intensificazione della contrazione fiscale). Sono inoltre stati esaminati 314 rapporti-paese dello stesso Fmi (relativi a 174 paesi) per identificare i principali aggiustamenti presi in considerazione sia nel Nord che nel Sud del mondo.
Ebbene quest’anno l’austerità potrebbe riguardare circa l’80% della popolazione globale, ovvero circa 5,8 miliardi di persone. Riguardo le misure adottate tra il 2010 e il 2013 le più diffuse sono l’eliminazione o la riduzione dei sussidi e degli aiuti, in particolare su agricoltura e cibo (in 100 paesi); la riduzione dei salari, a partire da quelli nell’istruzione, la sanità e altri settori pubblici (98 paesi); la diminuzione delle reti e delle misure di protezione sociale (80 paesi); una riforma delle pensioni (86 paesi); tagli alla sanità pubblica (37 paesi); più flessibilità per i lavoratori (in 32 paesi). Come se queste misure non fossero sufficienti, lo studio ricorda come diversi governi ne abbiano adottate anche altre, con pesanti ricadute, soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione. È il caso di politiche fiscali regressive come l’aumento dell’Iva o simili che pesano in maniera sproporzionata sulle fasce più povere (questo è accaduto in 94 paesi). Nell’ultima parte della ricerca si mette in discussione tanto l’equità quanto la validità di tali decisioni, affrontando la questione da diversi punti di vista: la tempistica, lo scopo che si voleva perseguire, l’intensità delle misure adottate, la loro efficacia dal punto di vista macroeconomico rispetto al costo sociale.
Il risultato è prevedibile. Le conseguenze sono gravi e rischiano di esserlo ancora di più nel prossimo futuro: aumento della disoccupazione, maggiore povertà, aumento delle disuguaglianze. I costi dell’aggiustamento sono scaricati sui settori più deboli e con meno tutele sul lavoro. In poche parole, a fronte di una crisi causata da una finanza ipertrofica e fuori dalla realtà, il costo della «ripresa» è pagato quasi interamente dai più poveri (e ad oggi di «ripresa», in particolare per queste fasce della popolazione, nemmeno l’ombra). Ricordiamo che pochi mesi fa il capo economista del Fmi aveva fatto un clamoroso mea-culpa, ammettendo che le politiche di austerità non solo hanno un costo sociale elevatissimo, ma spesso portano a un peggioramento del rapporto debito/ Pil, ovvero sono controproducenti anche dal punto di vista macroeconomico e dei conti pubblici che si pretende di risanare. Inutili, nocive, sbagliate, e imposte nel mondo intero. È questa l’«efficienza» dei mercati globali.
Pochi sanno che nei 15 paesi più ricchi dell’Ue i tassi di povertà sono paragonabili a quelli dei paesi in via di sviluppo. Senza l’intervento pubblico più del 40% della popolazione sarebbe da considerare «povera». È solo grazie al welfare e a un fisco progressivo che il tasso di povertà medio è “solo” del 15%. E dal 2011, con l’austerity, la povertà cresce: +5% in Austria, +4,7% in Belgio, +8,5% in Francia, +8,6% in Grecia, +6,5% in Italia, +11,7% in Spagna e +5,2% in Svezia.
Il Manifesto – 17.04.13

Ocse: occupazione, Italia molto sotto la media


Ocse: occupazione, Italia molto sotto la media

 

di Rassegna.it -
Nel quarto trimestre 2012 il tasso di occupazione dell’area Ocse è sceso al 65,1%, l’Italia si attesta al 56,5%. Nel nostro paese il calo è stato dello 0,3%. Crescono gli occupati in Usa e Canada, scendono nell’area euro
Ocse: occupazione, Italia molto sotto la media (foto Attilio Cristini) (immagini di Attilio Cristini)
(Adnkronos) – Nel quarto trimestre 2012 il tasso di occupazione dell’area Ocse è sceso al 65,1%, 0,1 punti percentuali in più rispetto al trimestre precedente e 0,2 punti in più sullo stesso periodo del 2011. Tuttavia il livello di occupati resta ancora di 1,4 punti percentuali sotto il tasso pre-crisi, registrato nel secondo trimestre 2008.
Il dato dei singoli paesi mostra comunque differenze significative: nel corso del 2012, il tasso di occupazione è aumentato negli Stati Uniti (+0,5 punti percentuali, al 67,3%), in Canada (+0,6 punti, al 72,5%) e in Giappone (+0,3 punti, al 70,9%). Al contrario, il tasso di occupazione nell’area euro, è sceso al 63,6%, -0,5 punti percentuali rispetto a un anno fa, con una caduta di 0,2 punti nel quarto trimestre rispetto al trimestre precedente.
Nella zona euro, le maggiori diminuzioni del tasso di occupazione nel corso del trimestre sono stati registrati in Estonia, Portogallo, Repubblica slovacca e Spagna. Quanto all’Italia, nel trimestre il calo è stato di 0,3 punti, dal 56,8 al 56,5%.

