Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!
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lunedì 20 maggio 2013

C'è un movimento da costruire, astenersi perditempo

Intervento all’assemblea di Ross@ a Bologna - sinistrainrete - da contropiano

di Francesco Piccioni *

Bella vista da quassù, tanta gente, si capisce che c’è il potenziale…

Poi però guardo i volti e riconosco le storie; vedo cinquanta sfumature di rosso e devo prendere atto che l’unico ambito in cui – in Italia – viene applicato il principio della concorrenza, è proprio la sinistra.

Sul piano economico la concorrenza è un vantaggio per il consumatore, ma uno spreco per i produttori: troppe aziende, troppi presidenti-segretari, consigli di amministrazione, uffici stampa, pubblicitari, funzionari, impiegati… Uno spreco infinito… E proprio pochi a “fare lavoro di massa”

Alla fine se ne esce consumati. Vi suona familiare?

Ma non è mia intenzione fare alcun appello all’unità delle organizzazioni esistenti; sarebbe inutile.

E altrettanto vale per i “cartelli elettorali”, assemblaggi ormai rifiutati dal corpo sociale ed elettorale.

Questo nostro tentativo parte da una constatazione: la scomparsa della sinistra non è avvenuta per caso. lo dico come constatazione non come recriminazione. È un fatto da cui partire insomma, non più un’accusa a qualcuno di noi. Se ne potrebbero fare di altrettanto argomentate a chi è rimasto sempre fuori dai giochi. Ma non avrebbe né senso, né utilità.

Diciamo che:

È finito un modo di far politica:

È finito quel modo di far politica per cui un patrimonio di mobilitazione e organizzazione sociale, sindacale, di lotte, sacrifici, impegno, speranze, bisogni, ideali, milioni di persone in carne e ossa viene gettato su un tavolo di trattativa per tutt’altri obiettivi, che ne prescindono totalmente.

È finito quel modo di far politica caratterizzato dalla “doppiezza”, per cui si parla con una lingua agli iscritti e ai potenziali elettori e un’altra ai tavoli dello scambio politico.

È finito quel modo di far politica per cui si chiede il voto utile per sbarrare la strada a Berlusconi e poi ci si fa insieme il vecchio presidente della Repubblica, un governo e persino la riforma della Costituzione.

È finito quel modo di far politica per cui si porta la solidarietà alla Serbia bombardata mentre si partecipa al governo che la bombarda

È finito quel modo di far politica per cui si maledice in piazza la precarietà e si vota in parlamento il “pacchetto Treu”.

Se non si prende atto di questo, non si comprende quanto profonda sia la “frattura” tra classe politica in senso lato e “società”.

È la fine dell’”autonomia del politico”, per cui le scelte tattiche e strategiche del “partito poltico” vanno in una direzione che prescinde completamente dalle condizioni e sorti del blocco sociale che si rappresenta.

La vulgata oggi dominante coglie in modo volgare la fine di un modo volgare di far politica; quello per cui “il politico” fa quello che gli pare e non realizza quel che ha promesso, per pura ambizione di ricchezza e potere.

Questo modo di far politica è finito soprattutto per la sinistra; perché troppo grande la distanza tra gli ideali e gli interessi che rappresentava e i tragici risultati concreti.

A destra invece funziona: lì corrisponde al “sanfedismo” dell’imprenditore medio italiano, preoccupato di capitalizzare per sé invece che sviluppare l’azienda, di non pagare le tasse e presentare bilanci in passivo invece di fare impresa. Insomma, nessuno si scandalizza che Berlusconi si faccia i fatti suoi; anche chi lo vota è abituato a far lo stesso. Semmai lo invidia, ma “si fa così”…

Da questa situazione non se ne esce “federando” con lo scotch i gruppi dirigenti delle formazioni esistenti, ognuno ha un qualcosa da difendere che gli sembra molto anche se non è niente di rilevante. Al massimo il controllo dei propri scarsi mezzi di sostentamento delle “strutture”. Che sono ormai delle “teste” troppo grandi rispetto a corpi molto più fragili. Il “principio delle concorrenza” è economicamente dannoso, non mi ripeto…

Per questo va creato un MOVIMENTO su tutt’altre basi. Il “superamento” della frammentazione organizzativa non può avvenire in base a uno scontro “ideologico”. Può avvenire solo in base a PRATICHE che siano adeguate ai problemi sociali, e quindi anche adatte a selezionare quei “dirigenti” che siano anche “utili” alle lotte concrete esistenti.

Un movimento con pochi obiettivi chiari, che in questo momento possono far convergere la resistenza e la lotta sociale in una sola rete nazionale d’opposizione, sia sociale che politica; rompendo quello squilibrio per cui noi facciamo le lotte e poi Grillo o chi per lui fa “da sponda politica”, con cui poi si è costretti a interagire in qualche modo

Pochi obiettivi-chiave, intorno a cui costruire il "blocco sociale" in grado di raggiungerli.

Rottura dell’Unione europea

No al presidenzialismo e alle riforme costituzionali autoritarie

Far cadere il governissimo politico e sindacale

Obiettivi che vanno comunque a raccogliere istanze e bisogni sociali, particolari, territoriali. Ma sarebbe lungo in questa sede indicare le articolazioni.

Ma come si deve procedere?

Mettendo davanti gli obiettivi e le cose da fare per raggiungerli, e sullo sfondo le beghe e persino i linguaggi ereditati da un’altra (e fallimentare) epoca.

Discutendo quel che si deve fare e facendo quel che si è deciso, mettendo fine alla “doppiezza” tra dire (promettere) e fare.

Protagonista del movimento sarà chi fa, ovvero i “delegati” espressi dal conflitto reale. Promotori e “garanti” hanno una funzione temporanea, di “avvio” e trasmissione dell’esperienza, delle competenze. Non costituiscono un “Comitato centrale” che ipoteca il futuro.

Man mano che questo avviene svanisce anche il loro compito.

Troppo complicato?

Abbiamo un esempio concreto e vincente, un format replicabile su scala nazionale, con qualche aggiustamento ma con altrettanta serietà: il movimento No Tav, la lotta della Val Susa. Parlo della “logica di movimento”, non del programma, che riguarda ovviamente un determinato territorio (anche se ha evidenti punti di contatto con tanti altri, da Vicenza a Niscemi).

In quel movimento conta prima di tutto l’obiettivo.

L’unità si fa intorno a quel che serve per raggiungerlo.

Gli scienziati hanno aiutato a inquadrare il problema a chiarire l’inutilità e la dannosità del progetto Tav; un “intellettuale collettivo” di alto livello è assolutamente necessario, ma va “incardinato” nell’analisi e nella soluzione di problemi sociali identificabili. Sia sul piano generale (l’Unione europea e le sue politiche), che su quello locale (l’Italia, gli strati sociali, i “difetti” fisiologici di un paese cresciuto male).

E un criterio. Si discute e si decide cosa fare, e poi si fa solo quello che s’è deciso, dal manifestare pacifico al violare la zona rossa; da fare assemblea a muoversi nella notte; dal tirare pietre al seguire i processi dei propri ragazzi colpiti dalla repressione. Nessuno spazio per trattative non concordate, né per colpi di testa di piccoli gruppi.

Ci può stare ognuno con le proprie idee, purché si batta concretamente per raggiungere l’obiettivo. Ci sono ex Pd, comunisti delle cinquanta sfumature di rosso, anarchici e cattolici, ex leghisti e credo anche ex democristiani

L’unità è nel conflitto per raggiungere l’obiettivo, non qualcosa da costruire prima, su basi teoriche o ideologiche, e che infatti non si raggiunge mai… I partiti, o “il partito”, è un altro gioco. Non si fa qui dentro. Ha la sua logica e naturalmente la sua legittimità indiscutibile. Qui però facciamo movimento.

Crediamo serva questo tipo di movimento politico. Il suo modo di funzionare è dato dal principio della cooperazione, non da quello della concorrenza. È un modo per mettere alla prova le idee, facendo maturare quelle che funzionano e evaporare quelle che si rivelano semplici pregiudizi.

C’è posto per tutti. Ma, come si dice negli annunci economici, “Astenersi perditempo”.
* ex redattore de "il manifesto"

http://perunmovimentoanticapitalista.wordpress.com

martedì 14 maggio 2013

Ripartire dalle parole: non chiamiamola più sinistra

Ripartire dalle parole: non chiamiamola più sinistra
Ripartire dalle parole: non chiamiamola più sinistra

Pubblicato il 14 mag 2013

di Matteo Pucciarelli -
Prima o poi dovrà esserci qualcuno che finalmente, sulla base di dati oggettivi, attinenti con la realtà, ci spieghi con chiarezza e senza passatismi cos’è e chi è la sinistra oggi. C’è bisogno di fare un po’ di pulizia, partendo soprattutto dalle parole.
Sicché a questo proposito – è una “mozione d’ordine” – sarebbe l’ora di smetterla di definire “sinistra” il Partito democratico. Centro, centrodestra, liberali, riformatori, medio-progressisti, tecnici del suono: incardiniamolo in qualche modo questo Pd, va bene, ma non più con “sinistra”. È troppo il rispetto per questa parola – il cui significato originario è una delle cose più belle del mondo – per accostarla ad un gruppo di potere fratricida e notoriamente incapace oggi alleato di Silvio Berlusconi e fedele esecutore di politiche sovranazionali che nulla hanno a che vedere con tutto ciò che anche lontanamente somiglia alla sinistra.
Questo grande fraintendimento dovuto a ragioni squisitamente storiche, sentimentali e di pigrizia mentale – il Partito, gli eredi, le ritualità – è un freno formidabile al futuro e allo sviluppo della sinistra stessa. Quella di cui ora più che mai ci sarebbe bisogno e che nonostante i clamorosi autogol ventennali dei Grandi Dirigenti esiste ancora nella società, magari a propria insaputa.
«Destra e sinistra non esistono più» è un messaggio che fa breccia nell’elettorato proprio grazie all’estrema somiglianza nelle politiche applicate dalle due squadre che si sono fronteggiate durante la Seconda Repubblica – che difatti adesso si sono fuse nella stessa società (per azioni), la Letta&company.
Il linguaggio è una cosa piccola eppure fondamentale. Chiamare sinistra il Pd non fa bene alla sinistra. Se proprio non riusciamo a farne a meno, perlomeno utilizziamo le virgolette: “sinistra”. Quella vera è un’altra cosa.
PS. «Scemo è chi lo scemo fa», diceva il detto. Appunto: sinistra è chi la sinistra fa.
da Micromega online

domenica 12 maggio 2013

A Bologna è nata "Ross@"

