Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 4 novembre 2011

La sinistra italiana di fronte alla crisi.

di Sergio Cesaratto. Fonte: sinistrainrete
Più che limitarmi alle cause e possibili uscite dalla crisi europea, su cui naturalmente indugerò nella prima parte, mi sembra opportuno qui riflettere sull’atteggiamento che la sinistra italiana ha tenuto di fronte alla crisi. Questo atteggiamento appare trovare le proprie radici nella storia lontana del Partito Comunista Italiano.

Le origini della crisi: il problema della realizzazione del sovrappiù nel capitalismo

Sulle cause della crisi europea non dirò dunque molto. Essa trova le sue radici nella moneta unica. Questa ha facilitato i flussi di capitale da un centro industrialmente forte, e votato a uno sviluppo export-led, verso la periferia, industrialmente più debole. I flussi di capitale – la disponibilità di credito a bassi tassi di interesse dalle banche tedesche e francesi - hanno alimentato una illusoria crescita basata sul boom edilizio in Spagna e Irlanda,[1] e sulla spesa pubblica in Grecia. I bassi tassi di interesse derivavano da una politica monetaria volta a non deprimere la già depressa crescita tedesca. Portogallo e Italia hanno una storia a parte in quanto hanno sostanzialmente stagnato negli anni dell’Unione Monetaria Europea (UME). In tutta la periferia l’inflazione è stata mediamente più elevata che nel centro, nei primi tre paesi anche alimentata dalla forte crescita. Questo ha comportato una ulteriore perdita di competitività a favore del centro. Le esportazioni di quest’ultimo si sono così avvantaggiate di questa situazione.


Dal punto di vista dell’analisi economica non convenzionale, i capitalisti dei paesi centrali hanno smaltito il loro sovrappiù sostenendo con flussi finanziari l’acquisto delle loro merci da parte dei paesi periferici. Il sovrappiù è la quota del prodotto sociale di cui i capitalisti si appropriano una volta pagati i salari. Lo smaltimento del sovrappiù nella periferia è il modello mercantilista che è stato ben descritto da Michal Kalecki, il Keynes marxista – siamo in un aula di una facoltà che visse anni gloriosi della teoria economica non-mainstream. Un altro modo con cui i capitalisti possono smaltire il proprio sovrappiù è attraverso l’indebitamente delle famiglie dei lavoratori. Questo è quello che è accaduto negli Stati Uniti. La spesa in disavanzo dello Stato è il terzo di quelli che Kalecki, seguendo Rosa Luxemburg, definì “mercati esterni”. Quello che, in sintesi, Kalecki e Luxemburg sostenevano è che il capitalismo per funzionare, dunque affinché tutto il surplus venga realizzato (venduto), necessita di una domanda aggiuntiva a quella proveniente dai consumi dei lavoratori – i cui salari i capitalisti tendono a tenere bassi – e dai consumi dei capitalisti - che per quanto opulenti non assorbono tutto il sovrappiù. Dei mercati “esterni” devono acquistare questo sovrappiù invenduto: questo accade accordando crediti a paesi stranieri, agli stessi lavoratori, o allo Stato nazionale.


Il limite del “modello” è che i debiti si accumulano, e possono diventare eccessivi. Questo è meno vero per lo Stato il quale, normalmente, ha due prerogativa che mancano alle famiglie dei lavoratori indebitati: a) il poter imporre imposte; b) inoltre esso possiede, tradizionalmente, una banca centrale sovrana che può illimitatamente batter moneta. La seconda prerogativa fa sì che uno stato sovrano non può dunque per definizione fallire. Nessuno pensa che oggi lo Stato americano, o britannico, o giapponese, con debiti vicini o superiori a quello italiano, possano fallire. Le famiglie possono invece fallire, e se falliscono, falliscono le banche che han prestato loro i quattrini. Ma possono anche fallire quegli Stati se hanno rinunciato alla sovranità monetaria - cioè al privilegio supremo di una nazione che voglia dirsi sovrana: la facoltà di batter moneta. Oppure se hanno emesso titoli del debito in valuta straniera. L’UME ha comportato per la rinuncia per la periferia europea alla sovranità monetaria e i titoli di Stato sono ora denominati in una moneta straniera: l’Euro.



