Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

domenica 6 febbraio 2011

Nuovo rinascimento arabo.


INTERVISTA a Samir Amin di Geraldina Colotti. Fonte: il manifesto

L'Ue assente di fronte al precipitare della crisi in Egitto e nel Maghreb. Samir Amin al manifesto: «Sarà determinante l'ampiezza del movimento contro Mubarak. E la scesa in campo di forze sociali e sindacali. A breve termine, la posta in gioco è un regime "accettabile", che cessi la repressione, tolleri la pluralità degli organismi politici. Suleiman non è certo la risposta a questo»
Parla il presidente del Forum Mondiale delle Alternative «Obama sull'Egitto dovrebbe dire: "vorrei ma non posso"».

Analista di lungo corso, Samir Amin (Il Cairo, 1931) dirige il Forum du Tiers Monde a Dakar ed è presidente del Forum Mondiale delle Alternative. Nei suoi saggi (pubblicati in Italia da Punto Rosso) indaga le dinamiche geopolitiche Nord-Sud all'interno del «mondo multipolare» postnovecentesco: nuove alleanze e fermenti sociali in grado di contrastare l'egemonia della «Triade» (Usa, Europa, Giappone), complicando il quadro di un «imperialismo collettivo» che gestisce l'economia globalizzata «per mezzo delle istituzioni al suo servizio» (Wto, Fmi, Banca Mondiale e Ocse).

