Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

lunedì 23 maggio 2011

Siamo alla fine di un lungo sonno.



dalla Rete dei Comunisti. Fonte: sinistrainrete
Siamo alla fine di un lungo sonno. Dopo l’89 i reazionari avevano deciso che eravamo giunti alla fine della Storia. Gli ideologi del postmoderno s’erano rapidamente accodati, spiegando che i fatti erano in fondo solo opinioni, o che le contraddizioni materiali del sistema economico in cui tutto il mondo vive si stavano smussando in un grande impero progressista, senza lasciare troppi residui conflittuali. Il desiderio di ogni classe dominante – «resteremo qui per sempre» – veniva narrato come una realtà virtuale sotto gli occhi di tutti. Chi non la vedeva era pazzo, vecchio, «ideologico» e fuori dal mondo. La crisi ha strappato il velo: il re è nudo. E zoppica pure vistosamente.

E’ quindi possibile oggi – sul piano del pensiero teorico, ma soprattutto su quello dello scontro sociale e politico – mettere in moto nuove energie intellettuali e fisiche, innervare con pensiero lungimirante i processi sociali che pretendono un cambiamento radicale. E’ possibile riannodare i fili della riflessione critica e promuovere l’organizzazione ex novo di una soggettività antagonista capace di formulare risposte all’altezza dei tempi. Dopo venti anni di capitalismo vittorioso e pensiero unico trionfanti, la Storia ha ripreso a correre. Guai a chi cammina o resta fermo a giocare con le macerie.

1. DALLA FINANZIARIZZAZIONE ALLA CRISI DI SISTEMA

Gli equilibri mondiali emersi negli anni ’90, dopo la fine del «socialismo reale», sono oggi tutti in discussione.

Il periodo della finanziarizzazione sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva aprendo un nuovo scenario carico di pericoli, ma soprattutto di potenzialità. L’instabilità è ormai la condizione generale dello sviluppo sociale, politico e internazionale. L’Occidente – fin qui soggetto centrale dell’imperialismo – si trova ad affrontare un trauma senza precedenti.

L’irrazionalità capitalista emerge con chiarezza dalla distruzione di ricchezza, diritti, culture che ne avevano caratterizzato il periodo di espansione; mette fine al post-bellico «compromesso tra capitale e lavoro» e il degrado sociale investe ora direttamente i settori di classe interni ai paesi più avanzati. La crisi occupazionale, la precarietà generalizzata, il calo dei redditi da lavoro, la devastazione ambientale dei territori e la fine di ogni tutela sociale o legale, fino all’eliminazione dei diritti sociali e di quelli di genere, sono effetti che si riproducono con molte somiglianze a livello mondiale.

Sullo sfondo di questa regressione generalizzata, di questa autentica crisi di civiltà, traspare ora con nettezza il lavorìo della contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. Se la vogliamo dire in parole semplici, la potenza immane del sistema industriale esistente ha preso a girare a vuoto nel momento in cui lo scopo del produrre – il profitto – è diventato troppo «miserabile» per andare oltre. Questa potenza permetterebbe di sfamare fino alla sazietà l’umanità intera. Permetterebbe di ridurre il tempo di lavoro individuale a una frazione accettabile delle 24 ore, liberando tempo di vita per ciascuno. Ma un impiego socialmente utile di questa potenza implica un rovesciamento completo delle finalità della produzione, che parte dal chi decide cosa produrre, ridisegna il come farlo e come si ridistribuisce la ricchezza prodotta.

Lo strappo violento della crisi sistemica mette davanti agli occhi di tutti quella lampante contraddizione: si potrebbe fare di tutto, ma non possiamo fare nulla. E ci chiedono di subire, cercando di dividere chi è obbligato a lavorare sempre di più e chi deve inginocchiarsi per chiedere un lavoro. L’ostacolo diventa evidente: la proprietà degli strumenti, dei mezzi, delle macchine con cui si produce è in mano a pochi. E’ privata nel duplice senso: appartiene solo ad alcuni, tutti gli altri ne sono privi.

Quando questa contraddizione riemerge dal sottosuolo delle stratificazioni e diviene sensibile alla percezione comune si pongono, in senso quasi «tecnico», le condizioni oggettive per un’epoca di rivoluzioni sociali. La partita del potere si apre, senza soluzioni predeterminate. Ogni classe e ogni opzione politica fa il suo gioco. Ma il risultato, marxianamente, dipende da come si gioca.

Questa contraddizione che alimenta, dunque, il conflitto capitale lavoro nelle sue forme attuali e mondializzate, dà corpo materiale a quell’internazionalismo della classe che il movimento comunista ha sempre avuto come riferimento ma che, negli ultimi decenni, ha diluito in una solidarietà internazionalista doverosa ma sempre più generica perché confusa nelle sue finalità di classe.

Siamo insomma di fronte a un passaggio cruciale che – fra progressivo impoverimento in Occidente e contestuale sviluppo di altre aree – determina modificazioni sostanziali anche nelle figure che concretamente operano dentro i singoli contesti nazionali e continentali. La distruzione di ogni futuro per le giovani generazioni, la contrapposizione tra aspettative e realtà, accompagna la svalorizzazione di quelle funzioni produttive di carattere intellettuale che, da sempre, venivano considerate privilegiate e parti integranti del blocco sociale dominante.

Ma si presentano oggi altri limiti che il capitale non ha voluto o saputo considerare. La devastazione dell’ambiente e l’utilizzo dissennato delle risorse non riproducibili del pianeta – in diversi casi vicine o oltre il punto di non ritorno – si vanno ad aggiungere alla resistenza opposta dalla forza-lavoro.

