Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

domenica 10 luglio 2011

Non c’è un’unica manovra per uscire dalla crisi.


di Alfonso Gianni. Fonte: paneacqua
Che la manovra finanziaria presentata da Tremonti non vada bene, sono in molti a dirlo. I motivi però sono diversi ed è proprio l’analisi di questi ultimi la cosa più interessante, assai più del testo in sé della manovra che non brilla certo per fantasia contabile. Ad essere colpiti sono infatti si soliti noti.
Prendiamo ad esempio l’aspetto più macroscopico della scelta governativa, quello di spostare al biennio 2013-2014 il grosso della manovra (40 miliardi se non più).E’ evidente l’intenzione di scaricare tutto sulle spalle del governo che verrà. Ma questo elemento può a sua volta essere guardato da punti di vista diversi e approdare quindi a conclusioni opposte.
Se seguiamo il ragionamento che idealmente si snoda lungo l’asse Scalfari-Napolitano – di tutto rispetto come si vede – se ne potrebbe trarre persino una considerazione positiva. Nel suo editoriale del 3 luglio, infatti, il fondatore di Repubblica, afferma che in fondo non c’è nulla di male se il peso maggiore della manovra è posticipato negli anni e ricade sui governi futuri, perché in sostanza questo corrisponderebbe al giudizio espresso in sede Ue sulla relativa sicurezza dei conti italiani a tutto il 2012 in virtù delle manovre precedenti. L’intervento sarebbe quindi propriamente posizionato nel biennio successivo 2013-2014, in quanto indispensabile per raggiungere entro lo scadere di quella data il pareggio di bilancio. E’ Scalfari stesso che riporta il parere del Presidente della Repubblica secondo cui tutto procederebbe secondo i tempi giusti e stabiliti. Non solo, ma così facendo si stabilirebbe una sorta di continuità nella responsabilità tra i governi e le maggioranze anche qualora questi dovessero risultare diversi da quelli attuali come esito del voto che al più tardi avverrà nella primavera del 2013, cioè alla scadenza naturale della legislatura.

Dietro questo modo di ragionare – come si vede assai autorevole – si nasconde, ma non troppo, la convinzione che il pareggio di bilancio e la riduzione del debito sono obiettivi e vincoli irrinunciabili e ineludibili, in quanto posti dall’ultimo consiglio europeo di fine marzo, e la discussione verterebbe quindi soltanto sulle modalità del loro raggiungimento.

Non è possibile esprimere un giudizio critico sulla manovra del governo se non si revoca in dubbio questa affermazione, quella cioè della immodificabilità degli obiettivi. Se così fosse infatti la differenza tra destra e sinistra si ridurrebbe entro ambiti molto stretti e scivolosi, nel senso che l’una potrebbe giocare la parte dell’altra, più o meno come sta avvenendo ora in Grecia, dove, a fronte dei diktat degli organi di governo europei e dei mercati finanziari, i socialisti di Papandreu si trovano a gestire una politica di lacrime e sangue – direi in senso proprio, non solo metaforico a giudicare dagli scontri quotidiani in atto nelle città greche – che forse persino un certo populismo delle destre avrebbe esitato a intraprendere.

Aprire una parentesi sul drammatico caso greco può forse essere utile a capire meglio anche la nostra situazione. E’ stato calcolato che l’intero debito greco non sia superiore al 3,7% del Pil dell’Eurozona. Come si vede non si tratta di una cifra così drammatica. Ma c’è di più. Solo poco più della metà del debito greco è in mano a investitori esteri - come sappiamo tra questi primeggiano le banche tedesche e francesi - essendo il resto detenuto dalle banche e dai risparmiatori greci. Complessivamente dunque la potente Ue ha di fronte a sé un problema assai meno rilevante sotto il profilo quantitativo di quello che devono affrontare gli Usa di fronte al debito dello stato di California. Eppure la Grecia rischia – sempre più ogni giorno che passa – il default ed è già vittima di una condizione di sospensione della democrazia e della sovranità, essendo sia la prima che la seconda in mano agli organi finanziari della Ue. Dunque una differenza c’è e nel caso specifico sta nella natura federale degli States, in forza della quale la California non potrà mai fallire perché sorretta dal bilancio federale. La Ue, invece, si è recentemente dotata di una governance economica, non più soltanto monetaria, ma non ha una dimensione politica e democratica adeguate e tantomeno una struttura federale.