Autore: contropiano.org
Oggi a Bologna è stato avviato il percorso di costruzione di un movimento anticapitalista di massa. Sala piena, decine di interventi, niente retorica e molta misura. No ai "perditempo". Per ora si è dato un nome: "Rossa", anzi Ross@.Nelle prossime ore saremo in grado di descrivere e commentare meglio l'assemblea nazionale tenutasi al teatro Galliera di Bologna.
Alcuni dati possono aiutare a capire: 300 posti a sedere tutti pieni e gente in piedi; stavolta poche "teste bianche", una trentina di interventi, rigorosamente a titolo individuale, ma soprattutto niente omaggi alla retorica e ragionamenti cauti, consapevoli delle incertezze di questa sfida e delle macerie accumulate in questi anni.
Con una introduzione di Giorgio Cremaschi che ha argomentato i punti che sono poi diventati il documento conclusivo dell'assemblea, oggi ha mosso il primo passo il percorso di costruzione (e di ricostruzione) di un movimento anticapitalista di massa.
Un percorso che si è dato anche un nome, anzi un acronimo: Rete per l'Organizzazione Sociale, Solidale e... la chiocciolina finale sta a declinare Anticapitalismo, Antifascismo, Antirazzismo, Antisessismo, Ambientalismo. Praticamente tutta la chiameranno "Rossa", anche per rivendicare un colore che nella storia e nell'identità del movimento operaio ha un suo posto speciale e di estrema attualità.
Rigorosamente indipendente dal centro-sinistra (e dal collateralismo do una certa sinistra), Rossa si dichiara sin da oggi alternativa a ogni compatibilità con i trattati europei e i diktat della Troika, il patto corporativo tra CgilCisl uil Ugl e Confindustria e la destrutturazione reazionaria dell'assetto costituzionale messo in agenda dal governo Letta.
Rossa intende quanto prima lasciarsi alle spalle i residui dei riti del politicismo di una sinistra sconfitta e i suoi linguaggi per andare a misurarsi direttamente con le aspettative, le contraddizioni e le esigenze dei settori popolari e dei lavoratori.
Ognuno si assumerà la responsabilità personale della propria adesione e quella collettiva della coerenza del percorso indicato. Tutte e tutti i compagni e le compagne saranno ben accette, tranne - è stato detto con una battuta particolarmente apprezzata mutuata dal mercato - i "perditempo".
Ci si è lasciati con alcune tappe: promozione di riunioni o assemblea regionali in tutte le regioni, raccolte delle adesioni, assemblea costituente nazionale a settembre, una manifestazione nazionale in autunno contro la monarchia presidenziale, il governo di unità nazionale e la troika europea. Intanto, ovunque sarà possibile, giornata di mobilitazione il 2 giugno contro l'affossamento costituzionale prevista dalla convenzione PD-PdL e il militarismo.
Per ora è nata Rossa. Vederla crescere sarà responsabilità e interesse di tutti coloro che vedono ancora il conflitto di classe come terreno di emancipazione.

venerdì 19 aprile 2013

Il Movimento 5 Stelle

Una rivolta nella postdemocrazia e le ossessioni della (ex) sinistra italiana

di Michele Nobile - utopiarossa - sinistrainrete -

Demonizzazione e captatio benevolentiae verso il M5S
È da tempo che la crisi di legittimità della casta partitico-statale italiana si esprime nella crescita dell’astensionismo: che è il fenomeno politico maggiormente in crescita di cui poco si parla o se ne parla per liquidarlo come primitivismo antiparlamentare o «qualunquismo». Come forma di protesta politica l’astensionismo cresce perché ha profonde e diffuse motivazioni sociali, alle quali né il centrosinistra né il centrodestra sono in grado di rispondere in modo credibile e accettabile.


Con le recenti elezioni la crisi di legittimità si è trasferita anche all’interno dell’istituzione parlamentare, in conseguenza del successo elettorale del Movimento cinque stelle (M5S): piaccia o no, di fronte ai partiti che da vent’anni governano il paese è il M5S che costituisce il terzo polo, quello della protesta.

È questo che spiega l’ambivalenza dell’atteggiamento di politici e commentatori nei confronti del M5S, che oscilla tra la demonizzazione e la captatio benevolentiae
: in questo secondo caso ci si aspetta che Grillo «il demagogo» e i parlamentari della cosiddetta «antipolitica» sappiano anche mostrarsi ragionevoli e costruttivi, consentendo in tal modo la formazione di un governo, possibilmente di centrosinistra.


Tuttavia il M5S rifiuta, certamente non senza tensioni, di giungere ad accordi con il Pd: accordi che in altre circostanze si sarebbero spregiativamente bollati come consociativi e che costituirebbero il definitivo colpo di grazia alla ventennale retorica circa l’alternanza bipartitica (colpo, in effetti, già sferrato dal consenso bipartitico al governo Monti). Tentando di coagulare il consenso di Pd e Pdl intorno ai presunti «saggi» il presidente Napolitano non ha fatto altro che giocare nuovamente la carta consociativa.

Ma la sinistra - intendendo Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e quel che resta del «popolo» che a questi partiti continua a far riferimento – come si comporta nei confronti dell’impasse cui è giunta la casta partitica, attualmente più screditata che al tempo di Tangentopoli?

Nell’articolo precedente auspicavo che dai risultati delle elezioni politiche si sapesse trarre la giusta lezione1. Evidentemente non è così. La sinistra post-Pci sembra anzi in preda a un crollo psichico, che si manifesta nell’isteria antigrillina e nella marchiatura a fuoco della figura di Beppe Grillo, considerato come un seduttore di masse istupidite, una sorta di Grande fratello totalitario in versione postmoderna, mentre i risultati elettorali del M5S vengono qualificati come «diversione» o addirittura come un esempio della
«reazione che avanza». E siamo arrivati al vergognoso paradosso per cui questa sinistra formalmente antimontiana oggi si scaglia contro Grillo perché ha il coraggio di dire no a un inciucio tra Pdl e Pd, che di Monti è stato il più fedele sostenitore2; e questo dopo che Prc, Pdci e Verdi hanno condiviso responsabilità di governo con il centrosinistra, vale a dire con la coalizione che negli anni ‘90 fece la maggior parte del lavoro sporco di stampo neoliberistico. Stiamo parlando di un’area politica (i Forchettoni rossi) reduce da tre lustri di battimani, in adorazione di ogni minima svolta del guru e autentico demagogo Bertinotti, oppure di Diliberto, ministro nel governo D’Alema, quello che bombardò la Jugoslavia.

lunedì 8 aprile 2013

Se il capitalismo diventa di sinistra

Diego Fusaro - comunismocomunitario -

Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.

Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).

Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).

Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.

venerdì 29 marzo 2013

I peccati di una sinistra né radicale né popolare

      - fonte - di Enrico Grazzini -
La sinistra radicale si mangia il fegato dall’invidia: tutto quello che non è riuscita a fare dal ’68 in poi, in 45 anni di vita, è riuscito invece a fare Beppe Grillo in solo quattro o cinque anni. Grillo ha costruito un partito-movimento radicale con 8,7 milioni di voti, è riuscito a prendere voti sia da destra, rubandoli a Berlusconi e alla Lega, che a sinistra, togliendoli a Bersani, Renzi, D’Alema, Vendola e Ingroia. Soprattutto è riuscito a raccogliere milioni di voti popolari di protesta causati da una crisi sconvolgente per la quale due famiglie su tre guadagnano meno di quanto devono spendere per vivere.
Premetto che non ho votato per Grillo e che non mi piace ubbidire agli ordini di un capo assoluto. Ritengo che sia irresponsabile e drammatico il cieco rifiuto dei neo-eletti grillini a votare un governo con un programma di svolta come quello che – finalmente, in maniera un po’ trasformista ma molto pragmatica – ha proposto Bersani. Bersani rappresenta la “vecchia politica” ma ha (o aveva visto l’esito sospeso dell’incarico) un buon programma per tentare di uscire dalla crisi profonda e per battere Berlusconi e le prospettive devastanti del governissimo Berlusconi, Renzi, Monti.
Non c’è quindi simpatia pregiudiziale per Grillo: ma la sinistra alternativa deve cominciare a riconoscere la realtà e i suoi peccati mortali. Il Movimento 5 Stelle è il primo partito della classe operaia, dei disoccupati e dei “ceti medi riflessivi”. La mia interpretazione è che il movimento grillino rappresenti il nuovo partito, ancora contraddittorio, dei “lavoratori della conoscenza”: infatti è fortissimo tra i laureati, i diplomati, gli studenti, le partite Iva e chi usa Internet. Comunque è già un partito nazionale, votato al nord, al sud e nel centro Italia del “popolo rosso”. Un capolavoro che la sinistra neppure si immagina. Grillo è un demagogo? Sì, però ci insegna molte cose che la sinistra radicale, uscita tramortita dalle elezioni, non vuole imparare. Il primo insegnamento è che molto spesso per ottenere degli obiettivi non occorre andare al governo ma bisogna fare una buona opposizione. Grillo dall’opposizione è già riuscito (indirettamente) a far eleggere come presidenti di Camera e Senato due degne persone, Laura Boldrini e Piero Grasso, che altrimenti non sarebbero mai stati eletti in quei posti. I tre punti principali del programma di Grillo, reddito di cittadinanza, finanziamenti per le piccole medie aziende, legge anti-corruzione sono chiari e condivisibili da milioni di persone, e per la prima volta il moderato partito democratico – che aveva già votato il fiscal compact e l’austerità antipopolare di Monti – ha dovuto mettere i punti programmatici di Grillo (quasi) al centro della sua agenda. Nonostante che perfino Susanna Camusso sia contro il reddito di cittadinanza. Con l’elezione dei grillini diventa finalmente probabile il blocco della Tav.

venerdì 1 marzo 2013

"Solo unificandoci possiamo superare la crisi di credibilità". Intervento di Domenico Moro