venerdì 12 aprile 2013

Record dei senza futuro

   
Record dei senza futuro

Pubblicato il 12 apr 2013

di Roberto Ciccarelli -
C’è un dettaglio nel bollettino che ieri la Bce ha pubblicato sullo stato dell’occupazione nell’Eurozona. Un dettaglio importante. Poche righe che riguardano l’aumento della disoccupazione strutturale che aumenterà insieme a quello congiunturale nel 2013. Quest’ultima oscilla tra il 9 e l’11%, con punte fino al disastroso 27% in Grecia. A fine 2012 il tasso di disoccupazione aveva già raggiunto un «livello senza precedenti», scrive la Bce, passando dal 7,6% del 2007 all’11,4% di cinque anni dopo. Di questa percentuale, che corrisponde a 25 milioni di persone, la metà (il 3,8%, 6,5 milioni di persone) non riuscirà più a trovare un lavoro. L’uscita dalla crisi, se e quando ci sarà, non produrrà nuova occupazione, e lascerà sul campo persone non «riconvertibili». I loro posti di lavoro non ci saranno più. La Bce si sofferma su un altro dettaglio fino ad oggi poco considerato nelle lamentazioni sulla disoccupazione, ma fondamentale per chi considera la forza-lavoro a partire dal suo «capitale umano». «Quanto più a lungo i disoccupati restano senza lavoro – si legge – più è probabile che le loro competenze diminuiscano e che il loro capitale umano si deprezzi. Gli individui che accumulano periodi di disoccupazione più lunghi possono essere considerati meno favorevolmente dai potenziali datori di lavoro, rendendo più difficile paer loro trovare un nuovo impiego».
Assistiamo ad un doppio processo: da un lato, la recessione brucia posti di lavoro e rende «inoccupabili» 6,5 milioni di persone. Dall’altro lato, per chi aspira a trovare un nuovo impiego, si registra la crescente obsolescenza delle «competenze». Quando tornerà la crescita sarà necessario riqualificare il «capitale umano» di queste persone, altrimenti destinate a perdere la speranza di trovare un lavoro. Tutto sembra far pensare che sarà così. Per la Bce nel 2013 «la situazione è destinata a peggiorare». La ripresa inizialmente prevista nella seconda parte dell’anno, ieri è stata ufficialmente posticipata al 2014 quando si prevede una «graduale ripresa che è soggetta a rischi al ribasso». L’appuntamento mancato con la crescita è dovuto alla frattura tra finanza e economia reale. I miglioramenti osservati sui mercati finanziari dopo l’estate 2012 non sembrano trasmettersi all’economia reale mentre, i tagli al bilancio nel settore pubblico e privato insieme alla stretta sul credito «seguiteranno a gravare sull’attività economica» conferma l’istituto guidato da Mario Draghi.
Ecco come un dettaglio può rivelare la verità sul fallimento delle politiche ispirate al paradosso dell’«austerità espansiva»: il taglio del debito sovrano, e il contenimento del disavanzo pubblico penalizza l’economia reale, e quindi i mercati. Eppure i mercati continuano a chiedere la sostenibilità dei conti, unica condizione per la crescita economica. Servirebbe l’unione bancaria, sospira l’Euro Tower di Francoforte, che però resta in stand by in attesa delle elezioni tedesche di settembre.
Considerata dal punto di vista italiano, questa situazione presenta un aspetto ancora più fosco. Lo rileva l’Istat che ieri ha reso noti gli indicatori complementari sulla disoccupazione aggiornati al 2012. Anche in questo caso, bisogna fare attenzione al lato strutturale della disoccupazione. L’Istat parla infatti di «inattivi» che l’anno scorso hanno superato il record del 2004: sono 2 milioni 975 mila, 78 mila in più (2,7%) rispetto al 2011. Rispetto all’Eurozona questo dato è addirittura il triplo della media (3,6% rispetto alla disoccupazione). Cosa significa? Che in Italia gli inattivi, cioè coloro che non cercano più un lavoro (scoraggiati), i giovani neet, i disoccupati cronici, sono più numerosi dei disoccupati in senso stretto (2 milioni e 700 mila). In Europa accade l’opposto: i disoccupati sono il doppio rispetto agli inattivi (8.800 milioni). Tecnicamente queste persone vengono definite «forza-lavoro potenziale», cioè occupabile. Ma che resterà a lungo in questa condizione perché non troveranno un posto di lavoro, né lo cercheranno. In 5 anni la crisi ha prodotto in Italia 1,2 milioni di disoccupati in più. Cresceranno ancora. Sono i «costi umani» della guerra economica in corso.
Il Manifesto – 12.04.13

giovedì 4 aprile 2013

Due giovani su tre sono pronti a partire

     
Due giovani su tre sono pronti a partire

di Rassegna.it -
Il 64% disposto a emigrare, il 25% a essere sottopagato. La legge Fornero? Un disastro per il 57,6%. Cercano lavoro su Internet e giornali. Ai colloqui penalizzate le donne. Indagine del Centro di ricerche sociali su lavoro e nuove forme di occupazione
Due giovani su tre sono pronti a partire (foto Attilio Cristini) (immagini di Attilio Cristini)
(Labitalia) – Il 64% dei giovani italiani sarebbe propenso ad andare a vivere lontano, il 37% ha inviato il suo curriculum all’estero e sarebbe pronto a trasferirsi, il 25% è disposto ad essere sottopagato. Come cercano lavoro? Il primo alleato è Internet, ma gli annunci sul giornale resistono ancora. E la legge Fornero? Un “disastro” per il 57,6% degli intervistati. Questi alcuni dei risultati emersi dal sondaggio del Centro di ricerche sociali sul lavoro e le nuove forme di occupazione ‘Work in Progress’.

Il sondaggio, costruito attraverso la raccolta di dati con metodo ‘cawi’ (computer-assisted web interviewing), ha coinvolto 800 giovani tra i 18 e i 35 anni, per il 66% con una laurea di secondo livello, ed è stato realizzato in collaborazione con FondItalia, Fondo paritetico per la formazione continua, e seguito dai media partner Labitalia e ‘Walk on Job’. Dall’indagine emerge che il 12% degli intervistati sarebbe disposto ad accettare il non rispetto del contratto o l’abuso di un contratto atipico e il 2% sarebbe disposto a mettere da parte anche la sua integrità morale.
Dalla ricerca emerge, inoltre, un interesse per i giovani italiani verso l’estero e tra le mete più ambite figurano Francia, Svizzera e Inghilterra. “Forse – ha spiegato Tommaso Dilonardo, avvocato del lavoro e fondatore e presidente di ‘Work in Progress’ – ad essere poco flessibile è la stessa politica, incapace di interpretare i tempi e perciò di promulgare leggi efficaci, chiusa in un dibattito ideologico distante dalle reali esigenze lavorative dei giovani. La riforma Fornero, che per il 57,6% degli intervistati ha peggiorato la situazione, ha aumentato i costi per le imprese e il precariato per i lavoratori”. E riferisce il racconto di un’intervistata: “Nonostante abbia accettato di essere sottopagata, che i miei contratti non siano stati rispettati, abbia messo da parte la mia integrità morale, in Italia non ho comunque trovato lavoro, quindi sono andata a vivere decisamente lontano da casa e dall’Italia”.
E ai colloqui? Il 55% degli intervistati afferma di aver risposto a domande che riguardavano la sfera privata, prima fra tutte ‘Sei sposato/a? Convivi? Vivi con i tuoi genitori? Hai figli o hai intenzione di averne a breve? Mi parli dei componenti della sua famiglia, che lavoro fanno i tuoi genitori?’.
“Sono domande, rivolte soprattutto al genere femminile, che nascondono un pregiudizio – ha commentato Dilonardo – sulla effettiva capacità da parte delle donne di svolgere un ruolo di primo piano nella società. Il nostro questionario rivela che al 43,2% è stato chiesto se è sposato o convive; al 20,4% se ha figli o ha intenzione di averne a breve; a molti, infine, è stato chiesto anche il background dei loro genitori. Insomma, passa il tempo ma la società italiana cambia poco: sono domande che evidenziano un ritardo prima di tutto culturale; manca ancora, purtroppo, il concetto di merito, in un Paese dove l’ascensore sociale è sempre più immobile”.
“Il sondaggio mette in evidenza alcuni aspetti di cui noi di ‘Walk on Job’ abbiamo spesso sentore e che abbiamo analizzato in diverse inchieste: in particolare – ha precisato il direttore di ‘Walk on Job’ (magazine di attualità, università e mondo del lavoro), Cristina Maccarrone – ci stupisce (in negativo) che durante i colloqui si facciano certe domande sulla vita privata che non sono realmente finalizzate all’assunzione, violando la legge sulla privacy, oltre a continuare a discriminare le donne chiedendo loro se vogliono avere una famiglia, a breve o in futuro (che parliamo a fare di tasso di natalità basso se poi non le agevoliamo?), non mi sarei aspettata domande sul lavoro dei genitori o sulle persone con cui si vive, il che dimostra che il mondo del lavoro ha ancora molte cose da sistemare”.
Anche nell’ambito della formazione, i giovani dimostrano di avere le idee chiare su ciò che non funziona e sui cambiamenti che andrebbero prodotti. Infatti, dall’indagine emerge come, per il 73% dei giovani la scuola e l’università dovrebbero prevedere dei corsi o delle iniziative volte a favorire l’incontro dei giovani con il mercato del lavoro; tuttavia, i master specializzati non sono stati determinanti per trovare lavoro per il 31% degli intervistati.
Sempre secondo i dati ‘Work in Progress’, il 34% non si è ma iscritto a un corso di formazione perché crede che le aziende per prime dovrebbero provvedere a preoccuparsi della formazione delle risorse; inoltre, per il 31,6%, i costi dei corsi sono proibitivi. “La scuola dovrebbe fornire gli strumenti per il lavoro, non solo teoria o corsi dai nomi altisonanti. Ad esempio, impariamo a parlare l’inglese, a leggere il giornale, a usare Excel”, si legge fra i commenti.
E i giovani per cercare lavoro si affidano a Internet per il 71%, al secondo posto i siti aziendali, seguono con il 25% i social network (tra questi il più utilizzato è Linkedin). Ma i metodi più tradizionali continuano ad avere un ruolo determinante: si rivolgono agli sportelli del lavoro o agenzie interinali il 32,4% degli intervistati, mentre il 24,3% preferisce consultare gli annunci sul giornale.
“Che il primo mezzo per cercare lavoro sia Internet – ha concluso Dilonardo – è un dato interessante, ma se immaginiamo che, invece di doversi districare nel mare magnum di Internet, i giovani potessero godere delle potenzialità della rete gestita con la competenza e la sicurezza che potrebbe dare un servizio fornito dai centri per l’impiego, i giovani, e anche gli over 50 (dimenticati ma pure esistenti e anch’essi in difficoltà) potrebbero cogliere quelle opportunità (anche scarse, complicate, poco remunerate) che invece ora, nell’assenza della pubblica amministrazione, è più difficile e ‘pericoloso’ trovare. Dico ‘pericoloso’ perché un conto sarebbe una banca dati internazionale gestita dai centri per l’impiego, altro conto è Internet, tout court”.

