Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

domenica 23 gennaio 2011

PCI: voci della nostra storia.

Guido Liguori: Sezioni aperte e intellettuale collettivo, la lezione del Pci
90 anni fa la fondazione a Livorno. Il grande vuoto lasciato dalla sua fine Il 21 gennaio 1921 - novanta anni fa - nasceva a Livorno il Pci. Nasceva da una rottura con la tradizione riformista e per impulso dell'Internazionale, sulla scia lunga dell'Ottobre, nonostante l'avanzare del fascismo e dopo la grave sconfitta subita dalla classe operaia italiana nel biennio precedente. Persisteva in molti la certezza di un'ondata rivoluzionaria destinata presto a sommergere l'Europa. La previsione si rivelò errata. Dopo pochi anni di direzione bordighiana iniziò ad affermarsi nel partito un nuovo orientamento, a opera di Gramsci.

Domani, 22 gennaio, ricorrono i 120 anni dalla nascita di Antonio Gramsci. Non bisogna sovrapporre completamente il lascito del dirigente sardo a quello del partito che contribuì a fondare nel '21 e a ri-fondare nel '24-26 e poi ancora nei Quaderni. Vi sono in Gramsci però alcuni motivi fondamentali per comprendere quello che è stato il Pci, la sua specificità.

Gramsci aveva inteso (sulla scorta dello stesso Lenin) che non si poteva più «fare come in Russia», che quel tipo di rivoluzione era stata l'ultima delle rivoluzioni ottocentesche. L'affermarsi della società di massa e il diffondersi degli apparati del consenso mutavano il concetto stesso di rivoluzione. Si trattava non di edificare barricate, ma di costruire contro-egemonia, di divenire dirigenti prima che dominanti, di "tradurre" nella propria lingua nazionale la tensione internazionalista.

Quando nel 1944, dopo quasi vent'anni di lontananza dall'Italia, Togliatti sbarcava a Napoli, già conosceva i Quaderni gramsciani. E conosceva, per altro verso, Stalin e lo stalinismo, sapeva di un mondo che sarà diviso in due. Ha inoltre imparato, col fascismo, il valore della democrazia. "Traduce" l'insegnamento gramsciano, adattandolo alla nuova situazione. Ispirandosi a Gramsci, opera a partire dal '44 la nuova rifondazione del Pci, partito che ha più volte dovuto e saputo rinnovarsi radicalmente, per restare fedele alla realtà che cambiava.

Il Pci togliattiano è un partito di massa, che cerca nuove sintesi tra diverse culture, senza ossificarsi in componenti. E' un partito che sposa, con la Costituzione, la democrazia parlamentare, pur cercando di darne a più riprese una interpretazione progressiva in direzione della democrazia diffusa. Ha un forte radicamento di classe, ma cerca l'interlocuzione con altri settori della società, la presenza territoriale, l'alfabetizzazione politica delle masse; e una propria collocazione autonoma e originale nel movimento comunista internazionale.

E' facile vedere oggi come alcuni aspetti di quella "giraffa" togliattiana fossero discutibili: dal permanere di una forma-partito gerarchica alla convivenza col mito sovietico, dall'accettazione del Concordato alla sottovalutazione della persistenza di settori del vecchio Stato. Si è molto parlato di "doppia lealtà". A mio avviso, i comunisti italiani sono sempre stati leali soprattutto alla Costituzione repubblicana.

Ma è indubbio che il legame con l'Urss permase ancora a lungo, fino al '68 di Praga, alla presa di posizione dovuta al coraggio di Luigi Longo e poi ai ripetuti "strappi" di Berlinguer. Non posso qui soffermarmi sui tanti limiti che indubbiamente vi furono, nel leggere ad esempio le modificazioni strutturali della società italiana degli anni '60; oppure nel non saper proporre un modello di sviluppo nuovo, qualitativo e non solo quantitativo. D'altra parte l'Italia rimase a lungo, un paese caratterizzato dalla copresenza di arretratezza e sviluppo, come si vide anche nel "biennio rosso" 1968-1969.

Il Pci fu certo colto di sorpresa dal grande sommovimento sociale di quegli anni. La scelta di interloquire coi movimenti permise però al partito di conservare e aumentare i consensi. Anche negli anni '70, qualsiasi cosa si pensi della politica dei comunisti italiani (e dalla politica del compromesso storico continuo a essere non persuaso), il consenso nella società fu grande. Non è questa la sede per ricordare di nuovo i motivi, vicini e lontani, della fine del Pci, nell'89-91, su cui già ci si è soffermati spesso negli ultimi anni.

