Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

giovedì 26 gennaio 2012

La grande crisi dei debiti sovrani (2011-2012)

di Giorgio Gattei - campagnanorap
1. Tutti i debiti del mondo.
C’era un tempo in cui si teorizzava (sto esagerando, ma non di molto) che con il salario i lavoratori dovevano alimentare i consumi, i capitalisti volgere tutto il profitto a risparmio per l’investimento, le banche essere appena intermediarie tra l’investimento e il risparmio e lo Stato intervenire al minimo (al limite zero) negli affari economici, così che per:
(reddito) Y = W (salari) + Sc (risparmio dei capitalisti)
W = C (consumi)
Sc = I (investimento)
(spesa pubblica) G = 0
Nel Novecento questa rappresentazione ideale è stata sconvolta dall’avvento del credito bancario quale elemento nuovo di finanziamento delle imprese, così che nell’ipotesi estrema che tutto l’investimento venisse assicurato dalle banche, il profitto risparmiato poteva essere intercettato dallo Stato per finanziare la spesa pubblica con un proprio debito sovrano:
I = Fi (finanziamento alle imprese)
Sc = Ds (debito sovrano)
Ds = G > 0
A fronte dei due nuovi “motori” della produzione del reddito: l’indebitamento delle imprese verso le banche e l’indebitamento dello Stato verso i capitalisti, nella seconda metà del secolo è venuta a mutare anche la posizione finanziaria dei lavoratori perchè da un lato gli alti salari della produzione “fordista” hanno permesso di renderli anch’essi risparmiatori facendoli partecipare all’indebitamento dello Stato:
Ds = Sc + Sw (risparmio dei salariati)
mentre dall’altro l’accesso all’indebitamento presso le banche ha consentito loro di consumare anche al di là del salario guadagnato:
C = W + Df (debito alle “famiglie”)
In questa maniera lo Stato è diventato debitore sia verso i capitalisti che verso i lavoratori per l’ammontare del suo debito pubblico, mentre le banche si sono fatte creditrici sia verso le imprese che verso i lavoratori per l’ammontare dei debiti privati.
Se questo è lo stato di fatto attuale diventano incomprensibili quanti oggi inveiscono contro quei debiti sovrani che sono stati l’effetto del salvataggio del sistema finanziario da parte dei governi tra 2009 e 2010 (per un ammontare complessivo di circa 15.000 miliardi di dollari: cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011, p. 109) tacendo sul debito delle “famiglie” e delle imprese che pure incombe e che, se aggiunto al precedente, darebbe un livello d’indebitamento nel mondo attorno ai 100.000 miliardi di dollari (a fronte di un PIL planetario che non va oltre i 60.000 miliardi: L. Gallino, idem, p. 264). Considerando l’intero debito anche la graduatoria della pericolosità finanziaria delle diverse nazioni viene a cambiare notevolmente, come risulta dal prospetto seguente (tratto da “L’Espresso”, 21.7.2011) messo a confronto con il rating che l’agenzia Standard&Poor’s assegnava a luglio 2011 ai debiti sovrani dei singoli Stati:
% PIL Debito pubblico Debito privato Debito totale Rating S&P
Gran Bretagna 83 970 1153 AAA
Giappone 229 400 629 AA-
Spagna 64 408 472 AA
Francia 88 374 462 AAA
Area euro 87 362 449 non esiste
Italia 120 268 388 A
Stati Uniti 100 264 364 AA+
Germania 80 226 326 AAA
Grecia 152 160 312 CCC
Ci sarà comunque una ragione che giustifica l’accanimento contro il solo debito pubblico, soprattutto europeo! E la ragione rimanda alla natura dello scontro finanziario che si è aperto dal 2011 tra l’Unione Monetaria Europea ed i cosiddetti “mercati”.