Secondo diversi indicatori attendibili, ci troviamo già oggi molto vicini al punto in cui la devastazione ambientale ed il saccheggio indiscriminato della natura porta all’irreversibile esaurimento delle risorse. Questi due problemi, dunque, vanno collocati fin da subito dentro la prospettiva – e il programma – della trasformazione radicale dell’esistente. I popoli dell’America Latina ci sono arrivati per primi. E’ bene impararne la lezione.

Tale accumulo di contraddizioni non è più sopportabile neanche per la democrazia borghese. Vediamo in ogni paese dell’Occidente, sotto la pressione della crisi, avanzare una nuova idea di gestione del potere mutuato direttamente dalla cultura d’impresa. La governance viene a sostituire la ricerca della mediazione tra interessi diversi, funzione storica della democrazia parlamentare. La governabilità – per restare dentro gli asfittici confini italiani – è uno schiacciasassi che non tollera più i limiti posti dalla Costituzione antifascista. Si crea perciò una situazione contraddittoria: per un verso è indispensabile difendere ed estendere gli spazi democratici e difendere la Costituzione, per l’altro questa difesa impedisce di pensare un equilibrio sociale più avanzato, che vada oltre quei confini e un equilibrio sociale superato nei fatti.

La sfera politica, interna e internazionale, si mostra impotente davanti al potere devastante di organismi economici sovranazionali, di fatto irresponsabili di fronte a qualsiasi conseguenza sociale o nazionale e del tutto privi di «legittimità democratica». Lo scontro passa oggi per linee interne agli assetti dominanti, lungo le rime di frattura che si vanno creando nei rapporti tra imprese multinazionali, poteri statuali di forza altamente diseguale (la Cina non si fa certo «comandare», a differenza di paesi più piccoli), aree geostrategiche un tempo di importanza secondaria. Le possibilità di conflitto (interimperialista, anti-colonialista o anti-neocolonialista, di emancipazione complessiva – vedi il mondo arabo all’inizio del 2011) si vanno moltiplicando senza trovare nessuna istanza politica globale che possa corrispondere, sia pure imperfettamente, all’inestricabile interconnesione delle economie.

L’impossibilità di un «keynesismo del ventunesimo secolo» nasce qui. Ogni tentativo di riproporlo su base nazionale non può che accelerare – come negli anni ‘30 del secolo scorso – la prospettiva della guerra. Ma se non si può gestire in modo razionale l’economia, la politica diventa un luogo di gestione puramente passiva di vincoli decisi altrove. Non c’è quindi da stupirsi se assistiamo a un degrado etico e morale di dimensioni mai viste. E non parliamo certo solo dell’Italia berlusconiana.

Il pericolo della guerra appare in tutta la sua evidenza se si tiene conto che – a fronte della profonda crisi dell’imperialismo classico – si va affermando una crescita impetuosa dei paesi della periferia produttiva, dall’Asia all’America Latina, che rimette in discussione gli equilibri strategici del pianeta. L’espansione delle economie emergenti aveva fin qui permesso al «centro» una tenuta economica, sociale e politica, basata su uno scambio non esplicito: salari fermi, ma merci-base a prezzi inferiori o bloccati. Ora queste aree hanno un’autonomia relativa che permette anche un maggiore protagonismo politico. E’ un grande cambiamento, la dimostrazione delle grandi opportunità offerte dalla crisi. Non certo prive di rischi.


2. APPRENDERE DALLA STORIA. UNA QUESTIONE DI METODO

Siamo davanti a una crisi sistemica, dicevamo. Ma nessuna crisi, per quanto violenta, produce da sola la «crisi finale» del modo di produzione capitalistico. Per quanto devastanti possano esserne gli effetti, il «salto epocale» di sistema richiede un intervento soggettivo: ovvero una classe e un progetto. E se, all’inizio del movimento operaio, la visione globale era il portato soprattutto di un’analisi scientifica, oggi sono diventate visibili le condizioni comuni che caratterizzano non solo la forza lavoro in ogni paese del mondo, ma anche i limiti posti dall’ambiente e dalle risorse non riproducibili a una «ripresa» non traumatica del business as usual.

Ogni fideistica attesa della «catastrofe» che dovrebbe consegnarci un «nuovo mondo» va perciò allontanata come la peste. Così come ogni illusione – tipica delle «sette» politico-religiose – che «le masse» possano improvvisamente accorgersi che c’è già pronta una «linea giusta» pronta a guidarle.

La Storia ci insegna che – anche nelle fasi di grande confusione che possono sfociare in cambiamenti rivoluzionari – il risultato non è mai già scritto: Reazione e Rivoluzione sono entrambe in campo. E non possiamo negarci che i rapporti di forza oggi sono enormemente squilibrati; e non siamo noi quelli in vantaggio. Quella che abbiamo di fronte è quindi solo la possibilità della transizione. Un’occasione fornita dalla portata della crisi, non certo dalla soggettività politica oggi disponibile a livello globale. Perché è chiaro a tutti che – in una crisi sistemica – l’ordine di grandezza del problema della trasformazione si pone a questo livello. Per quanto ci riguarda più da vicino, dunque, almeno a livello europeo.

Quello della soggettività, in effetti, è stato un autentico punto di crisi del Socialismo sul finire del XX secolo. Tante le cause, di ordine sia storico che teorico. Potremmo elencarne molte, a partire dall’arretratezza della Russia pre-sovietica e dal peso che quell’arretratezza ha avuto – marxianamente – nel delineare i caratteri salienti del «socialismo possibile» nella prima metà del ‘900. Limiti che nulla tolgono all’assalto al cielo compiuto nel secolo passato, con centinaia di milioni di uomini e di donne, popoli interi, capaci di reagire alla barbarie imperialista e a due guerre mondiali. Un patrimonio inestimabile su cui scarsa è stata l’analisi e l’elaborazione teorica, tanto più indispensabile alla luce dell’autentico «crollo» verificatosi alla fine degli anni ‘80 e che non può certo essere ascritto a errori contingenti. Percorso da cui peraltro si distinguono, per motivi diversi, sia l’ircocervo cinese che la resistenza cubana.

