Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

mercoledì 8 febbraio 2012

Uscire o no dall'euro?

Cronache dalla crisi
La proposta di restare fuori dalla moneta unica presenta più rischi e pericoli che vantaggi. Meglio costruire una mobilitazione per una "rifondazione" dell'Europa in senso solidaristico

di Michel Husson ilmegafonoquotidiano
È possibile riassumere in maniera semplicissima l’andamento della crisi: nel corso degli ultimi due decenni il capitalismo si è riprodotto accumulando una montagna di debiti. Onde evitare il tracollo del sistema, gli Stati si sono assunti il grosso di questi debiti che, da privati, sono diventati pubblici. Di qui in poi, il compito di questi Stati è quello di farne pagare la fattura ai cittadini, sotto forma di tagli dei bilanci, di aumento delle imposte più inique e di congelamento dei salari. In sintesi: la maggioranza della popolazione (lavoratori e pensionati) deve garantire la concretizzazione di profitti fittizi accumulati in lunghi anni.
Nel frutto c’era il verme. Voler costruire uno spazio economico con una moneta unica ma senza bilancio era un progetto incoerente. Un’unione monetaria monca si trasforma allora in una macchina per fabbricare eterogeneità e divaricazione. I paesi con inflazione più elevata della media perdono competitività, sono stimolati a basare la propria crescita sul sovraindebitamento.

Retrospettivamente, la scelta dell’euro non aveva del resto una giustificazione evidente rispetto a un sistema di moneta comune, con un euro convertibile nei rapporti con il resto del mondo e monete riadeguabili all’interno. L’euro, in realtà, era concepito come uno strumento di disciplina di bilancio e, soprattutto, salariale. Ricorrere all’inflazione non era possibile, per cui il salario diventava la sola variabile adeguabile.

Ad ogni modo, il sistema ha, bene o male, funzionato grazie al sovra indebitamento e, perlomeno nel primo periodo, al calo dell’euro rispetto al dollaro. Questi espedienti, però, erano destinati a esaurirsi e allora le cose hanno cominciato a guastarsi, con la politica tedesca di deflazione salariale che ha portato la Germania ad aumentare le sue quote di mercato, per il grosso all’interno dell’eurozona. Anche se questa era nel complesso in equilibrio, ha preso così ad approfondirsi lo scarto tra le eccedenze tedesche e i passivi della maggioranza degli altri paesi. I saggi di crescita dei paesi dell’eurozona non si sono ravvicinati, anzi hanno avuto la tendenza a divergere, e questo fin dall’introduzione dell’euro.

Si trattava di una configurazione insostenibile. La crisi ha bruscamente accelerato i processi di frammentazione e la speculazione finanziaria ha portato alla luce del sole le tendenze inerenti all’Europa neoliberista. Essa ha acuito la polarizzazione dell’eurozona tra due gruppi di paesi. Da una parte, la Germania, l’Olanda e l’Austria godevano di rilevanti eccedenze commerciali e i loro disavanzi pubblici rimanevano moderati. Dall’altra parte, si trovavano già i famigerati “Pigs” (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), nella condizione inversa: forti disavanzi commerciali e pubblici, già al di sopra della media. Con la crisi, i disavanzi pubblici si sono acuiti dappertutto, ma molto meno nel primo gruppo di paesi, che conservano eccedenze commerciali. In tutti gli altri paesi, la situazione si deteriora, con l’esplosione dei disavanzi pubblici e il crescente squilibrio della bilancia commerciale. In Europa, la crisi dei debiti sovrani ha accelerato la svolta verso l’austerità, che comunque era in programma. La speculazione contro la Grecia, poi l’Irlanda e il Portogallo, è stata possibile solo perché non esiste alcuna misura di controllo delle banche, né alcuna assunzione reciproca dei debiti su scala europea. Sono del resto la banche centrali a fornire le munizioni, prestando alle banche all’1% il denaro, che poi verrà utilizzato per approfittare del rialzo dei tassi offerti dagli Stati, e intascare la differenza.