martedì 2 aprile 2013

Le lontane radici della disuguaglianza

Pubblicato da keynesblog il
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Il viaggio nelle idee sbagliate che infestano l’economia – quelle che Paul Krugman chiama “idee scarafaggio” – ci porta alla disuguaglianza. Un fenomeno che dura da vent’anni.
di Pier Giorgio Ardeni, da Sbilanciamoci.info

Molti commentatori sostengono che la diseguaglianza è un effetto della crisi: in realtà la diseguaglianza in Italia viene da lontano. Guardiamo l’andamento dell’indice di Gini – che misura la disuguaglianza complessiva tra i redditi delle persone – tra il 1977 e il 2010, ripreso da Inequality Watch (con dati Istat):
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Se dopo la crisi degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80 (quelli della spesa pubblica generosa, si dice) ci furono disparità ridotte, dal 1991 in avanti l’aumento della diseguaglianza è stato costante. Vero che dal 2004 la tendenza si era invertita, ma con la crisi il peggioramento è ricominciato. Pochi giorni fa la stessa Banca d’Italia denunciava che nel 2011 la diseguaglianza è ulteriormente aumentata, in un processo di deterioramento cominciato nel 1992. La diseguaglianza crescente non è, quindi, un effetto della crisi odierna ma viene da lontano.
Secondo quanto riferisce l’Ocse nel suo ultimo rapporto sulla distribuzione del reddito percepito, l’indice di Gini per l’Italia nel 2010, pari a 0.46, era secondo solo a quello degli Stati Uniti (vicino allo 0.53) e simile a quello del Portogallo. Questi sono numeri da Paesi in via di sviluppo. Il reddito disponibile (cioè al netto di tasse e sussidi) presenta un quadro migliore, con un indice attorno a 0.33 e l’Italia dietro a Cile, Israele, Stati Uniti, Portogallo e Gran Bretagna, tra i Paesi Ocse. In ogni caso, però, la disuguaglianza dei redditi in Italia è notevolmente superiore alla media dei Paesi Ocse.[1] Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era di 49,300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero (4,877 euro) con un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà degli anni ’80. Non solo, ma in Italia esiste una notevole disparità tra Nord e Sud in termini di reddito e la diseguaglianza nella sua distribuzione è più pronunciata al sud, il che significa che chi ha un reddito basso e vive al sud ce l’ha molto più basso di chi è ricco ma anche di chi ha un reddito basso al nord. Le cose non cambiano se consideriamo la ricchezza. “Il reddito non basta per due famiglie su tre”, La Repubblica titolava qualche giorno fa, “Bankitalia: in vent’anni povertà triplicata tra i giovani e raddoppiata tra gli affittuari”. Non è dunque solo la “crisi” che ha portato a questo, ma il risultato di un processo cominciato già da tempo e che è venuto consolidandosi nel corso dell’ultimo ventennio. Mario Pianta ha descritto efficacemente questa situazione nel suo recente Nove su dieci (Laterza, 2012) e ne ha anche parlato nel suo ultimo contributo del 19 marzo 2013 su Sbilanciamoci. Maurizio Franzini, in un libro del 2010, ha parlato invece di diseguaglianze inaccettabili: “il coefficiente di Gini era al 29 per cento nel 1991 ed è saltato al 34 per cento nel 1993. Successivamente, si sono avute limitate oscillazioni e una situazione di stazionarietà della disuguaglianza che si è protratta per circa un quindicennio, fino alla crisi del 2008″. Dopo di che, la situazione ha ricominciato a peggiorare. Non un fatto episodico, dunque. Abbiamo visto con le ultime elezioni a quali risultati questo malessere può portare: il paese sopravvive dentro al tunnel dove l’unica luce che vede in fondo è quella delle Cinque Stelle. Sono anni che chi guarda al mondo sa che questa è una tendenza, che l’Italia non è un caso a sé: ma non era forse “we are the 99%” lo slogan di Occupy Wall Street? Ora anche Stiglitz parla de “l’1% che detta legge”, e meno male: il problema è che la malattia ha radici lontane.