Autore: domenico moro
    
Questa è la seconda volta che andiamo al tappeto e per la seconda volta bisognerà provare a rialzarsi. Come nel pugilato, solo chi è veramente determinato riesce a farlo. Tuttavia, rialzarsi per continuare a incassare pugni come un pugile suonato sarebbe assurdo. Quando si va al tappeto non ci si rialza subito, si aspetta il conteggio dell’arbitro, sfruttando ogni secondo per riprendere fiato e lucidità. Ecco, riprendere fiato, per noi, vuol dire ragionare a mente fredda e cercare di capire il perché e il percome è successo un’altra volta.
Nessuno ha la verità in tasca. Tuttavia, cerchiamo di vedere se è possibile individuare dei fatti precisi da cui partire. In primo luogo cosa dimostrano queste elezioni? A mio modo di vedere, dimostrano tre cose. Primo, il bipolarismo è fallito. Secondo, il governo Monti e la maggioranza che lo sosteneva sono stati bocciati. Terzo l’Europa stessa – o meglio l’europeismo dei mercati finanziari - è stata bocciata.
I dati e i numeri non si prestano a interpretazioni diverse. Le forze che hanno sostenuto il governo Monti hanno subito salassi qualche volta mortali. Lo stesso recupero di Berlusconi, che pure c’è stato, è in realtà molto relativo. Come partito il Pdl passa dai 13,6 milioni di voti del 2008 ai 7,3 del 2013, perdendo quasi la metà dei suffragi. Come coalizione Berlusconi perde la bellezza di 7,1 milioni, passando dal 46,8% al 29,1%. Il Pd perde meno ma subisce sempre un salasso incredibile passando dai 12 milioni agli 8,6 milioni e come coalizione perde 3,6 milioni di voti, passando dal 37,6% al 29,5%. Il risultato, ben al di sotto delle aspettative, del centro di Monti, fino all’altro ieri ritenuto il salvatore della patria, e la cancellazione dal panorama politico di Casini e Fini completa il quadro di bocciatura della grande coalizione che ha sostenuto il governo Monti ed implementato le politiche europee. Il pareggio tra i due vecchi poli, soprattutto l’emergere del polo di Grillo e, sebbene in misura minore, il consolidarsi di un centro al 10%, suona la campana a morto per il bipolarismo in sé stesso. Ma c’è un altro elemento fondamentale che si lega alla fine del bipolarismo, al crollo dei partiti tradizionali e di cui bisogna tenere conto, e che invece sembra passare inosservato. Si tratta dell’aumento dell’astensionismo, una tendenza storica ormai consolidata che neanche la straordinaria affermazione di Grillo è riuscita ad invertire. La partecipazione al voto – senza contare le schede bianche o annullate – è passata dall’83,6% del 2006, all’80,5% del 2008 e al 75,2% del 2013. In valore assoluto gli astenuti sono passati da 7,7 a 9,2 e a 11,7 milioni. 2,5 milioni in più solo tra le ultime due elezioni.
Per quanto possa sembrare paradossale il vero grande sconfitto da questa competizione è il capitale finanziario transnazionale. Il suo candidato era il ticket Bersani-Monti, come detto chiaramente nell’editoriale del 16-22 febbraio di The Economist, la più autorevole espressione di questo settore. Ora, il problema, per questi signori, è che è saltato il feticcio della “governabilità”, in altre parole la possibilità di implementare le politiche europee, dal fiscal compact alle varie controriforme. Di fatto, gli italiani col loro voto per Grillo, fregandosene di spread e governabilità, hanno fatto saltare i piani europei, in una sorta di referendum implicito sull’euro, e hanno lasciato il capitale senza un sistema politico funzionale.
A questo punto c’è da domandarsi perché gli italiani che hanno bocciato il governo Monti e l’Europa hanno concentrato il loro voto su Grillo e non hanno votato noi. Anzi, per la sinistra è stata una debacle generale, che coinvolge tutti e prosegue la tendenza emersa già tra 2008 e 2006, quando si persero più di 3 milioni di voti, come effetto della partecipazione al governo Prodi. Nel 2008 Idv, Prc (che comprendeva Sel), PdCI e verdi presero il 7,5%, oggi il 5,4%, passando dai 2,7 milioni del 2008 a poco più 1,8 milioni. Eppure, questa volta eravamo fuori dal Parlamento e ci siamo schierati contro Monti. Quindi, perché? La risposta è complessa e semplice insieme: abbiamo perso credibilità già da tempo e negli ultimi tempi non siamo riusciti a recuperarla, diminuendola ancora.
Vanno evitati due errori di semplificazione, dare la colpa ad un elettorato ottuso (o che non ci capisce o che segue le mode) e al voto utile. È evidente che noi facciamo i contri con la realtà e che questa in questa fase storica non ci è favorevole, per molte ragioni. Tuttavia, dobbiamo capire in primo luogo quali sono i nostri limiti, visto che è su questi che abbiamo maggiore potere di agire. E questo non per fare recriminazioni inutili o autoflagellarsi, ma per andare avanti costruttivamente. Dal mio punto di vista, se i lavoratori non ti votano (e a questi livelli), vuol dire che qualcosa hai sbagliato anche tu.
Il primo grosso limite è stato quello di non essere riusciti ad esprimere una linea coerente con quello che dicevamo e per giunta altalenante. È vero che ci siamo schierati contro Monti, però abbiamo cercato con insistenza un accordo con il partito che ha rappresentato il maggior sostegno al governo Monti e che di fatto esprimeva un evidente allineamento alle politiche europeiste, più di Berlusconi. Anche quando il Pd aveva rifiutato più volte le nostre offerte e si era formata la lista Rivoluzione Civile, Ingroia, almeno fino ad un certo punto, ha continuato a lanciare offerte di collaborazione con il Pd. Praticamente il correre da soli non è apparso come il risultato coerente di una scelta politica, ma come una specie di ripiego, dovuto al rifiuto del Pd. Un rifiuto che fra l’altro era molto prevedibile, data la manifesta volontà di quel partito di allinearsi alle politiche europee e di prepararsi all’alleanza post-elezioni con Monti. Tutto questo e, non ultime, le divisioni interne alla Fds - di fatto spaccata e ricomposta in extremis in RC – non hanno prodotto, anche prima della campagna elettorale, un attivismo e una visibilità adeguati. E, soprattutto non potevano non disorientare il nostro elettorato potenziale, che, infatti, in gran parte o si è astenuto o è andato con Grillo. Semmai hanno rafforzato in taluni l’idea di una disponibilità post-elettorale a ritornare ai vecchi compromessi.
Il secondo limite sta nel carattere della campagna elettorale di Rivoluzione civile, che, nonostante gli sforzi di alcuni, è rimasta incentrata sulla legalità (non che non sia importante ma non siamo stati capaci - nè lo poteva essere Ingroia, catapultato dalle aule di tribunale all’arena politica - a legare la questione della legalità all'economia e alla questione sociale), mentre siamo nella peggiore crisi economica dalla fine della guerra e la gente non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.
Il terzo limite, in una campagna elettorale e in una politica in cui conta sempre di più la comunicazione (ed in presenza di veri maestri del settore come Grillo e Berlusconi), è il fatto che abbiamo presentato un leader non in grado di trasmettere entusiasmo. Inoltre, abbiamo eliminato i simboli dei partiti che permettevano agli elettori di avere un punto di riferimento chiaro, con un cedimento suicida al trito refrain della “società civile” migliore di quella politica (in questo caso noi stessi). Ingroia è un personaggio prezioso per la sinistra che potrà dare un contributo importante nel futuro, ma come leader della coalizione non ha funzionato.
Analisi del voto più approfondite ci diranno se e quanto ha inciso il voto utile. Ma già nel 2008 incise in misura parziale e meno dell’astensionismo. Oggi, ha funzionato ancora meno. La controprova è il risultato mediocre di Sel con il 3,2% (solo un paio di mesi fa accreditata del 6%), solo un punto percentuale e circa 300mila voti in più rispetto a RC. Inoltre, bisognerà pur chiedersi perché non abbiamo intercettato i nuovi e vecchi astenuti e soprattutto perché con Grillo il voto utile non funziona, tanto più che, secondo le prime analisi sui flussi di voto, ha intercettato molta parte degli ex votanti del Pd nel 2008. Non è questa la sede per una analisi approfondita del Movimento 5 stelle. Ci limiteremo a considerare che il punto di forza di Grillo è stata la capacità di presentarsi come non compromesso con il passato, agitare credibilmente la questione dell’Europa e dell’euro e dichiararsi indisponibile ad accordi al ribasso. Ma soprattutto Grillo, a differenza nostra, ha capito dove tirava il vento e i sentimenti profondi che animano gli italiani.
L’errore maggiore sta nel fatto che in politica si deve scegliere. Noi abbiamo scelto di non scegliere e di far scegliere gli altri per noi. In un clima socialmente arroventato e in un quadro di grande fluidità questi errori si pagano pesantemente. A costo di ripetermi, bisogna tenere conto che la fase storica ed il contesto sociale ed economico in Italia ed in Europa sono mutati: ritorno della povertà e della disoccupazione di massa (e connessa crescita dell’astensionismo), trasformazione dello stato-nazione a fronte di politiche generali decise a livello europeo, delocalizzazioni e finanziarizzazione massicce ed altro ancora. Tutto ciò richiede un riadeguamento complessivo della proposta e del posizionamento politico. Non si possono ripetere le stesse formule del passato, basate sulla riedizione del centro-sinistra. Bisogna avere la capacità di dare alla nostra gente una prospettiva nuova ed ampia, che sia in grado di riattivare le energie e la voglia di lottare.
Per questo sono necessari una riflessione e un riposizionamento strategici, in cui però sia ben chiaro che l’unità e l’autonomia ideologica e politica dei comunisti, attraverso la ricostruzione di un vero partito comunista, sono il primo punto all’ordine del giorno. L’esito di queste elezioni, per noi, prova soprattutto questo. Solo dimostrando a noi stessi e agli altri che siamo capaci di unificarci e di trovare un punto di vista in comune, possiamo fare il primo passo per recuperare quella credibilità e quel terreno che abbiamo perduto.

