Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

lunedì 28 maggio 2012

Un socialismo per l’Italia

MIMMO PORCARO - controlacrisi -
       
Del socialismo in generale.
Anche se nel resto del mondo centinaia di milioni di persone vivono in stati o si sono date governi che si dicono socialisti, o semi-socialisti, nell’occidente capitalistico il socialismo è ancora oggetto di discredito e dileggio. Ovviamente non ci si può attendere altro da chi mostra, ancora oggi, di credere che il sedicente libero mercato sia il miglior viatico alla prosperità. Ma nell’insistenza con cui si continua ad escludere il socialismo dal lessico pubblico non c’è solo un’ ovvia presa di partito ideologica. C’è anche la necessità di nascondere il fatto che il socialismo è tornato in Europa ed in America, ma è tornato come socialismo dei padroni. A dire il vero nei giornali finanziari la cosa viene, a mezza voce, riconosciuta: “L’idea che oggi tutto andrebbe bene se fossero state rispettate le regole sui bilanci [pubblici] è sbagliata. I guai maggiori sono derivati dall’irresponsabilità del settore privato”. Così Martin Wolf. E Alberto Orioli: “La pioggia di liquidità con cui gli stati hanno deciso di inondare il continente ha creato una sorta di cambio di referente per il sistema dello stato sociale: al welfare state tradizionalmente destinato al lavoro si è aggiunto il welfare finanziario”. Si è aggiunto, o meglio si è sostituito, giacché per rifinanziare le banche, il modello sociale europeo viene distrutto. Il debito privato viene di fatto accollato agli Stati e trasformato in debito pubblico, per ridurre il quale si tagliano le erogazioni sociali. Il presunto principio-guida del capitalismo (ossia: premiare il rischio e sanzionare l’insuccesso) viene sospeso per le banche e per i grandi gruppi industriali, mentre per i lavoratori il mercato deve funzionare appieno, e più di prima. Socialismo per i padroni, mercato per i lavoratori (e, andrebbe ricordato ogni volta, per le piccole imprese): questa è la nuova bandiera dell’Occidente.
Insomma, il capitalismo occidentale non sarebbe sopravvissuto alla sua recente crisi senza il massiccio ricorso al sostegno pubblico. Ed è proprio questa palmare evidenza a porre nuovamente all’ordine del giorno il problema del socialismo. Non si tratta quindi solo delle utopie di gruppi minoritari, della necessità di pianificare l’uso delle risorse naturali, del bisogno di gestire al meglio quella risorsa eminentemente sociale che è la scienza. Il socialismo si presenta oggi soprattutto come esigenza politica attuale di realizzare un elementare principio di logica e di giustizia, che è anche condizione per la ripresa di un nuovo ed equilibrato sviluppo: tutte le attività economiche che sopravvivono grazie al sostegno pubblico devono proporzionalmente passare sotto il controllo pubblico, esercitato come indirizzo politico o come diretta proprietà delle imprese. Non è una soluzione occasionale, dettata dalle contingenze: è piuttosto l’esito coerente della fondamentale contraddizione che Marx ha individuato nell’intimo funzionamento del capitalismo, quella tra il carattere sociale della produzione e la forma privata dell’appropriazione. L’attuale dipendenza dell’impresa privata dalle risorse pubbliche non è che l’espressione della sua generale dipendenza dalla ricchezza dell’intera società: e il socialismo è la gestione sociale di ciò che solo grazie alla società può funzionare.
La cosa appare ancor più chiara se viene vista in prospettiva storica. Con l’attuale crisi finanziaria si torna, pur se in forme assai diverse, a quella stessa situazione per fuggire dalla quale la finanziarizzazione è sorta, ossia all’approssimarsi di una soluzione socialista. Infatti la grande impresa moderna necessita di tali e tanti investimenti che nessun singolo capitale può affrontarli da solo, ed il capitalismo si è quindi sviluppato drenando sempre ricchezza sociale, sia nella forma di debito privato sia in quella di debito pubblico.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale il problema è stato risolto in buona parte col massiccio ricorso al finanziamento pubblico, diretto o indiretto. E di fronte alla grande crisi degli anni ’70 del secolo scorso il capitalismo si è così trovato a dover scegliere tra un’aumentata dipendenza dallo Stato e la costruzione di un grande sistema di finanziamento privato: e ha scelto logicamente la seconda soluzione, ossia la crescente finanziarizzazione dell’economia, la continua creazione di denaro privato attraverso l’emissione di titoli di credito. Il monetarismo, che si presentava come una discutibile ma dignitosa teoria reclamante la riduzione, in funzione anti-inflazionistica, dell’emissione di moneta, era in realtà la punta di lancia di un’operazione che tendeva a ridurre la moneta emessa dagli Stati (e quindi il potere degli Stati stessi), ma ad aumentare a dismisura quella emessa dal settore privato, ed in particolare dalle banche. Così, a debiti pubblici palesi, misurabili, ed eventualmente riducibili per accordo politico, si è sostituito un debito privato enormemente più pesante, opaco, e riducibile solo con una drastica contrazione dell’attività produttiva. Quel debito privato che oggi si tenta di nascondere enfatizzando il peso (di fatto notevolmente minore) del debito pubblico. Gli ultimi trent’anni non sono stati, dunque, il palcoscenico di uno scontro tra libero mercato e socializzazione degli investimenti. Si è piuttosto trattato dello scontro tra due forme di socializzazione degli investimenti: senza peraltro rinunciare al denaro di Stato ed all’intervento pubblico nei settori strategici, si è scelto di privilegiare la “socializzazione privatistica” (ossia la finanziarizzazione, che drena il risparmio dei lavoratori con l’offerta crescente di titoli ) perché l’altra sembrava, ed era, pericolosamente vicina al socialismo. Dato il fallimento della soluzione privatistica si torna ora al salvataggio pubblico (in barba ad ogni teoria del profitto come remunerazione del rischio d’impresa), ma vi si torna ormai solo dopo aver privatizzato gli Stati, in modo che le nuove erogazioni pubbliche non aumentino il potere dei governanti (e quindi eventualmente dei cittadini che li eleggono), ma vadano senza controllo nelle tasche di capitalisti che ormai dei governanti sono divenuti i padroni diretti. Così lo Stato, che prima era quantomeno la sede di un compromesso fra classi diverse, è divenuto in occidente puro e semplice Stato capitalistico, gestito direttamente da esponenti dei grandi gruppi industriali e finanziari e trasformato in garante della sola proprietà, e non più del lavoro: da ciò la crisi delle Costituzioni.