Va detto però che la scomparsa del Pci ha lasciato un vuoto grande. Anche la recente vicenda della Fiat ha dimostrato cosa significhi il fatto che non sia più in campo un forte e influente partito della classe operaia. E il vuoto non concerne solo l'aggettivo, "comunista", a cui non rinunciamo, perché significa opposizione radicale a questa società e speranza in una società fondata su valori del tutto diversi. Ma anche il sostantivo: "partito".

C'è oggi molto da imparare dal Pci: la capacità di parlare alla gran parte della società; lo sforzo di trovare modi e linguaggi per arrivare ai ceti popolari; la concezione della centralità del Parlamento, di contro alla tesi della "governabilità", che ha sfondato anche a sinistra. Ma c'è anche da imparare per quanto concerne il modo di essere del partito.

Nell'epoca in cui sembra non vi siano più leader di partito, ma partiti al servizio dei vari leader, risalta l'esempio di un partito che ebbe alla sua testa grandi personalità, ma che non volle mai dimenticare cosa significhi avere un gruppo dirigente né rinunciare alla tensione a essere "intellettuale collettivo". Che seppe tenere aperte sezioni e non solo comitati elettorali, selezionare quadri e amministratori senza ridurre la politica alle cariche elettive; concepire la partecipazione come faticosa costruzione collettiva di un programma e di una identità e non, come oggi accade, scelta di una leadership attraverso primarie che rafforzano i processi di delega e passivizzazione, limitando la mobilitazione a un breve momento di scelta-identificazione con il "capo". Non si tratta di essere nostalgici, ma di imparare dal nostro passato. E imparare dalla nostra storia è necessario, oggi più che mai, per non fare passi indietro sul terreno stesso della democrazia.

Provate voi a farlo un altro Partito come quello! Maria R. Calderoni Provate voi a farlo un Partito così. Quando in quel lontano 1921 viene fondato, sembra più una scommessa di orgoglio e passione, una scissione che si basa su 58 mila voti o poco più. E subito dopo, con il fascismo al governo, deve inabissarsi nella clandestinità; e successivamente impegnarsi con tutte le sue forze - furono i comunisti i primi e i più generosi - nella cruenta lotta di resistenza contro il nazifascismo. I suoi primi 25 anni, il Pci infatti li passa così, con le armi in pugno, se non in galera, o al confino o transfugo all'estero. Ma 25 anni dopo - 1921-1971 - i numeri del suo altisonante Cinquantennio sono già belli grandi: è diventato il secondo partito politico italiano e il più importante partito comunista dell'Occidente, alla faccia della guerra fredda, del maccartismo e della Chiesa scomunicante.

Alle elezioni politiche del 1968 si porta a casa 8 milioni e mezzo di voti, il doppio che nel 1946; e quattro anni dopo, 1972, supera i 9 milioni. Già arrivano le "regioni rosse", Emilia Romagna, Toscana, Umbria, il Pci al 40 e anche al 50 per cento (e la Lombardia che da sola fa un milione di voti). Provate voi. Comunisti immaginari è un libro a suo modo nostalgico (e pieno di ammirazione anche se fa finta di no) che Francesco Cundari ha scritto nel 2009, con prefazione di Giuseppe Vacca, e a pagina 106 si legge quanto segue. «La risoluzione del VII congresso per esempio recitava: "Gli iscritti al partito, compresi i giovani, sono aumentati da 2 milioni 252 mila 446 a 2 milioni 585 mila 765, i collettori da 63mila 637 a 100mila 516, le cellule di fabbrica da 8mila747 a 11mila 272, le cellule femminili da 9 mila 278 a 12 mila 226"».

Nel frattempo, proseguiva il meticoloso resoconto, «circa 60 mila dirigenti di vario grado sono passati da scuole o corsi di partito dal 1945 in poi» (diventeranno 300 mila nei prossimi tre anni, per esempio). VII congresso, è il 1951. Un anno prima, esattamente il 2 aprile 1950 e nello stesso teatro Goldoni di Livorno dove il Pci nasce, è stata ricostituita la Federazione giovanile comunista italiana, la Fgci, primo segretario Enrico Berlinguer: arriva subito a toccare i 488 mila iscritti, con almeno tre giornali all'attivo e un'infinità di iniziative che battono il territorio in lungo e in largo, «solo nel primo anno sorgono 112 filodrammatiche, 54 balletti, 44 cori, 4 orchestrine, 12 complessi ginnici, un circolo di damisti, 3 di arte varia, squadre sportive a centinaia».

