Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

giovedì 28 luglio 2011

I "mercati" fanno il loro mestiere L'Europa no.

di Bruno Steri. Fonte: liberazione
«La liberalizzazione finanziaria (…) rappresenta un'arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea quello che qualcuno ha chiamato un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li considerano irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato». Così si esprimeva tre anni or sono Noam Chomsky: le sue considerazioni potrebbero oggi calzare a pennello per descrivere un contesto che continua ad essere dominato dai "mercati", quotidianamente presentati come un'incombente entità metafisica capace di decidere della sorte di stati e monete.
Tuttavia la metafisica non c'entra nulla; né, beninteso, si tratta di un ideale pulviscolo di acquirenti e venditori che agiscono del tutto liberamente e casualmente. Non è così. Lo ha ben esemplificato in una recente intervista un addetto ai lavori che opera a livello internazionale nel settore finanziario: nell'industria della finanza - sostiene Paolo Basilico - figurano «nuovi oligarchi: sono le sei principali banche americane, le quali hanno un livello di concentrazione di ricchezze e di potere che non ha eguali nella storia del mondo (…). I sei gruppi bancari sono tanto grandi che quando si muovono fanno muovere i mercati». Dunque i cosiddetti mercati hanno un corpo e un'anima; e sono orientati da consistenti concentrazioni di potere. All'azione di giganti come Goldman Sachs, Citigroup e consimili, dobbiamo aggiungere quella dei nuovi corsari della finanza globale: sono di questi giorni le lamentazioni circa il rilevante ruolo giocato da una decina di hedge fund nella corsa al ribasso sul debito sovrano greco. Centri studi specializzati nel monitoraggio dell'attività di questi nuovi incursori finanziari hanno calcolato per essi 80 miliardi di dollari di profitti nei soli primi quattro mesi del 2011.
Tuttavia non sono solo le grandi investment banks statunitensi o i nuovi predatori d'Oltreoceano a determinare "gli eccessi" della speculazione: quanto a gigantismo e a passione per il rischio, anche in Europa non si scherza. Una recente indagine sulle banche europee condotta da Mediobanca (Ricerca & Sviluppo) segnala che, mediamente, gli attivi delle prime due banche di ciascun Paese valgono più del Pil nazionale: al top troviamo l'attivo di Ubs e Crédit Suisse, che è 4,7 volte il Pil svizzero (e giù, fino alle più modeste Unicredit e Intesa, i cui attivi equivalgono appena al Pil italiano). Né ci si risparmia quanto a gioco d'azzardo: la ricerca calcola che nel bilancio dei primi due giganti bancari tedeschi è custodito un volume di prodotti derivati pari al 31,5% del Pil tedesco (per la Deutsche Bank, il 34,5% del totale attivo).
La crisi non ha mai fermato la roulette finanziaria (né mai qualcuno si è seriamente impegnato per fermarla). Ora che è a rischio la tenuta dell'euro e l'integrità dell'Unione come tale, tutti i nodi speculativi sono venuti al pettine. Emblematico il caso dei credit default swaps (i cds, titoli assicurativi emessi contro il fallimento del debitore e trattati al di fuori del mercato ufficiale): un fantasma contemporaneo che si aggira per l'Europa, assai pericoloso se il debitore in questione è uno Stato. Chi li ha acquistati (da quel che si legge, soprattutto hedge fund e banche d'investimento) scommette sul fallimento del debitore; chi li ha emessi (a quanto pare, soprattutto banche europee, in particolare tedesche) trema all'idea che un default li renda esigibili. Se le agenzie di rating - giudici a tutt'oggi ritenuti insindacabili - dovessero mantenere la già proclamata intenzione di considerare una ristrutturazione del debito greco come un vero e proprio default, scatterebbe l'esigibilità dei cds: è questo uno dei temuti talloni d'Achille dell'accordo raggiunto a Bruxelles il 21 luglio scorso, teso a salvare la Grecia e a scongiurare un effetto-domino nella crisi dei debiti sovrani.
I nostri guai sono dunque soltanto una questione di speculazione? No, sono anche una questione di speculazione, la quale è consustanziale al sistema capitalistico. «L'avidità è il pungolo dell'operosità», diceva David Hume, filosofo scozzese del '700 che conosceva bene gli umori, gli spiriti animali del capitalismo nascente. La speculazione, lungi dall'essere una malattia da estirpare in un corpo sano, è il brodo di coltura entro cui prospera la ricerca del massimo profitto. Sarà forse per questo che, nel suddetto accordo, non c'è traccia di misure strutturali contro le dinamiche speculative (ad esempio: divieto di vendita di titoli allo scoperto, vincoli al mercato dei derivati e in particolare stop per quello dei cds, sospensione della valutazione delle agenzie di rating nei confronti dei debiti sovrani di Paesi oggetto di piani di sostegno, controllo dei movimenti di capitale e tassazione delle transazioni finanziarie, e via di questo passo). I "mercati" fanno il loro mestiere, si tratterebbe solo di adottare misure difensive che pongano un argine agli "eccessi". Il pacchetto di misure prevede in effetti l'allungamento della durata dei prestiti e un'attenuazione del tasso di interesse richiesto per l'erogazione dei medesimi; un incremento delle risorse finanziarie in dotazione del Fondo salva-stati (l'Efsf), le cui prerogative vengono ampliate includendo la possibilità di acquistare sul mercato secondario titoli pubblici dei Paesi in difficoltà; la partecipazione "volontaria" del settore privato al secondo salvataggio della Grecia.
Si potrebbe dire: un piccolo passo nella direzione giusta. Disgraziatamente, la consistenza fa in questo caso sostanza e, come ha sentenziato ad esempio l'economista Jacques Attali, in realtà si tratta di misure dettate dall'emergenza e del tutto inadeguate dal punto di vista di una revisione strutturale e duratura che dia respiro e prospettiva ad una politica europea degna di questo nome (foss'anche in un quadro di vigenza delle leggi della società di mercato).
I problemi finanziari del Vecchio continente hanno radici profonde nell'economia reale. Per questo, fa differenza che ci sia o meno un centro decisionale coordinato (autorità politica, economica e monetaria), capace di promuovere una politica fiscale comune, di adunare e gestire risorse in vista di uno sviluppo territorialmente equilibrato, socialmente progressivo, innovativo sul piano della tutela dell'ambiente. Ma soprattutto la partita si gioca nella risposta alla domanda "Chi paga?". Quali che siano le misure adottate e il peso delle risorse da mettere in campo, a quali tasche gli stati nazionali dovranno attingere? Invariabilmente, la risposta è: austerity e lacrime e sangue per i soliti noti. Il giornale della nostra Confindustria ospita quotidianamente contributi che illustrano quale seguito si debba dare alla già pesante manovra varata dal nostro governo: riduzione della pressione fiscale sul lavoro (leggi: sulle imprese), innalzamento a 70 anni dell'età pensionabile, privatizzazioni e liberalizzazioni.
Su tutti, ci ha colpito il titolo di un articolo a firma di Lamberto Dini (già capo di un governo di centro-sinistra, oggi senatore Pdl): «Tagliare la spesa e privatizzare, patrimoniale mai». Il programma di Confindustria è dunque molto chiaro. Il Pd, quando si tratta di discriminanti di classe, va in confusione. Noi - la sinistra, i comunisti - sappiamo di dover imboccare la strada opposta: la partita vera è questa.

Bruno Steri

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