Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!
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venerdì 7 giugno 2013

Austerità, la lotta di classe dei ricchi

     
Austerità, la lotta di classe dei ricchi

- ilmanifesto -

di Roberto Ciccarelli -
Torniamo a dare il giusto peso alle parole. Quella che stiamo vivendo è una lotta di classe. Oggi la fanno i ricchi contro i poveri che sono stati messi a morte dalle politiche dell’austerità. Il tono è enfatico, ma sono le parole usate dal Nobel per l’economia Joseph Stiglitz per descrivere il più grande saccheggio della ricchezza avvenuto in tempi moderni. La violenza della crisi è tale da mettere a rischio la vita di milioni di persone. Gli autori dell’undicesimo «Rapporto sui diritti globali» (Ediesse), presentato ieri a Roma presso la sede centrale della Cgil in Corso Italia, spiegano nelle oltre mille pagine del volume le caratteristiche della guerra di rapina condotta dal capitalismo finanziario e descrivendo il meccanismo di una «redistribuzione al contrario». Quella messa in piedi dal 2008 dalle politiche dell’austerità nell’Unione Europea è una gigantesca macchina di drenaggio verso l’alto dei redditi da lavoro e dei risparmi delle famiglie. Le banche, i fondi di investimento, le grandi imprese, lo Stato che aumenta il carico fiscale sui cittadini senza restituire nulla in servizi, hanno accumulato un’enorme massa monetaria che non «sgocciola» nell’economia reale, resta nelle sfere della finanza e viene usata per acquistare o vendere buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Questa situazione ha annientato la produttività del lavoro in Italia. Dal 2000 al 2009 è diminuita dello 0,5% ogni anno, impresa mai riuscita in un paese a capitalismo avanzato fino ad oggi. Gli occupati italiani lavorano di più dei colleghi europei, ma producono il 25% in meno dei tedeschi e il 40% in meno dei francesi. Senza contare che l’occupazione è crollata di 1 milione e 700 mila unità dal 2008, abbattendosi con particolare violenza sui giovani tra i 15 e i 24 anni, il 41,7% dei quali è disoccupato (con punte di oltre il 50% a Sud). Ciò ha comportato un impoverimento generalizzato tra i pensionati e persino tra i bambini. Nel 2011 i bambini da 0 a 2 anni che avevano la possibilità di frequentare un asilo nido non superavano l’11,8% (era il 3% nel 2004). Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi 8 percepiscono una pensione inferiore a mille euro al mese, oltre 2 milioni non arrivano a 500. Senza contare che il processo di deregolamentazione del lavoro ha creato in Italia un esercito di lavoratori precari da 3.315.580 milioni di persone, più di mezzo milione delle quali lavorano per lo Stato, il più grande sfruttatore di lavoro precario al mondo. Il reddito di queste persone è di 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne. Queste cifre sono utili per dare un’idea della povertà dilagante nel nostro paese.
Questo processo è destinato a durare a lungo. L’Italia, come anche Francia, Spagna, Grecia o Portogallo, ha approvato nella loro costituzione l’impegno a ridurre il debito sovrano dall’attuale 130% al 60% sul Pil. Ciò porterà alla dismissione del patrimonio pubblico e alle liberalizzazioni, tagli alla spesa e altre misure che dovranno «risparmiare» 50 miliardi di euro all’anno per i prossimi venti. Fondi che alimenteranno la bolla degli interessi sul debito e non andranno in investimenti. La stessa sorte è toccata ai mille miliardi di euro prestati dalla Banca Centrale Europea alle banche europee altasso d’interesse irrisorio dell’1%. Le banche italiane hanno ottenuto 200 miliardi. Di questa montagna di denaro fresco solo il 5% delle persone sopra i 15 anni ha ottenuto un prestito negli ultimi dodici mesi, a fronte di una media europea del 13%. Questo significa che il nostro paese fluttua in una bolla finanziaria che espropria la ricchezza alle persone, non libera risorse verso il basso, ma le accumula in un forziere chiuso a doppia mandata da cui esce solo qualche centesimo. Questa è la cornice macroeconomica dove prolifera la disuguaglianza sociale. Il reddito di uno dei 38 mila «straricchi» (lo 0,1% più ricco in Italia) vale oggi quello di cento poveri. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% dei redditi. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale.
La responsabilità di questa tragedia non è solo di Berlusconi o di Monti che hanno gestito la parte terminale di una crisi che viene da lontano, cioè dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica» nel 1992. Oggi solo cinque paesi Ocse, tra cui gli Stati Uniti, mostrano disuguaglianze più feroci tra i ricchi e i poveri dell’Italia. Ad avere allargato la forbice tra le rendite e i redditi è stata l’abolizione della scala mobile nel 1984, la crisi valutaria ed economica del 1992 e la manovra finanziaria da 90 miliardi di lire fatta da Amato nello stesso anno. Da quel momento tutti i governi hanno portato il loro contributo alla lotta di classe in corso. Il «pilota automatico», una volta evocato dal presidente Bce Mario Draghi per spiegare la natura delle politiche economiche europee, indipendentemente dalla maggioranza politica alla guida di un paese, è stato azionato più di vent’anni fa. Da allora continua a pretendere l’applicazione rigorosa degli imperativi del rigore del bilancio, la liberalizzazione dei servizi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
La tesi del rapporto sui diritti globali sostiene che il tentativo in corso di «ammorbidire» la cura preparata dalla Troika (Bce, Fmi e banca mondiale) per i paesi indebitati come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e ora anche Francia, non riuscirà a fermare la rovinosa corsa a precipizio del treno dell’austerità. L’obiettivo finale della lotta di classe è farla finita con il « modello sociale europeo», quello del Welfare, già dichiarato morto da Draghi. Lo dimostra il taglio del 90% alle politiche sociali che tra il 2010 e il 2012 sono passate da 435 milioni di euro a 43 milioni, mentre i fondi per scuola e università sono stati tagliati di 10 miliardi. Entro il 2015 la sanità subirà 30 miliardi di tagli. Alla luce di questi dati si comprende meglio l’utilità del governo delle «larghe intese». Parliamo di una forma politica postdemocratica che si è candidata a gestire la liquidazione dei diritti sociali in Italia e a normalizzare i conflitti sociali che potrebbero nascere. Un lavoro arduo, ma è a buon punto.
Reddito di cittadinanza, una risorsa per i più deboli.
Per uscire dalla «guerra dei trent’anni» del liberismo contro il Welfare, gli autori del «rapporto sui diritti globali 2013» indicano quattro priorità: 1) ripristinare la partecipazione democratica e il ruolo del pubblico nell’economia; 2) affiancare alla crescita della produttività e dell’efficienza economica il benessere delle persone, l’equità e l’uguaglianza in direzione di una maggiore sostenibilità sociale e ambientale; 3) indirizzare la crescita economica verso lo sviluppo di nuove attività ad alta intensità di conoscenza, favorendo l’occupazione stabile e sanzionando il ricorso delle imprese (e dello Stato) alla precarietà dei giovani e dei meno giovani; 4)consolidare la partecipazione della società civile, non profit e delle mobilitazioni sociali elaborando nuovi strumenti di intervento nell’economia e nella società. La centralità delle politiche «anti-austerity» dev’essere quella della ridistribuzione delle ricchezze, favorita da una riforma fiscale che colpisca il dominio economico esercitato dal 10% della popolazione più ricca. Particolare attenzione viene prestata al rilancio del «reddito di cittadinanza», e non del salario minino. Si chiede l’introduzione di una misura universalistica necessaria per rimediare all’esclusione sociale fatta di lavori poveri, intermittenti, precari e di non lavoro.
Il Manifesto – 05.06.13