Siamo dunque tornati al punto di partenza: prendere atto o no della necessaria socializzazione degli investimenti? Prendere atto o no del fatto che anche il capitalismo produttivo non può più funzionare senza drenare la ricchezza sociale, che la finanziarizzazione è anche effetto di questa difficoltà del capitalismo industriale e che quindi non basta “ridurre” il ruolo della finanza per tornare allo sviluppo? Prendere atto o no del fatto che alla socializzazione degli investimenti deve corrispondere la socializzazione della gestione, come intreccio tra proprietà pubblica, controllo sociale, economie solidali?
2.2 Del socialismo odierno in particolare.

Certo, questa presa d’atto è ostacolata dal fallimento delle precedenti esperienze di socialismo di Stato. Ma è ormai possibile pensare ad un socialismo diverso che non solo mantenga spazi di mercato laddove la società lo ritenga opportuno, ma soprattutto sostituisca l’opaco conflitto tra oligopoli che oggi regola l’economia (e che è cosa completamente diversa dal mercato) non con la pianificazione verticistica, ma con la dialettica pluralistica tra un’autorità centrale democraticamente scelta e controllata e le numerose associazioni economiche e sociali tipiche della modernità, che possono fornire informazioni sullo stato dei bisogni sociali non meno razionali di quelle fornite da prezzi ormai distorti dagli oligopoli e dalle loro strategie politiche di dominio.
Per impedire il ripetersi di distorsioni burocratiche si deve precisare che ciò che il socialismo deve davvero superare non è il mercato (che è nato prima del capitalismo e gli sopravvivrà), non è l’impresa (che, come modo di rispondere a bisogni nuovi, o a bisogni vecchi con nuove tecnologie, deve esistere anche nel socialismo, e può ottenere una particolare remunerazione – collettivamente decisa), non è, infine, la pluralità dei centri di decisione sociale, ma è essenzialmente l’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente. E’ quel sistema che, grazie alla proprietà privata dei mezzi di produzione ed all’esistenza del lavoro salariato, fa sì che alla fine di un processo produttivo sociale (che è tale sia per il carattere cooperativo del lavoro, sia per il concorso di elementi genericamente sociali come la scienza e le infrastrutture) qualcuno, ossia il capitalista, si appropria privatamente dei risultati monetari del processo (che è cosa diversa dal vedersi remunerare un’attività di innovazione o direzione), e ne fa quello che vuole. O, per meglio dire, usa il denaro così acquisito per produrre ancor più denaro, in una corsa all’accumulazione per l’accumulazione che distrugge l’ambiente naturale e sociale e spinge il capitalista stesso ad arricchirsi non solo attraverso la produzione, ma anche attraverso la rapina dei beni comuni e delle risorse precedentemente conquistate dai lavoratori.
E’ questo il meccanismo che il socialismo deve superare, e può farlo sia sottoponendo le più grandi concentrazioni finanziarie e produttive alla proprietà ed al controllo pubblici, sia sviluppando al massimo grado le economie solidali e cooperative, sia diminuendo il peso del salario nel reddito dei lavoratori (ad esempio fornendo beni e servizi gratuiti in cambio di periodico lavoro sociale gratuito, secondo un’intuizione di Bruno Morandi recentemente ripresa da Francesco Gesualdi), sia frenando l’impulso all’accumulazione dissennata di denaro attraverso forme di pianificazione democratica in un contesto internazionale di limitazione dei movimenti del capitale finanziario. Certo, tutto ciò può essere fatto solo per gradi, ed all’inizio apparirà solo come costruzione di un capitalismo di Stato democratico. Ma la lunga evoluzione della crisi attuale aprirà molti spiragli per soluzioni più avanzate, alle quali si dovrà rispondere non con generici ideali ma con precise idee sul funzionamento alternativo della società e dell’economia.
In ogni casi, le prospettive di un nuovo movimento socialista dipenderanno, come sempre, dalle dinamiche dei conflitti internazionali. Se in occidente assistiamo all’affermarsi di Stati capitalistici, nelle altre parti del mondo la socializzazione degli investimenti si presenta invece, in maniera crescente, come intervento di Stati relativamente autonomi nei confronti del capitalismo privato (con un grado di autonomia che va dal “massimo” della Cina, per dirla in breve, al “minimo” del Brasile), che dà vita a quella che è ormai riconosciuta come un’esperienza relativamente efficace di capitalismo di Stato, non priva in alcune importanti situazioni, di veri e propri tratti socialisti. Il latente conflitto fra occidente globalizzato e tendenze multipolari incarnate da Cina, Russia, India ed America latina, potrebbe quindi presentarsi non già come conflitto tra mercato e Stato, ma come scontro fra Stati capitalistici e capitalismo di Stato. In un simile scontro, un auspicabile nuovo movimento socialista mondiale non dovrà automaticamente schierarsi col “campo” del capitalismo di Stato. E questo sia perché tale campo non sarà omogeneo e chiaramente identificabile come lo era il vecchio campo socialista, sia perché il capitalismo di Stato non è identico al socialismo (pur potendo esserne una fase preparatoria) in quanto mantiene in vita il lavoro salariato e lo scopo della massima valorizzazione del capitale, e comporta sovente forme di Stato che ostacolano la piena democrazia e l’autorganizzazione dei lavoratori. Si tratterà piuttosto di utilizzare le contraddizioni trai diversi poli sia per favorire la conquista e la trasformazione del potere degli Stati nazionali da parte dei movimenti apertamente socialisti (passo inevitabile, pur se insufficiente e contraddittorio, di ogni seria rivoluzione popolare) sia per far sì che l’auspicabile multipolarismo si traduca, ripetiamolo, in una limitazione della libera circolazione del capitale finanziario, elemento decisivo di ogni strategia che voglia ridurre quell’impulso all’accumulazione per l’accumulazione che è il primo motore del capitalismo.
Per districarsi fra tutte le contraddizioni che il nuovo disordine globale già manifesta, ed ancor più manifesterà in futuro, il movimento socialista dovrà ricordare sempre che il suo scopo si riassume in due formule che non possono essere separate: riportare l’economia sotto il controllo della politica e riportare la politica sotto il controllo dei lavoratori e dei cittadini.
L’Italia si presta bene a chiarire il senso di entrambe queste formule: e delle numerose caratteristiche, degli obiettivi, dei contenuti propri di un possibile socialismo italiano noi tratteremo qui solo quelle, essenziali e preliminari, che riguardano proprio la struttura dell’economia, quella dello Stato, ed il rapporto tra Stato e società.