Poiché l’indebitamento pubblico dà il cambio a quello privato, la crisi finanziaria scatta su questo terreno. Da questo punto di vista, i piani di salvataggio dell’euro sono in realtà piani di salvataggio delle banche europee, che detengono buona parte del debito dei paesi minacciati. Gli attacchi speculativi vengono utilizzati come argomento in favore del rapido passaggio a drastici piani di austerità. Un’incongruenza che non può che portare a una nuova recessione, anche nella stessa Germania, dove le esportazioni verso i paesi emergenti non potranno compensare le perdite sui mercati europei.

Al fondo, i governi europei non hanno che un solo obiettivo: tornare il più presto possibile al business as usual. Ma quest’obiettivo è fuori portata, proprio perché la crisi ha reso inservibile tutto quel che aveva consentito di gestire le contraddizioni di un’integrazione monetaria sbilenca

Questi elementi di analisi sono attualmente abbastanza largamente condivisi, Essi, tuttavia, portano a pronostici e a orientamenti contrapposti: esplosione dell’eurozona, o rifondazione della costruzione europea.

Per una rifondazione dell’Europa

Il criterio essenziale per una rifondazione dell’Europa è quello della soddisfazione dei bisogni sociali. Il punto di partenza è perciò la ripartizione delle ricchezze. Dal punto di vista capitalistico, l’uscita dalla crisi passa per la restaurazione della redditività e quindi per l’ulteriore pressione su salari e occupazione.

È però la parte di reddito nazionale succhiata ai salari ad avere alimentato le bolle finanziarie. E sono le controriforme neoliberiste ad avere acuito i passivi, anche prima dello scoppio della crisi.

L’equazione, allora, è semplice: non si risolverà la crisi senza un significativo cambiamento della ripartizione dei redditi. Questo problema viene prima della crescita. Ovviamente, una crescita più sostenuta favorirebbe l’occupazione e i salari (bisogna tra l’altro discuterne il contenuto dal punto di vista ecologico); ad ogni modo, tuttavia, non si può puntare su questa variabile se, contemporaneamente, la ripartizione dei redditi diventa sempre più diseguale.

Occorre dunque aggredire le disuguaglianze: da un lato, aumentando la massa salariale: dall’altro, con la riforma fiscale. Riportare a livello la parte salariale potrebbe seguire una regola dei tre terzi: un terzo per i salari diretti, un terzo per il salario sociale (la protezione sociale) e un terzo per creare posti di lavoro con la riduzione dell’orario di lavoro. Questo avanzamento avverrebbe a detrimento dei dividendi, che non hanno alcuna giustificazione economica, né utilità sociale. Andrebbe progressivamente ridotto il deficit di bilancio, non con il taglio delle spese ma con la rifiscalizzazione di tutti quei tipi di redditi che a poco a poco sono stati dispensati dalle imposte. Nell’immediato, il costo della crisi dovrebbe ricadere sui suoi responsabili; in altri termini, il debito andrebbe in gran parte annullato e le banche andrebbero nazionalizzate.

La disoccupazione e la precarietà costituivano già le tare sociali più gravi dell’attuale sistema: la crisi le aggrava, in quanto i piani di austerità eroderanno ulteriormente le condizioni di esistenza dei più sfavoriti. Anche qui, un’ipotetica crescita non va considerata la strada principale. Produciamo di più per creare nuovi posti di lavoro? Significa affrontare le cose all’incontrario. Su questo va operato un completo cambiamento di prospettiva e va assunta come punto di partenza la creazione di posti di lavoro utili. Si tratti di riduzione dell’orario di lavoro nell’impiego privato, o della creazione di posti nelle amministrazioni, nei servizi pubblici e collettivi, occorre partire dai bisogni e rendersi conto che sono gli impieghi a creare ricchezza (non necessariamente commerciale). E questo consente di stabilire una passerella con le preoccupazioni ambientali: la priorità del tempo libero e la creazione di impieghi utili sono due elementi fondamentali di qualsiasi programma di lotta contro il cambiamento climatico.

