Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

giovedì 2 giugno 2011

Grecia e l'esempio Islanda: storia di una rivolta contro il neoliberismo


Islanda: storia di una rivolta contro il neoliberismo
di Francesco Caruso. Fonte: looponline

L’attenzione mediatica verso le rivolte del Maghreb è parte del dispositivo post-coloniale di governance della triade sicurezza-territorio-popolazione, dispositivo che sul campo, nel contenimento della materialità dei corpi insorgenti, viene demandato agli apparati militari. Si tratta di un ordine discorsivo volto a traghettare i vascelli tumultuosi della ribellione popolare dai sentieri scoscesi del sottosviluppo e dell’oscurantismo politico verso le autostrade illuminate della modernizzazione europea e i porti accoglienti delle mature democrazie occidentali: il tutto rigorosamente a debita distanza, perché, semmai qualcuno decidesse di sfidare il mare che lo separa dalla civile Europa, scoprirebbe sulla propria pelle la potenza pervasiva della mistificazione occidentale. Mentre si cerca di “europeizzare” le rivolte maghrebine (ponendo la democrazia rappresentativa occidentale come loro aspirazione massima, oppure decantando il ruolo della comunicazione telematica, fondamentalmente proiettata verso l’esterno, a detrimento della potenza di Al Jazeera e Al Arabiya quali strumenti di circolazione delle lotte), all’opposto si cerca di “deuropeizzare” la rivolta in Islanda, nel tentativo di isolare il virus dell’insorgenza popolare contro il potere finanziario globale ed evitare che si estenda, anche minimamente, a livello transnazionale. Si assiste a una razzializzazione del tutto particolare, una sorta di “orientalismo nordico”, attraverso cui relativizzare e deoccidentalizzare l’Islanda e il suo moto di ribellione: il moderno Stato islandese, per anni in cima alla classifica dell’astruso Human Development Index dell’Onu, che lo descriveva come il più florido del pianeta, diventa così una piccolissima nazione di poche centinaia di migliaia di pescatori accampati su uno scoglio remoto e gelido ai “confini” del mondo. Insomma, si può cancellare facilmente l’Islanda dalla mappa dell’Europa, come esortano gli stessi illustri commentatori dei quotidiani finanziari che fino a pochissimi anni fa ne tessevano le lodi facendone un esempio virtuoso di neoliberismo realizzato in cui l’“effervescenza” finanziaria conviveva e permetteva un aumento generalizzato del benessere. Alla favola del “lupo buono” gli islandesi credono fino a quando nel 2008 il castello di sabbia della forsennata finanziarizzazione crolla in tutto il mondo.
L’Islanda è uno dei paesi più drammaticamente coinvolti: la borsa locale perde il 74 per cento, la corona islandese precipita sui mercati valutari e il paese finisce letteralmente sull’orlo della bancarotta.
L’IceSave, una banca on line islandese che ha attirato diversi miliardi di euro dall’estero - qualcosa come dieci volte il pil nazionale - grazie ai suoi elevati tassi di interesse, fallisce. L’Inghilterra, seguita poi dall’Olanda, decide così di indennizzare i 300 mila clienti britannici e i 910 milioni di euro investiti da amministrazioni locali del Regno Unito, presentando poi il conto al governo islandese.
Per cercare di mettere una “pezza” sulla voragine finanziaria, il governo del conservatore Geir Hilmar Haarde decide, nell’autunno del 2008, di nazionalizzare le banche più importanti del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir. Una soluzione “sovietica” finalizzata a garantire profitti e rendite pregresse attraverso la socializzazione delle perdite: mai come in questa fase la mistificazione e l’ipocrisia degli ideologi del capitalismo si mostrano in tutta la loro sfacciataggine.
In Islanda, però, il meccanismo si inceppa per l’intervento di una variabile imprevista e incontrollata. Migliaia di cittadini scendono in piazza, assediando il parlamento con un cacerolazos in stile argentino che andrà avanti per alcune settimane, fino a costringere il primo ministro a rassegnare le dimissioni nel gennaio del 2009.
Nelle elezioni anticipate di aprile, ottiene la vittoria una coalizione di sinistra guidata da Jóhanna Sigurardóttir. Il nuovo governo vara una legge per la restituzione del debito di tre miliardi a Gran Bretagna e Olanda, somma che dovranno pagare tutte le famiglie islandesi “in comode rate” da un centinaio di euro a persona per i prossimi 15 anni, al 5,5 per cento di interesse. Tuttavia, gli islandesi scendono di nuovo numerosi in piazza, fino a quando nel gennaio 2010 il presidente della Repubblica convoca una prima consultazione referendaria dove il “no” al pagamento del debito incassa il 93 per cento dei voti. Il governo socialdemocratico sceglie allora di recuperare il terreno perduto attraverso una strategia diversificata. In primo luogo, sul terreno politico avvia un processo di autoriforma, con l’obiettivo di ricostruire la credibilità delle istituzioni politiche spazzata via dalla crisi finanziaria: la scelta di convocare un’assemblea costituente per riscrivere la costituzione del paese si propone, in ultima istanza, la ricostruzione di una connessione simbolica e materiale tra la sfera istituzionale e le istanze che continuano a ribollire nella società. Il 27 novembre 2010, vengono eletti 25 cittadini costituenti, senza alcun collegamento politico e alcun precedente incarico elettivo, tra le 522 candidature popolari.