mercoledì 27 febbraio 2013

Grillo e la rabbia popolare contro il finanzcapitalismo

CARLO FORMENTI –
cformentiGli italiani hanno votato contro la governabilità, hanno tirato in faccia a una classe politica impresentabile il loro assoluto disinteresse a scegliere chi li debba rappresentare, perché non chiedono più di essere rappresentati, ma di conquistare la libertà di autogovernarsi.
Il voto dello scorso week end ha segnato l’inizio di una guerra – prevedibilmente lunga – fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, una guerra che non potrà finire con la vittoria della prima perché la democrazia rappresentativa è già morta da un pezzo, uccisa dal crepuscolo degli stati nazione, sostituiti da regimi postdemocratici che operano come agenzie locali delle istituzioni sovranazionali (Comunità Europea, FMI, Banca Mondiale, ecc.), le quali gestiscono a loro volta gli interessi della finanza globale, al di fuori di qualsiasi vincolo e controllo democratico.
Dunque il vero dilemma è se la rabbia popolare contro i crimini del finanzcapitalismo spianerà la strada a un ritorno dei totalitarismi di destra, o se matureranno le condizioni per la transizione a una civiltà post capitalista, amministrata da istituzioni politiche fondate sui principi della democrazia diretta e partecipativa.
Per molti di coloro che lo hanno votato, Grillo incarna, a torto o a ragione, la speranza che prevalga la seconda alternativa, e il suo trionfo si è celebrato sulle macerie di una sinistra – riformista e radicale, senza distinzioni – che non è più degna di chiamarsi tale.
Per capirlo basta leggere il bell’articolo di Vladimiro Giacché su “Micromega” 2/2013, dedicato al programma economico del Movimento5Stelle. Mentre il Pd lanciava scomuniche contro l’antipolitica e il populismo – urlando tanto più forte quanto più offriva a Monti la propria disponibilità ad approvare riforme che colpivano al cuore gli interessi delle classi subordinate e, addirittura, una riforma costituzionale che metteva fuori legge il keynesismo –, il Movimento5Stelle varava un programma elettorale che, con tutti i suoi limiti, puntualmente evidenziati da Giacché (mancata identificazione delle risorse per finanziare certi provvedimenti, ingenua fiducia nelle capacità taumaturgiche della Rete, eletta a deus ex machina in grado di sanare l’economia, promuovere la democrazia, migliorare la scuola e via miracolando), rappresenta un sia pur rozzo abbozzo di quello che avrebbe dovuto stilare una sinistra degna del nome: reddito di cittadinanza, no alle grandi opere inutili come la Tav, ripristino dei fondi tagliati a scuola e sanità, abolizione della legge Biagi, lotta alla speculazione finanziaria e all’evasione fiscale, drastica riduzione delle spese militari e dei finanziamenti ai partiti, ecc.
E la sinistra radicale? Qui scappano parole ancora più dure: quando la mancanza di idee e di coraggio politico superano un determinato livello diventano idiozia e viltà. Come altro definire la scelta di un Vendola che si è venduto la possibilità di fare un serio lavoro di opposizione per un pugno di seggi elettorali (che beffardamente ora non gli serviranno neppure a governare). Come altro definire quella degli altri “cespugli” che, invece di dare respiro alle iniziative di ALBA e “Cambiare si può”, hanno scelto di partorire, assieme all’IDV, quell’aborto giustizialista che è la lista Ingroia (a cui confesso con una certa vergogna di avere dato il voto, per disperante assenza di alternative).
Gianni Vattimo, che a quanto pare ha fatto la mia stessa scelta, la motiva parlando di “un voto di resistenza antimontiana”. Ma quale resistenza, se poi dice che “non esiste un’alternativa rivoluzionaria al riformismo”; che l’unica prospettiva possibile è lottare “per ottenere un capitalismo meno feroce e sanguinario”, per costruire “una sinistra di legalità e diritti”?
Ok per i diritti (non prima di averli ordinati gerarchicamente, con quelli sociali davanti a tutti!), ma per quanto riguarda la legalità: di che legalità parliamo? Forse quella di Di Pietro, quando ha condannato la resistenza attiva alla violenza delle istituzioni da parte dei militanti No Global a Genova, o dei militanti NoTav in Val Susa? No grazie, non mi interessa, né credo interessi alle migliaia di ragazzi che sono stati protagonisti dei movimenti degli ultimi anni, i quali difficilmente avranno votato per Vendola o Ingroia, preferendo astenersi o votare Grillo, per sfregio alla “governabilità” se non per convinzione.
Carlo Formenti
(26 febbraio 2013)

Non è un disastro. È molto peggio

Fonte: micromega online | Autore: Matteo Pucciarelli       
Allora, visto che a differenza dei dirigenti del centrosinistra in questo spazio non ci sono carriere da difendere, possiamo discuterne in tutta sincerità: da qualunque parte della sinistra si guardi – moderata, moderata ma radicale, radicale e basta – la sconfitta è totale.

1. Ricordiamo sommessamente che 14 mesi fa Berlusconi era molto e sepolto, Monti non esisteva e Grillo aveva il 4 nei sondaggi. Se non si è andati al voto è grazie alle pressioni del presidente della Repubblica e all’accondiscendenza suicida di Bersani.

2. Le primarie si sono rivelate l’ennesima illusione collettiva, così come lo furono nel 2005. La democrazia non è roba utile per questo Paese. Vincono quelli che fanno per sé, perché fanno per tre (vedi Berlusconi, ma anche Grillo).

3. La sinistra radicale (sia Sel che Rc) esce ancora una volta con le ossa rotte dal voto. Proprio in una fase storica che, paradossalmente, mette in evidenza i fallimenti del riformismo come finora è stato inteso. Forse è davvero ora di fare spazio ai giovani e di riunificare un’area divisa più dalle inimicizie personali che dalle divergenze politiche.

4. Chi protesta, chi è attivo nelle lotte, non sceglie a sinistra ma opta per il Movimento Cinque Stelle. È il momento di togliersi la puzza da sotto il naso (parlando sempre di fascismo e di matite ciucciate, ad esempio) e provare a ricordarci che, programma alla mano, il 70 per cento delle proposte del M5S è di estrema sinistra. La domanda è questa: perché l’elettorato si affida a Grillo e non all’originale? Sono molto sincero: la risposta che avrei in mente è troppo deprimente per dirla. Ma magari ha un fondo di verità: perché Grillo va di moda.

5. Se il Pd fa la grande alleanza con il Pdl alle prossime elezioni il M5S prende l’80 per cento. Conoscendo gli enrichiletta, la cosa è possibile.

6. Nonostante i giganteschi spot a reti unificate, Monti porta a casa un deprimente 10 per cento. È l’unica soddisfazione della giornata. E conferma l’incapacità d’analisi del Pd, che non ha fatto altro che evocarne un futuro accordo.

7. Tornando alla sinistra radicale. Ingroia era e resta una splendida persona. Che ho votato con convinzione. Ma aveva ragione il direttore di questa rivista, Paolo Flores d’Arcais. Bisognava saltare il giro e prepararsi al futuro caos post-voto. Devo essere sincero: credevo si sbagliasse. Adesso, comunque sia, invitare Ingroia a fare le valige è un gioco semplice e pure codardo. Credo resti una risorsa, così come lo è quel simbolo, il Quarto Stato. Che adesso non va di moda, ma che ha un suo valore e una sua ragione d’esistere.

8. Infine Berlusconi. Resta il politico più straordinario della storia di questo Paese. In senso negativo, certo. Eppure rimane drammaticamente unico. Chi non lo ha stritolato 14 mesi fa deve dimettersi una volta per tutte.

9. Basta parlare di politica. D’ora in poi motori, donne, discoteca.

domenica 10 febbraio 2013

Il Grande Rebus: le elezioni viste da sinistra

 - megachip -

ingrilloiadi Marco Niro.
Per chi, nonostante tutto, trova ancora a sinistra – intesa nel senso fresco, aggiornato e post-ideologico ben espresso qualche settimana fa da Giulietto Chiesa – il proprio universo di riferimento politico, queste elezioni sono un vero e proprio rebus. Chi la sinistra sostiene di rappresentare, in questa tornata, ha compiuto autentici capolavori di masochismo, andando oltre il fondo che già ormai pensavamo si fosse definitivamente toccato negli anni precedenti.
A cominciare è stato Vendola, con la decisione suicida di allearsi con il Partito Democratico. A Vendola sarebbe bastato guardare alla sua sinistra e dire “uniamoci e torniamo in Parlamento”, e non avrebbe fatto fatica a porsi alla guida di una coalizione saldamente ancorata a sinistra, alternativa al PD, facilmente accreditabile di una percentuale di voti ben superiore a quell’8% necessario ad entrare in entrambi i rami del Parlamento.

