Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

mercoledì 28 settembre 2011

Una crisi del capitalismo*

di Riccardo Bellofiore. Fonte: sinistrainrete

I. Un premier da ridere, un paese da compatire?

Marx ha scritto che la storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa. Chi fosse curioso di come potrebbe ripetersi la terza volta, non ha che da guardare all’Italia: un paese dove l’opposizione più dura contro il governo viene - letteralmente– da comici (come Antonio Albanese o i due Guzzanti) o da vignettisti (come Altan o Bucchi). Negli ultimi tempi la realtà è stata però più inventiva della stessa satira. Questa patetica situazione ha d’altra parte distorto la maggior parte delle analisi della situazione economica e politica del paese: come se il problema vero dell’Italia fosse solo il suo primo ministro, distratto da sesso e processi.

L’Italia è nell’occhio del ciclone da quest’estate. Ma per capire la vera natura della crisi italiana è necessario osservarla nel contesto più ampio della crisi europea. Entrambe, ci viene detto, fanno parte di una più vasta crisi del debito sovrano. Ma le cose non stanno proprio così.

II. Dalla crisi europea alla crisi italiana

I limiti della zona euro sono ben noti. Anzitutto abbiamo una ‘moneta unica’ non sostenuta da una corrispondente sovranità politica: una moneta che non è una moneta. Quindi, c’è una Banca Centrale Europea che non agisce come prestatore di ultima istanza, e che non finanzia l’indebitamento dei governi: una banca centrale che si rifiuta di fare quello per cui le banche centrali sono nate.

Infine, siamo privi di un bilancio pubblico europeo degno di questo nome: un bilancio europeo dell’1% quando sarebbe necessario (almeno) il 10%. Gli errori della BCE, il suo ossessivo atteggiamento anti-inflazionistico e la sua propensione ad alzare il tasso di interesse al minimo cenno di aumento dei prezzi, quale che ne sia la causa, sono anch’essi sotto gli occhi di tutti: benché le si debba riconoscere un certo pragmatismo nel mezzo delle varie crisi dell’ultimo decennio. Il sogno neo-mercantilistico tedesco di fare profitti grazie ai disavanzi di conto corrente dell’Europa del Sud, imponendole però il vincolo del pareggio nel bilancio pubblico, beh quello appartiene più alla psichiatria che all’economia.

Detto questo, deve essere chiaro che: 1) la crisi europea non è una crisi endogena; 2) la crisi del debito sovrano non è davvero una crisi del debito pubblico; 3) la crisi italiana di questa estate è largamente importata. Il neo-mercantilismo tedesco ha indotto da decenni una profonda stagnazione economica in tutta l’Europa, che è potuta sopravvivere solo grazie alle esportazioni trainate, in ultima istanza, dalla domanda degli Stati Uniti. Quando il nuovo capitalismo made in USA, il keynesismo privatizzato (una perversa miscela fatta di fondi istituzionali come i fondi pensione, che producevano l’aumento dei prezzi delle attività-capitale, che a sua volta consentiva l’indebitamento crescente dei consumatori: un modello esportato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito anche a Spagna ed Irlanda) alla fine è esploso, l’area dell’euro è implosa. Non ci voleva molto ad aspettarselo.

Quello che in superficie appare come crisi del debito sovrano è in realtà una crisi del debito privato sotto mentite spoglie. I disavanzi pubblici non sono stati indebitamenti buoni: voluti e pianificati per produrre valori d’uso a favore della collettività, che ‘rientreranno’ grazie allo sviluppo qualitativo che determinano. Sono stati indebitamenti cattivi: indotti automaticamente dalla stagnazione nell’economia, e ultimamente dalla volontà di salvare la finanza ad ogni costo. In ogni caso, in un’area caratterizzata da sovranità monetaria, il default non dovrebbe essere neppure immaginabile, e certo non ve ne è necessità “tecnica” alcuna. Tutto infatti dipende dalla mancanza di volontà “politica” di rifinanziare il debito pubblico prima della Grecia, poi dell’Irlanda, infine del Portogallo. A differenza dell’Argentina, erano tutti debiti in moneta “interna”. Va ricordato che la quota del debito pubblico di questi paesi in rapporto al PIL per l’intera area euro è irrisoria. Una eventuale e tempestiva cancellazione del debito avrebbe evitato all’insieme dell’economia europea il travaglio successivo.