2.3 Inaugurare l’intervento pubblico.

La fondazione di una prospettiva socialista può avvenire solo nell’intreccio tra gli interessi dei lavoratori e le esigenze obiettive di un Paese. Se le esigenze obiettive dell’Italia si traducono, al suo esterno, con la costruzione di uno spazio mediterraneo, al suo interno esse coincidono con il superamento di un modello produttivo che, a causa della configurazione proprietaria delle nostre grandi imprese è incapace (tranne poche e pur notevoli eccezioni) di operare il necessario salto tecnologico e quindi predilige le produzioni tradizionali, la cementificazione, l’appalto lucrativo con la pubblica amministrazione. All’idea della massiccia infrastrutturazione della penisola attraverso grandi opere che la trasformino in canale di scorrimento per le merci altrui, va opposta quella della costruzione di una economia della conoscenza che si concretizzi, oltre che nello sviluppo della ricerca e nel trasferimento dei suoi risultati all’industria ed ai servizi, nella produzione di tecnologie ambientali e sociali orientate al risparmio energetico ed alla manutenzione del territorio. Un fronte produttivo, questo, che da un lato difende e valorizza l’irripetibile paesaggio italiano che, inteso come sedimentazione geografico-urbanistica di un’esperienza sociale ricca di avanzate forme di socializzazione, rappresenta forse la base più solida su cui ricostruire la difficile identità del Paese. E dall’altro orienta la nostra economia verso “merci” che in futuro avranno un ruolo crescente, soprattutto nei Paesi di più recente ed accelerato sviluppo, e potranno quindi trainare le nostre esportazioni ben più delle ormai tradizionali griffe e non meno della meccanica avanzata e degli altri settori in cui abbiamo ancora un ruolo.
Anche in questo caso l’interesse nazionale si intreccia con quello dei lavoratori. Sia perché nessun imprenditore è incentivato ad innovare se può approfittare del basso livello dei salari. E sia perché gli incrementi di produttività legati ad un’economia della conoscenza mal si conciliano con rapporti di classe gerarchici basati, come oggi, su ricatti, precarietà, salari miserevoli. Se non può e non vuole avvalersi pienamente dell’apporto dei lavoratori al processo produttivo, incentivandone la stabilità, la condivisione del sapere, la convinzione di partecipare ad un’opera socialmente rilevante, l’economia italiana è condannata a restare ferma e regredire: l’innovazione produttiva può scaturire, per noi, solo da una radicale innovazione nei rapporti sociali.
E di tale innovazione fa parte, come condicio sine qua non, il ritorno in mani pubbliche dei grandi oligopoli industriali e bancari. Il capitalismo privato italiano è infatti sfornito dei capitali necessari alla bisogna. E non si tratta qui della solita lamentela sul nanismo di un apparato produttivo affollato da troppe piccole imprese: è la stessa grande impresa a soffrire di una preoccupante sottocapitalizzazione, sono gli stessi grandi gruppi privati a non avere più, e da tempo, una funzione economicamente propulsiva (cosa a cui non si può ovviare ricorrendo ai capitali esteri che, in assenza di ogni politica industriale, intervengono quasi solo in maniera opportunistica). Non perché siano in miseria, intendiamoci, giacché, come ripeteva l’icastico ministro Rino Formica, “il convento è povero, ma i frati sono ricchi”: i patrimoni degli imprenditori, gli impieghi extra-industriali, gli investimenti finanziari sono ingenti, ma le dotazioni d’impresa no. Se la cronica debolezza delle imprese italiane ha sempre costituito un serio problema, questo problema è divenuto serissimo da quando, alla fine del secolo scorso, l’alleanza tra politici ed imprenditori che ha sempre guidato il Paese si è sbilanciata a favore di questi ultimi: le grandi privatizzazioni degli anni novanta hanno ceduto il patrimonio industriale e bancario di tutti i cittadini a privati che non hanno le capacità, l’intenzione e i soldi per gestirlo al meglio, che hanno comprato accollando i debiti dell’acquisto sulle stesse imprese acquisite, che di queste imprese detengono esigue quote azionarie, sufficienti a controllarle ma non a giustificare e finanziare investimenti ed innovazioni. Facciamolo dire ad un intellettuale non sospetto di nostalgie stataliste, Ernesto Galli della Loggia: le privatizzazioni sono state “autentiche svendite fatte sotto costo da governi compiacenti ai privati, i quali hanno trasformato dei monopoli pubblici in monopoli privati”. Monopoli privati che, come ha autorevolmente suggerito la Corte dei Conti, devono la loro decantata maggiore efficienza soprattutto ad aumenti ingiustificati di prezzi e tariffe. Se dunque si vuole ricostruire l’apparato produttivo del Paese, ed a maggior ragione se lo si vuole indirizzare verso nuovi orizzonti, è necessario ricorrere nuovamente al diretto intervento pubblico, così come è avvenuto in tutti i momenti cruciali della nostra storia, dal decollo postunitario alla gestione della crisi del 1929, dal miracolo postbellico alla gestione (ancora) della crisi degli anni ’70. Non si tratta di tornare alla Democrazia cristiana ed alle sue Partecipazioni statali: giacché quello non fu intervento pubblico, ma intervento statale gestito in forme privatistiche, e non fu affatto dirigismo, ma sovvenzione senza vera programmazione. Fu intervento “statale-privatistico”, e non pubblico, sia per la forma privatistica delle imprese di Stato, sia perché i grandi gruppi partecipati, e la stessa Banca centrale, fecero parte di una sorta di “amministrazione parallela”, di fatto svincolata da controlli parlamentari e beneficiata da rilevante autonomia. Un’autonomia che, se molto servì all’epoca di manager della levatura dei Beneduce, dei Menichella, dei Mattioli – che poterono inizialmente operare senza il diretto condizionamento delle diverse fazioni fasciste prima, e democristiane poi – si trasformò inevitabilmente, in seguito, nella spregiudicata irresponsabilità dei “boiardi di Stato” e dei loro alleati nelle segreterie di partito. E fu intervento non dirigista perché le intenzioni programmatorie dei migliori socialisti di allora (i Ruffolo, i Carabba…) naufragarono nella programmata (quella sì) proliferazione dei centri decisionali, e quindi delle pressioni lobbistiche. Ma non è affatto detto che lo Stato imprenditore debba necessariamente finire così: in passato vi furono esperienze assai diverse e, soprattutto, oggi la società possiede competenze e strumenti che le consentono di controllare ciò che prima sfuggiva ad ogni controllo. Oggi, all’inevitabile autonomia gestionale delle imprese pubbliche, può far da contraltare una rete di controlli istituzionali e civici che ne definisca periodicamente gli obiettivi e periodicamente ne verifichi l’attuazione mediante audizioni parlamentari, sorveglianza da parte di enti terzi, assemblee di lavoratori e consumatori, gruppi extraistituzionali di cittadini competenti. Insomma, oggi si può inaugurare l’intervento pubblico nell’economia del nostro Paese. E lo si deve fare, perché la natura della crisi mondiale e dell’arretratezza italiana impongono soluzioni di sistema che non possono limitarsi alla retorica della piccola e media impresa, o della stessa economia cooperativa e sociale, e passano necessariamente per una socializzazione dei grandi investimenti, impossibile senza un soggetto pubblico, senza il ritorno in mani pubbliche dei grandi gruppi industriali e bancari.