2. Una scadenza micidiale.
Ciò che chiamiamo “mercati” è un’entità complessa ed elementare al tempo stesso costituita alla base da un ristretto gruppo di decisori finanziari che perseguono obiettivi di guadagno con una “potenza di fuoco” straordinaria. Ad ogni loro decisione pro o contro i titoli di debito o le monete concordata in incontri riservati di cui alle volte si ha perfino notizia dai giornali finanziari (Wall Street, le cene del “club dei derivati”: così i banchieri decidono la speculazione, “La Repubblica”, 13.12.2010), seguono in Borsa comportamenti “da gregge” da parte degli altri investitori, a cui si aggiungono anche programmi automatici di compravendita così che quando una quotazione di titoli o monete viene indotta a crescere/calare, s’innescano acquisti/vendite a catena (in Borsa, a differenza dei mercati tradizionali, quando il prezzo aumenta si compra, mentre si vende quando diminuisce). E’ così che «alcune migliaia di operatori della finanza negli Stati Uniti e in Europa, e inoltre alcune agenzie di rating, hanno preso in ostaggio in Europa i governi politicamente responsabili... e dal 2010 questo branco di manager della finanza super-intelligenti e allo stesso tempo inclini alla psicosi, ha ripreso il suo gioco sui profitti. Un pericolo mortale» (Schmidt: i leader mettano il cuore per salvare l’Unione, “La Repubblica”, 23.12. 2011).
Prendere allora sul serio i movimenti erratici di titoli o monete come fossero rappresentativi dello “stato di salute” dell’economia degli Stati non ha quindi alcun senso (sarebbe come misurarsi la temperatura ad ogni ora ed agitarsi per le alterazioni che avvengono nel corso della giornata). Eppure è così che giocano i “mercati” che dal 2010 sono davanti alla prospettiva di una micidiale coincidenza di scadenze di debito pubblico e privato che si materializzerà nel 2012 (2012, l’Armageddon delle borse: in scadenza miliardi di junk bond, “La Repubblica”, 20.3.2010) quando arriveranno in pagamento simultaneo 11.550 miliardi di euro di titoli pubblici, obbligazioni private e junk bonds, di cui il 70% di origine americana e giapponese (2012. L’anno Maya della finanza globale, “Il Manifesto”, 1.12.2011).
Ciò però potrebbe non fare problema se alle scadenze debitorie corrispondessero rinnovi di pari ammontare da parte dei risparmiatori, in un gioco a somma zero che lascerebbe il tutto invariato. Però, per l’incertezza finanziaria dominante, si teme che diversi creditori, incassato quanto a loro dovuto, non lo reinvestirebbero più in titoli ma in beni-rifugio come l’oro (come peraltro sta già succedendo), così da provocare una insufficienza di risparmio per il rinnovo dei debiti che costringerà Stati e privati a farsi una concorrenza spietata a colpi di più alti tassi d’interesse da pagare. Tutto questo si potrebbe comunque evitare se alle scadenze del 2012 una parte del debito venisse rimborsata definitivamente così da non richiedere ulteriore finanziamento. Ma quali debitori dovrebbero sacrificarsi ad «onorare i propri impegni»» (come si dice), così togliersi dal mercato? Escluso che lo siano i debitori privati, soprattutto le banche e le imprese che reggono le redini del gioco, è ovvio che a tanto sacrificio non possa essere destinato che il debito degli Stati.
3. Guerra al debito sovrano americano.
In un libro famoso, Guerra senza limiti (Libreria Editrice Goriziana, 2001, p. 67), due colonnelli cinesi Qiao Ling e Wang Xiangsui hanno descritto il nuovo «volto del dio della guerra», che è diventato sempre più «indistinto» potendo assumere anche le forme del terrorismo, degli attacchi mass-mediatici, delle speculazioni finanziarie. Soprattutto è la guerra finanziaria, una «forma di guerra non militare il cui potere distruttivo è almeno pari a quello di una guerra cruenta, ma nella quale, di fatto, non si versa alcuna goccia di sangue», ad essere «venuta ufficialmente alla ribalta sulla scena della guerra per millenni unicamente occupata da soldati ed armi, con sangue e morte ovunque» (idem, p. 81). Ora è propria questo tipo di guerra che nel 2011 è stata scatenata dai “mercati” utilizzando quelle “divisioni corazzate” che sono le agenzie di rating che assegnano pagelle di qualità al debito di questa o quella nazione allo scopo di assoggettarla alla propria volontà (che è poi tutta la sostanza del «fenomeno guerra»). Di questa guerra, peraltro ancora in corso, si proverà nel seguito di dare una lettura non tanto cronologica, quanto logicamente coerente.
