Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

mercoledì 2 ottobre 2013

La modernità è inceppata

di Rino Genovese - sinistrainrete -

Bisogna partire dalla constatazione che ciò cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è un mutamento paragonabile soltanto a quella che, a suo tempo, fu la rivoluzione industriale, che cambiò radicalmente le forme di vita in Occidente. Il neoliberismo è molto più di una dottrina economica: è una cultura in senso antropologico, i cui momenti plasmanti sono l’iperconsumo come mitologia estetizzata e la finanziarizzazione dell’economia. L’estetizzazione delle merci, il loro potere di fascinazione, la loro fantasmagoria “sensibilmente sovrasensibile”, sono tutti fenomeni ampiamente noti, e non da ieri. A introdurre una differenza qualitativa, è stata la diffusione massiccia dei media elettrici ed elettronici. Risultato: l’intera comunicazione sociale è oggi sottoposta, in particolare dalla parte dei riceventi o dei fruitori, alla prevalenza di un codice estetico elementare, sintetizzabile nella secca alternativa mi piace / non mi piace, che esclude tendenzialmente ogni argomento di ragionevole giustificazione delle scelte in qualsiasi campo, aprendo un vasto spazio politico alle semplificazioni leaderistiche e populistiche basate sull’immediato sì/no di un plebiscitarismo tradotto in sondaggi di opinione.

L’ulteriore aspetto quasi del tutto inedito offerto dalla combinazione della finanza con il computer, è quello del gioco d’azzardo. Certo, nelle operazioni finanziarie c’è sempre stato un rischio, accompagnato da un sommario e fantastico calcolo delle probabilità che conferiva loro una tensione da tavolo verde. Ma, con le nuove tecnologie, l’ebbrezza del gioco “in tempo reale” è diventata l’alfa e l’omega della vita di uno speculatore. Questo non cancella la possibilità che, come in tutti i giochi, dietro l’angolo facciano capolino la delusione e l’inganno, e che soltanto forze economiche cospicue possano permettersi di vincere e perdere senza tremare. Però il capitalismo contemporaneo, privilegiando l’estetizzazione e il gioco in borsa, ha reintegrato i mercati nella cultura, nel simbolico, camuffandone, anche grazie alla magica razionalità dell’azzardo, la spaventosa anarchia – addomesticandone il brivido ma, al tempo stesso, lasciando i suoi “spiriti animali” allo stato brado –, e potendo così permettersi di non fornire alcun preciso fondamento normativo alle proprie istituzioni. Perché, se “la vita è un ottovolante”, stando a quanto dichiarava già un personaggio di Frank Wedekind, non c’è tempo per le pretese di validità e le richieste di giustificazione. Il capitalismo, in mancanza di alternative, si autogiustifica. C’è perché c’è.

Oggi, a distanza di quarant’anni, viene da sorridere con una dose di affettuosa nostalgia rileggendo i testi di James O’ Connor, Claus Offe, Jürgen Habermas circa il “capitalismo maturo” che, grazie all’intervento dello Stato nell’economia, avrebbe superato le sue crisi cicliche esponendosi, piuttosto, alle crisi di legittimazione conseguenti a un sovraccarico di inputs nel sistema politico[1]. Negli ultimi tempi è accaduto giusto il contrario: si è ripresentata una classica crisi da sovrapproduzione, innescata in maniera non canonica dall’esplosione di una bolla finanziaria riverberatasi in una crisi dei debiti pubblici statali; e però di una crisi di legittimazione neppure l’ombra. Il capitalismo non è diventato “maturo”, anzi, mentre la modernità nel suo complesso si faceva sempre più tardomoderna, il capitalismo è sembrato ringiovanire: pazzo e frenetico, piratesco e corsaro quasi come ai tempi della conquista delle Americhe. Suo obiettivo dichiarato: emanciparsi dallo Stato – ma fino a un certo punto. Poco Stato, sempre di meno – ma quando serve serve… Come il figliuol prodigo che dopo avere sperperato ritorna all’ovile, così il capitalismo ha richiesto il paterno intervento statale per salvare le banche. È questo, come si sa, che ha innescato la crisi dei debiti pubblici a catena, non certo quegli investimenti che – denunciati da taluni come improduttivi – già con la semplice assistenza sociale o la costruzione delle infrastrutture avrebbero condotto lo Stato – secondo alcuni – nell’abisso.