2.4 Accentrare per meglio decentrare. E per risparmiare.

Questo ritorno del pubblico, oltre a finanziarsi coi capitali delle grandi banche (mentre le piccole banche devono restare autonome, e così le esperienze di microcredito), non si configura necessariamente come aumento del debito pubblico, anzi. Non solo perché deve ovviamente svolgersi in un contesto di recupero di quell’evasione fiscale che è, ben più delle spese statali che sono in linea con quelle europee, la causa storica del sovraindebitamento. Ma anche e soprattutto perché comporta necessariamente, dopo anni di proliferazione incontrollata dei centri di decisione e quindi di spesa, una relativa ma marcata centralizzazione dell’attività di Stato in alcuni ambiti importanti. E quindi una significativa controriforma (perché no?) in senso centralistico, che però, semplificando gli interlocutori istituzionali e rendendo più chiare le loro scelte, favorisce, invece di indebolirlo, il controllo sociale sulle decisioni statuali.
Prima di tutto è necessario interrompere ed invertire la folle marcia del federalismo regionalistico che è, come da più parti si sostiene, causa di forti e disordinati aumenti della spesa pubblica, e ritornare piuttosto ad esperienze di decentramento amministrativo che esaltino il ruolo dei comuni, che ben più delle Regioni (la cui politica è molto meno monitorata dai media di quanto non lo sia la noiosissima politica “romana”) meritano l’appellativo di “istituzione di prossimità”.
Secondariamente, una seria di lotta all’evasione fiscale implica, al contrario di ciò che accade oggi, la centralizzazione dell’imposizione e del controllo, la continua connessione (ai vertici ed in periferia) dell’Agenzia per le entrate e della Guardia di Finanza, l’aumento degli organici e della capacità organizzativa dell’intero apparato, molto più importante dei vantati “supercomputer” per rilevare le effettive consistenze patrimoniali nascoste.
Inoltre, il nuovo intervento dello Stato comporta inevitabilmente la ripresa di una politica industriale che riduca le attuali erogazioni ai privati, oppure le vincoli, a differenza di quanto accade oggi, ad obiettivi chiaramente definiti e a criteri e sistemi univoci di verifica dei risultati. E che inoltre sappia intervenire nel delicato processo di trasferimento delle conoscenze dalla ricerca alla produzione. Tutto spinge verso una unificazione di soggetti e metodi di intervento, con una successiva ramificazione territoriale in funzione di monitoraggio delle esigenze e verifica dei risultati: un investimento relativamente scarso in personale e mezzi che consentirebbe però a saldo, con l’eliminazione di sovvenzioni inutili e la maggiore produttività delle erogazioni, una riduzione della spesa pubblica.
Infine, centralizzazione e successiva ramificazione sono essenziali anche per affrontare la gravissima questione degli appalti pubblici, dove si legano la degradazione dell’ amministrazione, il proliferare di imprese protette, la corruzione della politica, la perpetuazione di un modello produttivo arretrato e, nonostante che la concorrenza avvenga quasi solo sui costi, una sistematica e monumentale lievitazione delle spese ben oltre le previsioni iniziali. E’ una vera e propria emergenza nazionale che, dal lato dello Stato, trova la sua causa principale nella crescente debolezza, incapacità tecnica e quindi dipendenza dalle lobby delle strutture decentrate dell’amministrazione, nonché nella ormai avanzata degenerazione di una intera classe politica. Può essere affrontata, anche in questo caso, solo da un’agenzia nazionale territorialmente distribuita, dotata di personale qualificato e formato in maniera omogenea, che pur non intervenendo sul merito del singolo appalto, svolga funzione di assistenza tecnica all’amministrazione appaltante e di verifica degli adempimenti contrattuali. Anche qui, una spesa relativamente bassa a fronte di un notevole risparmio, e di un contributo al risanamento morale del Paese.
Tutti questi movimenti di centralizzazione non preludono affatto ad un socialismo fondato sul centralismo di Stato. Perché da noi, in Italia, il punto di partenza è quello dell’inesistenza o irrilevanza dello Stato centrale negli snodi più importanti sia dell’economia che dell’amministrazione (per non parlare delle politiche dell’assistenza, sempre più appannaggio di fondazioni bancarie, imprese private ancorché “sociali”, Chiesa), e quindi la centralizzazione non farebbe che riportare lo Stato a dimensioni accettabili. Inoltre perché la progressiva vanificazione dei diritti sociali è tutt’uno, in Italia, col diffondersi della retorica (e degli istituti) del federalismo e della sussidiarietà. E da ultimo perché la concentrazione dello Stato e del suo intervento è la condizione di possibilità dello sviluppo delle economie cooperative, delle reti territoriali d’impresa, delle autonomie comunali e di tutte quelle forme di amministrazione partecipata e di società creativa che altrimenti sarebbero schiacciate dalla concentrazione dei poteri privati, dall’interposizione delle macchine burocratiche regionali, dalle erogazioni alle imprese più forti e dall’eliminazione dell’autonomia della pubblica amministrazione. Non sono i “piccoli” a dover temere per una (parziale) centralizzazione statale. Sono piuttosto i “grandi”, perché questo processo è volto proprio a ridurre il potere delle classi dominanti italiane, ad iniziare, quindi, l’espropriazione degli espropriatori e la riappropriazione delle principali decisioni economiche da parte dei lavoratori e dei cittadini. Un processo di riaffermazione della necessità della presenza pubblica che si traduce anche nello sviluppo di nuova occupazione di qualità, aprendo le porte (e lo si può fare senza per questo gonfiare cilentelarmente la pubblica amministrazione) al lavoro di giovani ben formati e ben motivati dal fatto di poter partecipare da protagonisti al risanamento del Paese. Un tesoro di creatività oggi sperperato dal continuo arrangiarsi nel miserevole mercato della precarietà.