Ora il primo ad essere messo sotto attacco dai “mercati” è stato il debito sovrano americano. Ringalluzziti dalla vittoria repubblicana alla Camera dei deputati che indeboliva il governo Obama, all’inizio del 2011 i “mercati” hanno preso ad accusare l’eccessivo indebitamento federale (L’allarme debiti sovrani arriva in America, “La Repubblica”, 15.1.2011), mentre le agenzie di rating minacciavano di togliere la tripla A ai titoli pubblici emessi da Washington (Debito Usa, prima bocciatura. S&P: senza misure sarete declassati, “La Repubblica”, 19.4.2011). Si voleva impedire che si superasse il limite di debito, già raggiunto, imposto dalla legge ed oltre il quale è necessaria l’autorizzazione parlamentare (Guerra totale alla spesa: il nuovo Congresso lancia la sfida a Obama, “La Repubblica”, 5.1.2011) e Obama ha dovuto veramente sudare le proverbiali sette camicie per giungere al compromesso di poter sforare il tetto costituzionale del debito ma alla sola condizione di tagliare di altrettanto la spesa pubblica (e quindi senza aumenti di tasse). Però «le agenzie di rating avevano chiesto sforbiciate per 4mila miliardi di dollari per evitare il declassamento e l’accordo ne prevede poco più di 2mila» (Wall Street boccia l’accordo sul debito, “La Repubblica”, 3.8.2011), così che puntualmente è arrivata la punizione di Standard&Poor’s che ha tolto la tripla A alla valutazione del debito sovrano americano portandolo «ad AA+, lo stesso livello del Belgio e della Nuova Zelanda e per giunta con outlook negativo» (S&P declassa gli Stati Uniti, “La Repubblica”, 7.8.2011), a prova che sono i creditori dello Stato, attraverso le agenzie di rating, a tenere sotto scacco i governi e non viceversa.
Però questa vittoria dei “mercati” ha comportato il rischio che i risparmiatori del mondo abbandonino alle scadenze del 2012 il debito sovrano americano declassato, come peraltro ha subito avvertito la Cina (Pechino adesso teme il contagio: Sganciamoci dal biglietto verde, “La Repubblica”, 7.8.2011). E per rivolgersi verso quali titoli sovrani a tripla A se non quelli del debito europeo che mantengono la massima valutazione?
4. L’assalto ai paesi “maiiali”.
Qui vale però una osservazione. Quando si arriva al debito sovrano europeo va ricordato che non esiste un tale debito sovrano perchè ogni Stato europeo emette titoli pubblici che, anche se espressi nella medesima moneta, ricevono dai “mercati” una diversa valutazione finanziaria, e quindi pagano interessi differenti, a seconda dello Stato che li ha emessi. E’ per questo che al posto del debito sovrano europeo ci sono i debiti sovrani, tutti in euro, di Germania, Francia, Italia, Spagna e via seguitando, ciascuno con proprio rating specifico (nel 2011) dal CCC della Grecia alla tripla A di Francia e Germania (anche la Gran Bretagna ha la tripla A, ma non aderisce all’euro ed esprime il proprio debito sovrano in sterline). E’ questa anomalia a consentire ai “mercati” di muoversi contro il debito sovrano europeo con una tattica di “sfogliamento del carciofo” che, passando da nazione a nazione, ossia foglia per foglia, ha l’obiettivo di giungere al “cuore” di quel debito sovrano, ossia al debito a tripla A di Germania e Francia, per deprezzarne il rating almeno al livello di quello americano e ristabilire le condizioni di parità finanziarie nell’imminenza delle scadenze del 2012.
Che l’indebolimento della zona-euro fosse l’obiettivo dei “mercati” era stato chiaro fin dall’inizio dell’attacco ai debiti sovrani dei paesi “maiali” (PIGS = Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), che erano i più vulnerabili (Atene, Lisbona e poi Eurolandia: tutti i bersagli della speculazione (“La Repubblica”, 9.5.2010). Tuttavia è solo dopo il declassamento degli Stati Uniti che la manovra si è allargata all’Italia trascinandola tra i paesi diventati adesso “maiiali” (PIIGS). Ciò era necessario perchè soltanto il debito sovrano italiano ha la qualità di essere troppo grande per fallire (too big to fail) ma anche troppo grande per salvarsi (too big to save), così che tutti coloro che ne possiedono i titoli, soprattutto europei, sarebbero coinvolti da un suo eventuale declassamento (Il debito italiano zavorra per l’euro, “La Repubblica”, 18.8.2011). Così è a metà del 2011 che parte l’ordine di attacco (Colpire l’Italia per far sparire l’euro: i fondi lanciano l’offensiva finale (“La Repubblica”,12.7.2011) avendo alla testa Goldman Sachs regista anti-euro: “E’ il momento di speculare contro” (“La Repubblica”,2.9.2011). Come al solito sono le agenzie di rating, con le loro valutazioni opportunistiche al ribasso, ad indirizzare il “gregge” dei risparmiatori contro il debito sovrano italiano, affinché non lo acquistino oppure lo facciano ma a condizioni sempre più onerose (da cui l’inesorabile aumento dello spread). Ma per i “mercati” resta comunque l’obiettivo primario di cancellare una fetta del debito sovrano europeo dalla necessità di rinnovo nel 2012 e quale migliore “vittima sacrificale” se non proprio quello italiano che è il quarto debito sovrano al mondo?