I partiti che, specie in Italia, hanno gestito il «tesoretto» elettorale ereditato dal PCI, hanno preferito invece lucrare sulla simbologia e la retorica, mentre si adattavano senza troppi problemi a un’idea di governo come amministrazione dell’esistente.

Grande è, da questo punto di vista, la responsabilità, nel nostro paese, di chi si è intestato la Rifondazione Comunista, ma,nei fatti, ha lavorato per la rimozione e la demonizzazione di quell’esperienza, ignorando scientificamente un approccio critico (anche radicale) ma che rimanesse dentro il solco del pensiero marxista e del movimento operaio internazionale.


3. QUALE SOCIALISMO DEL XXI SECOLO?

La Storia non è però un archivio di soluzioni già pronte all’uso per affrontare i problemi dell’oggi, suggerisce analogie, fornisce spunti, avverte sui possibili errori. Ma in essa nulla si ripete, se non come farsa.

Non siamo un setta che attende la terra promessa. Non abbiamo in tasca un talismano che ci protegga dagli errori e ci guidi nelle scelte dure che la realtà pone ogni giorno. Dobbiamo perciò dire con chiarezza che per noi “il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente”. E’ insomma un principio attivo, un motore di conflitto, un prodotto dell’esistente e al tempo stesso ciò che la trasforma. Ogni “progetto” che non tenga conto della realtà empirica, fuori dai processi di organizzazione e mobilitazione di massa, è solo un sogno.

Il presente globale ci fornisce innumerevoli esempi di conflitto, in forme anche impensabili solo 30 anni fa (i movimenti integralisti, per dirne solo una). Ma certo non ci dà più un “modello” di riferimento sul tipo di approdo, desiderabile o possibile, della trasformazione sociale. Si può vivere questa “libertà di pensare” con angoscia o come un formidabile stimolo per mettere al lavoro la capacità creativa. Per guardare in faccia la realtà e cercare in essa le soluzioni, le strade del cambiamento, i punti di frattura nel muro dello sfruttamento.

L’America Latina, anche grazie al ruolo storico di Cuba, ci consegna un esempio di quest’ultimo tipo. Le soluzioni differenti da un paese all’altro, 30 anni fa, sarebbero facilmente state tacciate di “riformismo”, oppure di “localismo”, “etnicismo” e così via. E invece sono oggi l’avanguardia del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, perché sono riuscite a mettere in radicale discussione il dominio dell’imperialismo USA proprio nel loro “cortile di casa” e a determinarsi in chiave anticapitalista.

Non possiamo dire – né loro lo dicono – che lì ci si trovi di fronte al “superamento del modo di produzione capitalistico”. Ma l’emersione di questa nuova realtà ha vivificato i movimenti di classe in varie parti del mondo, è diventata il luogo privilegiato dei social forum, aggregando forme di attivismo politico e sociale che altrimenti resterebbero disperse e non comunicanti. Fornisce spunti, idee nuove, ricchezza di soluzioni originali, spesso uniche e irripetibili. Indicano una strada concreta in direzione del socialismo possibile in quelle condizioni date. Rimettono lo sviluppo economico con i piedi per terra, dandogli finalità di eguaglianza e recuperando un rapporto sano con la natura, i suoi tempi, i suoi limiti. Ma soprattutto ricorda a tutti che nessuna idea può esser “giusta” se non sa conquistare il cuore e la mente di sfruttati e diseredati.

Altrettanto importante è anche la ripresa del movimento comunista in Asia, dal Nepal alle Filippine, fino al subcontinente indiano, un movimento che sta ponendo il socialismo come opzione credibile in grado di coniugare l’antimperialismo e l’anticapitalismo.

Certamente più problematica è una valutazione sul modello sociale cresciuto sotto la bandiera rossa di Pechino. Per un verso, ha rotto con i principi della rivoluzione maoista e dato vita a un poderoso processo di “accumulazione originaria” del capitale per far uscire il paese dall’arretratezza
contadina. Nel far questo ha consapevolmente messo a disposizione delle imprese multinazionali centinaia di milioni di propri cittadini, in condizioni di lavoro inumane e senza alcun diritto, né in fabbrica né fuori. Per altro verso, nel far questo, ha seguito linee progettuali che non prevedevano una “resa” al modo di produzione dominante, ma il suo utilizzo per raggiungere uno scopo. Dalla Cina non arriva affatto, dunque, un’indicazione di alternativa sociale universalmente valida. Tanto più se teniamo conto che la sua crescente potenza manifatturiera accelera tutti i processi che portano a scontrarsi con i limiti naturali invalicabili (clima, ambiente, risorse non riproducibili).

Sul piano geostrategico, invece, lo sviluppo cinese ha modificato i rapporti di forza globali. La delocalizzazione della manifattura ha lasciato infine l’Occidente imperialista privo di una leva fondamentale per l’accumulazione. Sul piano delle condizioni di vita, il miglioramento relativo dei livelli di reddito per la popolazione cinese (cui si è aggiunto il pesante contributo dell’India e di altri paesi “emergenti”) è andata di pari passo con l’impoverimento relativo delle classi subordinate dei paesi sviluppati. L’esplicitarsi dei caratteri strutturali e sistemici della crisi si è quindi tradotto, da questa parte del mondo, nel rapido accantonamento del “compromesso tra capitale e lavoro”, proprio mentre laggiù si cominciano a introdurre i primi istituti di welfare. La “convergenza” oggettiva dei livelli di reddito e degli stili di vita riduce i differenziali su cui le imprese son solite giocare per massimizzare i profitti e crea situazioni sociali meno distanti, composizioni di classe meno disomogenee. Avvicina i popoli perché rende simili i loro problemi e quindi anche le possibili soluzioni.