2.5 Un inciso sui beni comuni.

Oltre all’ovvia resistenza dei clan economico-politici che governano il Paese (e dell’ordine europeo che li tutela) le idee appena esposte incontrano un ostacolo meno ovvio, ma importante, in una parte nell’attuale cultura della sinistra. E non si parla qui della fideistica presa di partito della sinistra liberista a favore dell’impresa privata costi quel che costi. Si parla piuttosto del misto di indifferenza e diffidenza con cui la stessa sinistra “sociale” accoglie le proposte di intervento di Stato. Atteggiamento ben comprensibile, dato che l’intervento di Stato senza la trasformazione dello Stato stesso non potrebbe che tradursi nell’accrescimento del potere dei gruppi dominanti. Comprensibile ma datato, sia perché non pienamente consapevole della posta in gioco, sia perché stranamente poco fiducioso nelle attuali possibilità di controllo sociale delle attività statuali. Per fortuna, l’imporsi del tema dei beni comuni e la sua capacità di divenire efficace movimento di massa stanno mutando la scena, e portano la parte più consapevole di quel movimento ad estendere, anche se al prezzo di qualche imprecisione, la nozione del “comune” ben oltre i tradizionali confini, che includono soprattutto le risorse naturali, fino ad annoverarvi non solo, come è giusto, la conoscenza, ma anche il denaro, quando non le stesse grandi concentrazioni produttive. Ma a questo ampliamento di visuale fa da contraltare una persistente ambiguità che consiste nel presentare la gestione dei beni comuni come un superamento della classica opposizione tra pubblico e privato. Il che è vero, ma solo entri certi limiti. I beni comuni sono infatti quelli che, per le loro caratteristiche intrinseche, possono essere fruiti da ciascuno senza che questo ne diminuisca le possibilità di fruizione da parte degli altri, e non necessitano di essere circoscritti da una qualche forma di proprietà. La conoscenza è, appunto, l’esempio migliore di bene comune, perché se ne possono “consumare” i risultati senza diminuire, ed anzi incrementando, le possibilità di consumo altrui, e perché può essere gestita collettivamente senza dover essere tutelata dalla proprietà di Stato. Ma che dire del denaro, e che dire dei mezzi di produzione? Questi non sono beni ontologicamente comuni, se li consuma Tizio non li può consumare anche Caio, e non per caso sono vincolati da forme proprietarie. Possono certo divenire beni fruibili collettivamente, ma solo se si trasformano in beni pubblici, se divengono cioè, e grazie ad una scelta politica, proprietà di Stato. I sostenitori della centralità dei beni comuni obiettano che, in tal modo, lo Stato ed il ceto politico potrebbero agevolmente sequestrare a loro profitto i beni divenuti pubblici, e anche decidere, come è avvenuto, di privatizzarli di nuovo. L’obiezione è fondata, ma può essere superata non già inventandosi una natura comune di beni che comuni non sono, bensì proteggendo i beni pubblici dalle incursioni della politica e dei privati, come ha ipotizzato Luigi Ferrajoli, con norme giuridiche di rango costituzionale. Si tratta quindi di integrare la nozione di bene pubblico con quella di bene comune, di diffondere, dove è possibile, la gestione comune, di difendere costituzionalmente, dove è necessario, i beni pubblici, di farla finita, in tutti i casi, con un’idea di proprietà, pubblica o privata, che si presenti come dominio esclusivo di un soggetto su un oggetto. Ma non è possibile superare completamente la dicotomia pubblico/privato, né sul piano teorico, né sul piano fattuale. In particolare in Italia, dove la controrivoluzione capitalistica ha assunto più che altrove la veste dello smantellamento della proprietà pubblica, dare per superata questa forma di proprietà significherebbe eludere proprio il problema decisivo, e condurrebbe, paradossalmente, a definire come bene comune tutto, l’acqua, il sapere, il linguaggio, il paesaggio, il lavoro, la Costituzione, insomma proprio tutto tranne il capitale. Il superamento di una nozione statalista di socialismo in direzione di una crescita del controllo sociale non passa dunque dalla rimozione illusoria della dialettica pubblico/privato attraverso un uso estensivo del “comune”, ma, come vedremo subito, dall’aperta esplicitazione di un conflitto produttivo fra Stato ed autonomie sociali.
2.6 Corporativismo populista, società di mercato o socialismo pluralista?

Per radicare nuovamente nel nostro Paese una prospettiva socialista, è necessario che quest’ultima si fondi non solo sugli interessi immediati e storici dei lavoratori, ma anche su una comprensione della struttura profonda e dei meccanismi di regolazione della nostra società, al fine di trasformarla secondo la sua stessa natura e senza ricorrere, quindi, ad un dirigismo politicista che ha già dato pessime prove di sé. Per iniziare a comprendere la nostra società è opportuno superare le interpretazioni unidirezionali e riconoscere che essa presenta due volti contraddittori. Da un lato esiste e si rafforza un individualismo debole, continuamente alimentato e continuamente frustrato dall’estenuarsi della società dei consumi, che non riesce a trovare convincenti mediazioni sociali e può essere superato solo dalla formazione di nuove e forti alternative politiche che consentano agli individui di riaggregarsi attorno ad una particolare idea di Stato. Da questo punto di vista la riforma della politica consiste soprattutto nel ricondurre la politica stessa al suo carattere di scontro fra opposte visioni, scontro che può fornire identificazioni e senso a soggetti che altrimenti oscillano tra apatia e ribellismo inutile. D’altro canto, come nota Salvatore Biasco, dietro all’innegabile e crescente individualismo continuano a funzionare strutture relazionali di tipo associativo, diffuse con diversa densità in tutti i territori, nelle quali una gran parte di cittadini trova ancora forme di identificazione e risorse economiche e culturali che consentono una pur precaria gestione comune delle crescenti difficoltà quotidiane. Di fronte a queste strutture, le più importanti forze e culture politiche del Paese hanno elaborato modelli di relazione diversi, ed un modello ancor diverso dovrà essere inventato da una forza socialista.