5. Scherzi “da prete”.
Il rischio è però che l’Italia tiri fuori una qualche soluzione estemporanea che finisca per danneggiare i creditori, visti i precedenti dell’Islanda e della Grecia. Il governo della prima, alle prese con una crisi finanziaria esagerata (il debito era arrivato al 1100% del PIL!), aveva traslocato i risparmi dei connazionali in tre banche nuove di zecca e poi sottoposto a referendum popolare che cosa fare del debito estero, soprattutto inglese e olandese, incagliato nelle vecchie banche finite in liquidazione. Nel marzo 2010, col 93% dei voti favorevoli, si era deciso di non restituire nulla agli stranieri lasciandoli «a becco asciutto, appesi a procedure fallimentari da cui, se tutto va bene, recupereranno il 30% del capitale investito» (Così l’Islanda cerca la felicità, “La Repubblica”, 3.10.2011). Comunque era stato un danno da poco, vista la scarsa incidenza quantitativa dell’indebitamento islandese.
Più pesante invece il danno di un default della Grecia. Dopo un anno di reiterate richieste di rientrare dal debito sovrano a colpi di manovre “lacrime e sangue”, anche il governo Papandreou ha minacciato il referendum popolare, ma questa volta per decidere se restare o meno nell’euro. Sarebbe stata la catastrofe se mai avesse vinto l’uscita dall’euro (Bancarotta, contagio e rivolte sociali: ecco quanto costerebbe il crac di Atene, “La Repubblica”, 14.9.2011) e così le banche creditrici, questa volta in prevalenza francesi e tedesche, in cambio della cacciata di Papandreou e della cancellazione del referendum hanno accettato «volontariamente» una robusta «sforbiciata» (haircut) dei loro averi (Accordo sulla Grecia a un passo: taglio volontario ai bond del 40-50%, “La Repubblica”, 25.10.2011), anche se adesso sembrano ripensarci, così che la questione è tornata in alto mare (Salta la trattativa con le banche. Atene a un passo dal default, “La Repubblica”, 14.1.201). Ma qui i “mercati” stanno scherzando col fuoco perchè in caso di default scattarebbero i micidiali credit default swaps (CDS), come aveva subito spiegato Rainer Masera: «se ci sarà un credit event mettiamo in Grecia, i CDS cominceranno ad essere pagati. Ma chi li paga? Chi li ha emessi?» (Soldi al sistema finanziario, trovarli sarà un’impresa, “La Repubblica”, 26.9.2011). Prima di tutto c’è però da capire di che si tratta.
Nel mondo malsano della finanza a chi è preoccupato della solvibilità del proprio credito è stata offerta anche la possibilità di assicurarsi presso istituzioni finanziarie (come l’AIG americana, i Lloyds di Londra e anche Goldman Sachs), così che pagando un premio gli si garantisca, in caso d’insolvenza, il risarcimento da parte degli assicuratori. E’ come per gli incidenti automobilistici, con l’unica differenza che in questo caso non c’è un solo incidentato da rimborsare, ma tutti i possessori di quel debito diventato inesigibile. La perdita è quindi sempre colossale e a carico delle incaute compagnie finanziarie che hanno assicurato debiti da loro considerati «impossibili da fallire» e quindi assolutamente sicuri. Ma se invece fallissero? E’ per questo che quando parte l’attacco al debito sovrano italiano ciò che si deve escludere a priori è anche la sola minaccia di un default perché per la sua dimensione (come spiega un preoccupato commentatore del “New York Times”) le prime a rimetterci sarebbero le banche francesi che «hanno la massima esposizione verso il debito pubblico italiano», ma poi verrebbe la volta degli Stati Uniti «perchè chi lo sa quali istituzioni americane hanno a loro volta assicurato le banche francesi contro il default dell’Italia?» (L’America teme il contagio, “La Repubblica”, 29.10.2011).
