Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

domenica 3 ottobre 2010

Intervista a Emiliano Brancaccio: «L'insostenibile contraddizione nell'unione monetaria europea»


di Fabio Sebastiani (Liberazione)

La lettera degli economisti è uscita nel pieno dell’aggressione speculativa verso Grecia e Spagna. La risposta dell’Unione europea è stata di tipo ultraliberista.

Cosa vi aspettate adesso?

La lettera degli economisti punta su una evidenza cioè sul fatto che l’Unione monetaria europea punta all’obiettivo di uscire dalla crisi cercando all’esterno dei propri confini un fantomatico sbocco per le proprie merci. Molti ritengono appunto che questo sbocco è fantomatico perché gli Stati Uniti difficilmente potranno svolgere il ruolo di traino della domanda globale. E questo per il semplice motivo che sono indebitati verso l’estero in modo enorme.

Parallelamente, è altamente improbabile che la Cina possa sostituirli, visto che la Cina non stampa dollari. Per poter comprare merci in eccedenza dagli altri paesi occorre avere un potere di emissione della moneta di riserva internazionale cosa che i cinesi non hanno. Gli Stati Uniti l’hanno potuto fare per un lungo periodo perché battevano dollari.

Il secondo problema è che all’interno dell’unione monetaria europea ci sono dei fortissimi squilibri.

La Germania, forte di un assetto capitalistico più avanzato riesce sistematicamente a penetrare i mercati degli altri paesi europei e al tempo stesso attua una politica salariale e di domanda interna molto contenuta per cui importa poco dagli altri paesi europei.

Questo genera debiti crescenti negli altri paesi europei. E quindi ci troviamo con Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo ma anche Italia e Francia che versano in una situazione estremamente difficile e fragile non tanto per una loro irresponsabilità politica quanto piuttosto per una politica fortemente aggressiva e restrittiva della Germania.

Questi due elementi di contraddizione gli economisti li considerano insostenibili. Ed è chiaro che le politiche ulteriormente restrittive non faranno che aggravare la situazione.


In poche parole si stanno creando le condizioni per una Europa che viaggia su binari diversi e quindi vengono introdotti degli ulteriori elementi di frammentazione?


E’ difficile immaginare che tutti i paesi attualmente aderenti all’euro saranno in grado di restare all’interno della stessa area monetaria. Lo scopo dei tedeschi è quello di far sì che dalla crisi possano verificarsi due cose: in primo luogo una velocizzazione del processo di centralizzazione dei capitali, che li ha sempre favoriti e li favorirà in futuro.

Per centralizzazione si intende che alla periferia le imprese falliscono e chiudono o vengono acquisite, mentre il capitale tedesco rastrella quei capitali periferici che sono rimasti in piedi. E’ questo che si sta verificando. E’ un processo tipicamente marxiano.

Il secondo scopo che vogliono conseguire con queste politiche è di cercare di rimediare alla caduta del profitto totale con un aumento del profitto per unità di lavoro.

Il profitto cade progressivamente con la crisi, ma su ogni unità di lavoro è più alto.

Questa operazione avrebbe una sua logica, quella della Grande Germania, se però esistesse uno sbocco delle merci all’esterno dei confini europei.


E’ in atto una grande verticalizzazione del potere capitalistico?


Tuttavia questo ha a che vedere con la produzione. Il problema della domanda rimane aperto.

I tedeschi è come se stessero costruendo una macchina da guerra caratterizzata da sfruttamento e verticalizzazione e da un elevato potenziale competitivo.

E’ esattamente la strategia di Lisbona. Ma devi capire a chi vendere le merci, altrimenti con la macchina da guerra non ci fa i nulla.


Una crisi, quindi, che non costruisce sbocchi, anche minori, ma le condizioni della sua stessa esplosione?


C’è un punto al di là del quale la crisi diventa violentissima e irrecuperabile. Il meccanismo capitalistico rischia di distruggere se stesso. Se le cose vanno male, vanno male anche per i più forti. Fino ad ora abbiamo parlato di una serie di squilibri e conflitti che riguardano i capitali dei vari paesi.

