Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 31 agosto 2012

EPPUR SI MUOVE… Torna lo Stato imprenditore ?

 

Un’intervista a Susanna Camusso su l’Unità rilancia il dibattito intorno al ruolo dello Stato come imprenditore. Un segno inequivocabile che, almeno sul piano dell’egemonia culturale, il neoliberismo è finito e che nuovi spazi di riflessione considerati fino a ieri impronunciabili, seppure timidamente, si stanno aprendo. Da puntualizzare molte cose al riguardo: ad esempio, il rapporto che deve intercorrere tra intervento pubblico e beni comuni, tra controllo democratico e direzione dello sviluppo, tra Europa (neoliberista) e Italia…. affinché un nuovo protagonismo statuale non finisca col soddisfare gli obiettivi della ritirata strategica del capitale, annunciati, anche, nelle ultime pseudo-previsioni delle agenzie di rating.

«SOLO QUI IN ITALIA IL PUBBLICO È IL MALE»

De Cecco: il pubblico non è il male. . Tornare a un’interazione nell’economia mista «è un fatto positivo», ma vedo «alcuni limiti dello Stato»
(da L’Unità del 22-8-12)
«Tornare a parlare di un ruolo attivo dello Stato nell’imprenditoria è senz’ altro un fatto positivo, anche se c’è da dire che pur nella dissennata e lunga stagione delle privatizzazioni l’idea dell’intervento pubblico non è mai definitivamente tramontata. Ad esempio, è cronaca di queste settimane il ventilato ingresso di Cassa Depositi e Prestiti nel capitale del Monte dei Paschi. Piuttosto, da osservatore di una certa età non posso fare a meno di evidenziare lo scostamento fra teoria economica e concreto comportamento dei governi e dei singoli che tanto spesso ha penalizzato il nostro Paese». Marcello De Cecco, economista con una lunga stagione d’insegnamento presso la Scuola Normale di Pisa, non nasconde il suo pessimismo. Pur nella condivisione di vari elementi del dibattito sulla presenza dello Stato nell’economia, iniziato con l’intervista a l’Unità di Susanna Camusso, i “conti” del professore abruzzese alla fine non tornano sempre per lo stesso motivo, il fattore umano.
Quali sono gli elementi concreti che non la convincono?
«Se parliamo di una presenza diretta dello Stato nell’attività industriale, posso cominciare con una battuta dicendo che rispetto all’Iri del 1933 adesso manca il duce… Per carità sia benedetta la democrazia, però un conto è il sacrosanto confronto parlamentare un altro è la perenne litigiosità dei partiti a cui siamo ormai abituati da decenni. Immaginiamo che questo governo, od uno futuro, decidesse di lavorare su un diretto intervento dello Stato nell’imprenditoria. Ne seguirebbe un putiferio di dibattiti, polemiche, accuse e controaccuse. Tutte cose non certo a beneficio del Paese ma di quella decina di soggetti forti, forse anche meno, che orientano giorno per giorno le speculazioni dei mercati. Fenomeni che abbiamo ben imparato a conoscere con l’altalena degli spread. Insomma, con tutta probabilità alla fine non se ne farebbe niente con il risultato di avere ancora una volta arricchito soggetti che si trovano fuori dall’Italia».
Ancora una volta?
«Nel nostro Paese sono in tanti ad avere la memoria corta, mentre trovo che sia di grande insegnamento ritornare agli avvenimenti degli anni Ottanta e Novanta, quelli che hanno innescato e prodotto la stagione delle grandi privatizzazioni. Una stagione sulla quale condivido il giudizio assolutamente negativo espresso da Giuseppe Berta. Un autentico salto nel buio che ci ha portato a sacrificare quell’esperienza di economia mista, con interazione fra attività pubblica e privata, che ha accompagnato lo sviluppo della nazione per decenni. Un modello che, pur fra alti e bassi, aveva funzionato, ma il cui recupero adesso mi sembra purtroppo problematico».
Cominciamo da quella scelta sbagliata: perché fu fatta?
«Perché erano gli anni nei quali ambivamo a recitare un ruolo di primo piano nel rinnovamento dell’Europa, a partire dalla nostra presenza nella prima pattuglia dei Paesi che avrebbero adottato la moneta unica. Ed allora dovemmo uniformarci a quella che era la filosofia liberista già dominante in tutto il continente, con il corredo di privatizzazioni a tappeto compiute grazie alla costosissima mediazione di “merchant bank” estere, per lo più anglosassoni. E sempre in quegli anni, in nome della stessa logica, si è assistito ad un altro fenomeno deteriore».
Quale?
«L’internazionalizzazione del nostro debito pubblico, arrivata nel momento di picco fino ad una quota del 70%, che ha poi complicato ulteriormente questa fase di crisi. Tanto, si diceva, i soldi che gli italiani non metteranno più sui titoli di Stato potranno impiegarli nei fondi d’investimento o nei fondi pensione, che a loro volta li investiranno anche nel capitale delle aziende privatizzate. Un castello di carte che alla prova del tempo non ha retto, e per capirlo basta paragonare il rendimento negli ultimi vent’anni dei Bot o dei Cct rispetto a quello ben più basso dei fondi».
Perché è scettico sul recupero di quel modello di economia mista?
«Perché per ritornare ad un significativo intervento pubblico nell’imprenditoria occorre avere innanzitutto uno Stato, e con tutta franchezza in quest’Italia io uno Stato non lo vedo».
Un giudizio pesante…
«Ma purtroppo basato sui fatti. Della litigiosità della politica ho detto, poi c’è da mettere nel conto la riforma costituzionale che ha di fatto annichilito il controllo della spesa pubblica da parte dell’apparato centrale a favore delle Regioni. E quest’ultime, purtroppo, hanno già dimostrato più volte sul campo di funzionare ben peggio della burocrazia statale. Senza dimenticare che alla base di tutto c’è la formazione e la motivazione delle persone».
Ed anche qui non siamo messi bene…
«Nell’intervento di Giulio Sapelli ho apprezzato l’idea di uno Stato che crea e gestisce nuove aziende nei settori imprenditoriali più promettenti. Ma chi ci mettiamo dentro queste imprese? Manager e funzionari sottopagati e demotivati? La verità è che paghiamo caro, da molti anni, un approccio concettualmente sbagliato. Da noi se il pubblico non funziona si pensa che l’unica soluzione è privatizzarlo. In altri Paesi, la Francia ad esempio, la risposta è un’altra: facciamolo funzionare meglio».

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