6. Un’Italia “goldman sachs”.
Ciò spiega perchè, a partire da agosto, è stato il governo americano ad agitarsi più di tutti perchè l’Italia non facesse scherzi (L’aut aut di Usa e Bruxelles. “L’Italia va commissariata o può trascinare tutti a picco”. Il Segretario al Teoro Geithner convince la Merkel (“La Repubblica”, 6.8.2011), lasciando al presidente in scadenza della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, e soprattutto a quello entrante Mario Draghi, ex consulente Goldman Sachs, di firmare il 5 agosto la lettera ultimativa al governo italiano di «rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali» con misure d’austerità estrema (leggere per credere!) che riducessero le necessità future d’indebitamento: «consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011» (“Corriere della Sera”, 29.9.2011).
Qui però il governo Berlusconi tergiversa con rifacimenti continui della manovra (tanto che si supera la scadenza di settembre), azzardandosi perfino a «ricevere in via riservata una vasta delegazione del CIC, ricchissimo fondo sovrano di Pechino, interessato a comprare i nostri gioielli di famiglia (meglio se energetici) e disposto ad acquistare (quasi fosse una contropartita) tanta parte dei nostri titoli di Stato» (Tremonti e la Cina: il signor dietrofront, “La Repubblica”, 14.9.2011). Se mai questa operazione andasse in porto, invece di togliersi dalla scadenze debitorie del 2012, l’Italia verrebbe a risucchiare verso di sé una parte del risparmio cinese in circolazione sottraendolo agli altri debitori. E’una intenzione tanto sconsiderata che merita la massima punizione da parte delle agenzie di rating che declassano a raffica l’Italia (il 20 settembre Standard & Poor’s: da A+ ad A; il 4 ottobre Moody’s: da Aa2 ad A2; l’8 ottobre Fitch: da AA- ad A+) per allontanare gli investitori da quel debito sovrano. Ovviamente il colpo riesce: quella trattativa finsce e lo spread schizza alle stelle (Il grande attacco all’Italia: titoli di Stato a picco, tassi oltre il 7%, spread a 575, “La Repubblica”, 10.11.2011), ma come fidarsi ormai di un governo così “maiiale”? Se è stata la Germania, il 20 ottobre, a chiedere la testa di Berlusconi, a stare ai retroscena rivelati dal “Wall Street Journal” (Merkel chiese: via Berlusconi, ma Napolitano smentisce il WSJ, “La Repubblica”, 31.12.2011), comunque ne arrivano il 12 novembre le dimissioni «volontarie» (cos che non c’è bisogno di passare per la sfiducia in Parlamento!) che lasciano il posto all’uomo di fiducia dei “mercati” Mario Monti, anche lui già consulente Goldman Sachs.
Il compito che gli è stato assegnato è subito detto da un insospettabile ma soddisfatto Nouriel Roubini: Ora siete diventati credibili ma dovete tagliare il debito almeno del 25 per cento (“La Repubblica”, 30.11.2011). Il che si spiega: se alle scadenze del 2012 «l’Italia dovrà rinnovare quasi un quarto dei suoi 1900 miliardi di euro di debito» (BTP, asta tiepida e lo spread risale, “La Repubblica”, 30.12.2011), allora quell’ammontare deve essere ridimensionato. Come poi Monti possa trovare i soldi anche per quella “crescita” da tutti invocata, resta un mistero. Lo impedisce il doppio impegno sottoscritto di raggiungere il pareggio di bilancio (una condizione da scrivere addirittura in Costituzione) e di rientrare di un ventesimo all’anno per la parte d’indebitamento che supera il 60% del PIL (che Monti sta cercando disperatamente di alleggerire), così che i bilanci statali dei prossimi cinque anni partiranno già gravati da un disavanzo soltanto per l’eccedenza di debito da rimborsare.