martedì 22 gennaio 2013

Una nuova teoria si aggira per l’Europa: la ‘Bersanomics’

22 gennaio 2013- Fonte: Huffingtonpost - lavorincorsoasinistra -

Alfonso Gianni -
Forse intimorito da un leggero calo negli ultimi sondaggi del Pd e di Sel, dunque della coalizione dei “progressisti”, Bersani gioca la carta di rassicurare i benestanti e afferma che il suo governo non farà alcuna patrimoniale. Dentro alla coalizione gli fanno notare che nella carta di intenti un accenno alla medesima, seppure troppo vago, ci sarebbe.
Ma è appunto quella vaghezza che permette diverse interpretazioni, a seconda degli interlocutori e del momento, verrebbe da dire. Il che comunque dimostra che un’incisiva riforma fiscale nella strategia bersaniana tutto è tranne che un punto programmatico su cui fondare una politica. Piuttosto è merce di scambio, facilmente cedibile quando bisogna evitare di épater la bourgeoisie, come si diceva ai tempi di Baudelaire e di Rimbaud.
Bersani sostiene che una patrimoniale c’è già, ed è l’Imu che bisognerebbe correggere in senso meno punitivo per i redditi più bassi. Vero, ma questo non esaurirebbe comunque l’argomento. Infatti non si tratta solo di intervenire sulle tante patrimoniali oggettive, cioè tassazioni delle cose, dal bollo dell’auto alla tassazione della casa di proprietà, che già esistono nel nostro ordinamento, ma bisognerebbe – e questa sarebbe la grande novità per il nostro sistema fiscale – inserire una patrimoniale soggettiva, cioè una tassazione sulle proprietà immobiliari e finanziarie dei singoli soggetti.
I dati che periodicamente la Banca d’Italia ci fornisce sulla ricchezza delle famiglie italiane, dimostrano un dato di fatto inoppugnabile. Il tasso di patrimonializzazione della ricchezza italiana è ben superiore non solo agli altri paesi europei (con la sola eccezione del Regno Unito, cui è quasi uguale), ma anche al Giappone, agli Stati Uniti e al Canada. In altri termini la ricchezza anziché venire rimessa nel ciclo produttivo prende la strada dell’acquisto di titoli e beni finanziari, di immobili e di altre forme di capitalizzazione statica.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane, cioè la somma di attività reali (abitazioni, terreni ecc.) e attività finanziarie (depositi, titoli, azioni ecc. ) era pari a 8.619 mld di euro (per inciso più di quattro volte dell’intero debito pubblico che ha recentemente sfondato i 2mila mld). Di questo ben di dio, il 45,9% è nelle mani del 10% delle famiglie più ricche, le quali nel bel mezzo della crisi più sconvolgente del capitalismo europeo, hanno aumentato le loro ricchezze rispetto all’anno precedente, mentre il restante 90% le ha sensibilmente diminuite (Banca D’Italia, Supplementi al Bollettino Statistico, “La ricchezza delle famiglie italiane”, 13 dicembre 2012, n.65).
Come si può facilmente intuire, anche dagli elementi di comparazione con i principali paesi capitalistici, una riforma fiscale in Italia che non contempli una qualche forma di patrimoniale soggettiva che raggiunga tutte le forme di ricchezza, è un buco nell’acqua. Tanto più che non si tratta di pensare a misure shock finalizzate esclusivamente alla riduzione drastica del debito, come quella di una patrimoniale dal gettito di 200 mld avanzata a suo tempo da Pietro Modiano, la quale potrebbe effettivamente incorrere nell’obiezione di favorire la precipitosa fuga dei capitali all’estero.
Al contrario una patrimoniale è efficace quanto più è ordinaria e modesta nell’aliquota, ma produttiva di un buon gettito costante. A tali caratteristiche mi pare corrisponda la proposta avanzata dalla Cgil, che prevede una tassazione con una moderata progressività a partire dallo 0,5% sopra gli 800mila euro, in modo da preservare i risparmi medio bassi.
Se mettiamo in fila quanto scritto nella carta di intenti della coalizione, nonché le interviste di Bersani, come del responsabile economico del Pd Stefano Fassina – particolarmente attente a tranquillizzare i mercati finanziari internazionali, specialmente quando sono rilasciate a giornali inglesi o americani, come il Financial Times e il Washington Post - la “Bersanomics” si qualifica più per le proposte in negativo che quelle in positivo. Infatti non va toccato il pareggio di bilancio in Costituzione, di modificare il fiscal compact non si può neppure parlare, del no alla patrimoniale abbiamo detto, per lo sviluppo bisogna vedere come va il risanamento. Colpisce l’incapacità a liberarsi dei mantra, peraltro traballanti, del neoliberismo.
Peraltro si deve osservare che in assenza di crescita di qualunque genere, come previsto dalla stessa Istat, il tanto adorato pareggio di bilancio e soprattutto la riduzione a tappe forzate del rapporto debito/Pil possono essere conseguiti, o almeno tentati per chi ci crede, solo con un aumento delle entrate fiscali, cui non è sufficiente la tracciabilità fiscale di cui parla Bersani, nè la più spietata lotta all’evasione e neppure il desiderato accordo con la Svizzera per una sorta di condono fiscale internazionale basato sulla tassazione dei capitali esportati in deposito con la garanzia dell’anonimato.
O si introduce la tassazione sui patrimoni o si ammazza lo stato sociale. Tertium non datur. Verrebbe da osservare quindi che, paradossalmente, proprio i fautori del pareggio di bilancio e del fiscal compact, se non vogliono iscriversi alla storia come i becchini di ciò che resta del nostro welfare, dovrebbero essere i più inflessibili propugnatori di una patrimoniale seppure, nella loro distorta concezione, finalizzata esclusivamente alla riduzione del debito.
Eppure in tanti, fra cui lo stesso Fassina qualche settimana fa, abbiamo sottolineato la correzione di rotta del Fmi rispetto all’eccesso di politiche rigoriste praticate in Europa, l’autocritica sul moltiplicatore sbagliato nel calcolare la relazione fra tagli della spesa e conseguenze depressive sulla crescita economica, l’infondatezza dell’ossimoro dell’austerità espansiva. Fuori d’Europa si adottano ormai esplicitamente politiche diverse. Come si è visto Obama ha il suo da fare per evitare il fiscal cliff. Per ora ha segnato un piccolo punto a suo favore ma lo scontro vero è solo rimandato.
Per non tagliare le spese sociali sembra deciso a chiedere al Congresso l’aumento della possibilità di indebitamento, peraltro già considerevole. Ma la novità più grossa viene addirittura dal Giappone, ove il governo di destra di Shinzo Abe ha deciso un’azione consistente per togliere il paese dalla stagnazione, basata sull’accantonamento del problema del debito pubblico e una politica aggressiva di spesa pubblica. Il tutto in un quadro di spinto nazionalismo che accentua le tensioni internazionali, particolarmente nelle relazioni con la Cina. E nato così un altro nuovo neologismo: Abenomics.
Si dirà che questo è possibile perché completamente diverso è il ruolo delle banche centrali di questi due paesi. Appunto. Questo dimostra che San Mario Draghi non basta. Non è sufficiente forzare le maglie del regolamento, aprire il rubinetto per le banche le quali a loro volta comprano i titoli di stato e così si possono ridurre in una certa misura gli spread. Bisognerebbe riformare radicalmente la costituzione materiale e formale della Ue e conseguentemente il ruolo della Bce. Ma questo non si può fare senza rimettere apertamente in discussione, assieme agli altri paesi europei in difficoltà, il fiscal compact, come almeno chiede il primo punto del programma presentato dalla lista di Rivoluzione Civile. Bersani farebbe bene a riflettere su questo, anziché varare campagne autolesioniste sul voto utile.

martedì 15 gennaio 2013

Ricchezza e povertà, i successi della globalizzazione

Bruno Amoroso* - sinistrainrete -

I. INTRODUZIONE

La produzione e riproduzione continua della povertà avviene oggi su scala globale dentro un sistema di potere che comprende l`economia, le istituzioni, i mass media e anche una parte importante dei centri di ricerca e formazione.