Ma dopo Grecia, Irlanda e Portogallo, non poteva essere che la volta della Spagna (a causa del rapido aumento del flusso del suo debito pubblico, cioè del balzo in alto del suo disavanzo statale rispetto al PIL, determinato dallo sgonfiamento della sua bolla immobiliare e dunque dal crollo del suo PIL). E la Spagna, per le dimensioni della sua economia, del rapporto debito pubblico/PIL, è già un problema un po’ più serio delle altre componenti dei PIGS. Ma quando la crisi tocca l’Italia – la I dei PIGS che si pensava fosse stata sostituita dall’Irlanda – le cose cambiano, alla radice. La crisi, in fondo, è arrivata perche i “mercati” e le agenzie di rating sono state prese dalla paura e hanno registrato la stupidità della politica europea. Hanno visto agire l’idiozia dei leader europei, che non solo sono stati inefficaci a fornire rapidamente un salvataggio finanziario ai paesi indebitati, ma hanno anche introdotto programmi di austerità sostanzialmente autodistruttivi. La paura a questo punto si è trasformata in panico e ha prodotto un’impennata dello spread dei tassi di interesse sui buoni del tesoro italiano rispetto a quelli tedeschi. La forte riduzione del già basso tasso di crescita del PIL italiano (2010: 1,3%; 2011: 0,1% nel primo trimestre) e il drammatico aumento del tasso di interesse ha aperto così la strada ad un vero e proprio incubo per l’Italia. L’Italia, infatti, negli ultimi anni ha contenuto – sappiamo con quali costi sociali – l’aumento dei disavanzi rispetto al PIL, e dunque il flusso del suo indebitamento statale, ma ha pur sempre uno stock del debito pubblico vicino al 120% del suo PIL. A questo punto, si trattava solo di fare i conti per capire che si sarebbe prima o poi potuta determinare una crisi di liquidità, che fatalmente poteva degenerare in una immediata crisi di solvibilità.


III. Una crisi strutturale

Questo non significa che l’Italia non abbia profonde e gravi carenze nella sua economia. Ma queste sono carenze strutturali, accumulate nei decenni. Hanno inizio, più o meno, a metà degli anni Sessanta, e hanno portato ad una continua diminuzione della produttività del lavoro e del tasso di crescita. I capitalisti italiani hanno risposto alla forza d’urto delle lotte operaie (nella distribuzione, ma soprattutto nei luoghi di lavoro) con una sorta di “sciopero degli investimenti”, vale a dire cercando di recuperare profitti attraverso una più alta intensità di lavoro piuttosto che un’innovazione che alzasse la forza produttiva del lavoro.

Interi settori industriali (e quasi tutte le grandi imprese) sono spariti; si è finito con importare l’alta tecnologia invece che produrla; le privatizzazioni hanno trasformato le imprese pubbliche in attività orientate alla rendita. Per un po’, hanno prosperato i distretti industriali, soprattutto grazie ad una politica di continue svalutazioni, ma ora, con l’euro, anche questi ultimi sono entrati in una crisi profonda. Negli ultimi anni abbiamo avuto un gruppo di multinazionali tascabili italiane (medie imprese), il cosiddetto “quarto capitalismo”, che sono riuscite a esportare molto bene, facendo dell’Italia il secondo esportatore manifatturiero europeo dopo la Germania, ma certo non fanno sistema, sono dipendenti da una crescita trainata dall’esterno. Un’economia ormai integralmente etero-diretta. In questo quadro degenerativo, il debito pubblico ha aiutato ad “accompagnare” il processo di de-industrializzazione dell’economia italiana.