Segnali ambivalenti, su cui manca per ora un’analisi adeguata, ma che sconsigliano facili entusiasmi o condanne ideologiche che lasciano il tempo che trovano (declinabili – su fronti opposti – sia come “tradimento del comunismo” o come “mancato rispetto dei diritti umani”).

Il dato nuovo che deve interessare è di tutt’altra natura: con la crisi si vanno creando le condizioni oggettive che rendono contemporaneamente possibile e necessario, per l’umanità, porre all’ordine del giorno il superamento dell’attuale modello di sviluppo. Da forze, movimenti e stati storicamente esterni al “centro imperialista” come dal patrimonio storico, ma in tempo reale – possono venire suggestioni, analogie, “sponde”. Ma il compito di definire una strategia e un’azione politico-sociale che sia all’altezza della situazione e sagomata sulle caratteristiche dell’area in cui viviamo è per intero responsabilità nostra; dei comunisti presenti in ogni paese.


4. L’UNIONE EUROPEA, UN POLO IMPERIALISTA

Non possiamo che partire da un giudizio chiaro sulla natura della Unione Europea, un progetto imperialista ancora incompleto, ma che va avanti nonostante le crescenti contraddizioni dell’economia e della politica internazionale.

La nascita dell’euro ha segnato una svolta importante per la storia dell’Europa ma ha anche dato il segno del carattere strategico dell’Unione Europea nella competizione globale.

Le cause che hanno spinto il processo di unificazione economica europea sono profondamente strutturali e attengono pienamente alle dinamiche dello sviluppo capitalista. Il rapido sviluppo che le forze produttive hanno avuto, nell’ultimo trentennio nei paesi imperialisti dell’Europa, gli hanno consentito d’imporre una razionalità produttiva che, per sostenere i livelli di competizione e di ristrutturazione produttiva conseguente, ha imposto una dimensione economica, e quindi politica e statale, più ampia di quella fornita dalla sola dimensione nazionale dei singoli Stati europei.

Si è trattato, dunque, di scelte eminentemente politiche dettate dalla necessità di assecondare le dinamiche del capitalismo moderno. E’ in corso a livello globale un processo di costituzione in aree economiche e monetarie che non riguarda solo l’Europa ma anche gli altri stati imperialisti: gli USA, ad esempio, con il NAFTA e il tentativo di estenderlo a livello centro e latinoamericano, ma anche in Asia, prima intorno al Giappone, sebbene i tentativi siano falliti. Questa necessità di strutturarsi in blocchi di Stati integrati, per poi competere a livello globale, si presenta anche per i paesi della periferia produttiva dell’Asia, dell’America Latina, dell’Africa concretizzandosi con l’emersione dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).

In questa fase storica in cui l’Euro si sta ormai conquistando un ruolo economico internazionale capace di competere con il dollaro, si vanno costituendo, con fusioni e acquisizioni, imprese europee capaci di superare la loro precedente base nazionale, assurgendo ad una dimensione transnazionale che influenza in senso reazionario le politiche delle istituzioni europee, le quali, a loro volta, condizionano pesantemente e sempre più frequentemente le scelte politiche dei singoli Stati nazionali. A chi lamenta l’inadeguatezza o il lento procedere della costruzione dell’Unione Europea, va fatto rilevare che, assai spesso, sono proprio gli europeisti più convinti a mostrare la loro insoddisfazione per un processo che avrebbero voluto molto più veloce e irreversibile anche attraverso una Costituzione Europea tecnocratica e molto lontana da una concezione di effettiva democrazia.

Abbiamo davanti agli occhi una nuova accelerazione dovuta all’acuirsi anche in senso politico e sociale crisi economica internazionale: il salvataggio del sistema finanziario, delle banche europee e l’esplosione del debito sovrano che produce un enorme trasferimento di ricchezza dalla classe lavoratrice ai detentori di titoli e alla finanza; tutto ciò rafforza la gerarchizzazione delle borghesie continentali e la costituzione, dentro questo quadro, di una vera e propria borghesia europea.

La borghesia tedesca si candida, più delle altre, a essere il nucleo forte della costituenda borghesia europea unificata. Emergono in tale contesto sia alleanze e contraddizioni con le borghesie degli altri paesi forti dell’Europa, quali la Francia e l’Inghilterra, sia una subordinazione gerarchica degli altri Stati europei più deboli quali la Spagna, la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e l’Italia. Una subordinazione che diviene totale per la vicina periferia produttiva interna alla Unione Europea come i paesi (ex socialisti) dell’est Europa.

Lo sviluppo della produzione, nella dimensione internazionale ed europea, ha determinato nell’ultimo trentennio (e continua a determinare) profonde modificazioni nella classe lavoratrice dei paesi imperialisti come in quelli della periferia. Nel polo imperialista europeo è andata creandosi una gerarchia legata al ruolo produttivo dei diversi paesi, generando condizioni oggettive e percezioni di se stessa da parte della classe lavoratrice, diverse dal passato e variamente modulate all’interno del proprio assetto attuale.

Al centro della produzione in Europa, ci sono infatti i livelli scientificamente e tecnologicamente più avanzati, la finanza e le grandi banche, lo sviluppo della società dei servizi e le aree dove il commercio e il consumo rappresentano il mercato maggiormente appetibile.

Con gli eventi nell’Europa dell’Est alla fine del XX Secolo, si è creata una prima periferia produttiva continentale dove il costo del lavoro è tale da poter produrre profitti elevati per le imprese del nucleo forte europeo e dove attraverso la disgregazione forzata o la debolezza degli Stati sono state prodotte condizioni ottimali per la finanza e le banche dell’Europa occidentale.

Ma è venuta emergendo anche una nuova periferia produttiva, istituzionalmente ancora esterna all’Unione Europea, situata nella sponda sud del Mediterraneo, una periferia che consente nuovi spazi per la realizzazione dei profitti aumentando lo sfruttamento della forza lavoro. Questa ambizione europea si disloca anche in Asia ed in America Latina.