7. Al cuore del “carciofo” europeo.
Assicurato comunque dal governo “tecnico” italiano il ridimensionamento del suo debito sovrano, per i “mercati” resta aperta la questione di quei titoli europei che mantengono la tripla A rispetto a quelli americani che invece l’hanno persa. Per distogliere il risparmio internazionale dal reinvestirsi in Europa nel 2012 non resta che declassare pure loro, a partire da quello francese. E’ per questo che, insieme all’apertura della “guerra finanziaria” contro l’Italia, erano già volati annunci che le agenzie di rating avevano messo sotto osservazione anche la Francia (Rating e PIL, ora a tremare è Parigi. Sarkozy: non finirò come Obama, “La Repubblica”, 1.8.2011; Manovra da 10 miliardi: l’Eliseo scopre la paura di una riduzione del rating, “La Repubblica”, 25.10.2011) e a novembre, ma per sole due ore, Standard&Poor’s ha provato anche a toglierle una A, ma giustificandolo come un «errore del sistema automatico con l’invio non autorizzato da nessun essere umano (sic)» (Anche la SEC processa S&P. Dietro l’errore sulla Francia il sospetto di insider trading, “La Repubblica”, 12.11.2011). Ma quale errore! Era l’anticipazione di quello che doveva necessariamente succedere.
E’ il venerdì 13 del gennaio 2012 quando Standar&Poor’s lancia l’offensiva finale all’Europa declassando in un colpo solo Francia, Italia, Spagna, Austria e Portogallo (S&P declassa mezza Eurolandia, “La Repubblica”,14.1.2012). In tripla A restano soltanto Germania, Olanda, Finlandia e Lussemburgo (con Gran Bretagna, Svezia e Danimarca che però non sono nell’euro). E’ una «sberla» colossale che, se indebolisce il debito sovrano degli Stati interessati, pegiudica il portafoglio di tutte le banche europee che lo posseggono, a rischio di vedersi declassare “a cascata” anche le proprie obbligazioni nei futuri rinnovi. Era quanto già successo alle banche francesi che avevano “in pancia” i titoli pubblici italiani (Le Borse ci credono, ma Moody’s declassa tre banche francesi, “La Repubblica”, 10.12.2011), ma dopo il downgrading di massa e con in gioco il debito di Parigi quali banche europee possono mai dirsi “al di sopra di ogni sospetto”?
Per resistere al colpo che si temeva, a dicembre la Francia aveva coinvolto la Germania in un accordo, da firmarsi a marzo 2012, per rendere più severe le regole di bilancio dell’Unione Monetaria (L’asse Sarkozy-Merkel sul debito, “La Repubblica”, 6.12.2011). Con questa «fiscalità compatta» (fiscal compact) si sperava di calmare la speculazione, ma intanto la data d’avvio era troppo lontana e comunque la Gran Bretagna (il cui debito pubblico, in sterline, conserva la tripla A) non c’è stata a farsi coinvolgere nel sostegno di una moneta, come l’euro, a cui non aderisce (E’ un trattato contro i nostri interessi, “La Repubblica”, 10.12.2011) e nemmeno ha voluto impegnarsi verso quel fondo salva-Stati, che dovrebbe diventare operativo da luglio 2012, fortemente sostenuto dalla BCE e dal Fondo Monetario Internazionale diretto dalla francese Christine Lagarde (Londra si sfila dal fondo salva-euro, “La Repubblica”, 20.12.2011).
L’abbandono della “nave monetaria europea” da parte degli inglesi è un brutto segnale per tutti gli investitori che non può che rafforzare la loro tendenza, già in atto, ad allontanarsi «progressivamente dall’area euro, puntando sul dollaro, sulla sterlina e sul franco svizzero, insomma sulle valute le cui banche centrali possono battere moneta nell’occasione» (Paura per le prossime scadenze, “La Repubblica”, 26.11.2011). Per statuto la BCE invece non può farlo, e comunque dopo il declassamento generale quella fuga non potrà che accelerarsi, complici anche alcune procedure finanziarie per cui «i grandi fondi pensione americani e gli investitori internazionali che comperano titoli di Stato hanno vincoli severi e per statuto devono rispettare dei parametri prudenziali. Tra questi c’è spesso il divieto di acquistare debito pubblico da paesi senza la A» (Monti in allarme: ma senza di noi altre bocciature, “La Repubblica”,1.1.2012). E’ allora forse un caso che all’Italia sia stata assegnata la valutazione di BBB+, ossia senza alcuna A?