Il colpo di grazia è arrivato con le politiche di flessibilità (in volgare: precarizzazione), del lavoro. Sta qui la causa del vero e proprio crollo della forza produttiva del lavoro. Per un po’ di tempo, finché la crescita, pur debole, è stata comunque più elevata di una forza produttiva sempre più stazionaria nell’aggregato, questo meccanismo ha portato al miracolo di una piena “sottoccupazione”, almeno nel Centro-Nord. Ma la crisi attuale sta portando a galla la verità nascosta. Il dramma della disoccupazione latente, e una precarizzazione del lavoro che si andrà aggravando, sono solo agli inizi. E’ la “nuova normalità” che si annuncia all’orizzonte. Le recenti misure di politica economica che sono state adottate dal governo per ristabilire il pareggio nel bilancio pubblico, assecondando il diktat della BCE, abbinano un aumento regressivo di imposte a una riduzione drammatica dei trasferimento di denaro pubblico dal governo centrale agli enti locali. E questo non può che tradursi in un taglio selvaggio dei servizi sociali essenziali.


IV. Rifiuto dell’austerità, immaginazione progettuale

Tuttavia il problema dell’Italia è lo stesso di quello dell’Europa: mancanza di domanda effettiva e però anche composizione perversa della produzione. Vanno affrontati insieme. Default e uscita dell’euro non sono più opzioni possibili ora che la crisi ha toccato l’Italia. Va ricordato che nel 1992, l’Italia fu costretta ad uscire dal Sistema Monetario Europeo, praticando un’enorme svalutazione della Lira. Cosa ne è seguito? I problemi strutturali si sono aggravati, la condizione di vita dei lavoratori e dei ceti popolari è drammaticamente peggiorata. Questa volta, comunque, l’uscita dell’Italia dall’euro significherebbe la dissoluzione dell’unione monetaria e una conseguente radicalizzazione della crisi, europea e globale.

La crisi può essere superata solo fermando l’effetto domino e aprendo una speranza per il futuro: vale a dire affrontando contemporaneamente crisi finanziaria e crisi reale dell’economia e della società europea. Un buon punto di partenza può essere quello suggerito da Yanis Varoufakis e Stuart Holland: eurobond non solo come essenziali strumenti di salvataggio finanziario, ma soprattutto come strumenti di una politica di significativi investimenti su scala europea. Non dimentichiamoci, però, che la crisi è una crisi capitalistica. Porta con sé un violento attacco contro il lavoro: pubblico e privato. Un attacco portato, ad un tempo, dentro il cuore della produzione e nella riproduzione sociale stessa. Se il problema non è il neoliberismo, ma il capitalismo tout court, allora l’ipotesi di un inedito New Deal dovrebbe essere intesa come parte di un più ampio impegno di lotta e programmatico che sia comune alla sinistra europea e alle organizzazioni sindacali. Un programma minimo il cui centro siano la socializzazione degli investimenti, la trasformazione delle banche in public utilities, un piano del lavoro che faccia dello Stato un fornitore diretto di occupazione e per questo garante del pieno impiego, e il controllo dei movimenti di di capitale. Non è (ancora) Marx. È piuttosto Hyman P. Minsky, 1975.

Ciò che veramente manca in Europa non sono certo i soldi per finanziare il debito pubblico. E’ l’internazionalismo: non proclamato a parole (non c’è paese dove la sinistra non proclami con voce più solenne la natura globale della realtà presente), ma nelle lotte e nell’azione politica (non c’è paese dove partiti e sindacati della sinistra siano più ossessivamente autoreferenziali). Lotte davvero europee, su scala continentale, sono la condizione necessaria per resistere all’austerità imposta. Solo così, essendo radicali e persino rivoluzionari, è possibile, magari, ottenere in cambio qualche riforma decente.

* Pubblichiamo la versione estesa dell’articolo apparso il 21 settembre su The Guardian; traduzione dall'inglese di Daniele Balicco

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