La questione della ripartizione dei redditi è dunque un buon punto di aggancio, intorno a un principio semplice come questo: noi non pagheremo per la “loro” crisi. Questo non ha niente a che vedere con un “rilancio attraverso i salari”, ma con la difesa dei salari, dell’occupazione e dei diritti sociali, su cui non dovrebbe esserci discussione. Si può allora avanzare il concetto complementare di controllo: controllo su che cosa fanno dei loro profitti (versare dividendi o creare posti di lavoro), controllo sull’utilizzazione delle tasse (sovvenzionare le banche o finanziare i servizi pubblici). La posta in gioco è quella di far passare dalla difesa al controllo, e solo questo passaggio può consentire che il mettere in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione (il vero anticapitalismo) ottenga un’udienza di massa.

Come ben sintetizza Özlem Onaran[i]: «Emerge un consenso tra le forze anticapitaliste europee intorno a una strategia basata su quattro pilastri: 1) resistenza alle politiche d’austerità: 2) radicale riforma fiscale e controllo dei capitali; 3) nazionalizzazione/collettivizzazione delle banche sotto controllo democratico; 4) audit del debito sotto controllo democratico, seguito dall’eventuale default [sospensione del pagamento].

Quale sarebbe il vantaggio dell’uscita dall’euro? Il principale argomento è che questo renderebbe possibile la svalutazione della nuova moneta, il che restituirebbe competitività al paese interessato. Restituirebbe alla Banca centrale la possibilità di emettere moneta per finanziare diversamente il proprio passivo. I più pessimisti vi vedono un modo per reindustrializzare l’economia, attendere una crescita più elevata e creare posti di lavoro.

La fusione di monete nazionali all’interno dell’euro ha sottratto una variabile essenziale di aggiustamento, il tasso cambiario. I paesi la cui competitività-prezzi arretra non hanno altro strumento, nell’attuale quadro europeo, se non il blocco dei salari e la corsa all’indebitamento. Questo è vero, ma non elimina l’incoerenza dello scenario dell’uscita dall’euro.

L’uscita dall’euro non risolverebbe affatto il problema del debito, anzi l’aggraverebbe, nella misura in cui il debito verso i non-residenti verrebbe immediatamente accresciuto dal tasso di svalutazione. In ogni caso, quindi, prima di uscire dall’euro occorrerebbe effettuare la ristrutturazione del debito.

Tornare alla moneta nazionale, nel caso di paesi che registrano rilevanti passivi con l’estero li sottoporrebbe direttamente alla speculazione sulla moneta. L’appartenenza all’euro aveva perlomeno il vantaggio di preservare i paesi da questi attacchi speculativi: ad esempio, il deficit della Spagna era arrivato fino al 9% del Pil, senza ripercussioni, ovviamente, sulla “sua” moneta.

La svalutazione rende i prodotti di un paese competitivi, in ogni caso rispetto ai paesi che non svalutano. L’uscita dall’euro, quindi, dovrebbe riguardare solamente un limitato numero di paesi. Si tratta dunque di una soluzione nazionale di non collaborazione, in cui un paese cerca di guadagnare quote di mercato sui suoi partner commerciali. La svalutazione, però, fa aumentare i prezzi delle importazioni, il che si ripercuote sull’inflazione interna e può in parte annullare quanto guadagnato in competitività sui prezzi all’esportazione. L’economista Jacques Sapir, che ha previsto un piano di uscita dall’euro per la Francia,[ii] ammette che «l’inflazione imporrebbe regolari svalutazioni (ogni anno od ogni anno e mezzo)» per mantenere costante il tasso di cambio effettivo. Questo equivale ad accettare una spirale inflazionistica all’infinito.