Il primo modello è quello della destra, ossia della parte più debole e meno europeista del capitalismo italiano, la cui azione può essere definita come protezione corporativa delle aggregazioni imprenditoriali, micro-imprenditoriali e professionali contro il fisco, contro il mercato e contro il lavoro subalterno, che viene invece colpito da politiche di continua deregolamentazione in un contesto di divisione delle organizzazioni sindacali. In questo modello il rapporto tra Stato ed associazioni si fonda prima di tutto sulla selezione, che esclude dal novero degli interlocutori quelle politicamente non conformi, e poi sulla contrattazione lobbistica, che vede le associazioni come puri gruppi di interesse, le favorisce con l’eliminazione di ogni normativa rigida, e produce decisioni pubbliche disordinate volte solo ad avvantaggiare, soprattutto nel delicato settore degli appalti e delle concessioni, ora questo e ora quello dei gruppi clientelari. Tale corporativismo è incapace di produrre un consenso basato sullo sviluppo economico e civile, e può trovarlo solo accoppiandosi al più classico populismo, fondato sulla mobilitazione di una parte del popolo contro l’altra (ossia contro gli emarginati, gli assistiti, i lavoratori pubblici e gli immigrati), sul rifiuto delle tradizionali mediazioni istituzionali (i partiti, il parlamento, gli intellettuali e soprattutto il diritto), e sull’identificazione con un capo che vanta una presunta identità antropologica col popolo stesso. Proprio nella debolezza del corporativismo, sia detto per inciso, stanno le basi strutturali dello stile di Berlusconi, che lo inducono a fare quel che secondo Tacito faceva l’imperatore Otone, ossia a comportarsi serviliter pro dominatione, a mostrarsi, con ammiccamenti e strizzate d’occhio, servo del popolo per meglio dominarlo, e compensare con il consenso così ottenuto quella debolezza che gli viene dal non essere, pur così ricco, un esponente riconosciuto del capitalismo “che conta”. Laddove un Monti può al contrario esibire quella sobrietà e misura tanto gradite all’elettore medio di sinistra, perché non deve conquistarsi giorno per giorno quella forza che già gli deriva dall’essere un “militante storico” del capitalismo transnazionale. E proprio nella debolezza del corporativismo, inoltre, stanno le basi del richiamo ad uno Stato protettore, che esercita la sua funzione di tutela sia incarcerando i capri espiatori di turno sia elargendo denari e favori ai clienti, e delle intermittenti tirate antimercatiste ed antiglobaliste di un Tremonti, che peraltro non mancò, all’epoca della globalizzazione trionfante, di associarsi al coro degli ultraliberisti tuonando contro lo “Stato criminogeno”.
Opposto al corporativismo populista della destra è invece il mercatismo del “partito liberista”, ossia del centro-sinistra italiano. L’assunto di base di questo partito, rappresentante della frazione forte ed europeista del capitalismo nostrano, è che per superare gli evidenti limiti del corporativismo si debba liberalizzare sia il mercato del lavoro (pur se con qualche timida cautela) che quello dei capitali, e che le stesse strutture associative debbano essere trattate essenzialmente come imprese, che vanno considerate solo se rispettano i dettami della concorrenza, altrimenti vanno marginalizzate o sciolte. Il partito liberista è ben consapevole del fatto che il mercato non è una condizione naturale della società: pensa però che in ogni caso esso sia la condizione più efficiente e moderna, e che dunque vada costruito per via politica da uno Stato che si limiti a dettare le regole della concorrenza ed a farle rispettare, generalizzandole a tutte le attività sociali. E se questa riduzione dei nessi sociali a puri rapporti mercantili dovesse per avventura danneggiare i lavoratori diminuendone i redditi, ciò che costoro perdono come lavoratori verrebbe, in questa ipotesi, inevitabilmente compensato da ciò che guadagnano come consumatori ed utenti. Cosa che, puntualmente, non è avvenuta. Costruito nell’ammirazione inconsulta per l’esperienza statunitense (che peraltro non è mai stata liberista come vantava d’essere, essendo sostenuta sia dall’intervento diretto dello Stato che da una politica economica generosamente espansiva – e che in ogni caso è spettacolarmente fallita), questo modello mercatista è insostenibile sia in via di principio sia in via di fatto. In via di principio perché l’idea dello Stato come regolatore neutrale ed esterno è vanificata dalle concentrazioni oligopolistiche che la concorrenza inevitabilmente genera, e che giungono altrettanto inevitabilmente a “catturare il regolatore” rendendo così impossibile quella stessa libera competizione che le ha originate. In via di fatto, perché affidare alle imprese italiane il compito di competere liberamente, ed allo Stato italiano il compito di regolare la competizione, è come affidare ad un esercito il compito di portare la pace (ossimoro a cui, peraltro, il partito liberista è particolarmente affezionato). Arroccate a difesa, legate da stretti rapporti reciproci, votate alla conservazione le prime; debole e permeabile agli interessi privati il secondo (e reso ancor più debole e permeabile dalle riforme costituzionali volute dallo stesso partito liberista), dal rapporto “regolatorio” fra imprese e Stato non può nascere che una liberalizzazione intermittente e strabica, che si esercita soprattutto nei confronti del lavoro e delle piccole imprese, e lascia intatte tutte le concentrazioni in campo industriale, bancario ed assicurativo. Concentrazioni che, come insegna la parte razionale della teoria economica, è impossibile liberalizzare e che quindi converrebbe piuttosto sottoporre a controllo pubblico, anche per limitarne il potere ed aprire, dove possibile e utile, veri spazi di mercato.
Un socialismo adeguato al Paese non può essere né una sintesi né una via di mezzo tra corporativismo e società di mercato, e deve piuttosto inventare una via completamente nuova, che valorizzi i tratti positivi del diffuso associazionismo italiano, limitandone le caratteristiche difensive e particolaristiche. Prima di tutto si deve uscire dall’alternativa tra Stato protettore (e clientelare) e Stato regolatore, ricostruendo un Stato che sappia fornire un indirizzo unitario e solidale al Paese, prendendo le mosse dagli interessi del lavoro e mediandoli con quelli delle altre classi. Uno Stato, quindi, che torni ad essere attore diretto dello sviluppo economico e dell’erogazione di servizi, fornendo così il quadro universalistico in cui possono identificarsi i singoli cittadini e liberamente muoversi le associazioni dei lavoratori e le altre aggregazioni sociali. Questo Stato rinnovato deve però concepire la propria azione come dialogo costante con le associazioni, e queste devono essere viste non semplicemente come gruppi di interesse o come imprese, ma come centri di formazione di conoscenze specifiche, come momenti di espressione di un sapere sociale che non può essere acquisito direttamente dallo Stato, e deve piuttosto essere perfezionato e reso coerente con gli indirizzi generali dalla dialettica tra momento pubblico e momento associativo privato. Insomma: non tutto quello che è stato sperimentato con la governance è da buttare. La governance ha pagato il fatto di essere nata come momento di dissoluzione dello Stato e di sostituzione del diritto con la contrattazione tra gli interessi privati prevalenti. In un contesto che veda, al contrario, il rafforzamento del soggetto pubblico e l’indebolimento dei soggetti privati predominanti (e quindi una tendenziale parificazione della forza delle associazioni), la consultazione permanente dei molteplici attori della società e dell’economia diviene un modo per giungere ad una programmazione condivisa degli indirizzi generali del Paese. Ed anzi, più il Paese sceglie di intraprendere la via socialista, più i meccanismi di mercato, o comunque di competizione fra imprese, cedono di fronte a meccanismi di decisione politica, e più è necessario, per conoscere i bisogni sociali, ricorrere ad altre fonti di informazione, diverse dai prezzi. Più diviene essenziale, quindi, il ricorso al conflitto pluralistico come modo di conoscenza della società.