No no, non è la "Fgci dei biliardini", come qualche dispregiatore ha voluto chiamarla. Una delle sue specialità è, per esempio, la infaticabile battaglia per la pace, contro le armi nucleari: è sua, ad esempio, proprio della Fgci, l'invenzione della bandiera arcobaleno, quella che sventola ancora oggi, ormai simbolo internazionale. Già, la pace. A proposito, vi ricordate i Partigiani della Pace, il movimento nato a Parigi nel 1949, in piena guerra fredda, contro il riarmo, contro la Nato e il Patto Atlantico? In Italia si mobilitarono le questure e i celerini, si promulgò il divieto di firma. Ma il Pci riuscì a mettere in piedi una tale mobilitazione che in soli due mesi le firme proibite furono 6 milioni e 300 mila.

Dite che i numeri non sono tutto? Allora beccatevi pure questi. Li ricorda Diego Novelli, in un evocativo libro - Com'era bello il mio Pci, (Melampo) - scritto a babbo morto, nel 2006, cioè quando quel suo bel picì è ormai sparito (ucciso a freddo) da alcuni anni. «La diffusione militante dell'Unità, il grande rito domenicale del Pci, fu importato dalla Francia, dall'esperienza del quotidiano comunista l'Umanité. Alla diffusione militante dell'Unità partecipavano tutti, dagli operai agli intellettuali. La domenica mattina era la nostra Messa ( a proposito, andavamo anche davanti alle chiese, con rispetto e senza ostentare). Si andava a coppie e c'era un forte spirito di emulazione. Mi è successo di andare in giro con Italo Calvino, con medici, professori, avvocati, deputati. Negli anni Cinquanta e Sessanta si arrivò a diffondere un milione di copie ogni domenica».

I numeri non saranno tutto ma non guastano. Il quotidiano del Pci arrivò ad e essere il terzo giornale italiano, una formidabile "bocca di fuoco" che teneva validamente testa ai colossi borghesi, Stampa e Corriere della Sera, e lasciava molto indietro il Popolo della potente Dc. Organizzazione organizzazione, le copie mica cadevano dal cielo, anzi. E così, tra le tante altre cosette, il Pci mette su anche una specifica associazione chiamata "Amici dell'Unità": pochissimi e malissimo pagati funzionari e moltissimi volontari, i quali mandarono avanti per anni e anni una macchina di sostegno al giornale, che spaziava dalla diffusione ad una gamma di iniziative collaterali - gite, convegni, mostre, incontri - che funzionavano da collante e formazione politica sul territorio.

Gli Amici dell'Unità li trovavi in ogni città, c'era anche l'apposita "tessera d'onore". Macché Soru e Angelucci (e le sparute copie vendute dell'Unità di oggi), i manifesti agit-prop dei begli anni recitavano "Sottoscrivete un miliardo per la stampa comunista". E il fantastico era che il miliardo veniva sottoscritto per davvero. Tanto per continuare sul tema, non si possono certo passare sotto silenzio le feste dell'Unità, le mitiche Feste, componente fissa del panorama italiano del dopoguerra, dalle città sino ai più piccoli paesi. Prima Festa nel settembre 1945 a Mariano Comense; l'anno dopo si replica a Modena e Tradate, le presenze sono 500mila; nel 1947 la "moda" è già in voga su scala nazionale, se ne contano 900 in un solo anno.

Ancora qualche numero (scusate). «Al di là delle impressionanti cifre, dei milioni e dei miliardi raccolti, delle migliaia e poi milioni di visitatori, delle centinaia e poi migliaia di metri quadri, delle decine e poi migliaia di stand, sin dai primi anni la festa è svago, divertimento, politica, autofinanziamento, cultura, sport, militanza, cucina, musica e tante altre cose ancora» (Edoardo Novelli, C'era una volta il Pci). Le Feste tenute in piedi e fatte vivere alla grande da migliaia e migliaia di militanti, il leggendario popolo dei "volontari delle Feste", appunto (che poi D'Alema ebbe a etichettare come "quelli delle salsicce", e mal gliene incolse...).