La competitività di un paese si basa su elementi materiali: gli incrementi di produttività, l’innovazione, la specializzazione industriale, ecc. Pensare che la manipolazione dei tassi cambiari possa bastare a garantire la competitività è ampiamente illusorio. È il motivo per cui, grosso modo, non esiste alcuna esperienza di svalutazione che non si sia tradotta in aumentata austerità, che ricade alla fine sui lavoratori. Perché la svalutazione possa servire a realizzare una diversa ripartizione dei redditi e un altro sistema di crescita occorrerebbe che fossero stati trasformati a fondo i rapporti di forza sociali. Fare dell’uscita dall’euro l’elemento preliminare equivale quindi a invertire le priorità tra trasformazione sociale e tasso di cambio. Si tratta di uno slittamento particolarmente rischioso. Nel suo documento, Jacques Sapir mette in risalto come la «nuova moneta dovrebbe allora venire inserita nei cambiamenti di politica macroeconomica e istituzionale […] se si vuole che dia i risultati auspicati». Tra i cambiamenti, egli cita un recupero dei salari, la perpetuazione dei sistemi sociali, il rigoroso controllo dei capitali, la requisizione della Banca di Francia, il controllo dello Stato sulle banche e le assicurazioni. Ma tutte queste misure dovrebbero essere state imposte prima ancora del progetto di uscire dall’euro.

Un governo di trasformazione sociale commetterebbe, del resto, un terribile errore strategico se partisse dall’uscita dall’euro, perché così si esporrebbe a tutte le misure di ritorsione.

Politicamente, c’è il rischio assai grande di offrire legittimità da sinistra ai programmi populisti. In Francia, il Front National ha fatto dell’uscita dall’euro uno degli assi della sua politica. Questo si ricollega alla logica nazionalsocialista che combina il discorso xenofobo con una lettura che attribuisce esclusivamente all’integrazione europea tutti i mali economici e sociali.

Sta qui il cuore del problema. La mondializzazione e l’integrazione europea neoliberiste consolidano il rapporto di forza a favore del capitale. Non si può tuttavia farne la causa esclusiva, come se una migliore spartizione delle ricchezze potesse effettuarsi spontaneamente all’interno di ogni singolo paese alla sola condizione di prendere misure protezioniste. Far credere che uscire dall’euro potrebbe di per sé migliorare il rapporto di forza a favore dei lavoratori è, in sostanza, l’errore d’analisi fondamentale. Basta del resto vedere l’esempio della Gran Bretagna: la sterlina non fa parte dell’euro, ma non per questo la popolazione è al riparo da un piano di austerità tra i più crudeli in Europa.

I fautori dell’uscita dall’euro avanzano un altro argomento: si tratterebbe di una misura immediata, relativamente facile da prendere, mentre la prospettiva di una rifondazione europea sarebbe fuori portata. L’argomento ignora la possibilità stessa di una strategia di rottura, che non presuppone che intervenga simultaneamente in tutti i paesi europei.

Per una strategia di rottura e di estensione

Sembra dunque che la scelta sia quella tra un’avventura pericolosa e un’armonizzazione utopistica. Il problema politico centrale è allora quello di uscire da questo dilemma, per cercare di dargli una risposta. Occorre elaborare la distinzione tra il fine e i mezzi. L’obiettivo di una politica di trasformazione sociale è, lo ripetiamo, quello di assicurare all’insieme dei cittadini una vita decorosa, in tutte le sue dimensioni (occupazione, sanità, pensione, alloggio, ecc.). L’ostacolo immediato è la ripartizione dei redditi, che va modificata alla fonte (tra profitti e salari) e corretta sul piano fiscale. Vanno perciò prese un complesso di misure tendenti a sgonfiare i redditi finanziari e a realizzare una radicale riforma fiscale. Queste poste in gioco passano per la messa in discussione degli interessi sociali dominanti, dei relativi privilegi, e questo scontro si svolge innanzitutto sul piano nazionale. Ma gli assi nella manica dei potenti e le possibili misure di ritorsione superano questo quadro nazionale: si invocano immediatamente la perdita di competitività, la fuga di capitali e l’infrazione delle norme europee.