BOX Economia reale ed economia finanziaria.

Con l’occasione di questo intervento, vorrei dissipare una frequente confusione che si trova a sinistra, ovvero l’idea che la crisi sia dovuta a una non ben specificata “finanziarizzazione” dell’economia, lo sviluppo, come si sente sovente dire, di una “economia di carta”. In questa visione sembra che esista una “economia reale” sana accanto a una “economia finanziaria” malata. Come sopra mostrato l’economia capitalistica “reale” è intimamente contraddittoria, incapace cioè di generare una domanda aggregata sufficiente ad assorbire il prodotto sociale, e questo proprio in seguito alla distribuzione ineguale del reddito che la contraddistingue. Non v’è dubbio che dalla fine degli anni 1980 vi sia stato uno sviluppo caotico della finanza che ha, tuttavia, avuto effetti reali: movimenti internazionali di capitale che hanno sostenuto crescite effimere nei paesi in via di sviluppo; bolle speculative in borsa che hanno, tuttavia, sostenuto i consumi attraverso i cosiddetti “effetti ricchezza” (se i titoli che posseggo vanno su, mi sento più ricco, smetto di risparmiare e consumo di più); ampliamento di forme di credito al consumo, particolarmente negli USA. In tal modo la “finanziarizzazione” ha compensato la crescente diseguaglianza economica sostenendo la domanda aggregata. Ma la finanza non può risolvere la contraddizione intima del capitalismo, può al massimo attenuarla spostandone in avanti gli esiti. Così lo scoppio delle bolle o le crisi del debito non sono che un’altra manifestazione di quella contraddizione di fondo insanabile.



Questo vale anche per l’Italia, anche se la storia del debito pubblico italiano è diversa. Quest’ultimo matura negli anni 1970-80 quando la spesa sociale viene adeguata ai livelli europei ma non le entrate fiscali. L’aumento dei tassi di interesse internazionali, l’ingresso nello SME e il “divorzio” fra Tesoro e Banca Centrale, la perdurante evasione fiscale determinarono l’esplosione della spesa per interessi e l’aumento del debito. Quando, dagli anni 1990, la pressione fiscale è stata adeguata era troppo tardi, e sebbene lo Stato italiano avesse realizzato un avanzo primario, i buoi erano già fuggiti. Qualunque livello di debito sul PIL è tuttavia sostenibile se i tassi di interesse si mantengono inferiori alla crescita del PIL. Una politica monetaria accomodante, vale a dire se la BCE agisse da banca centrale europea, potrebbe ricondurre i tassi ai livelli pre-crisi, dunque di pochissimi decimi sopra quelli pagati dai tedeschi. Varie autorità fra le quali Guido Tabellini, Paul De Grauwe e il finanziere Soros l’hanno ribadito negli ultimi giorni.


E’ vero tuttavia anche che il nostro paese soffre di una scarsa crescita come problema di lungo periodo. Questo problema è stato esacerbato dall’Euro: avendo noi una inflazione strutturalmente più elevata che negli altri paesi – i prezzi dei servizi pubblici e privati tendono a crescere più rapidamente (anche dei salari) – abbiamo perso competitività senza poterla recuperare con la nostra tradizionale arma della svalutazione. Ma i problemi della crescita sono più antichi. Hanno a che vedere, a mio avviso, col mancato salto tecnologico nell’industria - ma anche nell’efficienza pubblica e della società civile - successivamente al “miracolo economico”. La borghesia italiana fu incapace di effettuare questo salto esasperando il conflitto sociale nei confronti delle istanze del movimento operaio. L’esito è stato deleterio per tutti. Riprendere un sentiero di crescita, da questo punto di vista, non è facile. La borghesia italiana è quella che ha espresso Berlusconi. La qualità della politica – non solo i suoi costi – non è delle migliori, spesso incompetente e provinciale, in particolare sui temi europei su cui torniamo.