Questo sistema è stato chiamato Globalizzazione ed ha prodotto in cinquanta anni i recinti che delimitano gli ambiti delle nuove ricchezze e dei nuovi privilegi, a scapito degli impoveriti e degli esclusi. Un sistema di apartheid globale che ha trasformato la società dei 2/3 costruita con i sistemi di welfare (dove gli esclusi, i poveri, erano un terzo) nella società di 1/6, mediante la caduta verticale delle condizioni di vita di gran parte della popolazione mondiale (Petrella 1993, Amoroso 1999).

Il fenomeno più eclatante, via via accresciutosi nel corso degli ultimi trenta anni, è stato il crescere della povertà, anche nelle forme più manifeste, all`interno dei paesi industrializzati e dei sistemi di welfare europeo a fronte dell`ulteriore impoverimento e finanche della distruzione fisica delle aree remote e rurali e dei ghetti urbani. Il fallimento del Millennium Development Goal (MDG) che si proponeva di dimezzare la povertà nel mondo è riconosciuto dagli stessi organismi delle Nazioni Unite. Gli obiettivi e le soluzioni pratiche erano stati indicati, il quadro istituzionale istituito e i costi ritenuti sostenibili. Tuttavia l`obiettivo di porre fine alla povertà entro il 2015 appare ormai sempre più lontano e irrealizzabile.

La ricerca delle cause del fallimento è di certo utile, ma non deve offuscare il fatto che si tratta di un piano la cui irrealizzabilità non è dovuta ai numerosi singoli errori certamente presenti ma al ruolo di sussidiarietà che gli era stato assegnato rispetto alle scelte e agli indirizzi dell`economia globale. In tal modo ha finito per svolgere una funzione di oscuramento degli obiettivi e di ammortizzatore del dissenso. Questo è avvenuto alimentando l`illusione di una possibile , , , ecc. mentre, di fatto, si andava affermando una nuova divisione del mondo con i paesi della Triade capitalistica da un lato (Europa, Giappone, e Stati Uniti) saldamente in sella per il controllo delle materie prime e dei nodi strategici dell`economia mondiale, e il resto del mondo alla ricerca dell`accesso a migliori condizioni di vita.

La linea di divisione tra i no-global e i new-global, istituitasi dopo le proteste di Seattle del 1999 contro il vertice dell`Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), si è estesa dai movimenti ai governi e paesi: tra quelli che hanno scelto una linea di sganciamento dalla Triade riprendendo la valorizzazione e la crescita delle loro economie locali e nazionali su linee di rottura dalle politiche economiche neo-liberiste (privatizzazioni e liberalizzazioni) e quanti invece si sono qualificati come i migliori allievi della Banca Mondiale e del Fondo Finanziario Internazionale. Una linea di divisione che si ripropone oggi articolata tra gli , gli e i .

I dati sulla povertà nel mondo indicano con chiarezza che mentre questa è aumentata nei paesi occidentali e aderenti alle politiche neoliberiste del “Consenso di Washington”, diminuzioni significative si verificano in quei paesi che da quelle politiche e da quei sistemi economici si vanno distanziando.

mercoledì 2 gennaio 2013

Crisi, i ricchi sono sempre più ricchi. In un anno accumulati 241 mld in più

Autore: fabrizio salvatori - controlacrisi
       
Sempre piu' ricchi nel mondo. Nonostante la crisi, l'aumento delle tasse e l'incertezza per il futuro, nell'anno appena passato i cento uomini piu' facoltosi del pianeta hanno aumentato il loro patrimonio complessivo. Secondo il Bloomberg Billionaires Index il capitale aggregato dei piu' benestanti del mondo e' salito di 241 miliardi di dollari all'impressionante cifra di 1.900 miliardi. Su cento patrimoni 'censiti', si legge sul sito Bloomberg.com, solo sedici hanno subito perdite rispetto al 2011. Il primo della classifica e' Amancio Ortega, patron (tra l'altro) del marchio Zara. In 12 mesi le sue disponibilita' sono quasi raddoppiate: sono aumentate di 22 miliardi di dollari a 57,5 miliardi. Carlos Slim, il magnate delle telecomunicazioni che la messicana America Movil, ha mantenuto il titolo di uomo piu' ricco del mondo. Secondo la tabella stilata da di Bloomberg il suo patrimonio netto e' aumentato del 21,6%: 13,4 miliardi in piu' dell'anno precedente. Anno meraviglioso anche per Bill Gates. Il co-fondatore della Microsoft ha aggiunto 7 miliardi ai suoi averi. Per il segretario del Prc Paolo Ferrero, che ha commentato a caldo la stima di Bloomberg, "l’aumento di 241 miliardi di dollari nel corso del 2012 dei patrimoni dei 100 più ricchi del mondo è semplicemente vergognoso". "La cosa è tanto più vergognosa per una semplice verità che tutti tacciono: l’aumento delle grandi ricchezze è legato direttamente all’impoverimento di milioni di persone. Per questo serve una tassa sulle grandi ricchezze e per questo serve una rivoluzione civile: per redistribuire la ricchezza", ha aggiunto Ferrero.

giovedì 1 novembre 2012

Il paradiso dei super-evasori globali

Un rapporto del Tax justice network fornisce le cifre della ricchezza finanziaria. Ecco cosa ci nascondono i più ricchi del mondo.