L’unica possibile strategia deve allora basarsi sulla legittimità delle soluzioni progressiste derivante dal loro carattere eminentemente solidaristico. Tutte le raccomandazioni neoliberiste rimandano invece, in ultima istanza, alla ricerca della competitività: si devono abbassare i salari, ridurre i «carichi», per conquistare, alla fine dei conti, quote di mercato. Poiché ci sarà una debole crescita nella fase aperta dalla crisi in Europa, l’unico modo per un paese di creare posti di lavoro sarà quello di rubarne ai paesi vicini, tanto più che la maggior parte del commercio estero dei paesi europei avviene all’interno dell’Europa. Vale anche per la Germania (primo o secondo esportatore mondiale insieme alla Cina), che non può contare sui soli paesi emergenti per ricavarne la sua crescita e i suoi posti di lavoro. Le uscite neoliberiste dalla crisi non sono dunque, per loro natura, solidaristiche: si può guadagnare solo contro gli altri, e del resto è questa la base di fondo della crisi della costruzione europea.

Viceversa, le soluzioni progressiste sono solidaristiche: funzionano tanto meglio quanto più si allarghino a un grande numero di paesi. Se tutti i paesi europei riducessero l’orario di lavoro e tassassero i redditi del capitale, il coordinamento consentirebbe di eliminare i contraccolpi cui sarebbe esposta questa stessa politica se portata avanti in un solo paese. La strada da esplorare è dunque quella di una strategia di estensione che potrebbe seguire un governo di sinistra radicale.

- si prendono unilateralmente la “buone” misure (ad esempio, la tassazione delle transazioni finanziarie):

- si accompagnano a queste delle misure protezioniste (ad esempio, un controllo dei capitali);

- si ha il coraggio politico di infrangere le norme europee;

- si propone di modificarle estendendo a livello europeo le misure prese;

- non si esclude un braccio di ferro e si utilizza la minaccia di uscire dall’euro.

Questo schema prende atto del fatto che non si può subordinare l’attuazione di una “buona” politica alla costituzione di una “buona” Europa. Le misure di ritorsione di ogni genere vanno anticipate attraverso quelle che, effettivamente, si richiamano all’arsenale protezionista. Ma non si tratta di protezionismo nella solita accezione del termine, in quanto questo protegge un’esperienza di trasformazione sociale e non gli interessi dei capitalisti di un dato paese di fronte alla concorrenza degli altri. Si tratta di un protezionismo di estensione, la cui logica è quella che sparirebbe appena le “buone” misure fossero generalizzate.

La rottura con le norme europee non avviene in base a una petizione di principio, ma a partire da una misura giusta e legittima, che corrisponde agli interessi della maggioranza e che si propone come percorso da seguire ai paesi vicini. La speranza di cambiamento consente allora di basarsi sulla mobilitazione sociale negli altri paesi e di costruire così un rapporto di forza che possa incidere sulle istituzioni europee. La recente esperienza del piano di salvataggio dell’euro, del resto, dimostra come non ci fosse bisogno di cambiare i trattati per scavalcare un certo numero di loro disposizioni.

In questo schema, l’uscita dall’euro non è più un fatto preliminare. È, al contrario, un’arma di cui servirsi come ricorso estremo. La rottura dovrebbe, piuttosto, avvenire su due punti, che permetterebbero di liberare veri e propri margini di manovra: nazionalizzazione delle banche e denuncia del debito.

Rottura e rifondazione

La prima leva è la capacità di intaccare gli interessi capitalistici: il paese innovatore può ristrutturare il proprio debito, nazionalizzare i capitali stranieri, ecc. O minacciare di farlo. Anche nel caso di un paese piccolo, la capacità di risposta è considerevole, dato lo stretto intreccio delle economie e dei mercati finanziari. Molti potrebbero rimetterci, ad esempio le banche europee nel caso della Grecia. Anziché letteralmente prostrarsi di fronte alla finanza, Papandreu avrebbe potuto innescare un braccio di ferro dicendo: «La Grecia non può pagare, quindi bisogna discutere». È quello che aveva fatto l’Argentina sospendendo il suo debito nel 2001 e ottenendone la rinegoziazione.