Le politiche adottate in Europa


In termini semplici, dal maggio 2010 l’Europa ha stanziato fondi “salva-stati” (principalmente l’European Financial Stability Fund -EFSF) a sostegno della crisi debitoria dei piccoli paesi periferici (i GIP). In cambio ha imposto a quei paesi misure di tagli di bilancio che ne hanno minato la crescita e la stabilità sociale (meno in Irlanda che ha un forte settore esportatore dovuto alle MNE) e da ultimo hanno ulteriormente minato la sostenibilità del loro debito. Nel giugno 2011 il contagio si è esteso a Italia e Spagna. Le scarse prospettive di crescita dell’Italia, ma anche la scarsa credibilità del governo, sono probabilmente alla base del crollo di fiducia sul debito sovrano italiano. Se tale fiducia si è incrinata in vista di un lento aumento del rapporto debito/PIL, essa è crollata quando l’aumento degli spread, ora a 400 punti base, ne ha fatto prevedere un aumento più rapido.


L’Europa ha ritenuto di poter fronteggiare la crisi del debito italiano e spagnolo con gli stessi metodi con cui ha fronteggiato quella dei piccoli GIP. Il problema dei fondi europei “salva-stati” è che a mettere i quattrini da utilizzare in caso di crisi di solvibilità (ciò accade quando uno stato non riesce a collocare una tranche di titoli necessaria a restituire una tranche scaduta) sono i medesimi paesi indebitati: e come se Spagna e Italia dovessero salvarsi dall’affogamento tirandosi da sole per la collotta. La credibilità di questa politica, riaffermata dall’Europa lo scorso luglio, è zero. Eppure molti parlamenti nazionali hanno nicchiato ad approvare tali, inutili, misure. In un certo senso han ragione: i paesi forti perderebbero dei soldi senza risolver niente. Purtroppo però non pensano a soluzioni più avanzate. Queste implicano un intervento risoluto della BCE.


Da ridimensionare è invece l’idea degli Eurobonds , di cui un po’ a sinistra ci si è sciacquati la bocca ma che, a ben vedere, è una proposta debole. La garanzia ultima di tali titoli sarebbe infatti sulla Germania, una garanzia largamente insufficiente. Le agenzie di rating hanno già dichiarato che li classificherebbero piuttosto male, e in effetti una manciata di titoli emessa dall’EFSF era prezzata settimane fa con tassi 100 punti base superiori ai Bund tedeschi.


E’ vero che la BCE è nel frattempo intervenuta, prima nei riguardi dei GIP, poi da luglio in favore di Italia e Spagna (in cambio delle manovre), ma lo ha fatto in maniera timida e irresoluta, appena impedendo che gli spread italiani e spagnoli esplodessero e imponendo tagli di bilancio, come nella famigerata lettera al governo italiano. Se fosse intervenuta risolutamente garantendo in maniera illimitata i debiti sovrani la crisi sarebbe rapidamente rientrata e la BCE non avrebbe dovuto acquistare neppure un titolo. Questo abbiamo detto in un documento firmato da varie associazioni della sinistra lo scorso marzo. Ora lo sostengono molti, da ultimo Stefano Fassina su L’Unità del 28 settembre, e ciò è positivo. Ricordo che un mio intervento “ufficioso” indusse a rimuovere un passo presente nella versione del Progetto sulla crescita del PD presentata da Bersani il 21 marzo scorso che diceva che compito degli Eurobonds era quello di “liberare la BCE dall’improprio compito di acquistare i titoli del debito pubblico degli Stati più fragili e dal doverli iscrivere nel proprio bilancio”: rilevai che quello era precisamente il compito proprio delle banche centrali. Ricordo questo non per vanteria, ma per rilevare come la sinistra italiana si faccia sempre trovare arretrata e spiazzata sui temi economici – c’è evidentemente qualcosa nel suo DNA che la porta a rivolgersi a ricette economiche, e relativi economisti, spesso più arretrate di quanto poi emerge persino in ambienti ufficiali, e su questa cultura tornerò fra poco.