Tuttavia non è affatto vero che in ragione di questa mancanza – di per sé assolutamente deprecabile – l’Europa non possa agire diversamente nei confronti della vicenda greca e per estensione delle tensioni di bilancio in tutti gli altri paesi a rischio, fra cui compare anche l’Italia. Non è vero che l’azzeramento del deficit entro il 2014 e l’abbattimento dello stock del debito in ragione di un ventesimo all’anno della differenza che ci separa dall’attuale livello del rapporto debito/Pil (118,5%) e il famigerato parametro di Maastricht del 60%, siano nel caso italiano gli unici obiettivi perseguibili, validi tanto per la destra come per la sinistra, salvo i modi più o meno gentili per perseguirli. Questo è solo quello che ha scritto Tremonti, è la sua riedizione del credo neoliberista sintetizzato nell’acronimo inglese TINA (There Is No Alternative) di tatcheriana memoria.

Nel caso greco – lo scrivevo su questo giornale esattamente un anno fa – si sarebbe potuto utilmente, anziché praticare lo strangolamento, intervenire, ad esempio, per finanziare la pace. Infatti Grecia e Turchia sono i paesi che spendono di più in termini di armamenti a causa del loro contenzioso e del loro tradizionale guardarsi in cagnesco. La Ue avrebbe potuto intervenire sul terreno diplomatico, politico ed economico per sanare ogni questione e permettere quindi di liberare risorse nel bilancio greco da dedicare a ben altro che al gioco della guerra.

Per tornare alle cose di casa nostra, va ricordato per l’ennesima volta che la spesa sociale italiana – la solita vittima dei tagli della manovra tremontiana – non è affatto la più elevata nel contesto europeo. Se consideriamo la spesa primaria, ovvero la spesa pubblica per soddisfare i bisogni primari dei cittadini - come istruzione, sanità, welfare, assistenza – al netto degli interessi, si vedrà che la sua incidenza sul Pil colloca l’Italia agli ultimi posti della classifica. Per l’esattezza occupiamo il 21° posto nella spesa primaria in percentuale sul Pil. Al primo posto c’è ovviamente la mitica Danimarca, ma più spendaccioni di noi sono anche l’Ungheria e la Repubblica Ceca, per citare paesi non particolarmente celebri in materia di welfare state. La nostra percentuale è del 32,4% (dati 2010), mentre la media dell’area Euro è del 37,8%.

Eppure la manovra del governo si abbatte sui soliti noti. I pensionati cui si nega la rivalutazione a partire da pensioni molto modeste, le donne, di cui si ripropone l’allungamento della vita lavorativa, senza alcun riguardo al tipo di lavoro che effettivamente viene compiuto, o gli insegnanti di sostegno, a dimostrazione che i portatori di handicap sono argomento di carità e non di politica statuale nel nostro paese.

Contemporaneamente il governo avanza una linea di riforma fiscale che sembra rinverdire gli antichi ardori del 1994, poi abbandonati per strada. Si tratta di una modifica pesantemente regressiva, basata sul principio di tre aliquote e della riduzione della pressione fiscale apparente, che favorirebbe tutti i percettori di redditi alti e violerebbe ancora di più il principio di progressività contenuto nella nostra carta costituzionale. Tale riforma diminuirebbe perciò il volume complessivo delle entrate dello stato, spingendo sempre più le manovre di aggiustamento di bilancio verso la riduzione della spesa sociale.

Nessuno schieramento politico che voglia proporsi come un’alternativa seria al berlusconismo può caricarsi sulle spalle una simile eredità. Non ci può essere nessuna continuità di indirizzi entro questa manovra finanziaria ed economica tra l’attuale maggioranza e quella che, eventualmente, dovesse prevalere nelle prossime elezioni politiche. Va detto subito, qui e nel contesto europeo.

Come molti economisti non si stancano di fare osservare la riduzione del deficit e del debito non deve necessariamente essere il portato della riduzione delle spese, e la stessa eliminazione degli sprechi – laddove effettivamente ci sono – non deve avere come obiettivo fondamentale la riduzione della spesa ma l’aumento della sua qualità. Ed è proprio questa che può fare da volano a un nuovo tipo di sviluppo che aumentando e migliorando la crescita sociale e economica del paese può venire incontro alle sue esigenze finanziarie. Insomma, per dirla con una antico detto, si tratta di buscar el levante por el poniente.

Poiché questo non riguarda solo il caso italiano, ma certamente da subito tutti paesi mediterranei e in prospettiva l’Europa tutta, è difficile immaginare una manovra finanziaria all’altezza della necessità di uscire dalla crisi economica, senza una rinegoziazione e una modifica profonda dei pilastri dell’economia e della finanza europee. Un paese solo non può farcela, ma già l’alleanza fra i cosiddetti Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) potrebbe nel concerto europeo formare quella massa critica capace di impensierire una Germania non più tanto sicura dei propri assetti politici interni e di fare rientrare i rigurgiti di neoliberismo che stanno dietro le decisioni di Bruxelles e che coprono le responsabilità dei singoli governi nazionali.

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