L’Europa imperialista produce, dunque, una diversificazione della classe lavoratrice e delle classi subalterne che è funzionale alla stabilità e al proprio dominio politico. Il riconoscimento della nascita di un’aristocrazia salariata europea, con privilegi economici e sociali che oggi iniziano a essere erosi dalla crisi, è parte integrante dell’analisi marxista e leninista della società e pone problemi politici rilevanti e adeguamenti altrettanto importanti per le organizzazioni comuniste che agiscono nello spazio europeo. Infatti anche in uno dei cuori pulsanti del capitalismo, l’assetto prodotto dalle precedenti fasi di riorganizzazione internazionale deve oggi, fare i conti con la crisi di sistema che continuerà a caratterizzare i prossimi anni e che costituirà lo scenario nel quale sarà possibile ricostruire il terreno per la riaffermazione delle forze di classe.


5. ITALIA. UN CAPITALISMO SENZA BORGHESIA

L’Italia è parte integrante di questo processo, lo promuove e lo subisce con intensità superiore alla media, con la polarizzazione ormai evidente tra le pochissime imprese di dimensione multinazionale e la poltiglia delle microaziende senza alcuna autonomia progettuale.

Di conseguenza, difficilmente la nostra borghesia – se paragonata col resto dell’Europa – può meritare d’esser definita tale, in quanto non è classe dirigente. I gruppi più rilevanti fanno profitto sfruttando posizioni di monopolio o oligopolio acquisite grazie ai processi di privatizzazione, al parassitismo a spese dello Stato a stretto contatto – negli appalti e subappalti – con le grandi organizzazioni criminali. Sfruttano economie di scala nella concorrenza con la piccola impresa e contribuiscono a tener bassissimo il costo del lavoro. Un esempio concreto viene dalle banche, che hanno dato vita a un processo di concentrazione per fusione dopo la privatizzazione degli istituti di diritto pubblico e di quelli “di interesse nazionale”. Si vanno unificando così le quantità e le funzioni derivanti dalle rendite di posizione e di quelle immobiliari e finanziarie.

Profitti e rendite sono state salvaguardate anche eliminando gli investimenti in ricerca e sviluppo; mai con una politica industriale forte, come in Germania e in Francia. Del resto questa è una conseguenza diretta della volontà di limitare oltre il ragionevole “l’intervento dello Stato nell’economia”.

Incapace di sostenere la normale competizione capitalista (idolatrata a chiacchiere), è una borghesia che si è rifugiata in una condizione protetta ma debole, che oggi paga dazio a una storica debolezza strutturale. La crisi permanente della classe politica – da Tangentopoli in poi – è lo specchio di una classe senza spina dorsale, che rende di fatto impossibile un compattamento intorno a progetti-paese. Centrodestra e centrosinistra ne sono espressione fedele e impotente.

Una borghesia, dunque, da sempre e per sempre forte con i deboli e debole con i forti, incapace di essere classe dirigente ma solo classe dominante. La sua crisi rischia di far pagare al nostro paese un prezzo molto più salato del solo arretramento economico e “competitivo”. Sta rapidamente perdendo ruolo in Europa e precipita verso una posizione subordinata e ininfluente, prefigurando un futuro non troppo dissimile da quello della borghesia meridionale durante il processo di unificazione nazionale dell’Italia.

Un quadro che rende ancora più critica la condizione dei lavoratori, sotto ogni tipo di azienda o condizione contrattuale (“stabili”, precari, in nero). Qui più che altrove è stato violento l’arretramento sul piano sindacale, salariale, dei diritti. Perché qui più che altrove il movimento operaio aveva realizzato conquiste poi incardinate in atti legislativi, riforme del welfare, istituzioni e corpi sociali intermedi. Un processo di smantellamento iniziato assai presto (l’abolizione del “punto di scala mobile”, voluta da Craxi addirittura nell’84) e che ha subito un’accelerazione violenta dalla metà degli anni ’90 in poi, qualsiasi fosse la composizione del governo in carica. Un processo che ha coinvolto i sindacati confederali, inchiodati al patto di concertazione fin dal 1993, ed ora in caduta libera nella “complicità” neocorporativa.

Una situazione difficilissima, risultato della mutazione genetica dei partiti e dei sindacati della sinistra storica, più ancora che delle modificazioni nella composizione di classe.

Questa Italia, dunque, dentro il processo di unificazione europea, viaggia in direzioni opposte: dentro il nucleo forte dell’Europa, attraverso l’apparato produttivo del nord e, in parte, verso la marginalizzazione. Una polarizzazione che aggrava la permanente questione meridionale e ha fatto crescere, nel nord del paese, pericolose derive separatiste e apertamente razziste.

L’aristocrazia salariata di casa nostra ha visto modificarsi la propria condizione economica e, nel crollo delle soggettività di sinistra, anche la coscienza di sé. La propensione razzista verso gli immigrati, percepiti come un pericolo per il mantenimento del proprio status sociale, affonda in parte la sua ragion d’essere nella confusa consapevolezza che il vecchio sistema sta cadendo a pezzi. La Lega e il berlusconismo si sono inseriti in queste paure di massa, alimentandole a cavalcandole senza riserve.

E’ un quadro molto diverso da quello che era stato ereditato dal dopoguerra e fino a metà degli anni ’80. Per chi, come i comunisti, si pone l’obiettivo della trasformazione sociale, diventa perciò fatale qualsiasi coazione a ripetere vecchie soluzioni, argomentazioni, slogan. E soprattutto qualsiasi tentazione di “arroccarsi” nella pura gestione di un patrimonio di consensi ormai in scadenza (sul piano elettorale), così come nella dimensione di “piccola comunità ideale”. Due tendenze manifestatasi ampiamente nel corso dell’ultimo decennio, quando la dimensione meramente istituzionale ha prevalso su tutto.