di Sarah Jaffe
da il manifesto del 15 agosto 2012

21 mila miliardi di dollari è la cifra custodita nei Paesi offshore e nelle mani di un'élite di ricchi. Mentre i governi tagliano spese pubbliche e welfare, meno di dieci milioni di persone nascondono al fisco una somma pari al Pil di Stati Uniti e Giappone. A favorire questo processo, le grandi banche salvate dai governi: Goldman Sachs, Ubs, Credit Suisse
Ventunomila miliardi di dollari. È questa la cifra che gli uomini più ricchi del mondo nascondono nei paradisi fiscali offshore sparsi per il Pianeta. Potrebbe anche trattarsi di una somma maggiore - fino a trentadue mila miliardi - ma il suo ammontare complessivo è quasi impossibile da calcolare.
Mentre i governi tagliano la spesa e licenziano lavoratori - perché c'è bisogno di austerità a causa del rallentamento dell'economia - gli ultra-ricchi, meno di dieci milioni di persone, hanno nascosto al fisco una somma pari alla somma del prodotto interno lordo degli Stati Uniti e di quello del Giappone. Lo rivela il nuovo rapporto di Tax justice network. Le cifre fornite dal documento sono scioccanti. «Le entrate perse a causa dei paradisi fiscali - rileva lo studio - sono talmente ampie da costituire una differenza significativa secondo tutti i nostri indici convenzionali di diseguaglianza. Poiché la maggior parte della ricchezza finanziaria mancante appartiene a una (piccola) élite, l'impatto è sconcertante».
James S. Henry, ex capo economista di McKinsey & Co., autore di The Blood Bankers e di articoli apparsi su The Nation e sul New York Times, ha scavato nei documenti della Bank for international settlements, del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale, delle Nazioni unite, di banche centrali e di analisti del settore privato, riuscendo infine a tracciare il profilo dell'enorme riserva di denaro che fluttua nelle nebulose località definite offshore. E stiamo parlando soltanto del denaro, perché il rapporto non si occupa di appartamenti, yacht, opere d'arte e altre forme di ricchezza nascoste - nei paradisi fiscali e quindi non tassate - dai super-ricchi. Henry lo definisce il «buco nero» nell'economia mondiale e nota che «nonostante ci siamo sforzati di essere prudenti, i risultati sono scioccanti».
C'è una gran quantità d'informazioni in questo rapporto, quindi abbiamo scelto sei cose fondamentali da conoscere sul denaro che i più ricchi del mondo stanno nascondendo a tutti noi.
1. Incontra il top 0.01%
«Secondo i nostri calcoli, almeno 1/3 di tutta la ricchezza finanziaria privata e circa la metà di quella offshore è posseduta dalle 91.000 persone più ricche del mondo, appena lo 0.01% della popolazione mondiale» rileva il documento. Questi top 91.000 hanno circa 9.800 miliardi del totale stimato nel rapporto e meno di dieci milioni di persone possiedono l'intera pila di denaro.
Chi sono queste persone? È chiaro che sono le più ricche, ma cos'altro sappiamo di loro? Il rapporto parla di «speculatori cinesi trentenni, attivi nel settore immobiliare e magnati del software della Silicon Valley» e coloro la cui ricchezza deriva dal petrolio e dal traffico di droga. Non cita invece - ma avrebbe potuto - candidati alla presidenza degli Stati Uniti: Mitt Romney è stato attaccato per aver nascosto denaro in un conto svizzero e in investimenti nelle Isole Cayman.
Mentre i signori della droga hanno bisogno di nascondere i loro profitti illegali, tanti altri ultra-ricchi evitano di pagare le tasse costruendo intricati gruppi di aziende e altri investimenti soltanto per cancellare un po' di voci dal conto che devono pagare al loro paese.
2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti.