martedì 12 marzo 2013

Disoccupazione e debiti, Italia in ginocchio

    
Disoccupazione e debiti, Italia in ginocchio

Pubblicato il 12 mar 2013

di rassegna.it -
Disoccupazione e indebitamento alle stelle, potere d’acquisto in caduta libera, giovani che non trovano lavoro, sfiducia totale nella politica. I numeri che emergono nel rapporto sul Benessere equo e sostenibile di Istat e Cnel pubblicato oggi (11 marzo) fotografano meglio di qualsiasi analisi politica anche l’esito elettorale. In Italia, tra il 2010 e il 2011, l’indicatore della ‘grave deprivazione’ economica sale dal 6,9% all’11,1%. Ciò significa che 6,7 milioni di persone sono in difficoltà, con un aumento di 2,5 milioni in un solo anno.
Nei primi 9 mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate, sostanzialmente stabile tra il 2008 e il 2011, ha segnato un balzo, passando dal 2,3% al 6,5%. Il più frequente ricorso al debito, generato in molti casi da mere esigenze di spesa, riguarda gli importi più bassi. La quota dei Neet, ovvero dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, tra il 2009 e il 2011 è balzata dal 19,5% al 22,7%. Quasi un giovane su 4 non è impegnato in percorsi formativi e non ha un posto. Inoltre viene evidenziato come ben l’8% dei Neet sia già laureato e quindi difficilmente potrebbe continuare a formarsi.
Il potere d’acquisto, cioè il reddito disponibile delle famiglie in termini reali, durante la crisi è crollato, scendendo del 5% tra il 2007 e il 2011. Sempre nel 2011, il tasso d’occupazione per la classe 20-64enni è sceso al 61,2%, dal 63% del 2008. Nell’Ue a 27 presentano un tasso ancora più basso dell’Italia solo l’Ungheria e la Grecia. Ciò è dovuto soprattutto alla scarsa occupazione che si registra tra le donne italiane, il cui tasso non raggiunge il 50% e nel Mezzogiorno. Non stupisce allora che a marzo 2012 – un anno prima del voto – il dato peggiore sul fronte della fiducia dei cittadini verso le istituzioni riguardi i partiti politici: la media, in un’ipotetica pagella su una scala da 0 a 10, si ferma al 2,3. Voti bassi anche per la fiducia verso il Parlamento (3,6), le amministrazioni locali (4) e la giustizia (4,4).
“Il rapporto Bes di Istat e Cnel per la misurazione del benessere rappresenta “una opportunità per la società italiana per discutere quale futuro vogliamo costruire”, anche se si tratta “solo di un punto di partenza per realizzare un cambiamento culturale che, mi auguro, aiuterà a migliorare in concreto il benessere della generazione attuale e di quelle future”. Così il presidente dell’Istituto di statistica, Enrico Giovannini. “Per ciò che concerne la politica – ha spiegato Giovannini – le esperienze internazionali, come quelle australiana e neozelandese, offrono importanti spunti per l’utilizzo del Bes: ad esempio, richiedere che le relazioni tecniche di accompagnamento delle nuove leggi descrivano l’effetto atteso sulle diverse dimensioni del benessere e non solo sulle variabili finanziarie”.

sabato 9 febbraio 2013

"Lo faccio perché senza lavoro non c'è dignità"

Trapani, operaio edile disoccupato si suicida: Il biglietto d'addio dentro la Costituzione. "L'articolo 1 dice che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Perché lo Stato non mi aiuta a trovarlo?". Aveva chiesto aiuto a Napolitano e Camusso. Nel foglio l'elenco di chi si è tolto la vita perché senza lavoro: in fondo il suo nome
di PAOLO BERIZZI
 
TRAPANI - Una corda intorno al collo in nome dell'articolo 1 della Costituzione. Un pizzino disperato. L'ultimo. Infilato tra le pagine del libro della Repubblica Italiana. Su quel pezzo di carta, che ha voluto con sé fino alla fine, Giuseppe ha scritto con cura certosina l'elenco dei morti di disoccupazione degli ultimi due anni: se li è appuntati uno a uno, copiandoli dalle cronache dei giornali. L'ultimo nome in fondo alla lista è il suo; poche ore dopo finirà sul verbale dei carabinieri che lo trovano impiccato a una trave sotto casa. Giuseppe Burgarella. A fianco, vergate di suo pugno, due frasi secche. "Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione".

Guarrato, 1.300 abitanti in provincia di Trapani, sulla strada per Marsala. Nel giardino della villetta dei Burgarella, muratori sindacalisti (Cgil), c'è un gazebo: tavolo di legno, quattro sedie, gli attrezzi. Da quando gli hanno tolto la "dignità" Giuseppe, non trovando altro da fare, ci va ogni mattina a mettere in ordine. Sessantuno anni, è il più giovane dei due fratelli. Ha iniziato da ragazzino segando il marmo, dai 30 in poi sempre e solo mattoni. L'ultimo contratto è datato 2000 (...)

venerdì 4 gennaio 2013

Silvano Agosti su Monti

Autore: Silvano Agosti - controlacrisi -
 
Non di giudizio perisce l'empio, ma dall'esser ciò che è...

Mi hanno pregato in molti di esprimere il mio parere sul presidente del consiglio signor Monti. Mi riesce difficile impiegare questo straordinario meccanismo di analisi , il cervello, per descrivere o ancor meno giudicare una persona già così terribilmente afflitta dal trovarsi al vertice di un paese che nella sostanza è da anni una sub colonia degli Stati Uniti e che da sempre offre ai suoi cittadini un prodotto sul quale c’è scritto “questo prodotto ti uccide”.
Mi limito ad esprimere il mio inconsolabile stupore di fronte al un cumulo di menzogne che gli uomini di potere devono raccontare per rimanere in sella e non essere disarcionati da feroci repressioni giudiziarie. La menzogna più clamorosa in corso d’uso è l’affermazione che “non c’è lavoro”, che “bisogna trovare nuovi posti di lavoro”, senza mai spiegare dove sono spariti i vecchi posti di lavoro. La spiegazione, qualsiasi spiegazione infatti porterebbe a rivelare che il processo di automazione delle industrie si è sviluppato a un punto tale da rendere inutile una qualsiasi partecipazione umana al processo produttivo.
Se fosse di fronte a me il vostro presidente del consiglio gli chiederei “Mi scusi ma vuole spiegare per quali prodotti verrebbero creati nuovi posti di lavoro? Forse peraltre 40 marche di detersivo o altre 26 marche di dentifricio? Non sarà forse il caso di avviare il salario sociale prelevandolo dagli immensi profitti delle multinazionali ormai automatizzate in tutti i settori della produzione?
O forse questo esasperante balletto di spred, pill o nasdak, esultanza e depressione delle borse, propositi di “crescita”, senza spiegare né come ne quando serve a distrarre i più dal chiedersi cosa realmente sta accadendo?.
Dev’essere terribilmente triste la solitudine di qualcuno che sa di dover mentire ogni giorno dalla mattina alla sera, assediato dalle lodi di ogni genere di servi istituzionali che ad ogni menzogna esultano in coro a favore del presunto salvatore dell'Italia. Il volto del vostro premier, infatti, è tragicamente tumefatto da dosi massicce di angoscia.
Mi limiterò quindi a dare liberta a un infinito senso di pena nei confronti di chiunque si renda consapevolmente complice dell’attuale catastrofica modalità di gestione del mondo, pensando con tenerezza e compassione al detto orientale “ognuno è premiato o punito per ciò che è”.