6. LA PROPOSTA POLITICA DELLA RETE DEI COMUNSITI

Fino alla seconda Assemblea Nazionale del 2007 la Rete dei Comunisti ha agito come una sorta di intellettuale collettivo al «servizio» dell’azione politica e sindacale e della ricostruzione di un punto di vista comunista della realtà. Non abbiamo mai inteso essere un «cenacolo», al contrario abbiamo sempre ritenuto doverosa e discriminante l’internità dei militanti ai movimenti reali che si esprimono sul piano delle lotte sociali, per la solidarietà internazionalista, per il sindacato di classe, né ci siamo mai sottratti al dibattito sulla rappresentanza politica che oggi riguarda materialmente pezzi significativi del blocco sociale antagonista e della sinistra di classe. Sta qui la dialettica tra progetto strategico della Rete dei Comunisti e capacità di agire nelle lotte e nei movimenti sociali, senza rinunciare alla battaglia delle idee e all’analisi critica della nostra storia passata e presente.

Abbiamo definito questa modalità di concezione e di azione politica come articolata su “tre fronti”.

A) Il “fronte strategico” attraverso la ricostruzione di una analisi e di un punto di vista comunista della realtà, un processo iniziato a metà degli anni Novanta che ha sviluppato la ricerca e l’attualizzazione su temi come l’imperialismo, la composizione e l’inchiesta di classe, le caratteristiche del conflitto tra capitale e lavoro, il passato e il presente delle esperienze di transizione al socialismo

B) Il “fronte politico” che ha sempre avuto ben presente l’esigenza della rappresentanza politica (anche elettorale) come espressione però di interessi di classe definiti e organizzati e non – dunque – di mera rappresentazione di residue storie politiche e personali della sinistra per quanto dignitose esse possano essere.

C) Il “fronte sociale” dell’organizzazione diretta dei settori del blocco sociale antagonista tramite il conflitto di classe nei posti di lavoro e nelle aree metropolitane, un processo questo che ha le sue radici, esperienze, elaborazioni e convinzioni sin dagli anni Settanta.

Abbiamo inteso articolare la nostra azione politica su tre fronti perché la loro sintesi nel nostro paese è andata liquidandosi nel corso del tempo, sia sotto i colpi dell’avversario e delle modificazioni nella realtà sociale, sia per le crescenti contraddizioni interne dei partiti comunisti esistenti.

Rimettere in campo una nuova e immediata sintesi tra strategia, organizzazione del blocco sociale antagonista e rappresentanza politica di classe, non ci è sembrato in questi anni un traguardo accessibile. Più volte e pubblicamente abbiamo dichiarato la nostra non autosufficienza come organizzazione politica comunista per riempire un vuoto che si è andato allargando negli anni.

Nasce da questa coscienza comune la decisione di procedere “a rete”, riconnettendo un tessuto di quadri, militanti, attivisti, intellettuali comunisti, consapevoli dei passaggi da operare e liberati culturalmente dal macchiettismo che produce continuamente piccoli e nuovi partiti comunisti, generali senza eserciti, o eserciti di attivisti sociali ma senza una sintesi generale con i piedi saldamente piantati a terra.

Questa concezione dei tre fronti è stata spesso poco compresa o talvolta avversata da compagni che hanno perpetuato una concezione riformista del partito comunista o una “affascinante” ma finora inefficace sintesi tra soggetto politico e soggettività sociale.

Con la terza Assemblea Nazionale della Rete dei Comunisti abbiamo inteso precisare le caratteristiche e le ambizioni possibili di tale proposta.

A. La costruzione del partito dei comunisti

Il documento e l’incontro nazionale del febbraio 2010 su “Organizzazione e Partito” ha messo nero su bianco la nostra elaborazione sul partito comunista, inteso come “partito di quadri con funzione di massa”. In essa vi è l’analisi sulla realtà in cui siamo chiamati ad agire (un paese intermedio ma nel cuore del capitalismo maturo), sul nesso tra il partito e la composizione di classe esistente e nella collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro, sulla funzione di un partito comunista dentro la complessità di una società come quella in cui viviamo nel XXI Secolo. La nostra concezione di partito confligge apertamente con quella venuta imponendosi negli anni, che ha visto prevalere i partiti dei funzionari, organizzazioni della mera propaganda, apparati elettorali e della predominanza dei gruppi parlamentari sulla vita politica e sulle priorità.

Abbiamo potuto verificare come militanza e organizzazione siano diventate due esperienze desuete nella formazione e nella sperimentazione di migliaia di compagne e compagni nel nostro paese. Dalle teorizzazioni del “partito leggero” alla realtà dei partiti come “apparati elettorali” o dei nuovi “partiti ad personam”; l’idea stessa dell’organizzazione come ambito per l’aggregazione, la formazione, la discussione, la comprensione, l’attivizzazione dei compagni e come strumento indispensabile del conflitto sociale, è stata demolita. La militanza si è ormai trasformata solo in adesione tramite tesseramento, in una attività quasi dopolavoristica nelle sedi (quando ci sono), in propaganda e campagne elettorali. Costruire soggettività e identità politica con questi criteri si è rivelato devastante per una idea anche minima di militanza attiva e di radicamento sociale.