venerdì 26 ottobre 2012

Il 10% del Paese ha in mano il 45%. È ora che paghi


Se però si passa al merito delle argomentazioni di Aurelio Regina, allora la soddisfazione cede il passo alla delusione. Perché dispiace che il vice presidente di Confindustria affermi che la fascia di cittadini con un reddito superiore ai 150 mila euro “è l’unica che spende”. Dispiace perché non è vero. In un certo senso è vero il contrario: infatti, quanto più si sale nella scala del reddito, tanto minore è la quota di reddito destinata ai consumi. Sono i cittadini con i redditi più bassi quelli che spendono di più in proporzione a quanto guadagnano (e quindi, siccome sono molti di più, anche in assoluto). Precisamente per questo motivo ogni aumento delle tasse indirette, quelle sui consumi, è una tassa regressiva (ossia una tassa che colpisce in proporzione i poveri più dei ricchi). E quindi andrebbe evitata. Invece anche questo governo, come già quello Berlusconi- Tremonti, ha tra l’altro aumentato proprio le tasse indirette.
Ma l’affermazione del vicepresidente di Confindustria che lascia più perplessi è quella secondo cui il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro sarebbe “iniquo”. Di equità o meno delle manovre finanziarie dell’ultimo anno si è più volte dibattuto. In genere dimenticando che un criterio oggettivo su cui misurarle ci sarebbe.
E anche semplice. Siccome il 45% della ricchezza in Italia è detenuto dal 10% delle famiglie, una manovra equa avrebbe fatto pagare a quel 10% delle famiglie il 45% del peso dell’aggiustamento, e al restante 90% il resto. Non occorrono calcoli particolarmente sofisticati per capire che la proporzione è stata ben diversa. Sono gli stessi dati del Ministero dell’Economia a dirci come è stato ripartito il gettito nel 2011: su 412 miliardi totali, 193 sono stati costituiti da tasse indirette (vedi sopra), 127 da tasse su lavoratori dipendenti e pensionati, 78 da tasse sulle imprese, 14 miliardi dal gettito proveniente dai lavoratori indipendenti. È evidente la sproporzione a sfavore di lavoratori dipendenti e pensionati. Ed è anche evidente in quali categorie di contribuenti, tra quelle citate, si annidi un’evasione fiscale che nasconde al fisco 276 miliardi di euro di ricchezza all’anno e 120 miliardi di gettito. Ora, tutto questo non è soltanto eticamente inaccettabile. È una patente violazione di quanto previsto dalla nostra Costituzione. Vale infatti la pena di ricordare che secondo la Costituzione della Repubblica Italiana «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”(art. 53). Di fatto, invece, il principio costituzionale della progressività delle imposte in Italia è rovesciato.
Questa è l’iniquità del nostro sistema fiscale: quella vera. Rispetto a questo, un 3% una tantum richiesto a chi percepisce redditi superiori ai 150.000 euro non sembra gran cosa (anche perché oltretutto il contributo di solidarietà riguarderebbe soltanto la parte di reddito che eccede tale cifra). Meglio sarebbe una rimodulazione e aumento degli scaglioni dell’Irpef, abbassando le tasse sui redditi più bassi e aumentandole su quelli più elevati. Meglio ancora, una decisa lotta all’evasione.
E sebbene Bersani dica che «ci sono altre soluzioni», se invece per una volta si chiede qualcosa di più a chi ha di più, davvero non c’è alcun motivo di scandalo.
Pubblico - 26.10.12

venerdì 21 settembre 2012

«Le persone diligenti non guadagnano abbastanza per vivere»

Ricchi e poveri sempre più lontani
di Stefano Casertano
«Le persone diligenti non guadagnano abbastanza per vivere»; «Anche chi ha un’educazione universitaria deve barcamenarsi tra stage e contratti a termine»; «Il primo 10% delle famiglie più ricche possiede il 56% del patrimonio privato, e la ricchezza deriva per la maggior parte da eredità». Sono alcune delle frasi pronunciate dagli ospiti del salotto di Anne Will, nel talk-show più importante del primo canale tedesco, la sera di mercoledì 19 settembre.