dalla pagina fb del regista Silvano Agosti

nella foto Silvano Agosti con il compagno Mario Monicelli

sabato 8 dicembre 2012

Disoccupazione, quella vera.

di Aldo Carra -
I dati più recenti sulla disoccupazione sono drammatici, ma la situazione reale lo è ancora di più. Il tasso di disoccupazione totale a settembre 2012 è salito al 10,8 per cento, quello giovanile al 35,1 per cento, mentre ogni mese che passa si tocca un nuovo record storico. Nella crisi che attraversa i paesi sviluppati, l’aumento della disoccupazione non è solo un fenomeno italiano: nell’Europa a 27 essa ha raggiunto il 10,6 per cento e nell’area Euro è arrivata fino all’11,6. Stando a questi dati, in Italia ci sarebbe quindi una disoccupazione uguale a quella dell’Europa o addirittura inferiore a quella dell’area Euro.
È così? Così sembrerebbe, ma così invece non è, perché i dati ufficiali che misurano la disoccupazione non dicono tutto. E poiché non è giusto che una situazione drammatica e che tende ad aggravarsi sempre di più non venga rappresentata nella sua giusta dimensione, pensiamo sia indispensabile fare chiarezza sul modo in cui si misurano forze di lavoro e disoccupazione e avanzare proposte concrete perché vengano adottati nuovi criteri. Siamo sollecitati a farlo anche da un articolo di Andrea Fumagalli apparso di recente su il manifesto dal titolo “Disoccupazione al 19 per cento. Ecco come l’Istat nasconde i dati” e dalla replica del direttore della comunicazione dell’Istat, che al contrario sostiene che i dati ci sono e sono pubblici.
Partiamo subito da una premessa per evitare ogni fraintendimento: i dati ufficiali non sono certamente falsi e sono calcolati con i criteri dettati da Eurostat e doverosamente seguiti dall’Istat. Solo che è venuto il momento di dire che quei criteri non sono più adeguati e che debbono essere rivisti e che l’Italia, per le ragioni che diremo, è tra i paesi più interessati a questa revisione. Ma andiamo con ordine, ricollegandoci alle analisi in precedenza condotte su Rassegna, nelle quali abbiamo più volte sostenuto l’inadeguatezza della misurazione della disoccupazione. La definizione di disoccupazione adottata da Eurostat comprende le persone che hanno effettuato un’azione attiva di ricerca del lavoro nelle quattro settimane che precedono la rilevazione.
È chiaro che in un mercato del lavoro in cui i vecchi canali di collocamento non sono più ritenuti utili per trovare lavoro, in cui la maggior parte delle persone trova un’occupazione ricorrendo a canali di conoscenza, in cui le attività professionali meglio remunerate passano di padre in figlio, in cui, soprattutto, è così difficile trovare lavoro, quella definizione è fortemente restrittiva ed esclude tante persone che il lavoro lo cercano e lo vogliono, ma che in molti casi non sanno nemmeno quale azione attiva fare per trovarlo. Questo lo sanno anche gli istituti di statistica, che, oltre a misurare la cosiddetta popolazione attiva (occupati e disoccupati), da alcuni anni hanno cominciato a calcolare anche quanti tra la popolazione “inattiva” sono disponibili a lavorare, anche se non stanno cercando attivamente lavoro (nel 2011 erano 2 milioni e 897.000 più dei disoccupati dichiarati, che erano 2 milioni e 108.000), e anche quanti lo cercano, ma non sono temporaneamente disponibili a lavorare (nel 2011 erano 121.000).
Queste due aree di popolazione classificate come inattive costituiscono, in realtà, un serbatoio di “forze di lavoro potenziali”, che sono più vicine alla condizione di disoccupati che a quella di inattivi: condizione, quest’ultima, che comprende pensionati, casalinghe e studenti. C’è poi addirittura una terza fascia di persone che lavorano part time, ma che vorrebbero lavorare di più (nel 2011 erano 451.000). Queste tre categorie di persone insieme ammontavano nel 2011 a tre milioni e mezzo. Poiché i disoccupati veri e propri erano due milioni e 100.000, ciò significa che l’area della disoccupazione intesa in maniera meno restrittiva superava i 5 milioni e mezzo di persone e oggi, nel 2012, è certamente sui 6 milioni. Includendo questa disoccupazione oggi trascurata tra i disoccupati (i sottoccupati part time si possono calcolare al 50 per cento) e tra le forze di lavoro, il tasso di disoccupazione da cui siamo partiti cambia notevolmente: nel 2011 quello ufficiale era pari all’8,4 per cento, con i nuovi criteri adottati risulta essere in realtà pari al 19 per cento. Una bella differenza, certo. Anche se si può obiettare che questo vale anche per gli altri paesi e che, quindi, il confronto non cambia.
Non è proprio così, ed è per questo che prima abbiamo detto che l’Italia è tra i paesi più interessati a modificare i criteri di calcolo della disoccupazione. Il perché è evidente nel grafico in pagina: con la misurazione attuale, il tasso di attività (rapporto forze di lavoro – occupati più disoccupati – e popolazione da 15 a 74 anni) è di gran lunga più basso di quello di tutti gli altri paesi. Come si spiega? Con il fatto che i fenomeni prima accennati sui canali di accesso al lavoro sono in Italia molto più accentuati che negli altri paesi (non a caso, siamo in coda nella graduatoria della mobilità sociale) e queste strozzature fanno sì che molte persone che vorrebbero lavorare, più che cercare attivamente lavoro, aspettano che si presenti l’occasione buona.
Non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che in Italia i “disponibili a lavorare che non cercano lavoro” sono ben il 12 per cento rispetto alle forze di lavoro, mentre in Europa sono solo il 3,6 per cento, in Francia l’1,1 per cento, in Germania l’1,4 per cento, in Spagna il 4,2 per cento. È evidente perciò come in questa categoria si annidi, in Italia più che altrove, una vasta realtà di persone che non cercano lavoro perché scoraggiate dalle difficoltà a trovarlo: esse non possono certo essere considerate inattive. L’anomalia italiana non è, quindi, di avere meno popolazione attiva (cosa che non sarebbe spiegabile), ma di avere un mercato del lavoro più rigido e più scoraggiante. A riprova di ciò, basta guardare ancora il grafico, da cui emerge che considerando tra le forze di lavoro anche le tre categorie prima escluse e ricalcolando i tassi di attività, l’anomalia italiana si attenua fortemente: le persone che lavorano o sono disponibili a lavorare costituiscono una percentuale pressoché uguale a quella che si registra in Francia e molto più vicina a quella degli altri paesi.
L’attuale metodologia di calcolo dei disoccupati fornisce, insomma, un’immagine distorta soprattutto della realtà italiana ed è per questo che, secondo noi, l’Italia dovrebbe essere più interessata degli altri paesi a una revisione dei criteri di calcolo della disoccupazione, che includa le tre aree oggi escluse. Per questo pensiamo si possa formalizzare la seguente proposta: ricalcolare i tassi di disoccupazione inserendo le persone disposte a lavorare anche se non risulta stiano cercando attivamente lavoro. Così facendo, i confronti europei sarebbero quelli presenti nella tavola a fianco e i tassi di disoccupazione così risultanti darebbero una visione più corretta delle realtà dei diversi paesi europee.