Invece Vendola, ad un’opposizione libera da condizionamenti e capace di rinvigorire e cementare una sinistra italiana uscita disastrata dalle politiche del 2008, ha preferito spaccarla ulteriormente e puntare su un’alleanza innaturale col PD, che lo costringe ogni giorno che passa di questa campagna elettorale a fare i salti mortali per garantire al suo elettorato che lui con Monti non si alleerà mai (come se, del resto, essere alleati di Enrico Letta e Fioroni, invece, sia una cosa che un elettore di sinistra, oggi, possa digerire facilmente…). Dal che discende, oltre che un’emorragia di voti per SEL (oggi accreditata della metà dei consensi che i sondaggi gli assegnavano prima della decisione di “sposare” il PD), un vero e proprio enigma per un suo elettore: se vota SEL, lo fa perché vuole contribuire, da sinistra, a un’alleanza di governo, altrimenti voterebbe Rivoluzione Civile; ma che senso avrebbe allora votare SEL se, come è evidente, Bersani sarà costretto all’alleanza con Monti e Vendola a quel punto si sfilerà, come non si stanca mai di assicurare?
Lasciando gli elettori di SEL al loro enigma, passiamo appunto a Rivoluzione Civile. Ricreare la fallimentare accozzaglia elettorale che era stata la Sinistra Arcobaleno nel 2008 pareva francamente arduo. Cinque anni dopo ci si è riusciti addirittura peggiorandola, con l’innesto di un corpo estraneo, Di Pietro (che, visto da sinistra, non può che essere considerato tale), e con l’affidamento incondizionato ad un improvvisato “deus ex machina”, Ingroia, nel segno di un personalismo politico modaiolo e banale che con la sinistra dovrebbe centrare poco o nulla (pur con tutto il rispetto per Ingroia). Intendiamoci: quello di Rivoluzione Civile è un programma interessante di cui un elettore di sinistra potrebbe pure accontentarsi (ammesso che, a sinistra come a destra, esistano ancora elettori interessati ai programmi). Tuttavia, la dinamica frettolosa con cui Rivoluzione Civile è nata, che finisce con il farla apparire come una sorta di Frankenstein prematuramente partorito, rischia di annullare la bontà di qualunque programma, già poco dopo la chiusura delle urne.
L’aspetto masochistico di tutto ciò è che la nascita di Rivoluzione Civile a scopi meramente elettorali ha finito con il frenare bruscamente – se non addirittura compromettere – l’unico vero processo di costruzione democratica e dal basso in Italia di un soggetto politico di sinistra, quello che stava avvenendo all’interno di “Cambiare si può”, come dimostra la presa di distanza da Rivoluzione Civile da parte dei cosiddetti “professori” che di “Cambiare si può” sono la mente. Così, per il nostro elettore di sinistra, si ripropone con Rivoluzione Civile un altro enigma: se vota Rivoluzione Civile, lo fa perché vuole che nel prossimo Parlamento ci sia un’alternativa a sinistra della coalizione PD-SEL; ma che senso avrebbe votare Rivoluzione Civile se questo soggetto dovrà poi fare i conti con un collante elettorale destinato a venire subito meno, col rischio – molto concreto – di assistere ad un triste spettacolo di disunione interna, dal quale l’alternativa di sinistra uscirebbe del tutto indebolita, per di più col rischio che questa dinamica si ripercuota anche fuori dal Parlamento, come lascia intendere quanto già avvenuto nell’ambito di “Cambiare si può”?
In questo enigmatico contesto, ecco che – paradossalmente – il nostro frastornato elettore di sinistra potrebbe essere tentato dall’idea che il voto speso meglio sia quello dato al Movimento 5 Stelle, guidato, anzi “capeggiato”, da uno che di sinistra non è mai stato, Beppe Grillo. Con lui, i rischi che si corrono con SEL e Rivoluzione Civile non ci sono: non c’è nessun dilemma-alleanze come nel caso di Vendola e nemmeno un dilemma-tenuta come nel caso di Rivoluzione Civile, ovvero si può stare certi che il Movimento 5 Stelle, una volta in Parlamento, farà per tutta la legislatura un’opposizione netta, radicale e granitica.
I problemi, con Grillo, sono altri e ben noti, guardandolo da sinistra. E non stiamo parlando dei dubbi sul fatto che si tratti di una forza realmente di sinistra. Ha scritto uno dei più acuti osservatori del Movimento 5 Stelle, Andrea Scanzi, sul Fatto Quotidiano, facendo riferimento al loro programma: «sanità pubblica, scuola pubblica, reddito minimo garantito per tutti, pacifismo, ambiente, liste pulite, abbattimento dei costi della politica, no agli inceneritori, etc: il Movimento 5 Stelle è di destra come Storace di sinistra». I problemi sono piuttosto altri, e innegabili: l’appiattimento sul “Capo” e la dipendenza totale da lui, la scarsa democrazia interna (sempre citando Scanzi: «il M5S contiene anche questa anomalia di inseguire la democrazia dal basso - “Uno vale uno” - ma di essere al tempo stesso la dimostrazione - per ora - del contrario») e il populismo urlato dei toni (non dei contenuti).
Ecco quindi la domanda: può un elettore di sinistra tapparsi occhi, orecchie e naso di fronte a questi che da sinistra non possono che essere visti come degli inaccettabili difetti del Movimento 5 Stelle e concentrarsi solo su quella che dal suo punto di vista può apparire come un’evidente qualità, ovvero essere la forza in gioco che meglio può garantire di poter contare, dentro il prossimo Parlamento, su un’opposizione netta, radicale e granitica fondata su contenuti di sinistra?
Non lo sappiamo. Quello che è certo, tuttavia, è che si verificherebbe, a quel punto, ciò che proprio Grillo ha più volte affermato con enfasi: colui per il quale voto diventa un mio dipendente, e deve fare quello che io gli chiedo. E questo, forse, potrebbe essere il miglior modo di neutralizzare, da sinistra, ogni rischio di deriva populista e anti-democratica del Movimento 5 Stelle.
Agli elettori di sinistra, da sempre minoritari e ora anche frastornati, l’ardua decisione.

venerdì 1 febbraio 2013

LO SPETTACOLO DELLA SINISTRA

Fonte: il manifesto | Autore: Norma Rangeri       
     
Quotidiano, rovente, distruttivo, soprattutto disarmante. È lo spettacolo delle nostre divisioni a sinistra, ogni giorno più acute e plateali. Una cartina al tornasole della irresponsabile sottovalutazione della posta in gioco nel voto del 24 febbraio. Che ormai rasenta l'assenza di una seria presa di responsabilità verso quella parte del paese che spera (ancora), che crede (da troppo tempo), nella possibilità di andare a votare per una vera svolta politica . Lo scontro tra Vendola e Ingroia, tra Sel e la Lista capeggiata dal magistrato, il continuo rinfacciarsi l'un l'altro il «tradimento» della comune causa, ne è la clamorosa, deprimente testimonianza.
Una diaspora che ieri ha toccato il livello più basso con la reciproca accusa di scomparire il giorno dopo il voto. Da una parte si dice che l'alleanza di Sel con il Pd si sfascerà quando sarà chiaro che il partito di Bersani andrà al governo con Monti. Dall'altra si prevede che le forze riunite sotto l'insegna di Ingroia torneranno a dividersi nei mille pezzi che la compongono.
Non si tratta di lanciare appelli all'unità di facciata, né resuscitare ramoscelli d'ulivo o arcobaleni radiosi. Le divisioni ci sono, sono importanti, coinvolgono giudizi sullo stato delle forze in campo e vanno guardate senza veli. La scelta di coalizzarsi con il Pd per affrontare la sfida del governo del paese, o quella di dare forza elettorale a un movimento-partito per condizionare dall'esterno il Pd sono non solo due opzioni legittime, ma anche il frutto di una sconfitta storica della sinistra. Quel che non persuade e anzi semina un disorientamento crescente, è assistere a uno scontro sterile, persino fittizio, utile solo a prosciugare consensi a entrambi gli schieramenti.
Se lasciamo da parte le modalità (pure importanti) con cui si è giunti a queste tattiche di «coalizione», e guardiamo ai contenuti, non si potrà negare la prossimità dei due campi e le ragioni di un'affinità politico-culturale che li unisce. Sull'antiliberismo e sulla pace, sul neoambientalismo e sul modello di sviluppo c'è una stretta parentela tra Vendola e la lista Ingroia, più di quanta non se ne riesca a vedere tra Vendola e Bersani, o, per converso, tra Ferrero e Di Pietro. Così come su «la rotta d'Europa» si scontrano, invece, in questa parte della sinistra, due orientamenti, e forse due culture politiche diverse.
E' troppo chiedere di mantenere alto il livello del confronto? E' possibile evitare di ferirsi con le armi spuntate del «tradimento» da scagliare contro i rispettivi eserciti? L'elettorato di sinistra non si convince con le sceneggiate televisive, troppe e brucianti le delusioni accumulate negli ultimi anni per sopportare ancora le schermaglie mediatiche. Utili solo a seminare la voglia di restarsene a casa.

sabato 26 gennaio 2013

Rivoluzione Civile, oltre le elezioni

- lavorincorsoasinistra - 26 gennaio 2013        

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Una visione particolarmente caricaturale di Rivoluzione Civile, ovviamente confezionata e fatta circolare dai suoi numerosi nemici politici, è quella che vorrebbe far passare tale formazione per una sorta di taxi d’emergenza su cui si sono affrettati a salire esponenti di forze politiche tra loro irriducibilmente diverse, animate solo dall’intento di salvare la pelle politicamente parlando e di riguadagnare qualche poltrona.
Vero è che le elezioni si avvicinano e che tutte le argomentazioni, anche le più scorrette, sembrano essere ammesse, mentre si arroventa il clima della campagna elettorale. Ma questa visione è destituita a ben vedere del minimo fondamento.
Tu sei buono e ti tirano le pietre, sei cattivo e ti tirano le pietre, cantava Antoine. Così è per le forze della sinistra: se si dividono vengono giustamente bollate come litigiose e perdenti, se si unificano, come nel caso di Rivoluzione civile, deve essere necessariamente per qualche scopo poco nobile e senza alcuna prospettiva.
Bisogna invece sostenere con energia e coerenza che questa unificazione è stato un fatto positivo, anche perché ha posto le premesse di un futuro sviluppo di un gruppo parlamentare e di un’aggregazione politica unitaria di opposizione e alternativa, della quale l’Italia ha bisogno come dell’aria per respirare.
Gli anni difficili e tormentati da cui proveniamo non possono peraltro non aver aperto gli occhi a tutti o quasi gli italiani. Mostrando loro le bassezze del signor BungaBunga che ha tentato di trasformare quello che resta dello Stato italiano in una sua personale macchina di arricchimento e ha sfidato in modo arrogante ogni regola nella speranza di poter godere dell’impunità più o meno assoluta che deriva dal potere. Ma anche, la via senza uscita del montismo, contrassegnato dall’intento di salvaguardare gli equilibri e le strutture di potere esistente e dall’illusione di superare la crisi e rilanciare l’economia senza mettere mano ai privilegi reali e alle ricchezze esagerate della parte più ricca della nostra società. Ma anche la sostanziale acquiescenza a tali scelte da parte del Pd, per quanto si agiti e si sbracci oggi il buon Nichi nel lodevole intento di trascinare via tale partito dal mortifero abbraccio con i montiani, oramai elevati a loro volta a partito.
Accà nisciuno è fesso, dicono a Napoli. E questo viene voglia di ripetere vedendo Bersani che scopre improvvisamente i danni del montismo sulla questione degli esodati o si trasforma di colpo in nemico degli F-35.
di Fabio Marcelli – Il Fatto Quotidiano
Non di sceneggiate preelettorali abbiamo bisogno, ma di una forza che sappia mettere in mdo coerente le questioni fondamentali, difesa intransigente della Costituzione, pace, lavoro, ambiente, legalità, al centro dell’agenda politica. Per questo è nata Rivoluzione civile.
In un’intervista che mi è stata fatta a seguito della mia decisione di accettare la mia candidatura nelle liste di tale formazione, ho sostenuto quanto segue:
“Penso in effetti che sia necessario tentare di riappropriarsi della sfera politica a partire dalle esigenze del 90% della società che è escluso dai circoli del potere. In questi anni le varie esperienze che ho fatto, come cittadino, come giurista, come ricercatore, mi portano a ritenere necessario un luogo di elaborazione e di difesa degli interessi diffusi all’insegna di politiche nuove non subalterne agli interessi dominanti. Ho voluto essere dentro Rivoluzione civile per verificare fino in fondo la fattibilità di questa prospettiva, che a mio avviso è l’unica oggi praticabile per cambiare le cose. Ben al di là della scadenza elettorale che ha posto peraltro alcune urgenze oggettive cui si è cercato di far fronte nel migliore dei modi possibili date le circostanze”.
E’ punto che vale la pena di riaffermare. C’è gran parte della società che si trova oggi priva di rappresentanza politica per l’impossibilità di riconoscersi nelle scelte sbagliate fatte dalla maggioranza stragrande della classe politica uscente. Semplificando, potremmo dire che al 90% della società corrisponde ben meno del 10% dello sciagurato Parlamento che ci avviamo fortunatamente a sostituire il 24 e 25 febbraio.
Rivoluzione civile nasce dall’intento di dare rappresentanza a questo 90% ma a tale fine va progettato un lavoro di lunga durata di cui le prossime elezioni costituiranno solo la prima tappa.
Voglio aggiungere che un intento analogo è espresso, sia pure su di un terreno diverso, dall’Associazione dei giuristi democratici. Si presenta alle prossime elezioni al collegio di Piemonte per Rivoluzione civile il presidente dei giuristi democratici, Roberto Lamacchia, che potrà portare in Parlamento le ragioni di una lotta ultradecennale per la giustizia sua personale e dell’associazione che rappresenta. Ricordo poi una nostra prestigiosa iscritta, la costituzionalista Marilisa D’Amico, di cui è noto l’impegno per i diritti civili, che si presenta invece nelle file del Pd a Milano. E vari altri che si candidano ancora con Rivoluzione civile, e con SEL. A testimonianza di un impegno dei giuristi democratici che aspira a unificare, sulle questioni concrete, le migliori energie del Parlamento che ci accingiamo ad eleggere. Convergendo in questo con Rivoluzione Civile e chiunque altro voglia battere le strade difficili ma necessarie dell’alternativa sui vari piani.