Era presente anche la giornalista Kathrin Fischer, autrice di un libro-denuncia sul declino della classe media tedesca, Generazione laminato.
A ispirare il titolo sarebbe stato il fatto che nel suo appartamento in affitto a Francoforte il pavimento non fosse in parquet.
Non è un tema ispirato da particolari fatti di cronaca, ma da un sentimento d’incertezza economica sempre più diffuso tra la piccola borghesia tedesca. Nonostante record di crescita al 3%, la percezione è che la ricchezza sia distribuita in maniera meno equa rispetto al passato.
Da Anne Will era ospite anche il segretario generale del partito liberale, Patrick Döring, che ha scelto per sé l’impopolare posizione di «difensore dei ricchi» (così la definizione del Berliner Zeitung): la ricchezza sarebbe «frutto del lavoro e della capacità di prendere rischi», tanto che un’imposizione statale per la redistribuzione del patrimonio «finirebbe per danneggiare la classe media», anche perché «la metà delle tasse totali è pagata proprio dal 10% più ricco». Del resto, anche «la corte costituzionale [la stessa istituzione che ha deciso recentemente l’accettabilità della partecipazione tedesca al fondo Esm, ndr] ha stabilito che un’imposizione fiscale superiore al 50% è inaccettabile».
I fatti sembrano indicare che la tesi dell’arricchimento dei più ricchi sia attendibile. Secondo un report del ministero del Lavoro, il 10% delle famiglie più benestanti nel 1998 possedeva il 45% del patrimonio, passato al 53% nel 2008, fino all’attuale 56 per cento. La metà delle famiglie più povere possiede solo l’1% del patrimonio. L’«indice di Gini» descrive la qualità della distribuzione del reddito: più è basso, migliore è la situazione. La Germania è posizionata bene, segnando un «28,3» che la colloca vicina alle economie scandinave – mentre l’Italia, a 36, è paragonabile alla Gran Bretagna. Ma ciò che spaventa i tedeschi è il peggioramento della situazione. Economia esportativa, presenza dei grandi gruppi, finanza di Francoforte e necessità di iper-educazione fanno temere alla classe media che la Germania si stia «americanizzando». Si teme che la ricchezza di pochi aumenti a spese di tutti: il report ministeriale indica come tra il 1992 e il 2012 il patrimonio netto dello stato sia diminuito, mentre quello dei privati sia aumentato del 4,6 per cento.
Uwe Hück, membro del cda di Porsche, anch’egli presente da Anne Will, ha richiamato l’élite tedesca alla «responsabilità». Rispondeva Michael Hüther, presidente dell’Istituto Economico Tedesco, che si potrebbe trattare solo di una «questione relativa». Comprare una lavatrice – ha sostenuto – costa oggi la metà rispetto a una decina di anni fa, tanto che la «nuova povertà» sarebbe «un problema di percezione». Forse Hüther ha ragione: è innegabile che rinunciare al parquet in favore del laminato non è esattamente un problema esistenziale.
Eppure, l’insoddisfazione c’è. Impressiona l’incomunicabilità tra «benestanti» e «borghesia impoverita». Il liberale Döring parla al vento: serve a poco ripetere l’abc di Friedman, se nell’immaginario collettivo sono rimasti gli anni Ottanta, con il reddito in aumento, la BMW in garage e una bella villetta in campagna. Si trattava di altri tempi, con un Occidente in trionfo, senza la concorrenza spietata e sleale del «social dumping» cinese. Non si riesce a immaginare un nuovo modello socialmente sostenibile, che sia in grado di confrontarsi con la situazione attuale. Le riforme degli anni Duemila non hanno risolto la piaga sociale dei «disoccupati di professione»: ormai sono nate «dinastie di disoccupati», in cui non si lavora da tre generazioni. La mobilità sociale, pur tra le più dinamiche al mondo, è in peggioramento.
Alla Germania viene chiesto di guidare l’Europa, ma il Paese stesso si dibatte oggi in una crisi di personalità, che deve essere risolta per proporre un modello vero all’estero. La piccola borghesia tedesca non riuscirà mai davvero a interessarsi dei problemi di Grecia e Spagna, se prima non risolverà i propri.
linkiesta.it