domenica 28 ottobre 2012

A Elsa Fornero il Nobel per la simpatia: per i giovani supera Cossiga e Pol Pot

ALESSANDRO ROBECCHI –

arobecchiDopo “bamboccioni”, “sfigati” e “choosy”, il governo studia altre formule per incentivare l’entusiasmo giovanile, come la garrota e il dentifricio nelle scarpe. Il ministro del lavoro si scaglia contro i privilegi dei precari: “Se cominciate a lavorare a cinquant’anni non potete andare in pensione a settanta!”. Monti precisa: “E se morite a 71 anni dovete renderci i soldi!”.
Il coraggio di rischiare l’impopolarità, di dire una verità scomoda, di rompere convenzioni e luoghi comuni. Elsa Fornero, ministro del lavoro, ha fatto invecchiare di colpo decine di proverbi e modi di dire. La frase sui giovani italiani che sono un po’ “choosy”, schizzinosi, di fronte al mondo del lavoro spazza via altre frasi dello stesso tipo, come “I terroni non hanno voglia di lavorare”, “Gli zingari rubano i bambini”, e “E’ tutta colpa dei sindacati”. Tutte cose vecchie, superate dalla nuova frase del ministro Fornero: prendete il primo lavoretto del cazzo e poi guardatevi intorno da dentro.
“Io l’ho fatto – dice un giovane di Salerno che preferisce restare anonimo – pur di lavorare ho cominciato con il piccolo spaccio e ora sono un apprezzato killer di camorra. La Fornero ha ragione, c’è sempre spazio per chi si dà da fare”. Ma è nelle realtà metropolitane che l’entusiasmo dei giovani è alle stelle. Dice un turnista di un call center della capitale: “Anch’io all’inizio ero un po’ schizzinoso a pulirmi il culo con la mia laurea, ma poi ci ho fatto l’abitudine e ora sono felice di aver studiato vent’anni per guadagnare tre euro all’ora. Sto pensando di prenderne un’altra, visto che vale meno della carta doppio velo”.
L’apprezzamento per il ministro del lavoro trabocca dai social network. Scrive ad esempio Giovanni, da Milano: “La mia laurea in lettere si è rivelata preziosa per il mio lavoro nei cessi della stazione: mi aiuta a correggere le scritte sul muro davanti ai pisciatoi”. Anche chi inizialmente aveva pensato a un autogol della ministra ora deve ricredersi, basta guardare i sondaggi. “E’ vero – dicono alla Swg – non si era mai visto un ministro italiano scalare così velocemente la classifica. Ora la Fornero, per simpatia, si colloca tra Pol Pot e Cossiga, e la tendenza è in crescita”. “Oltretutto – aggiungono alla Doxa – si è rivelata eccellente nell’aggregare i giovani italiani. I numeri parlano chiaro. 35 su 100 sono disoccupati. 40 su 100 sono precari, e a 99 su 100 sta prepotentemente sul cazzo Elsa Fornero”. Non è stato reso noto il nome del centesimo intervistato del campione, che subito dopo aver risposto al sondaggio si è affrettata a chiamare mamma al ministero del lavoro.
Alessandro Robecchi – da Il Misfatto
(28 ottobre 2012)

giovedì 25 ottobre 2012

La mano visibile del mercato. Intervista a Luciano Gallino

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Disoccupazione, contrazione dei salari, precarietà. Viaggio nell’economia reale, dal mercato dell’auto all’ascensore sociale mondiale: le classi esistono ancora, ed è falso sostenere che maggiore flessibilità aumenta i posti di lavoro.

di Pietro Raitano - da altreconomia.it
“Si sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”. Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni.

Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati ‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4 milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.
Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’ sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove ‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di vario genere, non sono più tanto giovani. Si stima che almeno un 30% dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale: stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte adeguate per questa situazione. Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1 milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. La Cig vuol dire per un lavoratore ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro Paese europeo”.

Quali conseguenze ha la disoccupazione?“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di autostima. Soprattuto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato, ho esperienza... Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in famiglia si logorano, si inaspriscono.
La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non producono, 4 milioni che producono poco e male. Poi ci sono le professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.

Perché colpisce il sistema produttivo italiano?“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda.
Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.
Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato”.

lunedì 13 agosto 2012

Lassu' al Sud - Pino Aprile

 

"Gli ultimi dati dell’Unione delle Camere di Commercio mostrano che tra le nuove aziende la più alta percentuale è meridionale, il 31%. Non solo: le nuove aziende create da giovani con meno di 35 anni sono in grandissima parte meridionali. Se si fa una classifica delle province in cui nasce il maggior numero di aziende a opera di giovani, i primi posti vedono province meridionali. Al primo posto c’è Enna. Per aziende che nascono a opera di donne la classifica vede ai primi posti solo città meridionali. È vero che questo succede perché non avendo alternative, non avendo possibilità di trovare lavoro, i giovani, le donne del Sud, se lo creano, ma è vero anche che la capacità dei giovani meridionali di creare economia in maniera innovativa è notevole.". Pino Aprile