8. Brutte notizie dal futuro.
A questo punto cosa potrebbe ancora succedere? Pur non avendo alcuna capacità di divinazione, qualcosa si può dire sulla base dello stato delle cose. Intanto la palla passa alla Germania che conserva ancora la tripla A. Ma se, per salvare l’Unione Monetaria Europea, si facesse coinvolgere maggiormente in quel fondo salva-Stati a cui, secondo gli analisti, ben difficilmente le agenzie di rating assegnaranno la tripla A, allora potrebbe indebolire la “qualità” del proprio debito sovrano proprio mentre sta entrando in un rallentamento economico (Ora anche a Germania teme la recessione, “La Repubblica”, 12.1.2012) e vedersi così tolta la tripla A (Fitoussi: Germania prossima vittima, “La Repubblica”, 14.1.2012). Onde evitare la cancellazione potrebbe decidersi di abbandonare al suo destino una Unione Monetaria fallimentare allo scopo di riprendersi una piena sovranità monetaria indipendente da quella della BCE che tutti stanno tirando per la giacchetta perchè acquisti, contrariamente al proprio statuto, quel debito pubblico dei paesi europei che viene rifiutato dai “mercati”. Separandosi dai paesi “maiiali” e anche dalla Francia, potrebbe così esprimere il proprio debito sovrano in marchi o in altra moneta (come il neuro ossia l’euro del Nord) che è una ipotesi di cui s’è già preso a parlare: ovviamente «Berlino & C [Olanda e Finlandia] manderebbero giù il boccone amaro della perdita di competitività sul fronte dell’export, ma con la soddisfazione di non doversi far più carico del salvataggio dei brutti anatroccoli dell’Unione» (I falchi vogliono sdoppiarlo in due monete, una per il Nord virtuoso, l’altra per i Piigs, “La Repubblica”, 17.11.2011). Mantenendo la valutazione “a tripla A”, potrebbe competere da posizione di forza con gli Stati Uniti nell’accaparramento del risparmio alle diverse scadenze debitorie del 2012. Ma questa fuoriuscita della Germania dall’euro potrebbe tornar comoda anche ai “mercati”, come insinua Federico Rampini: «escludendo dai suoi downgrading Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo, la più potente delle agenzie di rating rafforza l’impressione che ci sia vasto mondo di interessi e di poteri (prevalentemente angloamericani) che ormai ragionano sull’ipotesi di ricostituzione di una piccola Europa omogenea, un mini-euro o neo-marco centrato sul nocciolo duro della Germania più i suoi satelliti di sempre. Questo non significa evocare teorie del complotto, ma constatare che quello scenario è incluso nelle previsioni. E S&P può accelerare “l’auto-realizzazione delle profezie”, se il declassamento della Francia finisce per ripercuotersi sul rating del fondo salva-Stati» (Ultimo avviso alla Merkel, “La Repubblica”, 14.1.2012).
E tuttavia non è sicuro che il grande colpo dei “mercati” contro il debito sovrano europeo possa finire in bellezza, a leggere una notiziola apparsa sul finire del 2011. Sembra che in un incontro a Pechino tra i primi ministri giapponese e cinese, Tokio si sia impegnato ad acquistare nel 2012 i titoli del debito sovrano cinese aumentando la quota di renmimbi detenuta nella propria riserva valutaria. E’ «una mossa che dovrebbe indebolire le altre monete globali: l’euro, ma soprattutto il dollaro, e consolidare la guida cino-giapponese nel commercio mondiale e nell’area del Pacifico» (Cina e Giappone, alleanza sulle valute, “La Repubblica”, 27.12.2011). Si capisca bene. La Cina entrerebbe di prepotenza sul mercato dei debiti sovrani richiamando il risparmio verso i propri titoli garantiti da una riserva valutaria imponente e valutati da una sua agenzia di rating (la Dagong) concorrente con quelle anglo-americane. E il Giappone, finora il massimo acquirente dei titoli pubblici americani, trasferirebbe i propri fondi da Washington a Pechino. Sarebbe una fuga del risparmio dal debito sovrano degli Stati Uniti che annullerebbe la grande fatica compiuta nel 2011 per allontanarlo invece dal debito sovrano europeo. E sarebbe altresì la conferma del detto che il delitto non paga mai.
Gennaio 2012

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