Riaffermiamo, dunque, la nostra concezione di partito come intellettuale collettivo piuttosto che come “appendice del segretario e delle sue capacità”. Ma è anche una concezione processuale della sua costruzione che nega al partito il valore feticista che gli si è venuto attribuendo come soluzione taumaturgica di tutti i problemi. In tal senso affermiamo che in questo processo di costruzione del partito la Rete dei Comunisti non è e non ritiene di poter essere autosufficiente. Ne deriva che intendiamo facilitare – anche formalmente - in ogni modo i processi di confronto, convergenza, amalgama con altri compagni e soggettività comuniste che lavorano nella stessa direzione. Rivendichiamo come nostra la storia del movimento comunista del XX, ne rivendichiamo gli errori e i successi ma intendiamo indagarne e comprenderne a fondo le contraddizioni. La trascuratezza nell’elaborazione teorica, la scarsa conoscenza della storia e lo schematismo che hanno dilagato in questi ultimi trenta anni, sono stati un ostacolo ad un serio bilancio storico ed hanno spianato la strada alle posizioni liquidazioniste che oggi si offrono di nuovo come soluzione alla crisi della sinistra e dei comunisti.

B. Rappresentanza politica indipendente e fronte politico-sociale anticapitalista

I comunisti non possono sottovalutare le contraddizioni che si sono accumulate in questi anni e i conti che gli presenta la storia. Non esiste più il tesoretto elettorale del PCI, né rendite di posizione che consentono di dare come scontata la credibilità e la funzione emancipatrice che hanno avuto nella storia. La funzione dinamica e di avanguardia dei comunisti va completamente riconquistata dentro le contraddizioni e le forze sociali. Quando parliamo di rappresentanza politica indipendente del blocco sociale antagonista intendiamo riaffermare la centralità dell’autonomia degli interessi di classe da quelli delle compatibilità di sistema. L’espressione organizzata di questi interessi, anche sul piano elettorale, confligge apertamente con ogni subalternità alla logica bipartizan di gestione della crisi ed a forze politiche che dichiarano apertamente di voler cooptare i lavoratori dentro al patto neocorporativo. Voler battere Berlusconi non significa consegnare nuovamente le classi subalterne nelle mani dei suoi competitori nelle banche, nella Confindustria e nell’establishment dell’Unione Europea. I comunisti non possono che lavorare ad una rappresentanza politica indipendente e di classe che sia il risultato di alleanze sociali di segno anticapitalista.

Allo stesso tempo non è possibile ignorare che la soggettività antagonista che si esprime nella società non è tutta nè solo dei comunisti. Nel conflitto di classe sono venuti emergendo attivisti e movimenti sociali anticapitalisti che non riconoscono la propria identità dentro quella comunista. E’ così nel nostro paese ed è così in molte parti del mondo. I soggetti politici della trasformazione sociale sono oggi molto più articolati di quanto lo siano stati in passato. Il confronto e l’azione comune con queste soggettività presuppone rapporti leali e identità politiche definite. La ricomposizione di un fronte politico-sociale anticapitalista che includa organizzazioni sociali, sindacali, ambientaliste, soggetti politici, intellettuali antagonisti o democratici su una piattaforma politica e sociale avanzata, può e deve diventare un percorso praticabile anche in un paese a capitalismo maturo come l’Italia. E’ dentro e non fuori questo fronte politico-sociale che i comunisti debbono e possono svolgere una funzione propulsiva e non meramente strumentale o propagandistica.

Occorre riaffermare con forza come la rappresentanza politica non può che essere l’espressione organizzata degli interessi del blocco sociale antagonista e dei settori sociali che lo esprimono. Si tratta dunque di una visione estremamente diversa da quella di compagni che la interpretano come mera rappresentanza elettorale o semplice coordinamento delle forze della sinistra. Confondere questi due livelli ingenera confusione e riproduce quel politicismo da cui occorre liberarsi con estrema decisione.

C. Il rapporto di massa e il fronte sociale

L’elemento dirimente per ogni prospettiva credibile di ricostruzione dell’opzione comunista in Italia o di una rappresentanza politica del blocco sociale antagonista, è il rapporto tra i militanti e i settori sociali. Un rapporto che non può certo fondarsi solo sulla propaganda (tantomeno solo sulla propaganda elettorale) ma che deve essere un nesso stretto e inscindibile nella funzione dei comunisti. Quando negli anni Settanta si era parlato di “proletarizzazione” dei militanti non si indicava una prospettiva di tipo missionario quanto un approccio alla realtà e un metodo di lavoro.

In questi anni abbiamo elaborato, costruito e praticato un metodo nel lavoro di massa attraverso la costruzione del conflitto sociale organizzato, sia nei posti di lavoro sia nelle aree metropolitane; una ipotesi che riprende esperienze già sperimentate in passato e tenta di adeguarle alla realtà e alla complessità sociale di oggi.

L’individuazione delle aree metropolitane come ambito in cui quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono ricomporsi in fronte di lotta e blocco sociale antagonista in presenza di una profonda frammentazione sociale, indica concretamente una ipotesi di sperimentazione, radicamento e ricomposizione di classe a nostro avviso decisivi. La questione del rapporto di massa è un terreno di verifica importante nel ruolo dei comunisti in una società integrata nel cuore sviluppato del capitalismo, soprattutto perché intendiamo una rapporto di massa organizzato e non limitato alla propaganda.

Alla disgregazione materiale e culturale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale del sistema occorre dare risposta con un forte ruolo della soggettività politica dei comunisti nei processi di ricomposizione del conflitto di classe, ma sarebbe un errore clamoroso pensare di avviare questi processi fondamentali a partire dalla “politica” e non dalla comprensione teorica di come si costruisce il rapporto di massa, qui ed ora. Far crescere il rapporto di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e degli strumenti interpretativi adeguati alle caratteristiche della classe reale è un compito al quale i comunisti non possono sottrarsi.


7. COSTRUIRE L’ORGANIZZAZIONE DEI COMUNISTI

Il punto è, allora, cosa sono i comunisti oggi e cosa fanno nell’Italia e nell’Europa appena descritte. Certamente la questione del partito, dell’organizzazione, del rapporto di massa sono le questioni concrete cui dare una risposta più adeguata possibile alle condizioni in cui si opera, ma vengono prima alcune questioni di fondo, alla base, cioè, di ogni processo di riorganizzazione dei comunisti, attenendo alla funzione che questi devono svolgere nell’indicare una diversa idea di società e di relazioni sociali.

