Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 12 ottobre 2012

Benvenuti nel capitalismo reale


Autore:  - eddyburg -


Quando l’Austerity dei padroni della finanza diventa una superstizione, allora dalla gabbia del capitalismo non si esce piùIl manifesto11 ottobre 2012


Mannaggia alla bomba atomica! Senza questo piccolo particolare, la recessione mondiale sarebbe già alle nostre spalle. Infatti le altre crisi gravi sono state sanate solo quando è scoppiata una bella guerra: l'esempio più indiscutibile è la Grande Depressione degli anni '30 superata solo grazie alla Seconda guerra mondiale.

La ragione è semplice: di solito della guerra percepiamo solo la messe umana che miete, ma dal punto di vista economico i milioni di morti sono marginali; quel che conta è che la guerra distrugge un'immane quantità di edifici, prodotti, macchinari, in definitiva di capitale; e quindi crea la necessità di una nuova accumulazione, grazie alla ricostruzione materiale. Tanto che, dopo la guerra, a vivere i miracoli economici più rigogliosi di solito sono proprio i paesi più rasi al suolo, perché i nuovi impianti sono più moderni mentre gli stati più risparmiati si tengono anche le fabbriche più desuete e vengono scavalcati. Joseph Schumpeter aveva in mente proprio la guerra quando parlava della «distruzione creatrice» come caratteristica essenziale del capitalismo.

Però non tutte le guerre vanno bene. Quella in Iraq è sì costata agli Usa migliaia di miliardi di dollari senza apportare alcun beneficio all'economia statunitense, proprio perché non ha richiesto un massiccio aumento della produzione, non ha mobilitato la popolazione, non ha messo in campo quel connubio di spesa illimitata (per armi e materiale bellico) da un lato e razionamento (dei consumi privati) dall'altro che costituisce tutto l'appeal dell'economia di guerra. La guerra consente infatti ai governi di mandare a quel paese i diktat dei "mercati", rende non solo lecito, ma necessario spendere ed espandere il debito pubblico in nome di una causa superiore. Nessuno criticherà un governo se sfora per difendere la patria.Le guerre locali e a questo scopo non servono, ci vogliono vere e proprie guerre mondiali. E' col capitalismo che nasce la nozione di "guerra mondiale": la prima fu quella dei Sette anni (1756-1763) che decise il destino coloniale di interi continenti, dal Canada all'India; mondiali furono le guerre napoleoniche (anche Bonaparte, come Rommel, pensò di andare a fiaccare la potenza inglese in Egitto, e come Von Paulus finì impantanato in Russia); mondiali furono le due grandi guerre del secolo scorso.
Sono proprio queste guerre mondiali - conflitti totali tra grandi potenze - che l'arma atomica ha reso impossibili. Il capitalismo si trova così prigioniero dell'impossibilità di ricorrere alla soluzione bellica. Una prigionia tanto più asfissiante quanto più è totalitaria la dittatura dei mercati e quanto più risulta incrollabile la fede superstiziosa negli effetti salvifici dell'austerità. Durante la guerra fredda i propagandisti occidentali coniarono un'immagine assai efficace per descrivere la dittatura materiale e ideologica cui erano sottoposti i paesi del Patto di Varsavia: "socialismo reale" fu chiamata. Termine di straordinaria comunicativa perché diceva tutto senza dire: di fronte alle promesse di un "radioso sol dell'avvenire", nella sua realtà attuale e quotidiana il socialismo era solo sorveglianza del Kgb o della Stasi, penuria materiale, censura, file davanti ai negozi di generi di prima necessità, oppressione totale (o totalitaria) sotto un tallone nello stesso tempo poliziesco e ideologico (un pensiero unico sovietico diremmo oggi). Quel che caratterizzava il socialismo reale era che non potevi sfuggire, non potevi andartene, non potevi né cambiarlo, né ricusarlo. Ci pensavano i carri armati dei "paesi fratelli" a ricordarlo.

Una volta spazzato via il socialismo reale e delegittimato il socialismo immaginato, l'ironia della storia vuole che oggi ci accorgiamo di vivere nel "capitalismo reale". Anche noi siamo topi in gabbia che non possiamo sfuggire né allo spread né agli interessi del debito; anche per noi non c'è rifugio per quanto lontano dove non ci raggiungano gli esattori del nostro debito: ci rincorrerebbero anche su Marte. Anche noi dobbiamo vivere nella penuria: i greci anziani devono privarsi della sanità e gli spagnoli giovani del lavoro, per ottemperare agli ordini dei nostri "banchieri fratelli", cui per imporre i diktat non servono più carri armati, ma ispettori finanziari. Anche noi siamo strangolati dall'ideologia.
Ed è straordinario come tutti facciano finta di credere all'idea che l'austerità serva a qualcosa mentre invece è solo la corda a cui impiccarci. Perché, se superstizione è una fede immotivata, anzi contraddetta nell'esperienza, allora la fiducia nel potere terapeutico dell'austerity (come è più bello dirlo in inglese!) è una superstizione che non ha niente a invidiare a San Gennaro. Le ricette prescritte oggi da Bruxelles e da Francoforte ai paesi "sviluppati" del sud Europa sono identiche a quelle che per decenni il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale hanno imposto agli stati del Terzo mondo: decenni di austere terapie monetariste non hanno mai fatto prosperare nessun paese, ma tutti li hanno lasciati stremati, impoveriti, socialmente più feroci.

D'altra parte anche un bambino capirebbe che uno stato NON è una famiglia: una famiglia in difficoltà stringe la cinta e forse ne esce; ma se in uno stato tutti stringono la cinta, nessuno consuma più, le industrie non hanno più clienti, la produzione e le vendite crollano, le tasse che lo stato percepisce precipitano, tanto che in questi anni di lacrime e sangue il debito greco è aumentato, non diminuito, e anche quello italiano si è avviato sulla stessa china.

Nell'ultimo numero di Harper's Magazine, in un articolo intitolato The Austerity Myth, Jeff Madrick scrive che l'ideologia dell'austerità «va considerata una superstizione tanto quanto una teoria economica... Dall'Odissea al Vecchio Testamento, l'abnegazione è stata la reazione tradizionale a circostanze difficili. Sacrificio è la parola d'ordine che mobilita in guerra, come digiunare è la pratica centrale in molte religioni. L'auto-sacrificio è anche, triste a dirsi, profondamente attraente come risposta ai problemi economici. Suona giusto - una forma di penitenza e di machismo... Il problema è che anche se l'austerità può funzionare per gli individui raramente funziona per le economie».

I riti dell'austerità inflittici dalla Germania e dalle Borse diventano allora l'equivalente mercantile delle processioni autoflagellanti del Medioevo, delle penitenze cui si sottoponevano i pietisti per salvarsi l'anima. Con la differenza che magari i flagellanti il paradiso lo trovarono (il contrario non è dimostrabile), mentre noi la ripresa economica ce la possiamo sognare. Da ex consulente di Goldman Sachs (la più potente banca mondiale) è normale che Monti sia un piazzista di questa superstizione. Più problematico è che la stessa fede cieca animi molti esponenti del Partito democratico. Forse il dirigente che più somiglia al moschettiere Aramis (non solo per i baffetti) è stato per una volta nel giusto quando ha detto che costoro «si faranno male». Il guaio è che lo fanno

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