In secondo luogo, il parlamento approva all’unanimità, il 26 giugno 2010, l’Icelandic Modern Media Initiative, la cosiddetta “legge sbavaglio” per la protezione della libertà di informazione che di fatto trasforma l’Islanda in un rifugio sicuro per il giornalismo investigativo e la libertà di informazione, una sorta di “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli Internet provider. In terzo luogo, il governo cerca di raffreddare la rabbia sociale attraverso l’individuazione della responsabilità di alcuni personaggi chiave della finanza locale: viene aperta una inchiesta parlamentare e spiccati alcuni ordini di cattura internazionale, come nel caso del presidente della Landsbanki Sigurour Einarsson, attualmente ricercato dall’Interpool.
Ma è ancora sul piano economico che si gioca la partita più importante. Il governo decide di approntare un piano di rientro più soft, che viene presentato come una conquista della mobilitazione popolare, essendo molto più ridotto in termini quantitativi (da tre miliardi si passa a 440 milioni di euro) e molto dilazionato sul lungo periodo (il pagamento è rateizzato fino al 2046). Il movimento di protesta a questo punto si divide tra chi lo ritiene comunque un buon compromesso e chi invece sospetta si tratti in realtà di un accordo-ponte, ma soprattutto si rifiuta di far ricadere sulle spalle delle generazioni future le porcherie dei responsabili della crisi finanziaria.
In parlamento, l’accordo viene sottoscritto dalla quasi totalità delle forze politiche, ma gli islandesi non si arrendono: l’assedio a oltranza del parlamento e le 43 mila firme raccolte in pochi giorni costringono nuovamente il presidente della Repubblica a sottoporre la legge a consultazione popolare: il 9 aprile 2011, la maggioranza degli islandesi, il 58 per cento, vota “no” all’accordo. I governi stranieri protestano, si minaccia il blocco dell’ingresso nell’Unione europea, il Fondo monetario internazionale congela gli aiuti economici, le agenzie di rating paventano ulteriori retrocessioni, i media finanziari internazionali si interrogano su “fino a che punto può l’indignazione popolare mettere in discussione i principi basilari dell’economia capitalistica”.
Insomma, gli islandesi sono passati in pochi mesi dalla fiducia cieca nel neoliberismo a un processo di politicizzazione radicale e di riappropriazione dal basso della decisionalità pubblica: hanno riscoperto il piacere della democrazia e non sembrano disposti a rimetterla nelle mani dei pochi e soliti noti. Si è aperto così uno scontro palese, diretto e senza mediazioni tra democrazia diretta ed economia liberista. In altri termini, se nei paesi arabi i dispositivi di sussunzione della rivolta popolare si traducono nel tentativo di omologare i loro sistemi politici a quella che comunemente viene definita democrazia rappresentativa, centrata essenzialmente sulle elezioni “libere” dei rappresentanti del popolo, la rivolta islandese si è già posta oltre questi dispositivi di cattura.
Non c’è più solo una prima ministra dichiaratamente lesbica e una maggioranza parlamentare di sesso femminile a indicare l’abbattimento di alcune barriere invisibili nella dimensione pubblica, non c’è solo l’eccentrico comico “anarco-surrealista” Jón Gnarr (una sorta di Beppe Grillo islandese), eletto sindaco della capitale nel maggio 2010; non c’è solo la radicalizzazione dei principi antimilitaristi (l’Islanda è uno dei pochissimi paesi al mondo a non disporre di un esercito) e ambientalisti (la legge islandese impone che il 99,9 per cento dell’energia provenga da fonti rinnovabili). La potenza costituente dell’insorgenza islandese mette in discussione la relazione asimmetrica tra politica ed economia nell’era della globalizzazione neoliberista, decostruendo, attraverso l’azione sociale, la stessa struttura della partecipazione politica occidentale, quest’ultima irrimediabilmente sussunta dentro il quadro delle compatibilità sistemiche.
Nel 930 si iniziarono a sperimentare in Islanda alcuni presupposti normativi che solo molti secoli dopo sarebbero divenuti il patrimonio comune e sostanziale delle democrazie liberali europee: e oggi come ieri, dobbiamo trovare la forza di volgere lo sguardo non solo verso il cuore dell’impero ma anche verso l’ibridismo del confine, la marginalità della periferia. In questo modo, potremmo trovare anche in Islanda, come nella Selva Lacandona alla fine del secolo scorso, alcune risposte al nostro camminare domandando.

Tratto dal numero 13 di Loop, in edicola dal 19 maggio 2001

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