Tra Vendola e Ingroia. La sinistra che manca

26 gennaio 2013- Fonte: lavorincorsoasinistra -

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di Davide Nota su gli Altri
Forse ha ragione chi sostiene che questa sia una fase della storia in cui non è possibile fare una vera militanza di sinistra, in Europa, se non nelle forme dell’avanguardia culturale e della testimonianza di una irriducibilità della vita e del sogno contro lo spleen del dogma, dell’eternamente uguale, della nevrotica alternanza tra “peggio moderato” e “peggio estremo”.
Testimonianza, sì, compito generoso di chi sa che le provviste serviranno per il domani, quando noi non ci saremo.
Certo, come scrive Don DeLillo “sono i desideri su vasta scala a fare la Storia”. Di fronte alla grande mareggiata i testimoni vengono spazzati via contro gli scogli o respinti sulle aride spiagge dell’esilio ininfluente. È ciò che Vendola definisce: “scalare la montagna, per cantare alla luna”. È vero? Sì, è vero.
“Ma è anche vero che la testimonianza individuale è la premessa logica e storica delle successive aggregazioni vincenti.” (Costanzo Preve).
Come si risolve questo paradosso, della necessità storica di una sinistra di lotta e di utopia che non saboti la necessità contingente di una squadra che vada al governo, anche in posizioni di compromesso, per difendere i diritti dei senza diritto e dei mai difesi?
È possibile scegliere l’una cosa e l’altra? Scalare la montagna e “volere la luna”, senza servire alla reazione tecnocratica?
E viceversa è possibile ricoprire incarichi governativi senza per questo dover sabotare l’importanza di una lotta che trascenda e che contesti, anche, i limiti tecnici che ogni azione governativa necessariamente implica?
O la contingenza burocratica deve per forza soffocare tutto il pensiero, coprendo ogni orizzonte di speranza?
Il nostro è un paese allucinatorio, dove le ali estreme che il potere vuole “silenziare” sono quelle che propongono l’ovvio, soluzioni di civiltà condivisa che dovrebbero essere date a priori, mentre “riformista” è chi chiede l’abrogazione delle riforme più avanzate del Novecento in termini di diritti sociali e sul lavoro, che sono sempre diritti individuali perché consentono al lavoratore di essere considerato un uomo e non un ruolo.
Dire che un individuo non vive per lavorare ma lavora per vivere, dire che se il lavoro non serve la libertà la democrazia non ha più senso ed è una finzione, dovrebbe essere ovvio.
Ma nello spleen d’Italia l’ovvio è una preoccupante minaccia bolscevica e si organizzano congiure per evitare che il Partito Democratico, cioè un partito liberale di centro con una componente di minoranza socialdemocratica, possa vincere le elezioni senza il cappio al collo del commissario tecnico, e cioè della destra europea.
Se pure è vero che questa è la norma di un Paese schiacciato da dieci anni di guerra civile e da trent’anni di mobbing televisivo, siamo sicuri che sia giusto ed utile assecondare questa torsione ideologica della realtà?
Negli ultimi cinque anni ho creduto molto, per sete di nuova militanza e per fede, anche, nei confronti di una promessa nata a vent’anni per le strade di Genova e di Firenze, a quel progetto di aggiornamento radicale dei linguaggi e delle filosofie di riferimento del marxismo europeo ai paradigmi del Duemila e della società liquida, e quindi alla proposta del Movimento per la Sinistra guidato da Nichi Vendola.
La complessità biografica dell’uomo incarnava simbolicamente il senso di una nuova storia, dove il conflitto tra contraddizioni lasciava posto alla stratificazione di diversità. Era il diritto poetico alla molteplicità, l’eresia di Pasolini che finalmente trovava voce pubblica e orgogliosa. Ne fui entusiasta.
Le strade dei Social forum di pochi anni prima pulsavano di questa nuova vita così come la realtà plurale della strada, la linfa vitale del vero quotidiano, comunicava questo punto di vista inedito di sincretismo tra le più importanti culture popolari del secolo da poco scorso: il cristianesimo, il socialismo e la rivendicazione libertaria del diritto individuale.
Una nuova visione avrebbe potuto servire una vasta unità? Gli ultimi, le immense moltitudini del margine, i noi-tutti abitanti di quest’unica e indistinta periferia sociale e esistenziale schiacciata dal capitale che muore, il mondo dei precari, il popolo delle partite iva, non stavamo aspettando solamente un cenno per guardarci negli occhi? Un codice condiviso per riconoscerci?
Poi accade lentamente questo, che il Movimento per la Sinistra diventa SEL e che SEL diventa una specie di brand in cui una dirigenza politica precostituita si organizza una campagna elettorale per entrare in parlamento come propaggine della corrente socialdemocratica del PD.
Qualcuno inizia anche a formulare ipotesi di unità in vista di un prossimo ingresso, auspicato e previsto, nel PSE.