Nel presente frangente una buona idea sarebbe di appoggiare la proposta Geithner di usare i fondi europei EFSF come leva per mobilitare il volume di fuoco della BCE a garanzia illimitata sui titoli pubblici sovrani.


L’idea è che i fondi EFSF rimpolpino il capitale della BCE e questa garantisca un volume potenziale di fuoco dell’ordine di uno o due trilioni, tale cioè da poter acquistare tutto il debito dei paesi periferici. Naturalmente questa è una soluzione per i cuori e le mente pavide: la BCE non ha bisogno di nessun capitale per assicurare quel volume di fuoco, essa stampa tutta la moneta che desidera. E, ripetiamo, sarebbe sufficiente che dichiari di farlo se necessario perché i mercati e spread si riducano drammaticamente – in fondo neppure i mercati desiderano che il sistema finanziario mondiale crolli (tant’è che alle voci del “leveraging” del EFSF i . Questa proposta ha ricevuto la benedizione di Bini Smaghi. Draghi non ha parlato questi giorni, ma si può presumere che LBS abbia parlato per lui. Infatti Eurointelligence del 3 ottobre ci informava che Draghi sembrava condividere la proposta.



La sinistra di fronte alle politiche adottate in Italia

Colpisce dunque quanto la sinistra italiana sia stata negli scorsi mesi sempre all’inseguimento, senza una proposta economica autorevole e aggiornata sul miglior dibattito internazionale. Il dibattito sulle manovre si è ad esempio attestato sulla denuncia della loro iniquità, sfuggendo invece alla sinistra che la questione vera era la loro inutilità. Scrivevamo a proposito con Turci nei riguardi dell’atteggiamento della segreteria Bersani di fronte alle manovre:


.


Gli articoli più recenti di Stefano Fassina sono stati al riguardo un notevole passo in avanti, come già notato.[2] Su alcuni altri temi l’elaborazione del PD si mostrava ancora arretrata nel Progetto dello scorso marzo come quando si sostenevano misure a sostegno dell’”occupabilità” femminile laddove il problema non è tanto lo scoraggiamento delle donne a lavorare quanto l’assenza di posti di lavoro (è evidente l’influenza della “supply side economics”). Così pure con riguardo alla politica industriale, il PD non appare interessato a rivisitare e modernizzare l’esperienza delle Partecipazione Statali (naturalmente in barba al liberismo impostoci dall’UE).


Sconcertanti sono invece le proposte politiche proposte dai moderati del PD, da Enrico Letta, Morando a Veltroni, al cui proposito abbiamo nei giorni scorsi scritto:


Uno scontro su questi temi si è aperto nel PD, e questo è positivo, ma senza che da parte dell’ala socialdemocratica – definiamola così – del partito sia emersa una proposta politica chiara e forte da contrapporre a quella ultra-liberista dei moderati. A me sembra che da parte della segreteria Bersani vi sia la presa di consapevolezza che l’adesione allo spirito e alla lettera della missiva della BCE sia suicida per la forza di riferimento dei ceti popolari italiani, se tale ruolo questa forza vuole mantenere e sopratutto rafforzare, ma che non si abbiano le idee chiare su dove andare. E in questo trovo che Macaluso non abbia torto nell’affermare che le posizioni nel PD vadano definite con maggiore “chiarezza e nettezza.” A me sembra tuttavia che tale sforzo di chiarezza lo debba soprattutto la sinistra del PD: la destra le idee chiare ce l’ha e sono quelle liberiste.



Le radici della cultura economica del PD


A me sembra che la cultura economica del PD sia fondamentalmente quella ereditata dal PCI. Anche in quel partito v’era peraltro un’ala catto-comunista (Franco Rodano e la Rivista Trimestrale), assai influente sull’idea di austerity e in cui si sono formati alcuni economisti influenti nel PD, per cui il parallelismo PD-PCI non appare fuori luogo.