mercoledì 12 settembre 2012

Se anche Hollande si “montizza”

 
Liberation, sabato 8 settembre 2012. ”Levati dalle scatole, ricco coglione”
di Vladimiro Giacché, da Pubblico
La storia è questa: il presidente francese Hollande annuncia una tassa straordinaria del 75% sui redditi da lavoro superiori al milione di euro annuo, dando seguito a quanto promesso in campagna elettorale. Il 23 agosto, 12 industriali francesi con aziende quotate alla Borsa di Parigi criticano la proposta.

Anche Bernard Arnault, amministratore delegato di LVMH e numero uno del lusso a livello mondiale, “mette in guardia” il premier Ayrault sugli effetti del progetto. E fa filtrare la notizia che la sua società starebbe organizzando la fuga all’estero dei suoi manager di primo piano.
Il 6 settembre le Figaro annuncia alcune modifiche alla tassa: il tetto di applicazione della tassa sarà alzato a 2 milioni di euro per le coppie; saranno (chissà perché) esclusi sportivi e artisti; si conferma invece che la tassa varrà solo per i redditi da lavoro (quelli da capitale, notoriamente, sono intoccabili).
Purtroppo però il reddito annuo di Arnault, la cui ricchezza è stimata da Forbes in 41 miliardi di dollari (è il quarto uomo più ricco del mondo e il primo di Francia), è ancora superiore alla nuova soglia di 2 milioni. E non stiamo parlando dei dividendi (335 milioni di euro già nel 2007), che appunto non rientrano nella nuova tassa, ma dei soli redditi percepiti in quanto manager del suo gruppo: i 4 milioni di euro ricevuti ne facevano già nel 2008 il manager più pagato di Francia.
Ed ecco il colpo di scena: l’8 settembre il quotidiano belga Le libre belgique annuncia che Bernard Arnault ha fatto richiesta di cittadinanza in Belgio. Una richiesta che il quotidiano Libération ha commentato con la bella copertina che abbiamo riprodotto.
Ora sembra che Arnault abbia fatto marcia indietro. Vedremo. Anche Hollande in un’intervista a TF1 sembra tornare (ancora) sui suoi passi. Riconferma la soglia del milione di euro per l’applicazione dell’aliquota maggiorata. E parla – senza entrare troppo nel dettaglio – anche di tassazione dei redditi da capitale.
Ma non dice solo questo. Annuncia una manovra straordinaria di bilancio da 30 miliardi di euro, così ripartita: 10 miliardi a carico delle famiglie (tutte, quindi soprattutto quelle sotto il milione di euro), 10 a carico delle imprese (in modi non chiariti), e 10 in tagli alla pubblica amministrazione (ad eccezione di scuola e sicurezza).
Dimentica di aggiungere che una parte di questi miliardi la sta già spendendo in questi giorni. Per salvare dal fallimento l’ennesima banca: il Credit Immobilier de France. Che ha obbligazioni per 1,75 miliardi di euro in scadenza a ottobre che non è in grado di ripagare.
Attendiamo le prossime puntate di questa telenovela. Ma almeno tre cose sono già chiare:
1) Gli Stati continuano a socializzare le perdite maturate da imprese finanziarie private.
2) Tra tasse e riduzione della spesa pubblica, la parte maggiore del carico delle manovre correttive di bilancio continua a gravare sulla classe media e su chi vive del proprio lavoro (al di sotto del milione di euro…).
3) I tentativi di imporre aliquote straordinarie di tassazione per i ricchi si scontrano con le differenti normative fiscali dei diversi paesi europei, che dovrebbero essere rese omogenee almeno tra i paesi che hanno una moneta in comune.
Ma, guarda caso, di unione europea in questo senso non si parla mai.

giovedì 16 agosto 2012

Ecco cosa nascondono i più ricchi

21 mila miliardi di dollari è la cifra custodita nei Paesi offshore e nelle mani di un'élite di ricchi. Meno di dieci milioni di persone nascondono al fisco una somma pari al Pil di Stati Uniti e Giappone.