venerdì 18 gennaio 2013

Rivoluzione civile, l'eterogeneità è un elemento di forza della coalizione

Fonte: liberazione.it | Autore: Mimmo porcaro
          
Al momento Rivoluzione Civile è soprattutto una coalizione elettorale, fatta da forze politiche e sociali eterogenee, unite dall’obiettivo di tornare in Parlamento distinguendosi dal centro sinistra e dal grillismo, convergenti su alcuni importanti punti di programma, ma quanto al resto assai diverse per storia e per cultura politica. Tutto ciò, peraltro, non è poco: senza Rivoluzione Civile non esisterebbe nessuna credibile alternativa alle inaccettabile offerte elettorali che oggi sono sulla piazza. E senza quella coalizione Rifondazione Comunista sarebbe destinata ad una battaglia di minoranza, necessaria e lodevole, ma quasi certamente votata alla sconfitta.
Detto questo, però, va anche aggiunto che non siamo di fronte ad un puro e semplice colpo di fortuna: la nascita della lista Ingroia è anche il risultato della tenacia con cui Rifondazione Comunista ha “tenuto il punto” insistendo – anche quando tutto sembrava smentirla – sulla necessità e possibilità di mantenere una posizione autonoma dal centro sinistra e di tradurla in una lista elettorale alternativa. Considerata da questo punto di vista l’eterogeneità delle forze che compongono la coalizione non è indice della debolezza del nostro progetto ma della sua forza: dimostra che le esigenze da noi segnalate sono talmente oggettive e cogenti da essere colte da tendenze anche politiche abitualmente distanti tra loro e distanti da noi. Le inevitabili difficoltà presenti e future sono quindi il segno di una crescita potenziale, di un aumento della “capacità coalizionale” del partito, di un’uscita dalla posizione forzatamente minoritaria degli ultimi anni.
Peraltro, le difficoltà della coalizione possono essere gestite con lucidità ed efficacia solo se ci si rende conto che Rivoluzione Civile è, o può essere, anche qualcosa di più: può essere da una parte la stabilizzazione di un rapporto fruttuoso tra movimenti, associazioni e partiti, dall’altra l’inizio di una nuova stagione della lotta politica italiana.
Quanto al primo punto, l’esperienza (pur contraddittoria e diseguale) di Cambiare si può è il primo tentativo, dopo Genova 2001 e dopo i Social forum, di condensare le proposte dei movimenti e delle associazioni in una sede stabile e formale, e quindi di costruire un soggetto capace di interloquire autonomamente (in maniera, a seconda dei casi, più critica o più conciliante) coi partiti politici, arricchendo così la differenziazione del nostro fronte e quindi la sua capacità di dialogare con una società differenziata. Se il progetto di Csp continuerà, resistendo alle difficoltà derivanti dalla diversa – e a mio avviso poco lungimirante – scelta fatta dai compagni di ALBA, non si tratterà né della formazione di un nuovo partito (scelta legittima, ma contraddittoria rispetto all’obiettivo di differenziare e di arricchire le modalità di iniziativa politica), né di un assorbimento di associazioni e movimenti nei partiti esistenti, ma della costruzione di un soggetto politico intermedio tra società e partiti, capace di guardare ai partiti dal di fuori, di segnalarne gli eventuali limiti, di sostituire i partiti stessi quando questi si mostrano incapaci di iniziativa politica. Non si tratta qui di esaltare la società civile contro i partiti, ma solo di riconoscere che oggi, per fortuna, la politica si fa in molti modi, che non sempre i partiti hanno la capacità di intervenire positivamente (e giova ricordare che solo un movimento come Csp poteva, nella situazione data, innescare un processo di aggregazione che i partiti non erano in grado di produrre), che se il partito pretende un ruolo più “generale” e più “complessivo”, questo ruolo deve conquistarselo volta per volta.
Ma la vera novità del momento non sta tanto nel (possibile) rapporto positivo tra società e partiti: se riusciremo a costruirlo si tratterà più che altro dell’auspicato recupero di un ritardo, della realizzazione di un qualcosa che avrebbe dovuto compiersi subito dopo Genova 2001, per capitalizzare al meglio tutti gli spostamenti sociali e culturali di quella fase. La vera novità del momento riguarda piuttosto la convergenza, a mio avviso non puramente occasionale, trai movimenti “tradizionali” e la stessa Rifondazione Comunista da un lato, e forze precedentemente inesistenti, oppure significativamente distanti dalle abituali componenti della sinistra di alternativa, dall’altro. Molti di noi sono giustamente preoccupati per le oscillazioni e le esitazioni mostrate dai Di Pietro, dai De Magistris e dallo stesso Ingroia nei confronti del centro sinistra. Ma bisogna sforzarsi di ricordare che soltanto un anno fa, soltanto sei mesi fa queste forze sarebbero state sicuramente interne al centro sinistra, perché vi avrebbero trovato, o creduto di trovare, lo spazio per le proprie strategie politiche o professionali: la lotta per una democrazia comunale partecipata, la lotta alla corruzione e quella contro la mafia. Ma oggi un simile rapporto col centro sinistra non è più possibile, sia perché la sostanziale adesione del PD e di Sel alla linea Monti priva le realtà locali delle risorse necessarie ad attuare alcunché, sia e soprattutto perché il PD non può perdonare a Di Pietro e ad Ingroia il delitto di lesa maestà, ossia l’aver messo in discussione, e sul delicatissimo punto del rapporto tra Stato e mafia, la figura cardine del sistema istituzionale italiano, il garante principale delle (subalterne) alleanze continentali ed atlantiche del Paese, ossia il Presidente della Repubblica.

martedì 15 gennaio 2013

Chiamare le cose con il loro nome

di Elisabetta Teghil - sinistrainrete -


I soliti noti ci raccontano che, in Italia, ci sarebbero due sinistre: una sarebbe identificabile con il Partito Democratico, l’altra con i partitini frutto dell’implosione di Rifondazione Comunista.

La prima, di impronta riformista, sarebbe l’erede della tradizione socialdemocratica, la seconda si definirebbe come radicale, anticapitalista e, in questa stagione, anti-neoliberista.

La prima viene rappresentata, perché di rappresentazione si tratta, dato che non fa nulla per darne conferma, come attenta allo stato sociale, con una vocazione pacifista e con un’attenzione ai diritti dei lavoratori.

Peccato che anni di governo ne abbiano dimostrato la natura guerrafondaia, in particolare nell’aggressione alla Jugoslavia e alla Libia, nonché quella neoliberista con il proliferare legislativo che ha minato il diritto allo sciopero, lo stato sociale e che ha attuato la svendita del patrimonio pubblico ai privati.

La lettura di questa che alcuni insistono ancora, non si sa bene perché, come diceva Luigi Pintor, a chiamare sinistra, omette a piè pari che la socialdemocrazia si è fatta destra moderna, assumendo caratteri reazionari, caratteristiche clericali e punte fasciste.


La seconda di radicale non ha nulla, perché radicale non significherebbe altro, al di là della demonizzazione che ne è stata fatta, che andare alle radici del problema. Tutto si riduce, invece, nel gestire o, meglio, nel tentare di gestire, cosa che le riesce sempre meno, i movimenti e/o il dissenso in senso lato.

Questo è il suo compito nella divisione capitalistica del lavoro politico. In cambio, posti in parlamento, qualche carica governativa, qualche incarico locale.


Questa versione di una doppia sinistra è accompagnata dal ritornello che, in Italia, ci sarebbe un’anomalia, la presenza di Berlusconi, che, però, non viene affatto raccontata per quello che è, e cioè il terminale di frazioni della borghesia i cui interessi sono asimmetrici rispetto a quelli delle multinazionali anglo-americane (da qui le campagne mediatiche guidate dalla bibbia neoliberista, il Financial Times). Si falsificano così gli elementi in gioco dimenticando che il PD è, delle multinazionali anglo-americane e dei circoli atlantici, in questo paese, proprio il referente, e ne tutela gli interessi anche a scapito della borghesia o di frazioni della borghesia nazionali.

E la così detta sinistra radicale è collusa con questo progetto e ne è partecipe, sia pure in un ruolo di servizio.

E’ in questa confusione, voluta, di ruoli e di letture, che proliferano i partiti che vengono dalla così detta “società civile“ e le rivoluzioni così dette “colorate” e che avviene la promozione ad icone della sinistra di personaggi che con quest'ultima nulla hanno a che fare.

Da dove partire?

Dallo smascherare l’improvvisa apparizione della crisi che non è dovuta a improvvide scelte, ma è il frutto maturo del capitalismo nella sua necessità imprescindibile autoespansiva che deve distruggere le economie marginali e di sussistenza e, pertanto, gli effetti non sono né sgraditi, né non previsti, ma il grimaldello usato in questa stagione per ridefinire i rapporti di forza fra gli Stati, le multinazionali e le classi.

domenica 13 gennaio 2013

L'ECONOMIA CRITICA IN PROGRAMMA

Fonte: il manifesto | Autore: Sergio Cesaratto Stefania Gabriele
       
Che fine hanno fatto gli economisti di sinistra? Qualcosa del genere qualcuno si chiedeva sul manifesto di qualche secolo fa. Nonostante il grande sforzo profuso in questi anni sul web, in e-book (come «Oltre l'austerità») e assemblee, il loro impatto sui programmi elettorali delle formazioni della sinistra appare assai lieve. Per non parlare dell'idea di portare in Parlamento le competenze necessarie per condurre a livello adeguato la battaglia contro l'austerità e per un'Europa diversa. Per questi economisti critici non giungono certo come una novità le conclusioni a cui arriva il working paper, firmato nientemeno che dal capo della ricerca del Fmi Oliver Blanchard e richiamati dal manifesto di giovedì, per cui gli effetti delle politiche di austerità sulla crescita sono state sottostimate. Questa è gente che ha sempre sbagliato tutto, sin da quando Blanchard e Giavazzi guardavano ai flussi di capitale dai paesi europei più ricchi verso la periferia come un fenomeno che ne avrebbe sostenuto la crescita, e non come l'alimento di bolle immobiliari e di una crisi del debito. Eppure l'esperienza dei paesi emergenti doveva insegnarglielo. Eppure sul testo di Blanchard-Giavazzi i nostri studenti continuano a essere indottrinati. Eppure il Pd candida Giampaolo Galli come per ribadire una sorta di allineamento del partito all'economia politica «volgare» e di prossimità ai gangli dominanti del potere economico.
Al di là dell'esito elettorale, sono Monti e quest'Europa che rischiano di dettare l'agenda. Dietro il fumo, la sostanza dell'Agenda Monti è un progetto di rilancio del paese attraverso la riduzione di salari e diritti e dello stato sociale. Una sorta di ritorno agli anni '50, ma in un contesto internazionale che, a differenza di allora, molto difficilmente trainerà una ripresa delle esportazioni italiane. Alla ricerca di un accreditamento internazionale e di un ravvedimento operoso di quella che il Pd amabilmente chiama la «famiglia socialista europea», l'agenda Bersani può definirsi come un «togli qui e metti lì». Una modesta agenda di redistribuzione di risorse che vanno scemando a fronte dell'austerità e che assomiglia al raschiare il fondo del barile. La centralità che l'opposizione all'austerità e la questione europea hanno assunto nelle posizioni espresse dagli esponenti di Cambiare si può rappresenta invece un fatto importante, e su questo Rifondazione è certamente solidale. Al momento, tuttavia, le dichiarazioni economiche di Antonio Ingroia appaiono principalmente riferirsi ai poteri taumaturgici della lotta alla corruzione e alle mafie. Che questa sia una priorità non v'è dubbio, così come quella del riequilibrio dell'imposizione fiscale e della lotta all'evasione. Ma l'idea che il recupero dei capitali mafiosi, o un'efficace lotta alla corruzione portino risorse e investimenti esteri sufficienti alla ripresa è a dir poco ingenua. E comunque è un lavoro di lunga lena.
Manca dunque nei programmi del Pd (e di Sel) e per ora in quello di Ingroia un puntuale riferimento a un quadro di politiche europee volte alla crescita. L'auspicio è che questo lavoro cominci, possibilmente non come sgangherate liste della spesa con proposte più o meno fumose, ma con un convincente sforzo di approfondimento, anche tecnico, che dovrebbe ben andare oltre le elezioni. Una proposta solo menzioniamo (e risale all'Appello degli economisti del 2006): un impegno della Bce a diminuire i tassi ai livelli pre-crisi - la Bce lo può fare - può essere scambiato con quello a stabilizzare il rapporto debito pubblico/Pil, sì da tranquillizzare Germania e mercati che non si tratta di populismo. Se condotta a livello europeo, tale politica renderebbe possibili politiche fiscali di sostegno della domanda aggregata e la ripresa. Reuters cita un sondaggio che dà la Linke tedesca al 9%, dunque forza e coraggio.