Il Passaparola di Pino Aprile, giornalista e scrittore

Il Sud parte svantaggiato 
Buongiorno a tutti, sono Pino Aprile, sono un giornalista e uno scrittore, mi dedico da alcuni anni esclusivamente a temi che riguardano il Mezzogiorno d’Italia, e la domanda che tocca ognuno di noi perché riguarda tutti è: “Dove va a finire l’Italia con il Sud in queste condizioni?”. Già l’Italia è messa male, il Sud vale poco più della metà del PIL del Nord e quindi è messo, lo sappiamo da sempre, molto peggio del resto del Paese e la sua economia è molto più difficoltosa, non viene messa nelle condizioni di potersi sviluppare. Provo a fare un esempio. Reggio Calabria ha, con i bronzi di Riace, uno dei richiami turistici più importanti che ci siano e spesso i cittadini di Reggio Calabria vengono accusati di non saper sfruttare questa fonte di lavoro, di guadagno. Si dimentica che raggiungere Reggio Calabria è un’impresa perché sono stati tagliati i treni per raggiungere Reggio Calabria, l’alta velocità se la sognano, i treni diretti sono stati aboliti, decine di voli, vado a memoria, mi pare che 52 voli siano stati soppressi, come ci vai a Reggio Calabria? L’alternativa è la Salerno - Reggio Calabria che va riconosciuto è in fase di ristrutturazione, ma perché ce lo ha imposto l’Europa perché non è un’autostrada e l’Europa ha preteso che l’Italia adeguasse la Salerno - Reggio Calabria ai criteri delle autostrade e ora quasi 300 chilometri dei 440 sono stati messi in condizioni di decente percorribilità. Come fai a sfruttare una risorsa turistica se non puoi risolvere la prima questione che ti pone il turista: "Come arrivo lì?”. Moltiplicate questo per ogni impresa si possa fare al Sud e si capisce come e perché parta svantaggiato, molto squilibrato in questa corsa, è come fare 100 metri con una palla al piede.
Ci sono però dei segnali molto positivi. Gli ultimi dati dell’Unione delle Camere di commercio, mostrano che tra le nuove aziende la più alta percentuale di nuove aziende è meridionale, il 31%. Non solo, ma le nuove aziende create da giovani con meno di 35 anni sono in grandissima parte meridionali. Se si fa una classifica delle province in cui nasce il maggior numero di aziende a opera di giovani i primi posti vedono province meridionali. Al primo posto c’è Enna. Per aziende che nascono a opera di donne la classifica vede ai primi posti solo città meridionali. È vero che questo può succedere e succede perché non avendo alternative, non avendo possibilità di trovare lavoro, i giovani, le donne del Sud se lo creano, ma è vero anche che la capacità dei giovani meridionali di creare economia in maniera innovativa è notevole. Vi faccio un esempio. Grazie ai concorsi, alle possibilità messe su dalla Regione Puglia per premiare idee innovative, spin-off per start up, idee vincenti che possano far nascere nuove aziende, la Puglia in soli due anni è diventata la prima d’Italia tranne il Friuli e nel 2011 l’azienda più innovativa l’Italia è pugliese.Ci sono esempi clamorosi. Quello più citato è Blackshape. Due giovani di Monopoli in provincia di Bari, dopo avere lavorato in giro per il mondo, dal Sud America alla Cina, si incontrano a Parigi e entrambi con la nostalgia del proprio paese, tornano. Non hanno soldi, le loro famiglie li hanno aiutati come potevano, ma hanno idee e coraggio. Mettono in piedi un progetto per costruire il più leggero velivolo privato del mondo, vincono un concorso della Regione Puglia con cui portano a casa i soldi per il progetto, che erano circa 24/25 mila Euro. Vincono anche un concorso europeo che comporta soldi notevoli, ma non bastano per mettere su l’azienda. Però il loro progetto è così buono che un imprenditore locale mette il resto. Questa fabbrica ora c’è, produce due velivoli al mese, sta a Monopoli e stanno cercando di ampliarla perché non reggono alla richiesta. Questo velivolo si chiama Blackshape e è stato definito dalla rivista internazionale "Voler" la Ferrari dei cieli.
Esempi così se ne possono fare tantissimi, quindi il Sud non è solo la disperazione di 700 mila giovani che se ne sono andati in 10 anni e che continuano a andarsene, non è solo la disperazione di un Paese. Uno Stato che ha abbandonato letteralmente una parte del Paese e della sua popolazione.

domenica 12 agosto 2012

Taranto. Il dilemma mal posto.

di Zag - ListaSinistra -
Il dilemma Produzione ed ambiente è mal posto. La vera biforcazione è profitto ed ambiente. Se si continua a pensare esclusivamente alla produzione e al lavoro in termini di profitto privato i dilemmi non saranno mai risolti , anzi di aggravano.
E parlando di Taranto. A Taranto tutti si esprimono avanzando il dilemma po il lavoro o l'ambiente. In realtà nessuno discute che le due cose sono conciliabili, a patto di investimenti che il privato non ha, inconcepibili per un privato. A Taranto non una è la soluzione alternative, bensi due . La prima è far a meno dell'area a caldo e importare le bramme. L'altra è trasformare l'attuale produzione di bramme attraverso il ciclo dei forni elettrici. Cioè utilizzando forni elettrici e riciclare materiale ferroso ricavato dalla raccolta dei rifiuti. In entrambe le soluzione occorrono capitali, capacità manageriale lungimirante.Ma sopratutto una visione altra di sviluppo e modello di sviluppo. Gli stabilimenti a ciclo integrale presenti nel mondo sono impianti moderni , vedi Germania, Cina, India, Turchia. Tutti gli altri utilizzano o importano bramme o utilizzano il ciclo dei forni elettrici. La tecnologia degli altiforni e dei forni Martin Siemens di Taranto sono obsoleti. Anche da un punto di vista prettamente capitalistico sono antieconomici.

Ma in Italia , anche la cosiddetta sinistra continua a immaginare attraverso visione stantie, vecchie , il mantenimento dello status quo. Anche quella parte della sinistra che apparentemente non farebbe gli interessi del padronato. Continuare a difendere quegli impianti, a parte la questione ambientale, ma anche da un punto di vista prettamente di profitto capitalistico è come difendere la penna d'oca di fronte alla penna a sfera.! Difendere quel ciclo a caldo non fa nemmeno gli interessi del capitalismo , ma solo quello del singolo capitalista Riva che è impossibilitato a pensare in termini di investimenti e innovazione .

Qual'è la soluzione a Taranto e per questo de-industrializzare!
Semplicissimo.

  • O si lascia solo la parte a freddo smantellando il ciclo a caldo e parallelamente riutilizzare i terreni e i lavoratori in una opera di bonifica e riconversione industriale
  • O si riconvertono gli impianti utilizzando la tecnologia dei forni elettrici, utilizzare il materiale ferroso ( è inutile continuare a produrre acciaio quando le discariche sono piene di rottami di ferro e si continuerà a produrre materiale ferroso in discarica). Liberare parte dei terreni dell'attuale ciclo a caldo per la bonifica e comunque fermare l'attuale livello di produzione di diossina.
Per entrambe le soluzioni occorre l'intervento dello Stato. Il privato non ha nè i capitali , nè la convenienza nell'immediato per il ritorno economico dell'investimento. Per entrambi senza che la produzione dei prodotti finiti e dei semilavorati si blocchi.
Ma occorre , per entrambi un ceto politico e una classe dirigente che non abbiamo.
Noi abbiamo gli Scilipoti, gli Ichino, i Fassino e Fassina le Santanchè e i Vendola.
e gli Straguadagno Che cosa si vuole pretendere da questi? 

Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

Lo smemorato che ha perduto una generazione

Alessandro Robecchi - pubblicato in Il Manifesto

A tutti è capitato di perdere gli occhiali da sole, le chiavi di casa, persino il telefono. Ma di perdere una generazione non era fin qui successo a nessuno, e nemmeno di ammetterlo come ha fatto Mario Monti parlando espressamente di “generazione perduta”. I trenta-quarantenni (e quindi ben più di una generazione, almeno due) sarebbero perduti forever. Più o meno una decina di milioni di persone, il cui essere "perdute" significa lavorare una vita senza garanzie, saltare da un contrattino all’altro, e raggiungere alla fine una pensione da fame che farà sembrare l’attuale “minima” uno strabiliante privilegio. Perdutii! Qualche milioncino di italiani, forse gli stessi a cui si continua a ripetere che vivono “al di sopra delle loro possibilità”, che è come curare il colera somministrando cozze avariate. Ma chi è stato così distratto? Chi si è lasciato alle spalle dieci milioni di senza speranza come nelle barzellette degli anni Sessanta si dimenticava la suocera all’Autogrill? Forse proprio i professori addetti alla formazione di quella generazione e che oggi così abilmente governano? Quelli che dicevano ci vuole la laurea, no, il master, no, lo stage, e che oggi dicono: ragazzo mio, era meglio se facevi il fabbro? Quelli che da vent’anni in qua pontificano che bisogna essere più flessibili, partendo dal signor Treu e arrivando a madama Fornero? Ecco, il succo è questo. Però non sfugga il paradosso: a dire a una generazione intera “siete perduti” non è qualche focoso arruffapopolo, qualche rivoluzionario, qualche vivace movimento, ma uno degli smemorati che ha contribuito a perderla, forse in questo momento il più autorevole. Un po’ come se lo zar si affacciasse al balcone e dicesse: “Ehi gente, che aspettate a prendere ‘sto palazzo?”. E magari arrivasse persino a citare il caro vecchio “modello tedesco”: “Avete da perdere soltanto le vostre catene”. Può farlo? Si può farlo senza rischi, con la consapevolezza che un’intera generazione perduta, spaventata e opportunamente deideologizzata risponda cordiale: “Beh, abbiamo delle catene… meglio che niente, no?”.

sabato 4 agosto 2012

Si prepara la pastetta per Taranto

di Zag in ListaSinistra
Vecchi soldi stanziati , ma mai messi a disposizione, bruscolini raccattati qui e la, Ecco da dove vengono i 336 milioni per il risanamento di Taranto. E intanto Vendola si prepara per il suo grande giorno. Gestire il tesoretto. Come si bonificherà?
Ma alzando una rete di protezione per i parchi minerali, in modo da impedire , quando si alza il vento che la polvere si alzi e vada ad inquinare il rione Tamburi. ( Una rete che protegge dalla polvere !) Misure per il risanamento ambientale e la riqualificazione di Taranto, in particolare del quartiere di Tamburi. Non per non far inquinare più. Un pannicello caldo cioè . Diciamocela tutta.

Secondo la legge che chi inquina paga. Infatti lo Stato mette 329( cioè noi)  milioni e Riva 7 . Ma i soldi ancora non si trovano. Si prevedono "tesoretti " stanziati in precedenza e poi mai finanziati ( come i 180 milioni recuperati da una precedente delibera definanziata del 2011 che destinava le risorse sempre alla Puglia) Si parlava dell'ipotesi di anticipare subito 70 milioni da mettere a disposizione del commissario straordinario, ma sul testo ieri sono continuati gli approfondimenti.
Si ha l'impressione de "A muina a muina " tipica messa in scena meridionale Soldi che passano di qua e di la sopra e sotto , ma sono sempre quelli e che sono finti.

All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta: tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio passann’ tutti p’o stesso pertuso: chi nun tiene nient’ a ffà, s’aremeni a ‘ccà e a ‘llà”

Alla fine i resti de questa "A muina" sarà che Taranto resterà con il suo inquinamento. I cittadini, giovani e meno giovani scapperanno dalla Città dei due Mari ( dai 350 mila abitanti degli anni '80 i cittadini tarantini sono ormai 150 mila) . Anziani,  pensionati della vecchia Italsider andati in pensione perché intossicati di amianto rimarrano a presido della Città. Una città di bonzi è già ora , domani lo sarà ancor di più. Ogni giorno che passa un morto in più, un vivo che scappa.

Intanto quarantuno persone sono state denunciate dalla Polizia dopo quanto avvenuto giovedì mattina in piazza della Vittoria mentre era in corso la manifestazione sindacale  Le «41 persone - si legge in una nota stampa della Questura di Taranto - sono state identificate e saranno denunciate in stato di libertà all'autorità giudiziaria per aver turbato a vario titolo la manifestazione in atto, determinando la temporanea interruzione dei comizi ufficiali. L'attività degli investigatori si é focalizzata in particolare su coloro i quali si sono resi responsabili di violenza sulle cose, abbattendo le transenne poste a protezione del palco al fine di accedervi, e di accensione di fumogeni in luogo pubblico». Vi è , si dice, una denuncia per aver buttato carta straccia  e per aver anche sputato. Il Processo si terrà a rito abbreviato, visto la gravità dell'accusa. Meno grave è ittilevante invece per Ferrante area pidiellina ex candidato del PD a Sindaco di Milano ed attuale AD dell'ILVA di Taranto la frase:

'Dobbiamo legargli il culo alla sedia': e' il contenuto di un'intercettazione telefonica prodotta dalla Procura nell'udienza del Riesame sui ricorsi presentati dall'Ilva. La frase sarebbe stata pronunciata da un dirigente dell'Ilva in una conversazione con altri dirigenti e farebbe riferimento all'arrivo in fabbrica di funzionari regionali che dovevano compiere un sopralluogo sugli impianti ritenuti a rischio ambientale. Pagando e corrompendo i funzionari. Così si faceva bonifica ambientale e rispettavano le leggi sulla Diossina. Non solo ispezione telefonate, ma anche corruzione ai tecnici che dovevano preparare l'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per conto del ministero dell'Ambiente, nonche' un presunto episodio di corruzione del docente universitario ed ex preside del Politecnico di Taranto

"Clini è uomo nostro", dice Girolamo Archinà uomo della pubbliche relazioni del gruppo Riva, parlando, nel 2010, con un consulente del gruppo Riva, già funzionario del Cnr. "Insinuazioni inaccettabili. C'è bisogno di responsabilità', trasparenza e puntuale riscontro di fatti e dati". Così chiaramente il ministro che dovrebbe tutelare la salute degli italiani e dei tarentini. Si alza il firewall intanto da parte delle istituzioni . La ministro della Giustizia Paola Severino si è recato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per metterlo al corrente
Zag(c)
Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

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