Lo abbiamo intervistato, in un momento cruciale per il destino del suo paese.
Cosa succede nel mondo arabo?
Qualcosa di molto positivo, prima in Tunisia, ora in Egitto, presto probabilmente in altri paesi arabi e forse dell'Africa. Grandi movimenti dicono: ne abbiamo abbastanza di questi regimi soprattutto per il loro aspetto poliziesco. Movimenti che per ora sono privi di un vero programma alternativo.
Dopo il lungo periodo della colonizzazione, nella storia del Medioriente c'è stato un primo sussulto positivo determinato dal populismo nazionalista arabo: dai movimenti nasseriani, boumediennisti o baathisti (nella prima versione), degli anni '50, '60 e '70.
Quelle potenze nazionali sono però progressivamente sprofondate nelle dittature prive di programma e il progetto pan-arabo ha esaurito il suo potenziale di trasformazione. La pagina è stata definitivamente voltata. Ora andiamo verso un secondo soprassalto? Molti elementi sembrano indicarlo, ma le condizioni e le esigenze sono molto diverse da quelle esistenti nel secolo scorso. Ci vorrà tempo. In molte regioni del mondo arabo, come in altri paesi del sud del mondo, la lotta di classe in questi anni è andata avanti in modo parallelo, ma spesso non convergente con l'iniziativa degli stati di alcuni paesi emergenti che stanno imponendo all'imperialismo il loro sviluppo.
Nei suoi libri, lei dice: bisogna ripartire dal fallimento della conferenza dei Non Allineati di Bandung nel 1955. Come s'inquadra questa idea nello scenario attuale?
È un'idea centrale. Il mondo non può cambiare in positivo senza una iniziativa indipendente dal capitalismo mondiale, che rimane a dominante imperialista: un'iniziativa dei popoli ma anche delle nazioni e degli stati del Sud.
Una combinazione conflittuale, perché stato non equivale a popolo. Alcuni paesi emergenti stanno obbligando l'imperialismo a tollerare il loro sviluppo, rimettono in forse il controllo della tecnologia, l'accesso alle risorse naturali all'armamento - soprattutto quello di distruzione di massa -; mettono in forse, tra l'altro, il controllo del sistema monetario e finanziario mondializzato, lo rimettono effettivamente in causa, seppure in modo diseguale.
Questi sono passi avanti, che però non sono prodotto della lotta delle classi popolari contro le forme di sfruttamento capitalistico. Vi sono iniziative degli stati, come la Cina, che cercano di neutralizzare i mezzi di controllo del sistema mondiale imperialista ma hanno al loro interno forti disuguaglianze sociali, e iniziative indipendenti messe in atto dai popoli, come in Bolivia, che prefigurano un cambiamento.
L'importante è spingere alla convergenza di queste iniziative e non al loro confliggere, per poter costringere gli Usa e le potenze Nato ad arretrare. Dal mio punto di vista, i due punti più avanzati per via della combinazione di una trasformazione delle strutture di potere dello stato e dell'azione dei movimenti popolari, sono il Nepal e la Bolivia. Purtroppo, non sono paesi giganteschi.
L'Egitto, invece, è un grande paese. Quale partita si sta giocando?
Alcuni fattori saranno determinanti: da una parte l'ampiezza delle manifestazioni e la loro continuità, dall'altra l'esito dei negoziati all'interno del potere. L'esercito, la potente ossatura, è ora rappresentato da Omar Suleiman, designato vicepresidente e forse prossimo presidente dell'Egitto.
D'altronde, Mubarak ha detto chiaramente: il mio ruolo è quello di negoziare, ma si vedrà se e con chi vorrà negoziare, quali saranno le conclusioni di questi negoziati, se ci sarà accordo o disaccordo e quale sarà la reazione del popolo egiziano. È troppo presto per dirne di più. Il movimento è imponente, ma bisognerà attendere che si sviluppi ulteriormente.
Quel che può produrre un'avanzata ulteriore è l'entrata delle forze sociali organizzate che hanno diretto i grandi scioperi di due o tre anni fa (i più grandi nel continente africano da 50 anni), dei nuovi sindacati, del movimento contadino. A breve termine, la posta in gioco è quella di avere un regime «accettabile», che cessi la repressione sistematica, tolleri la pluralità delle organizzazioni politiche e sociali. Omar Suleiman, che è stato a lungo capo dell'intelligence dell'esercito non è un campione di democrazia, ma potrebbe essere costretto a fare concessioni reali.
Quanto a ElBaradei, che si è sempre presentato come un democratico convinto, potrà ergersi contro gli abusi polizieschi, ma niente di più: non ha alcuna visione prospettica, per lui l'unica economia che conta è quella esistente. I Fratelli Musulmani dichiarano che rappresenta tutti, ma cosa significa tutti?
L'Iran auspica che le proteste portino ad un «Medioriente islamico e potente capace di opporsi a Israele». Una prospettiva che Usa e Israele dicono di temere più di tutto. Non bisogna fidarsi delle apparenze, la politica viaggia su un doppio binario.
Quella di una preponderanza islamica che spenga ogni possibilità di evoluzione democratica e ogni pericolo che potrebbe rappresentare per gli equilibri di sistema è un'alternativa ben accetta agli Stati uniti e all'Arabia saudita. Il progetto nordamericano è lo stesso di sempre: usare certe frange islamiste - come hanno fatto contro i regimi nazionalisti populisti di Nasser o Boumedienne - e contemporaneamente alimentare l'islamofobia. Naturalmente sostengono gli islamisti come la corda sostiene l'impiccato.
Però, da anni, gli Stati uniti (compresa ora la signora Clinton) hanno fatto capire che non è più la democrazia ma la stabilità a far premio su tutto, per cui se un regime è democratico ma non gli è favorevole, va cambiato, se un altro non è democratico ma è a loro favore, lo appoggiano. Dappertutto hanno usato due pesi e due misure. Quanto a Israele, non vuole democrazie nel mondo arabo che permetterebbero alle classi popolari di avere più peso e di conseguenza esprimere una solidarietà attiva con il popolo palestinese.
Israele trae vantaggio dall'esistenza di regimi arabi dispotici e dunque meno legittimi agli occhi del proprio popolo, perché questo gli lascia le mani libere per proseguire la colonizzazione della Palestina occupata.
Proprio al Cairo Obama aveva annunciato un nuovo corso nella politica Usa in Medioriente e anche in questi giorni si è rivolto ai giovani egiziani.
Negli Stati uniti, quel che conta è l'opinione del gran capitale, non quella del presidente. Obama avvolge il discorso in un linguaggio diverso, ma non bisogna farsi illusioni: deve seguire la stessa politica di sempre, i modelli degli Usa restano l'Arabia saudita e il Pakistan. Anziché dire «Yes we cant», Obama avrebbe dovuto dire: «No I can't».

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