Però la verità è che qui ormai le ricerche convergono nel dire che la causa di fondo della crisi verte su una divaricazione progressiva tra la capacità produttiva dei lavoratori che è cresciuta nel corso di un intero trentennio e il loro potere di acquisto che invece è rimasto stagnante e in tante circostanze addirittura declinato.

Questo scarto gigantesco tra capacità produttiva crescente e capacità di reddito è alla base di questa crisi e questo curiosamente lo dice addirittura il Fondo monetario internazionale.

In un recentissimo bollettino di un mese fa ha riconosciuto che le diseguaglianze dei redditi rappresentano una causa strutturale della crisi che stiamo attraversando.

Ovviamente questo problema resta completamente irrisolto. Le politiche economiche in atto risultano addirittura sperequative.


La borghesia italiana come risponde a questo quadro?


Da un punto di vista strutturale non vedo da parte delle rappresentanze del capitalismo italiano, sia nei grandi che nella piccola impresa, nessuna capacità di reazione rispetto a un assetto capitalistico che vedrà il capitale italiano sempre più in periferia. Quella subalternità è assunta come un dato, senza riflettere che la crisi ricade proprio sui punti periferici. Possiamo dire che sono sempre più subalterni e contenti.

Il secondo punto è che una volta accettata come data questa condizione la mia preoccupazione è che parte della borghesia italiana rilevando spazi sempre più ristretti di manovra nel mercato europeo è ben disposta ad assecondare qualunque processo verso una ulteriore privatizzazione. Se la crisi dovesse inasprirsi, e quindi la capacità fiscale degli stati dovesse ulteriormente deteriorarsi è probabile che parte della borghesia italiana proporrà come soluzione di bilancio una nuova ondata di privatizzazione così come del resto si è verificata nella crisi del ’92.

Allora si privatizzò l’industria pubblica. Oggi è ancora peggio di quei risultati disastrosi perché c’è il rischio della privatizzazione dei servizi pubblici essenziali.


Tuttavia, la cultura del welfare consolidata a partire dagli anni del dopoguerra tra i cittadini renderà difficile un ulteriore attacco, o no?


Non c’è un argine ad ulteriori attacchi al welfare. Se c’è una crisi il bilancio dello Stato viene messo sotto pressione per lungo tempo. Se non c’è una adeguata organizzazione del conflitto che consenta di mettere sul piatto della bilancia un problema di tenuta sociale è chiaro che il rischio di uno sfondamento dell’argine dei diritti sociali resta altissimo. Non mi sento di affermare che abbiamo raggiunto il fondo.

Credo piuttosto che così come il capitale sta riorganizzando al suo interno occorre riorganizzare le modalità del conflitto sociale per poter fare argine contro nuove e brutte sorprese.


La crisi non è finita. Che cosa è questa paura della deflazione?


L’espressione deflazione nella sostanza vuol dire che si teme una seconda caduta. Una seconda ondata accompagnata da una riduzione dei prezzi industriali. Ovviamente questa eventualità che non è del tutto remota comporterebbe una ulteriore difficoltà da parte delle imprese e da parte degli stati nazionali di creare reddito. E quindi comporterebbe una ulteriore difficoltà da parte delle imprese e degli stati nazionali di rimborsare i debiti che hanno contratto.

Questa paura non è infondata.

Chiudiamo con una suggestione di carattere teorico.

Un capitalismo messo così sta fagocitando anche l’idea guida della concorrenza, visto che distrugge sistematicamente le condizioni perché si crei. La concorrenza ormai è un elemento fondamentale della ideologia capitalistica.

Ci viene detto che risolve ogni problema. La verità è che lo scontro competitivo tra capitali che è in atto è uno scontro che ricadrà sulle spalle del lavoro e quindi uno scontro che accentuerà ulteriormente il divario tra capacità produttiva dei lavoratori e la loro capacità di spesa e quindi accentuerà le cause di fondo della crisi.

Questo dimostra che la concorrenza può anche risultare razionale dal punto di vista del singolo capitalista ma dal punto di vista del sistema nel suo complesso può condurre a una crisi senza ritorno.

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