Il dibattito sull’opportunità di acquistare i caccia F35 è al centro del dibattito politico, dopo le dichiarazioni del leader del centro sinistra Pierluigi Bersani sulla necessità di ripensare la partecipazione al programma. Rivediamo come sono andate le cose
Dalla fine degli anni novanta l’Italia è entrata nel consorzio di nove paesi che dovranno sviluppare e produrre gli F35, velivoli da guerra ad alta tecnologia in grado di sfuggire ai radar. L’impegno del governo è stato, prima, di acquistare 131 velivoli per un costo di oltre 15 miliardi; è poi stato ridimensionato ad ‘appena’ 90 unità a causa dei recenti vincoli di bilancio, ma i risparmi previsti sono limitati, appena tre miliardi di euro per l’aumento dei costi unitari. Tuttavia, argomentano i militari, il programma sarebbe ‘ripagato’ dalla creazione di oltre diecimila nuovi posti di lavoro. In realtà la spesa impegnata fino ad oggi – circa 2,7 miliardi, di cui 800 milioni spesi solo per lo stabilimento di assemblaggio di Cameri (Novara) – non ha visto ancora il ritorno occupazionale previsto e anche con l’indotto l’occupazione aggiuntiva sarà nell’ordine delle centinaia di unità. Nel futuro, qualche migliaio di lavoratori ora addetti alla produzione dei “vecchi” eurofighter verranno recuperati dalla produzione di F35, ma non si vede da dove i 10 mila nuovi posti di lavoro possano venir fuori.
Come sempre succede, poi, i programmi di nuove armi sono pieni di problemi. I cacciabombardieri non volano ancora e a impennarsi sono soltanto i loro costi, tanto da indurre il congresso Usa a mettere sotto controllo l’intero programma. Negli anni, i partner del consorzio hanno progressivamente rivisto al ribasso la propria partecipazione al programma, di fronte alla crisi e ai problemi di realizzazione, da ultimo il rischio di esplosione del velivolo in caso di fulmini. Alcuni paesi, come Olanda e Regno Unito, nutrono sempre più perplessità al riguardo, altri come il governo conservatore del Canada hanno rinunciato al programma, dopo che le previsioni di spesa per gli F35 si sono rivelate sistematicamente sottostimate, sia in termini di costo di acquisto sia in termini di esercizio.
L’Italia dovrà mettere in conto, oltre ai 12-15 miliardi per l’acquisto, i costi di esercizio e manutenzione che nel tempo, se in linea con le previsioni del Parliament Budget Office canadese, saranno superiori a trenta miliardi: in trent’anni il programma F35 costerà ai cittadini italiani circa 40-45 miliardi di euro, in pratica una manovra finanziaria. Allo stato dei fatti, l’Italia rischia di diventare l’unico paese dell’Unione Europea a disporre di F35, non proprio sulla rotta dell’integrazione con una difesa comune del continente.
La campagna “Tagliamo le ali alle armi”, promossa da Sbilanciamoci! e molte altre organizzazioni (http://www.sbilanciamoci.org/2013/01/f-35-spreco-e-problemi-e-ora-di-cambiare-rotta/) in questi anni ha messo la questione degli F35 all’ordine del giorno del dibattito politico: ora Pierluigi Bersani tentenna e Massimo D’Alema è costretto a difendersi dicendo che lui, quand’era presidente del consiglio, aveva autorizzato la partecipazione dell’Italia a un programma per la costruzione di un cacciabombardiere “low cost”, come ricordano in questi giorni le dichiarazioni di Flavio Lotti (candidato con Ingroia) e Giulio Marcon (candidato con Sel).
Mentre l’Aeronautica militare convoca la stampa a Cameri per mostrare lo stabilimento di assemblaggio e decantare i (pochi) posti di lavoro creati, è il caso di valutare meglio le alternative agli F35. Il programma è oggi in serie difficoltà, in tutti i paesi lo scetticismo sulle possibilità di realizzazione ai costi previsti si diffonde in tutte le forze politiche e negli Usa si moltiplicano le critiche da parte del Congresso. Quanto agli effetti occupazionali, una spesa analoga in campo civile avrebbe risultati molto più grandi: ad esempio con un solo F35 si può finanziare per un anno la gestione di 500 nidi per 35 mila bambini, con circa 7500 nuove unità di occupazione; i nuovi nidi aumenterebbero il tasso di attività femminile e creerebbero sbocchi occupazionali proprio per le donne, che tradizionalmente registrano maggior disoccupazione e minore partecipazione alle forze lavoro, in special modo al sud.
Come sempre succede, poi, i programmi di nuove armi sono pieni di problemi. I cacciabombardieri non volano ancora e a impennarsi sono soltanto i loro costi, tanto da indurre il congresso Usa a mettere sotto controllo l’intero programma. Negli anni, i partner del consorzio hanno progressivamente rivisto al ribasso la propria partecipazione al programma, di fronte alla crisi e ai problemi di realizzazione, da ultimo il rischio di esplosione del velivolo in caso di fulmini. Alcuni paesi, come Olanda e Regno Unito, nutrono sempre più perplessità al riguardo, altri come il governo conservatore del Canada hanno rinunciato al programma, dopo che le previsioni di spesa per gli F35 si sono rivelate sistematicamente sottostimate, sia in termini di costo di acquisto sia in termini di esercizio.
L’Italia dovrà mettere in conto, oltre ai 12-15 miliardi per l’acquisto, i costi di esercizio e manutenzione che nel tempo, se in linea con le previsioni del Parliament Budget Office canadese, saranno superiori a trenta miliardi: in trent’anni il programma F35 costerà ai cittadini italiani circa 40-45 miliardi di euro, in pratica una manovra finanziaria. Allo stato dei fatti, l’Italia rischia di diventare l’unico paese dell’Unione Europea a disporre di F35, non proprio sulla rotta dell’integrazione con una difesa comune del continente.
La campagna “Tagliamo le ali alle armi”, promossa da Sbilanciamoci! e molte altre organizzazioni (http://www.sbilanciamoci.org/2013/01/f-35-spreco-e-problemi-e-ora-di-cambiare-rotta/) in questi anni ha messo la questione degli F35 all’ordine del giorno del dibattito politico: ora Pierluigi Bersani tentenna e Massimo D’Alema è costretto a difendersi dicendo che lui, quand’era presidente del consiglio, aveva autorizzato la partecipazione dell’Italia a un programma per la costruzione di un cacciabombardiere “low cost”, come ricordano in questi giorni le dichiarazioni di Flavio Lotti (candidato con Ingroia) e Giulio Marcon (candidato con Sel).
Mentre l’Aeronautica militare convoca la stampa a Cameri per mostrare lo stabilimento di assemblaggio e decantare i (pochi) posti di lavoro creati, è il caso di valutare meglio le alternative agli F35. Il programma è oggi in serie difficoltà, in tutti i paesi lo scetticismo sulle possibilità di realizzazione ai costi previsti si diffonde in tutte le forze politiche e negli Usa si moltiplicano le critiche da parte del Congresso. Quanto agli effetti occupazionali, una spesa analoga in campo civile avrebbe risultati molto più grandi: ad esempio con un solo F35 si può finanziare per un anno la gestione di 500 nidi per 35 mila bambini, con circa 7500 nuove unità di occupazione; i nuovi nidi aumenterebbero il tasso di attività femminile e creerebbero sbocchi occupazionali proprio per le donne, che tradizionalmente registrano maggior disoccupazione e minore partecipazione alle forze lavoro, in special modo al sud.