Il miglior testo interpretativo sulla relazione fra sinistra, in particolare comunista, e riformismo in Italia è Paggi e D’Angelillo (1986), un libro maturato proprio qui a Modena (e non a caso visto l’esplicito riferimento che gli autori fanno a Sraffa e Garegnani). L’esperienza riformista viene lì identificata, correttamente, con le socialdemocrazie nordiche in cui la distribuzione del reddito è stata seriamente spostata a favore delle classi lavoratrici. Semplificando molto il ben più complesso ragionamento degli autori, il Pci avrebbe invece vissuto una situazione irresoluta fra una prospettiva che è rimasta a lungo di sovvertimento delle istituzioni occidentali e una pratica di moderazione, che risultava l’unica possibile pena la messa fuori legge data la prospettiva sovversiva. E’ proprio la tradizione Amendoliana, quella più moderata ed erroneamente considerata per questo riformista, che riassume i due aspetti, illiberismo filo-sovietico e moderatismo. Tale moderatismo si esprimeva poi nel considerare gli avanzamenti della classe lavoratrice come oggettivamente sovversivi sino a considerarli egoistici (che continuità con i signori del “Non basta dire no”, “più ai figli e meno ai padri” ecc!) e nel condividere l’idea di “interessi generali” del paese da tutelare. L’etica dei “sacrifici” – anch’essa a ben vedere un misto di illiberismo filo-sovietico, moralismo catto-comunista e moderatismo – ben completava il quadro. I moderni epigoni di questa tradizione hanno perso il filo-sovietismo e qualunque idea anche moderata di socialismo, ma conservato il moderatismo, il quale poco ha a che fare con riformismo socialdemocratico. Veltroni & c. sono anche un po’ peggio di questo.


Il PCI fu socialdemocratico nelle esperienza di governo locale, e non è quindi un caso che da quell’esperienza pragmatica provenga il tentativo di Lanfranco Turci di tradurre tale pragmatismo in politica nazionale.


A mio avviso la sinistra del PD, quella più genuinamente socialdemocratica, deve liberarsi di quella cultura del PCI, veramente asfittica. Ma non per passare al vuoto veltroniano, ma verso uno spirito genuinamente Keynesiano declinato nella tradizione marxista di Sraffa e Kalecki.


Vorrei infine concludere che la sinistra del PD – in un grande partito socialdemocratico dovrebbero convivere una destra e una sinistra senza il vizio italiano di scissioni continue – andrebbe anche ripresa una ricerca sui temi del socialismo. Non dovremmo dimenticare come questa crisi sia figlia delle contraddizioni del capitalismo – il problema della realizzazione delineato all’inizio – i cui valori abbiamo finito fin troppo per condividere. Mi colpisce come il movimento degli “indignados” si muova in fondo su parole d’ordine ancora più flebili di quelle degli anti-global di dieci anni fa. E’ il tema unificante di una società diversa che manca, una società non basata sul consumismo e la distruzione dell’ambiente, per giunta prona alle crisi, ma costruita su valori diversi. A questo anche dovremmo pensare se vogliamo costruire speranze per le giovani generazioni.


*Università di Modena 17 ottobre 2011. Intervento a un dibattito con Stefano Fassina (responsabile economico del PD) e Antonio Ribba (docente di Politica economica)
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[1] In quest’ultimo paese la crescita era già in corso in seguito agli investimenti delle imprese multinazionali americane stimolate dal favorevole trattamento fiscale.


[2] Perplessità suscitano tuttavia passi come quello di D’Antoni su L’unità del 10 ottobre in cui si ribadisce, in cambio di politiche espansive europee, la necessità di uno “sforzo di risanamento nei Paesi in crisi”. E’ una posizione e un linguaggio (“risanamento”, come se disavanzi e debiti pubblici fossero la malattia a fronte di un mercato “sano”!) che non ci devono appartenere. Mentre alcuni contributi che leggiamo su L’unità, come quelli di Andriani, ci appaiono nella giusta direzione, altri economisti “di area” , come Paolo Guerrieri (31 agosto 2011), ci appaiono assai inadeguati e anche poco al corrente del dibattito internazionale.

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