Il vecchio socialismo era organicista, presupponeva l’armonia sociale, e temeva il conflitto più di ogni altra cosa, favorendo così la proliferazione di conflitti che erano tanto più distruttivi quanto più occulti e che hanno avuto il loro peso nel fallimento di quel modello, e nella formazione dei gruppi di interesse che alla fine lo hanno affossato. Il socialismo pluralista può invece presentarsi come forma di regolazione più adeguata sia alla modernità in generale, sia alla composita specificità associativa della società italiana, altrimenti imbastardita dal corporativismo o dissolta dal mercatismo.
2.7 Stato autorevole e società indipendente.

Si tratta insomma di concepire la costruzione del socialismo, ma anche i primi passi di un rinnovato sviluppo economico e civile del Paese, come effetto della dialettica tra uno Stato autorevole ed una società indipendente. Autorevole è quello Stato che riprende nelle proprie mani la gestione diretta delle più importanti risorse economiche e delle più importanti prestazioni sociali, e che lo fa con uno stile amministrativo che è basato sulla consultazione delle forze sociali nella fase di istruzione e di verifica delle decisioni, e comporta una costante attitudine dialogica del lavoro pubblico nonché forme di coproduzione delle politiche nella cooperazione fra Stato e cittadini. Indipendente è quella società che costruisce forme associative capaci di proporre, anche conflittualmente, esigenze, conoscenze e obiettivi al soggetto pubblico, ma si mantiene costantemente a distanza da esso, evitando, tranne che in casi ben determinati e codificati, di farsi coinvolgere nella diretta gestione o cogestione delle politiche pubbliche, fonte di un illusorio potere e di una materiale sottomissione. La dialettica tra Stato autorevole e società indipendente è dunque cosa assai diversa dalla commistione, dall’indistinzione dei ruoli e dalla collusione che hanno sempre compromesso, in Italia, la funzione di direzione dello Stato da un lato, e la funzione di proposta e controllo della società dall’altro, giungendo a quell’oscuro impasto tra pubblico e privato (in cui è impigliato anche il “privato sociale”) che è sia causa di impossibilità a programmare, sia fonte di endemica corruzione. In tale dialettica possono risolversi, ripetiamolo, anche i legittimi dubbi di chi teme che una rinnovata presenza dello Stato possa ostacolare le tendenze all’autorganizzazione sociale, alla democrazia partecipata, alla sperimentazione di economie alternative che caratterizzano gran parte del Paese e impegnano gran parte della sinistra “sociale”. In realtà la presenza di uno Stato autorevole, soprattutto nella funzione, democraticamente controllata, di investimento e programmazione, è oggi la condizione di possibilità del fiorire delle autonome invenzioni sociali che altrimenti, in situazioni di crescente carenza di risorse, sarebbero condannate ad esistenza sporadica, residuale e difensiva. Non esiste autonomia sociale se le basi materiali della società vengono rarefatte dalla crisi, non esiste economia alternativa se le grandi risorse economiche non vengono sottratte alle classi dominanti e se non vengono gestite (ed anche redistribuite in periferia) secondo un piano nazionale, non esiste democrazia partecipata se l’organo delle decisioni pubbliche è frammentato e inefficace. Se un grande progetto pubblico, costruito nel dialogo con la società, non interviene ad incrinare il potere delle classi dominanti, la pretesa autonomia sociale si ribalta immediatamente, come già accade, in accresciuta dipendenza dal capitale e dallo Stato clientelare. D’altro canto, senza la presenza di una società autonomamente organizzata, tutelata ma non direttamente sovvenzionata dallo Stato, non esiste nessun luogo a partire dal quale sia possibile controllare, integrare, contrastare l’azione dello Stato quando la sua autorevolezza si trasformi in inefficiente autoritarismo.
Alle generazioni politiche che hanno dato vita alle importanti esperienze di autorganizzazione sociale che hanno arricchito il Paese dal 1968 ad oggi, spetta ormai il duplice compito di presidiare la società e, nello stesso tempo, di costruire i gruppi di governo ed il ceto amministrativo di uno Stato italiano inedito per conformazione ed indirizzi, tendenzialmente orientato ad un socialismo pluralista. Fuggire da questo compito in nome dell’autosufficienza della società significa oggi lasciare campo libero alla riorganizzazione reazionaria dell’economia e dello Stato.