mercoledì 9 gennaio 2013

La rotta d’Italia. Vincere per cambiare

 
di redazione di Sbilanciamoci.info

L’Italia è in rotta, e le elezioni del 24-25 febbraio 2013 sono decisive per far cambiare rotta al paese. La redazione di Sbilanciamoci.info apre una discussione sui contenuti da mettere al centro della campagna elettorale e dell’azione del prossimo governo, per chiudere con le politiche di Berlusconi e Monti. Dopo “la rotta d’Europa”, discutiamo della “rotta d’Italia”. Da oggi alle elezioni, ogni giorno un intervento. Da leggere, diffondere, discutere

L’Italia è a una prova decisiva. Ha dietro di sé una grave recessione e ha di fronte un 2013 in cui l’economia continuerà a cadere. Nel 2012 il Pil è diminuito del 2,4%, tornando in termini reali ai livelli di dieci anni fa; il reddito medio per abitante è sceso ai livelli del 2000; l’aumento delle disuguaglianze ha reso il 90% degli italiani più poveri di allora. Il peggioramento dell’economia si è accompagnato a una crisi sociale senza precedenti: 11,1% di disoccupati, il 37% di giovani che non lavorano, due milioni di ragazzi che non studiano né lavorano, 4 milioni di lavoratori precari (quasi un dipendente su quattro); aumenta la povertà, peggiorano i servizi di welfare, crescono le spinte razziste e xenofobe, si allarga l’economia criminale, peggiora l’emergenza ambientale.
La politica ha accompagnato questo degrado, e la società italiana ha dato ad essa un consenso che ha dell’incredibile. Gli italiani hanno eletto per tre volte (1994, 2001 e 2008) Silvio Berlusconi alla Presidenza del Consiglio, che ha governato per quasi dieci anni tra il 1994 e oggi. Secondo i sondaggi più accreditati il governo tecnico di Mario Monti ha incontrato il consenso di una significativa parte dell’opinione pubblica. Questi governi hanno la responsabilità fondamentale del disastro a cui è arrivata l’Italia. Hanno percorso una rotta all’insegna della tutela dei privilegi – a cominciare da quelli dell’ex presidente di Mediaset –, del “lasciar fare” alle imprese, alla finanza e agli affaristi, del peggioramento delle condizioni di lavoro, della riduzione del ruolo del pubblico con tagli al welfare e privatizzazioni, di un liberismo in salsa italiana. E le misure adottate dal governo Monti dall’autunno 2011 per far fronte all’emergenza della crisi finanziaria del paese sono andate esattamente nella stessa direzione.
Le forze del centro-sinistra, che hanno governato per circa sette anni (1996-2001 e 2006-2008) sono state subalterne a quest’orizzonte, sono state responsabili di politiche sbagliate sia sul fronte europeo – sostenendo un’integrazione realizzata all’insegna della finanza e del liberismo – sia sul fronte italiano – la precarizzazione del lavoro, le privatizzazioni, i tagli di spesa; anche per questo esse hanno perso il consenso e il radicamento sociale che avevano.
Questa è l’immagine che abbiamo di un’Italia in rotta, segnata dal declino economico, dal degrado sociale, dalla degenerazione della politica. Questo è il risultato della rotta seguita dal paese in vent’anni di politiche sbagliate.
La rotta d’Italia deve cambiare, e le elezioni del 24-25 febbraio 2013 sono un’occasione fondamentale. Si tratta di elezioni che apriranno una fase nuova, forse una “terza repubblica” con assetti istituzionali e rapporti di forza nuovi. Queste elezioni sono l’occasione per una vittoria politica del centro-sinistra e della sinistra che potrebbe permettere all’Italia di chiudere con il berlusconismo e con il liberismo di Mario Monti.
Questa vittoria richiede uno spostamento significativo del voto dal populismo mediatico di Silvio Berlusconi e dalle ricette d’austerità di Mario Monti: la politica del privilegio deve perdere la sua capacità di egemonia sul paese.
Questa vittoria richiede un forte riassorbimento dell’astensione e del voto di protesta che potrebbe andare al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo o a liste populiste locali.
Questa vittoria richiede un successo importante di tutte le forze a sinistra di Mario Monti. La competizione tra la coalizione di centro che fa capo a Monti e il Partito Democratico è ora al centro della campagna elettorale; un grande aumento dei voti al Pd porterebbe il partito ad allontanarsi dalla prospettiva di coalizione con il centro. Un successo elettorale di Sinistra Ecologia e Libertà aumenterebbe il peso della sinistra all’interno dell’alleanza con il Pd e metterebbe nell’agenda di governo nuove politiche per un cambiamento di rotta. Un successo elettorale e la rappresentanza in parlamento della Lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia rafforzerebbe le richieste di cambiamento e riequilibrerebbe a sinistra il sistema politico del paese.
La vittoria politica del centro-sinistra e della sinistra è possibile se la politica si rinnova profondamente, all’insegna della partecipazione e del riavvicinamento tra partiti e società. Nei mesi scorsi ci sono stati sviluppi positivi in questo senso, come la grande partecipazione alle primarie per il leader e per i candidati del centro-sinistra ed esperienze come Alba (l’Alleanza per il lavoro, i beni comuni e l’ambiente) e l’appello “Cambiare si può” che chiedevano una politica capace di discontinuità col passato. I partiti devono fare più di un passo indietro, la politica deve fondarsi sui contenuti e non sul personalismo dei leader; in questo senso sono importanti le presenze nelle liste di Sel e Ingroia di candidati espressione dei movimenti e della società civile, una cosa ben diversa dalla “lista Rotary” Scelta civica con Monti per l’Italia.
La diversità delle posizioni politiche all’interno delle forze che sono alla sinistra di Monti non va sottovalutata, ma in queste elezioni dovrebbe prevalere l’impegno comune per una svolta che metta fine al berlusconismo e al liberismo di Mario Monti. Nel caso di un successo elettorale, sarebbe importante la ricerca di convergenze nell’azione di governo.
Molte delle diversità di posizioni politiche riguardano il giudizio su quello che potrà effettivamente fare un governo di centro-sinistra in caso di vittoria elettorale. Dentro il Partito Democratico ci sono spinte per una relativa continuità nei confronti dell’agenda Monti e c’è una prospettiva vicina alle socialdemocrazie europee, che troverebbe interlocutori nel governo socialista di François Hollande in Francia e nella possibilità di un successo dell’Spd in Germania nelle elezioni del prossimo autunno. In Sinistra Ecologia Libertà c’è la scelta di condividere la responsabilità di governo anche di fronte a vincoli e rapporti di forza che possono frustrare le esigenze di cambiamento. Nella Lista Ingroia convivono opposizioni di principio a ogni governo, una scarsa attenzione alle questioni europee e possibilismi sui rapporti politici che potrebbero svilupparsi col centro-sinistra.
Di fronte ad un’Italia in rotta, le elezioni non sono il momento per affermare identità irriducibili – l’azione dei movimenti è lo spazio per queste mobilitazioni –, ma sono l’occasione per chiedere un cambiamento concreto, rilevante, fattibile. I margini per un cambiamento di rotta da parte di un governo di centro-sinistra sono stretti, ma non irrilevanti. La crisi continuerà nel 2013 e le difficoltà del paese restano pesanti, la speculazione della finanza contro il debito pubblico italiano potrebbe ripartire, ma un governo di centro-sinistra potrebbe realizzare – in fretta – molte cose per rilanciare l’economia e cambiare rotta. La partita si gioca sulla possibilità di allargare i margini per politiche diverse – nei confronti dell’Europa del “Fiscal compact”, della finanza speculativa, dei “poteri forti” del paese – e questa possibilità sarà tanto più forte quanto più grande sarà la vittoria politica del centro-sinistra e della sinistra.
Dopo la lunga crisi della politica, ci sono ora molti modi di ripensarne il ruolo e le forme – tra partiti chiusi nei palazzi e irriducibili soggettività individuali – e l’articolo di Rossana Rossanda “L’io e la società, senza la politica” (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/L-io-e-la-societa-senza-la-politica-16044) ci ricorda che al cuore della politica dev’esserci un progetto collettivo di società. Queste elezioni sono un’occasione per svilupparlo e metterlo alla prova.
Noi di Sbilanciamoci.info – con le 50 associazioni che fanno parte della campagna Sbilanciamoci! – lavoriamo fuori dalla logica dei partiti e degli schieramenti politici, costruiamo campagne per cambiare le politiche economiche e sociali, prepariamo la “contro-finanziaria”, siamo nei movimenti che in Italia e in Europa si impegnano su questi temi, costruiamo reti europee per politiche alternative, come abbiamo fatto nel 2012 con l’incontro “Un’altra strada per l’Europa” al Parlamento europeo e all’incontro dei movimenti europei a Firenze 10+10 (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Un-altra-strada-per-l-Europa-14212). Continueremo a fare tutto questo anche dopo le elezioni.
Ma queste elezioni non sono un affare da lasciare ai partiti. Per noi, queste elezioni sono l’occasione per affrontare “l’economia come può essere”, a partire dalla crisi di oggi e dalle possibilità di “cambiare rotta” che abbiamo. Vogliamo avanzare e discutere con i nostri lettori proposte concrete su ciò che dovrebbe essere al centro di questa campagna elettorale e sulle misure che un governo di centro-sinistra e un Parlamento capace di recuperare in pieno le sue funzioni potrebbero realizzare.
Abbiamo proposte sulle piccole grandi cose che, anche nelle difficoltà attuali, un governo di centro-sinistra potrebbe fare nei primi 100 giorni per dare il segno di un cambio di rotta. Abbiamo proposte su come uscire dalla trappola delle politiche europee che impongono austerità e depressione. Abbiamo proposte su come legare le mani alla finanza e costruire un’economia più giusta e sostenibile. Abbiamo proposte su come tutelare il lavoro, creare buona occupazione e ridurre le disuguaglianze. Abbiamo proposte su come rimettere un po’ di democrazia dentro l’economia e la politica.
Abbiamo discusso di come affrontare la crisi dell’Europa non appena è esplosa l’emergenza finanziaria, nell’estate del 2011, con il dibattito sulla “Rotta d’Europa” aperto da Rossana Rossanda (i materiali sono qui: www.sbilanciamoci.info/ebook/La-rotta-d-Europa-in-due-volumi-13138). Ora, di fronte alle elezioni italiane, su www.sbilanciamoci.info è aperta la discussione sulla “rotta d’Italia”.

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