Al tempo stesso il capitalismo, senza falsi pudori, riattiva l’intero suo passato, decretando definitivamente che la modernità è inceppata. Ci fu un’epoca in cui la giornata lavorativa era di dieci ore; oggi in Cina è magari pure di undici, mentre, nell’enorme migrazione interna dalle campagne alle città, un’urbanizzazione rapidissima, con centri abitativi costruiti in pochi mesi, sconvolge le vecchie forme di vita del contadino maoista. Con i processi di delocalizzazione industriale, gli smartphone progettati in California sono assemblati in Cina sotto la semischiavitù organizzata da un’élite comunista.

Sono i prodigi di un passato che non passa, pronto a essere ripreso all’occorrenza. Ne sappiamo qualcosa in Europa, specialmente in quella del Sud, dove, nonostante il consumismo sfavillante, si assiste da alcuni anni a una contrazione dei consumi, perfino di quelli alimentari. Non dello champagne, però, le cui vendite sono in aumento anche grazie alle esportazioni verso la Russia e la Cina dei nuovi ricchi. L’odierno iperconsumo contempla pur sempre il lusso come consumo esclusivo di pochi.

A pensarci bene, è proprio la cultura tardomoderna nel suo complesso a trattenere tutto in sé, incapace di superare qualsiasi “residuo” del passato, che perciò non può essere affatto detto un residuo. Di questo, in Italia, possiamo dire di saperne ben più di qualcosa. Dopo Tangentopoli una pulsione legalitaria (con tratti vistosamente qualunquistici, da Di Pietro a Grillo in perfetta continuità con Guglielmo Giannini) non soltanto si è combinata benissimo – se osservata da un punto di vista sistemico generale – con l’ondata leghista-berlusconiana, ma ha anche tolto pressoché ogni speranza alla prospettiva di legare insieme, in un programma di sinistra, il contrasto alla criminalità organizzata e il conflitto sociale. Per un compagno come Girolamo Li Causi (se ci si ricorda un po’ della sua storia) era del tutto palese che la lotta alla mafia dovesse essere sostenuta dalle lotte per la trasformazione del Mezzogiorno, per l’affermazione di un diverso modello di sviluppo nell’intero paese. Come si potrebbe combattere oggi a fondo la camorra, che prospera sul traffico dei rifiuti tossici, senza una politica ecologica degna del nome? Senza cercare di prosciugare l’acqua in cui nuotano i camorristi, che è quella della mancanza di lavoro e di futuro per larga parte di una popolazione soprattutto giovanile? Nessi del genere sono scomparsi completamente dall’agenda politica, e di certo non rientrano nel registro qualunquistico-populistico che assume, a seconda dei casi, un volto iperlegalitario o uno di polemica contro la magistratura. Sempre però all’interno dei poteri consolidati, legali o illegali che siano, mai nell’ottica di poteri emergenti o da prefigurare.

Si tocca qui un nodo teorico centrale. Crisi di legittimazione non ce ne saranno, perché il capitalismo ha vanificato le pretese di validità normativa con la sua sregolatezza sublimata in cultura, e presentandosi come una formazione economico-sociale priva di alternative. Si deve in effetti ammettere che il capitalismo non è superabile in quanto non esiste una storia “a fasi” in cui, come in una staffetta, una va più avanti dell’altra (il che non vuol dire che sia eterno, perché una catastrofe potrebbe distruggerlo). Del resto è lo stesso sviluppo tecnico ed economico, che non significa di per sé progresso sociale, a riproporre di continuo questa insuperabilità, modificando a ogni successiva svolta i termini stessi di un’improbabile alternativa di sistema. Tuttavia il capitalismo può essere messo in questione a partire dai bisogni e dai desideri che alimenta e non soddisfa pienamente: a partire da un’idea di diffusione del benessere che può essere criticata e orientata in un modo piuttosto che in un altro, per esempio verso i consumi collettivi anziché verso quelli privati.