La prima questione che riteniamo fondamentale è quella del senso del collettivo. Gli ultimi decenni sono stati devastanti dal punto di vista della cultura politica dei comunisti. La crisi politica e la dimensione pervasiva delle relazioni istituzionali, vissute come esclusive e autoreferenziali, ha prodotto un individualismo diffuso, una competizione personale e un arrivismo indecente che ha smontato, pezzo a pezzo, un patrimonio unico nell’occidente capitalistico: quello del movimento operaio, del PCI e dell’intero movimento degli anni ’70. Questa mutazione è stato il riflesso assorbito passivamente dai comunisti verso la modifica dei rapporti di forza tra le classi, della ripresa di egemonia dei valori borghesi che ha riguardato la classe ed il popolo del nostro paese ed ha portato al tradimento di quella democrazia progressiva obiettivo delle lotte popolari del dopoguerra. Su questa seconda natura posticcia, acquisita dai comunisti e dalla sinistra in genere, va dato anche un netto giudizio etico: la corruzione intellettuale subita, sebbene non sia il punto centrale, ci obbliga, infatti, ad assumere posizione anche su questo piano.

Il danno principale, per i comunisti italiani, è stato, invece, l’effetto prodotto da questi comportamenti: la distruzione dell’indipendenza delle organizzazioni di classe e il cui metro di valutazione obiettiva, oggi, sono i sempre più disastrosi risultati elettorali e la perdita d’indipendenza che ha avuto conseguenze profonde e devastanti nella battaglia delle idee per una concezione alternativa del mondo. Ricostruire, nella realtà odierna l’identità, la militanza e il senso del collettivo è, dunque, un compito primario da svolgere.

È il ruolo della teoria, l’altro terreno saccheggiato: l’oblio e la mistificazione di un pensiero forte che, lungi dall’essere fuori dal tempo, funziona ancora oggi, e cioè il marxismo. Anche questo è un segno della lotta di classe in atto: la forza del movimento operaio è stata la potenza di un pensiero razionale che sapeva interpretare il mondo e le sue dinamiche. Aver abdicato a questa funzione, aver favorito l’egemonia del pensiero debole, come anche aver sistematicamente anteposto il politicismo all’interpretazione e all’analisi, ha portato alla situazione attuale. La qualità della elaborazione teorica rimane centrale per una ricostruzione che, per quanto non dogmaticamente legata al passato, allo stesso modo non getti, però, il bambino con l’acqua sporca, riprendendo quegli elementi di teoria validi per l’azione, per recuperare, così, capacità d’analisi e d’intervento sul presente che calate compiutamente all’interno delle strutture socio-economiche e politico-culturali del momento, assumono tutta la loro specificità e tutta la loro dirompente forza di trasformazione: altro che ferri vecchi!

Se una critica deve esser mossa al movimento comunista del ‘900 – tutto intero – è di aver subordinato la teoria alla linea politica. Aver insomma messo la teoria al servizio – o a giustificazione – di scelte che sono sempre politiche. E come tali soggette ad errore. Non è avvenuto soltanto per l’Urss o il Pci. Ogni “eresia” di sinistra, nel secolo scorso, ha seguito l’identico schema, magari solo per giustificare scelte diverse o leader poi sconfitti.

Infine: il rapporto di massa. Non esiste nessuna seria “organizzazione comunista” se non è radicata nella classe e nel conflitto. Non si forma nessun quadro comunista se non si fanno i conti in prima persona con la realtà delle “masse” concretamente esistenti. Quando un “rivoluzionario” si scopre “senza un popolo”, vuol dire cha ha perso il sentiero. Il rapporto di massa è l’unico terreno di verifica delle capacità individuali e collettive di “costruire organizzazione”. Ogni ipotesi strategica o di linea politica, se non riceve il conforto della verifica di massa, resta una pura ipotesi. Ogni argomento che non “fa presa” su un interlocutore di massa reale, o è sbagliato o è “detto” in modo incomprensibile. Tra gli anglofoni si parla inglese, non italiano o latino.

Alla disgregazione materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto di classe; pensare di farlo partendo immediatamente dalla “politica” – magari intesa o nella sua dimensione più autonoma e astratta – significa continuare a seguire una via senza uscita. Far crescere il rapporto di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e di verifica delle proprie ipotesi, è invece un compito cui nessuno si può sottrarre. Noi per primi, ovviamente.

E’ partendo da questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione. Crediamo di poter affermare, perciò, che oggi l’Organizzazione dei comunisti non può che avere il carattere della militanza dei quadri e anche quello della ricerca di una qualità intesa come capacità edificatrice di un punto di vista organico al mondo moderno, quindi, recuperare quella “conoscenza del rapporto tra tutte le classi dal punto di vista della classe operaia” come viene ricordato nel “Che Fare?”. Il carattere militante dei quadri non significa ipotizzare una chiusura settaria ma è, al contrario, la condizione presupposta e necessaria per sviluppare al massimo una funzione di massa, per costruire processi larghi di organizzazione dovunque questo sia possibile, al di là di ogni concezione schematica e ossificata della classe e che coinvolga, invece, tutti i settori sociali, culturali e produttivi che hanno il comune interesse a una trasformazione sociale.

Solo così – ci sembra – diventa chiara la funzione dei progetti di costruzione della rappresentanza sociale, sindacale e politica – organizzata e indipendente – del blocco sociale penalizzato sia dallo sviluppo che dalla crisi del capitalismo.

E’ su questa chiarezza, su questa dimensione del fare, che fondiamo il senso stesso dell’agire da comunisti oggi. Perché siamo ciò che facciamo, non quel che diciamo – magari a noi stessi – di essere.

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