Elezioni del 1963? Il Pci aumenta di un milione secco e si attesta oltre il 25%; elezioni del 1968? Il Pci è al 27%; elezioni del 1976? Il Pci è al 33,4%. E nel 1975 la grande avanzata nelle elezioni amministrative pone il Pci alla guida di molte regioni e città, fra cui Roma, Torino, Napoli (nasce qui l'epopea delle giunte rosse, amarcord?). Una sezione per ogni campanile (oltre 8mila), 2milioni di iscritti e un vasto apparato di funzionari - un tempo anche detti "rivoluzionari di professione"... - tutti pagati con il corrispettivo (e anche meno) del salario di un metalmeccanico (circa un milione al mese). «Nel mio Pci si stava attentissimi alle spese - scrive sempre Diego Novelli - Quando sono stato eletto deputato, alla prima riunione del gruppo dovemmo tutti firmare una carta che delegava il segretario amministrativo a riscuotere la metà degli emolumenti che prendevamo. Non avevamo neanche il fastidio di versarli, venivano trattenuti alla fonte».

Ma la grande forza, la grande anima del Pci sono loro, i militanti, i compagni, gli uomini e le donne, i giovani e gli anziani che lavorano "per il Partito" con incredibile abnegazione e spirito di sacrificio a titolo assolutamente gratuito: solo per fede, per ideale, per senso del progresso umano, per quello che si chiamava il riscatto di classe. Per quella Bandiera rossa. Per "il Partito", che era arma politica ma anche etica, visione del mondo, antropologia, morale. Avanti popolo, ci credevano in milioni e milioni...

Dicono che avevamo dei difetti, che eravamo conformisti, illiberali, stalinisti, trinariciuti... Dicono che, dopo l'incredibile '89, il Pci non serviva più, che doveva essere dismesso e butttato al macero. E così fecero. Scemi.

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Quel che c'è da imparare da quella rottura politica

di Tonino Bucci

Molto più di un'epoca ci separa dal giorno della fondazione del PcdI. Un partito che nasceva, certo, sull'onda lunga della rivoluzione d'Ottobre, ma anche per effetto dei fallimenti del socialismo italiano: ad essere più precisi, dell'incapacità del Psi di imprimere una direzione politica alle occupazioni delle fabbriche del '19-'20. C'era il conflitto operaio, mancava un partito all'altezza, un'organizzazione politica che gli corrispondesse.

Oggi come ieri? Chissà che l'analogia non regga. Ne abbiamo parlato con Mario Tronti, tra gli ospiti del convegno che si terrà oggi a Roma, "21 gennaio 1921, pensando il futuro...". Il PcdI nacque per dare una risposta politica al protagonismo operaio. C'è però chi dice che fu solo un riflesso meccanico dei fatti di Russia. Quale delle due? C'è il problema di come affrontare questo anniversario oggi, in un altro mondo. E' interessante che da varie parti si ritorni a pensare questa storia, a come è nata e a come si è sviluppata.

Gli anniversari sono sempre occasione di riflessione. E' vero che ci sono queste interpretazioni, se la scissione di Livorno sia stata provocata dalla tensione massima che si era realizzata a livello sociale e nella classe operaia oppure se sia stata determinata dalla rottura rivoluzionaria in Russia. Io credo che ci siano ambedue gli aspetti. I fatti di Russia e il livello di lotta di classe nelle fabbriche hanno reso possibile insieme la nascita di un partito di tipo nuovo.

Oggi l'interpretazione vera da sconfiggere è quella dominante, secondo cui la scissione di Livorno sarebbe stata fondamentalmente un errore: perché è stata un evento scissionistico, perché avrebbe interrotto la possibile evoluzione del partito socialista, che probabilmente senza quella scissione avrebbe proseguito la via delle grandi socialdemocrazie europee. Qualcuno dice addirittura che questa rottura radicale avrebbe favorito l'avvento del fascismo e di una risposta di sistema totalitaria.