Torniamo al caso italiano. La storia dei nostri ultimi decenni potrebbe essere letta nel senso di una deviazione brusca, a cominciare dai primi anni ottanta, da una crisi che era potuta apparire di legittimazione (e non era) verso uno sbocco in un legalitarismo vuoto e fine a se stesso, in cui è stata risucchiata la maggior parte della sinistra. Ciò che è mancato, da un certo punto in poi, è la messa in questione di un determinato modello di sviluppo. Mi riferisco ai movimenti di contestazione, al potenziale di rivolta, allo spirito di ribellione che sono venuti meno nelle loro dimensioni di massa (molto indicativo il fatto che, in Italia, nemmeno la recente estesa protesta degli indignados abbia attecchito). Ma mi riferisco anche al fatto che, dopo Tangentopoli, un sistema politico traumatizzato, e ossessivamente fissato al trauma, ha vivacchiato tra soprassalti e aggiustamenti abortiti (si pensi all’annoso discorrere, che dura tuttora, intorno alle riforme istituzionali) senza riuscire non dico a mettere in cantiere, ma neppure lontanamente a immaginare, una strategia di riforme sociali e – horribile dictu – di ridistribuzione del reddito.

In una concezione socialdemocratica, a differenza di una liberale o liberaldemocratica, lo Stato non è un istituto neutrale al di sopra dei conflitti ma un terreno di lotta. Pur restando immutati i marxiani rapporti di produzione, è possibile, meglio se sotto la spinta di movimenti sociali di opposizione, porre in questione le opzioni che il capitalismo mette in campo in maniera apparentemente obiettiva. Per esempio, si possono indurre i profitti (ed è appunto ciò che è mancato in Italia nel non breve periodo delle “vacche grasse”) a reinvestire nella ricerca e nell’innovazione tecnologica invece d’immobilizzarsi nella pura accumulazione e nella rendita. Altro esempio tipicamente italiano: si può andare verso un welfare in larga misura delegato alle famiglie, per l’ottanta per cento proprietarie di abitazioni, in cui i figli si prendono cura degli anziani, e questi ne sostengono a loro volta la disoccupazione e la precarietà in un complicato equilibrio dell’infelicità reciproca; oppure si può prevedere un welfare con case di cura per la tarda età bene attrezzate, o con l’assistenza a domicilio in alloggi di proprietà pubblica a canoni di affitto calmierati.

Un’obiezione che si sente ripetere spesso è che gli Stati nazionali avrebbero perso le loro prerogative e i poteri d’intervento, e sarebbero in declino. Ciò è vero in parte. Molte decisioni sono ancora politiche e hanno a che fare con la guida degli Stati, cioè con i governi. Non era scontato sostenere le banche nel momento del possibile tracollo e non (anche o piuttosto) riorganizzare e potenziare il sistema sanitario, oppure evitare il deperimento dell’economia reale mediante un piano d’interventi per la salvaguardia dell’ambiente.

Bisognerebbe infine avere l’apertura mentale e la tensione utopica concreta capace d’immaginare entità statali sovranazionali, come sarebbe un’Europa unita. Nelle condizioni attuali del mondo solo grandi Stati federali o confederati possono sperare di controllare i flussi finanziari e di sottoporli a imposizione fiscale – se guidati da forze di sinistra, e se formati attraverso un processo di partecipazione democratica effettiva. Non sarebbe nemmeno un’ipotesi soltanto riformista, ma qualcosa che potrebbe avere in sé un germe quasi rivoluzionario. Movimenti sociali intelligenti, pur nella loro indiscutibile autonomia dalla politica dei partiti, avrebbero tutto l’interesse a farla propria come terreno di scontro – si sarebbe detto una volta – più avanzato.

[In uscita in ottobre sul n. 5 della rivista “Outlet”]


[1] Mi riferisco a J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977; C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977; J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo [titolo originale: Problemi di legittimazione nel capitalismo maturo], Laterza, Roma-Bari 1975.

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