Ma il punto d’appoggio principale consisterebbe nella natura solidale delle misure prese. Si tratta di una differenza enorme con il protezionismo classico che, in fondo, cerca sempre di cavarsela elegantemente rosicchiando quote di mercato ai concorrenti. Tutte le misure progressiste, viceversa, sono tanto più efficaci se si generalizzano estendendosi al maggior numero di paesi . Si dovrebbe quindi parlare al riguardo di una strategia di estensione basata sul seguente discorso: «Noi sosteniamo di voler tassare il capitale e prendiamo le adeguate misure di protezione. Ma solo in attesa che questa misura, come noi proponiamo, si estenda all’insieme dell’Europa». È dunque in nome di un’altra Europa che si assumerebbe la rottura con l’Europa realmente esistente. Anziché contrapporre i due elementi, occorrerebbe riflettere sull’articolazione tra rottura con l’Europa neoliberista e progetto di rifondazione europea.

Il progetto e il rapporto di forza

Un programma che puntasse soltanto a regolare marginalmente il sistema sarebbe non solo sottodimensionato, ma anche poco mobilitante. All’inverso, una prospettiva radicale rischia di scoraggiare, di fronte alla portata del compito. Si tratta in qualche modo di stabilire il grado ottimale di radicalità. La difficoltà non è tanto quella di elaborare dispositivi di ordine tecnico: è, ovviamente, indispensabile, ed è un lavoro largamente avanzato; ma nessuna misura, per quanto abile, può consentire di eludere lo scontro inevitabile tra interessi sociali contrastanti.

Sulle banche, il ventaglio va dalla nazionalizzazione integrale alla regolamentazione, passando per la costituzione di un polo finanziario pubblico, o per l’introduzione di una regolamentazione particolarmente stringente. Quanto al debito pubblico, può essere annullato, sospeso, rinegoziato, ecc. La nazionalizzazione integrale delle banche e la denuncia del debito pubblico sono misure legittime ed economicamente praticabili, ma possono apparire non a portata di mano, per l’attuale rapporto di forza. Ed è qui che si colloca il dibattito vero: quale è, sulla scala del radicalismo, la posizione del cursore che meglio consente la mobilitazione? Non spetta agli economisti risolvere questa discussione e quindi, invece di proporre un insieme di misure, il presente articolo ha cercato di impostare questioni metodologiche e di mettere in rilievo come siano indispensabili, per uscire effettivamente dalla crisi, tre ingredienti:

- la radicale modifica della ripartizione dei redditi;

- la massiccia riduzione dell’orario di lavoro;

- la rottura con l’ordine capitalistico mondiale, a partire dall’Europa realmente esistente.

Il dibattito non si può chiudere nella contrapposizione tra antiliberisti e anticapitalisti.

Si tratta, evidentemente, di una distinzione che ha un senso, a seconda che il progetto sia quello di liberare il capitalismo dalla finanza, o di sbarazzarci del capitalismo. Ma questa tensione non dovrebbe impedire di percorrere insieme un lungo tratto di strada, continuando a portare avanti il dibattito. Il “programma comune” potrebbe basarsi in questo caso sulla volontà di imporre altre regole di funzionamento al capitalismo. E si tratta appunto dello spartiacque tra la sinistra radicale di rottura e il social-liberismo di accompagnamento. Per la sinistra radicale, comunque, oggi il compito prioritario è quello di costruire un comune orizzonte europeo, che serva di base per un reale internazionalismo. (18 luglio 2011)

(Da Inprecor, nn.575-576, luglio-agosto-settembre 2011 - traduzione dal francese di Titti Pierini, 11/12/11)

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