2.8 Un partito capace di pensare.

Questi sono i tratti fondamentali di un socialismo, o meglio di un processo socialista, per il nostro Paese, il quadro entro cui convogliare e rendere coerenti le centinaia di proposte e di esperienze elaborate negli ultimi decenni dai movimenti di resistenza sociale. Per alcuni sarà troppo, per altri troppo poco. Troppo, perché si pensa che il socialismo rischia di far rima con lo statalismo: ma di ciò abbiamo già discusso. Oppure perché le proposte qui avanzate appaiono incompatibili con gli attuali rapporti di forza, che suggerirebbero ipotesi più graduali e moderate: ma non si comprende nulla dell’epoca attuale se non la si vede come un’epoca di instabilità, di repentini mutamenti, di improvvise aperture; un’epoca che può essere affrontata positivamente solo da chi possiede un’idea forte e precisa del proprio scopo, per quanto remoto questo possa apparire, e può quindi affrontare il continuo mutamento degli equilibri sociali e delle congiunture politiche sfruttandolo a proprio vantaggio. Troppo poco perché troppo simile al capitalismo di Stato e quindi troppo distante dalla democrazia sociale integrale o da un comunismo pensato come socializzazione generale della produzione e della vita stessa, senza residui, senza forme istituzionalizzate di mediazione e senza Stato. Ma, almeno per noi, il comunismo è il movimento politico che organizza i lavoratori e i cittadini attorno ad un’idea di rivoluzione egualitaria, e per ciò stesso non si acquieta in nessuna forma sociale data, mentre il socialismo è una forma di società che realizza concretamente l’idea comunista nella sola maniera storicamente possibile, ossia come compresenza di diversi modi di produzione e diversi modi della statualità e della cooperazione. Senza un movimento comunista, comunque denominato, nessun socialismo è realizzabile, né il socialismo può evolvere e proteggersi dalle proprie degenerazioni. E d’altro canto senza concrete realizzazioni socialiste il movimento comunista perde efficacia, e quindi credibilità e diffusione. Ma richiamarsi al socialismo non significa moderare il comunismo: significa piuttosto renderlo più radicale perché più efficace. Il progetto iniziale di un socialismo italiano prevede “solo” l’espropriazione di coloro che hanno espropriato i cittadini delle risorse pubbliche, “solo” il riconoscimento della dignità del lavoro e del suo ruolo essenziale nella produzione e nell’innovazione, “solo” la trasformazione del rapporto collusivo fra Stato e società in dialettica fra Stato autorevole e società indipendente. Ciascuno misuri se si tratta di troppo o di troppo poco. A noi questo sembra l’abbozzo di un progetto capace di suscitare le forze sociali e politiche necessarie alla sua attuazione.
Non c’è spazio, qui, per parlare approfonditamente di queste forze. Basti dire che le istituzioni della società indipendente, soprattutto se unite in una rete di Consigli di cittadinanza capaci di fronteggiare le politiche delle imprese e dello Stato, di stabilire relazioni mutualistiche e paritarie fra gli associati e di aumentarne la conoscenza e la capacità conflittuale, sono la base sociale elementare della trasformazione, una base che conferisce tratti socialisti anche ad un’iniziale esperienza di capitalismo di Stato democratico. Ma l’autorganizzazione sociale non basta. E’ necessario un organismo capace di pensare in maniera organizzata e continuativa i problemi fondamentali del Paese, la sua collocazione internazionale, la sua matrice produttiva e la sua dialettica sociale, e di concretizzare questo pensiero in una politica coerente volta all’unificazione dei lavoratori ed alla conquista ed alla trasformazione dello Stato. Ed ancor più è necessario questo organismo quando, come ora, i lavoratori sono frammentati ed isolati, e lo Stato non si limita alle sue espressioni istituzionali e territoriali, ma si articola in strutture pubbliche e private, nazionali e no. Questa istituzione è il partito politico, e la fine del partito, o, il che è lo stesso, la sua trasformazione in un ricettacolo di lobby e di carrieristi, è forse il successo principale della controrivoluzione italiana. Si è suggerito, infatti, che senza il partito i lavoratori ed i cittadini sono più liberi (ed il suggerimento è stato accolto, purtroppo, anche da una parte della sinistra “sociale”), ma non è affatto così: senza un’istituzione popolare capace di elaborare un autonomo discorso pubblico sul Paese, questo discorso viene elaborato da altre istituzioni che rispondono ad altri interessi. La Banca d’Italia, la Chiesa, il potere esecutivo, Confindustria e i media ufficiali hanno potuto in questi anni, ridotti i partiti a macchine elettorali e clientelari, proporre analisi e soluzioni che sono divenute, senza vero contrasto, senso comune. Ciascuno di essi è stato, di volta in volta, il centro dirigente del “partito” delle classi dominanti, ed è riuscito a conquistare anche i cuori e le menti delle classi subalterne. E’ ormai tempo di spezzare questo oligopolio. Anche perché, finito il partito politico, nessun’altra istituzione ha potuto o voluto porre la questione nazionale come questione decisiva, e la vocazione universalistica della Chiesa si è sposata alla scelta globalista della Banca d’Italia nel cancellare, con un solo gesto, le ipotesi di autonomia di classe e quelle di autonomia nazionale.
Certo, costruire un partito tanto forte da essere capace di pensare è impresa difficile, anche perché il discredito da cui è colpita, da noi, l’idea stessa di partito, non si deve solo alle attuali indecorose manifestazioni di pochezza culturale e di endemica corruzione, ma anche alla forma dei partiti della Prima repubblica, trincerati nello Stato per paura di una società che non riuscivano più ad interpretare, incapaci, nel caso del Partito comunista, di riconoscere il valore culturale e politico dell’autonomia con cui ormai si esprimevano, anche disordinatamente, i soggetti sociali. Ma oggi, anche grazie all’esperienza (insufficiente, ma non trascurabile) del movimento altermondialista, è possibile pensare ad un partito che sappia finalmente articolarsi con la pluralità delle forme di espressione della società italiana, e che risolva il problema storico dell’unificazione delle classi subalterne e dei movimenti di cittadinanza nel contesto di una società che mostra i due volti, poco sopra ricordati, dell’afasia individualistica e della polifonia associativa. Mediare fra queste due caratteristiche è possibile solo ad un soggetto che sappia conquistare, con la nettezza e la forza esplicativa del suo discorso, milioni di individui isolati, ma lo faccia non identificandosi più, o non necessariamente, con una singola organizzazione, presunta titolare della “vera politica”, e risulti piuttosto dal rapporto tra differenti “istituzioni di movimento”, associazioni, sindacati, media, cooperative, organismi mutualistici ed anche singoli partiti tradizionali, unite da un programma e da forme larghe di organizzazione. Un partito di tal fatta può, grazie alla sua molteplicità, consentire molto più del partito tradizionale la conoscenza della società italiana e la diffusione capillare della propria proposta. Ma proprio a causa di tale molteplicità ha bisogno di un forte elemento di coesione, che può essere assicurato solo dalla formazione di un gruppo dirigente trasversale, presente in tutte le istituzioni di movimento, unito da una comune interpretazione della realtà italiana e mondiale, da un comune linguaggio e dalla volontà di far vincere le proprie idee. La formazione di questo gruppo dirigente è il compito del momento. Diverse ipotesi dovranno confrontarsi, diverse soluzioni dovranno essere proposte, ma tutte dovranno essere mosse dall’ambizione di elaborare un pensiero autonomo sulle prospettive del Paese.
Il presente scritto è un contributo a questo confronto, e la principale speranza del suo autore è quella di essere smentito da ipotesi alternative che, con maggior dottrina e più fine comprensione della realtà italiana, sappiano rispondere diversamente e meglio agli stessi problemi qui affrontati, senza eluderli con i sotterfugi verbali a cui ci siamo purtroppo abituati.

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