Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 25 aprile 2014

Il Jobs Act nella trappola della flessibilità

di Giuseppe Travaglini

L’eccesso di flessibilità del lavoro ha distrutto negli ultimi anni occupazione e produzione precarizzando non solo i lavoratori e la domanda, ma anche le imprese

Mi dice mio figlio che dovrei essere più flessibile con lui. Sostiene mia moglie, invece, che lo sono troppo. Certo, lei parla da genitore. Ma, mi domando: non sarebbe anche un ottimo ministro del lavoro?
E sì, perché se dovessi fare lo stesso ragionamento sullo sviluppo economico italiano dell’ultimo ventennio, e le trasformazioni del mercato del lavoro dovrei arrivare alla sua stessa conclusione: il troppo storpia, e l’eccesso di flessibilità del lavoro ha finito per distruggere l’occupazione medesima e la produzione; ha precarizzato non solo i lavoratori e la domanda, ma anche le imprese; ha annientato la capacità del Paese di investire, creare valore aggiunto, progresso tecnologico e reddito; ha prosciugato la base su cui poggiano le colonne dello stato sociale e del welfare.
Per essere concreto, dovrei riflettere sulla visione minimalista delle attuali politiche economiche, fiscali e monetarie, sulle discutibili privatizzazioni, sulla politica industriale (evocata e mai realizzata) e su quella del lavoro, ossia su ciò che denominiamo il “modello di sviluppo”. E la domanda - come si dice - sorge spontanea: ma in Italia negli ultimi due decenni abbiamo avuto un modello di sviluppo, o gli interventi sono stati solo estemporanei? E lo abbiamo oggi? La politica - quella con la p maiuscola - è stata capace di elaborare schemi interpretativi, che ponessero al centro della riflessione economica, e quindi come azioni di governo, il benessere della collettività, la crescita sostenibile e, dunque, il lavoro come manifestazione unica e particolare dell’uomo, e della sua dignità e realizzazione, anziché come scarno “input” produttivo? Amareggiato concludo, ovviamente, che non è così, e che la confusione regna sovrana.
Il dibattito politico di questi giorni non ci solleva, difatti, dallo sconforto. Come è possibile continuare a sostenere, nelle parole del Governo, che il Jobs Act risolverà in un sol colpo il problema dell’occupazione e della produttività, rilanciando la crescita?
La trovo una affermazione francamente curiosa perché i due fattori – produttività del lavoro e occupazione - sono legati tra loro, ma ahimè, in una relazione complessa che non sempre procede nella direzione auspicata. Per essere chiari, la produttività e l’occupazione determinano il Pil di un paese. E la produttività dipende dagli investimenti, dal progresso tecnologico, e anche dalla distribuzione del reddito. Perciò, le differenze nel Pil di diversi paesi – pensiamo a quelli dell’eurozona - dipendono dalle diverse composizioni di questi fattori. Per esempio, a parità di occupazione, due paesi potrebbero avere Pil diversi determinati dalla diversa produttività del lavoro.
Allora, guardo ai dati dell’economia italiana con attenzione – così come abbiamo fatto con V. Comito e N. Paci nel libro Un paese in bilico. L’Italia tra crisi del lavoro e vincoli dell’euro, (Ediesse, 2014) – ed emerge che in Italia la flessibilità del lavoro è aumentata dalla metà degli anni novanta per essere oramai da un decennio (secondo i dati Ocse sintetizzati nell’indice Epl, Employment protection legislation) la più alta tra i paesi europei continentali, e di gran lunga superiore a quella di Germania e Francia. Eppure, nel nostro paese la produttività del lavoro si è ridotta drammaticamente negli ultimi due decenni fino ad essere la più bassa tra i paesi economicamente avanzati; e l’occupazione, cresciuta negli anni Novanta, e fino alla fine del 2007, con i contratti atipici a seguito della deregolamentazione, è tornata prepotentemente a diminuire con la crisi, raggiungendo oramai livelli insostenibili, e accompagnandosi alla regressione continua della produttività.
Mi domando: cosa ha determinato questo declino strutturale? I dati raccontano una storia precisa. Tra il 1980 ed il 2013 in Italia il tasso di accumulazione del capitale si è ridotto, e con esso è diminuito il tasso di crescita dell’intensità di capitale (il rapporto tra capitale e lavoro) la cui media è passata dal 2.1% del periodo 1980-1993 all’0.92% del 1994-2013. I dati mostrano inoltre che a questa contrazione si è associata la rilevante flessione della produttività del lavoro la cui media è passata dal 1.65% del periodo 1980-1993 allo 0.31% del periodo 1995-2013. Anche l’indice del progresso tecnologico ha sofferto un drammatico calo e ha rallentato il suo ritmo di crescita, passando dallo 0.88 % del periodo 1980-1993 all’0.03% (praticamente il nulla!) del 1994-2013. Insomma, un netto declino, con un break strutturale tra il 1992 ed il 1993 (gli anni dell’avvio della moderazione salariale e del doppio livello di contrattazione) che travolge definitivamente il ritmo tendenziale di crescita della produttività del lavoro e delle sue componenti. Dunque, una storia in contrasto con le aspettative neoliberiste, con la flessibilità del lavoro e il contenimento salariale che non hanno risolto il problema della bassa produttività in Italia, ma l’hanno aggravato così che il ritmo di crescita continua a decelerare, segnando arretramenti sempre più marcati. E tutto in due decenni.
A questo punto, però, mi viene un dubbio. All’origine di questa eterogenesi dei fini – una riforma del mercato del lavoro che invece di favorire lo sviluppo ha penalizzato l’accumulazione e la produttività – c’è un “errore” tanto clamoroso quanto grave da risultare incomprensibile: la scelta di (contro)riformare il solo mercato del lavoro, anziché procedere nella parallela riorganizzazione dell’apparato produttivo, richiamando le imprese alla loro responsabilità economica e sociale, perché si fosse in grado di rispondere alla sfida della globalizzazione e dell’euro. Così, in questo vuoto politico, imprenditoriale e strategico, la moderazione salariale e la deregolamentazione del lavoro hanno avuto l’effetto di ridistribuire il reddito nazionale dal lavoro ai profitti, e di alimentare il circuito perverso che incentiva le imprese a spostarsi verso i settori ad alta intensità di lavoro ma a basso contenuto tecnologico e valore aggiunto, e verso le piccole dimensioni e i settori tradizionali, dove prevale l’uso dell’occupazione non qualificata, e dove, di conseguenza, è scarsa la produttività.
Insomma, la trappola della flessibilità, sostituendo il lavoro (poco qualificato) al capitale e alla tecnologia, ed erodendo, perciò, la produttività, mantiene oggi le imprese (in particolare quelle piccole e piccolissime, che sono pari al 95% del totale) in uno stato di precaria sopravvivenza, con il rischio concreto di veder disintegrare il sistema produttivo e occupazionale italiano in tempi brevissimi se non si fuoriesce da questa traiettoria declinante.
È alla luce di queste considerazioni che, con perplessità, rifletto sul Jobs Act. Vanno creati nuovi posti di lavoro, non c’è dubbio. Tuttavia, non è flessibilizzando ulteriormente il lavoro che si crea occupazione buona e stabile. C’è bisogno urgente di investimenti, ricerca, specializzazione e tecnologia. La trappola della flessibilità crea, difatti, occupazione solo transitoria; la consuma, e poi la espelle, seppellendo, insieme ai posti di lavoro, le stesse imprese sempre più incapaci di competere lungo la scala della produttività e dell’innovazione.
Ha proprio ragione mia moglie: è una questione di troppa di flessibilità.

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