Ma sono tutte storie fatte con il "se". A noi interessa più capire come con la scissione di Livorno si sia saldata un'opposizione sociale forte a una nuova forma di organizzazione del movimento operaio, a un partito nuovo di tipo comunista. Merito soprattutto del gruppo Ordine Nuovo che elaborò, nel vivo delle fabbriche, una riflessione sul potere, sul controllo della produzione, sul rapporto tra partito e classe. No? L'Ordine Nuovo di Gramsci non fu un semplice gruppo giornalistico, ma un collettivo intellettualmente molto ferrato. Il PcdI nasce su basi molto solide, questo è il motivo per cui è cresciuto attraverso la lotta antifascista e si è poi ritrovato, al crollo del fascismo, come una grande forza popolare e radicata nel paese. Era partito da un impianto strategico molto forte.

Questo ci dà da pensare oggi. Abbiamo bisogno di una grande preparazione politica e culturale, di un gruppo dirigente all'altezza, e di una nuova forma organizzata che abbia una visione strategica. Ma non può nascere dal nulla, ci vuole una grande spinta dal basso. Il partito comunista è nato su queste opzioni, una grande operazione di organizzazione delle masse, antispontaneista. Il socialismo aveva avuto anche grandi meriti nella organizzazione delle masse con le esperienze ottocentesche - in parte andrebbero riprese oggi, il mutualismo, la cooperazione, le associazioni dal basso. Ma non aveva quello che avrebbe avuto il movimento comunista: il primato dell'organizzazione.

Questi sono i temi che oggi ritornano, naturalmente all'interno di rapporti di forza rovesciati. Oggi siamo in una fase difensiva. Avremmo bisogno di un gruppo dirigente sul modello ordinovista... Quei tempi di ferro e di fuoco hanno prodotto uomini all'altezza del compito, com'era il gruppo dirigente ordinovista, capace di costruire uno strumento in grado di durare, di crescere, di radicarsi. Il problema è che quando non ci sono tempi di ferro e di fuoco questi uomini non vengono fuori. La considerazione amara, oggi, è che noi veniamo fuori da una storia che rispetto a quella storia là, è una storia "normale"… Una storia in pantofole… La storia in pantofole fa venire fuori uomini in giacca da camera. Scherzi a parte, scontiamo decenni di stasi storica. E' da tempo ormai che a livello di fondamenti della società non succede niente. Il tramonto dell'occidente, qui, ha tagliato le gambe alla rivoluzione operaia. Questo non significa votarsi al pessimismo.

Chiediamoci piuttosto in che modo, di fronte a questa ripresa di soggettività dal basso, anche in forma radicalizzata - certo, non al livello delle occupazioni delle fabbriche del '19-'20 - noi possiamo oggi ricostruire una soggettività che gli corrisponda politicamente dall'alto. C'è un ritorno inaspettato della centralità operaia, per giorni televisione e giornali hanno parlato del caso Mirafiori. Si può proporre un'analogia tra i compiti che abbiamo oggi e quelli ai quali nel '21 si rispose con la scissione comunista. Come si ricostruisce una forma organizzata di lotta generale su queste spinte che tornano e che tenderanno sempre di più a radicalizzarsi? Questo è un capitalismo che non lascia margini di compromesso.

Marchionne ne è la dimostrazione. Non basta oggi dichiarare solidarietà alla Fiom e poi buttare sulle spalle del sindacato compiti che sarebbero propri della politica. Serve un partito organizzato, non credi? Così facendo, tra l'altro, si danneggia la stessa Fiom, accreditando l'idea di un sindacato "politico" di una parte. Bisogna riproporre il tema dell'organizzazione politica, come si ricostruisce una grande sinistra politica in grado di interloquire e rappresentare queste nuove spinte. Non credi che oggi sia così importante la "forma", l'organizzazione politica, da dover considerare il programma, più o meno radicale, un problema "successivo", da definirsi nel vivo della dialettica?

Oggi il problema non è più quello delle due sinistre, una riformista, l'altra radicale, il problema è di riunificare un fronte che, sulla base di queste spinte, potrebbe essere portato a porsi obiettivi più avanzati. Il programma più avanzato si deve far emergere dalla forma organizzata che si ricollega alle spinte sociali dal basso. Questa è un'operazione che bisogna fare rompendo tutti i compartimenti stagno e riproponendo un processo unitario. Lavoro e libertà (l'associazione promossa da Tronti e altri di recente, ndr) si pone questo obiettivo, che non riduca alla solidarietà con la Fiom ma si allarghi a tutto il campo della sinistra. Operazione non facile ma possibile. 21/01/2011

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