Sarah Jaffe - 16.08.2012
Ventunomila miliardi di dollari. È questa la cifra che gli uomini più ricchi del mondo nascondono nei paradisi fiscali offshore sparsi per il Pianeta. Potrebbe anche trattarsi di una somma maggiore - fino a trentadue mila miliardi - ma il suo ammontare complessivo è quasi impossibile da calcolare.
Mentre i governi tagliano la spesa e licenziano lavoratori - perché c'è bisogno di austerità a causa del rallentamento dell'economia - gli ultra-ricchi, meno di dieci milioni di persone, hanno nascosto al fisco una somma pari alla somma del prodotto interno lordo degli Stati Uniti e di quello del Giappone. Lo rivela il nuovo rapporto di Tax justice network. Le cifre fornite dal documento sono scioccanti. «Le entrate perse a causa dei paradisi fiscali - rileva lo studio - sono talmente ampie da costituire una differenza significativa secondo tutti i nostri indici convenzionali di diseguaglianza. Poiché la maggior parte della ricchezza finanziaria mancante appartiene a una (piccola) élite, l'impatto è sconcertante».
James S. Henry, ex capo economista di McKinsey & Co., autore di The Blood Bankers e di articoli apparsi su The Nation e sul New York Times, ha scavato nei documenti della Bank for international settlements, del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale, delle Nazioni unite, di banche centrali e di analisti del settore privato, riuscendo infine a tracciare il profilo dell'enorme riserva di denaro che fluttua nelle nebulose località definite offshore. E stiamo parlando soltanto del denaro, perché il rapporto non si occupa di appartamenti, yacht, opere d'arte e altre forme di ricchezza nascoste - nei paradisi fiscali e quindi non tassate - dai super-ricchi. Henry lo definisce il «buco nero» nell'economia mondiale e nota che «nonostante ci siamo sforzati di essere prudenti, i risultati sono scioccanti».
C'è una gran quantità d'informazioni in questo rapporto, quindi abbiamo scelto sei cose fondamentali da conoscere sul denaro che i più ricchi del mondo stanno nascondendo a tutti noi.

1. Incontra il top 0.01%
«Secondo i nostri calcoli, almeno 1/3 di tutta la ricchezza finanziaria privata e circa la metà di quella offshore è posseduta dalle 91.000 persone più ricche del mondo, appena lo 0.01% della popolazione mondiale» rileva il documento. Questi top 91.000 hanno circa 9.800 miliardi del totale stimato nel rapporto e meno di dieci milioni di persone possiedono l'intera pila di denaro.
Chi sono queste persone? È chiaro che sono le più ricche, ma cos'altro sappiamo di loro? Il rapporto parla di «speculatori cinesi trentenni, attivi nel settore immobiliare e magnati del software della Silicon Valley» e coloro la cui ricchezza deriva dal petrolio e dal traffico di droga. Non cita invece - ma avrebbe potuto - candidati alla presidenza degli Stati Uniti: Mitt Romney è stato attaccato per aver nascosto denaro in un conto svizzero e in investimenti nelle Isole Cayman.
Mentre i signori della droga hanno bisogno di nascondere i loro profitti illegali, tanti altri ultra-ricchi evitano di pagare le tasse costruendo intricati gruppi di aziende e altri investimenti soltanto per cancellare un po' di voci dal conto che devono pagare al loro paese.

2. Dove diavolo sono finiti i soldi?
Secondo Henry, il termine offshore non corrisponde più a un luogo fisico, nonostante una quantità di posti come Singapore e la Svizzera continuino a specializzarsi nel fornire ai ricchi di tutto il mondo «residenze fisiche sicure a bassa tassazione».
Ma oggi la ricchezza offshore è virtuale. Henry descrive «siti nominali, ultra-portatili, multi-giurisdizionali e spesso temporanei all'interno di reti di organizzazioni e accordi legali e semi-legali».
Una compagnia può essere ubicata all'interno di una giurisdizione, ma posseduta da un gruppo di aziende situato altrove e amministrata da un insieme di società in una località terza. «In definitiva il termine offshore si riferisce a un insieme di potenzialità» piuttosto che a un posto o a una serie di posti.

giovedì 26 luglio 2012

Il crescente potere del neoliberalismo nel mondo

Taylan Tosun intervista Robin Hahnel - fonte -

Taylan Tosun: Perché i centri del potere finanziario internazionale temono così tanto un’inflazione anche minima? Perché quasi tutte le banche centrali di tali paesi sono incaricate di “combattere l’inflazione”? Perché gli interessi finanziari internazionali si oppongono al tipo di inflazione moderata che potrebbe ben accompagnare politiche favorevoli alla crescita e contrarie all’austerità?

Robin Hahnel: Quando i tassi d’inflazione sono più elevati del previsto i finanziatori ricevono un tasso di remunerazione, in termini reali, inferiore alle attese, mentre i debitori finiscono per pagare meno, in termini reali, di quanto pensavano di dover pagare. In generale sono i ricchi quelli che concedono prestiti, mentre il resto di noi si indebita. Questa è la prima ragione per cui i ricchi – che sono i clienti serviti dall’industria finanziaria internazionale – sono più preoccupati del resto di noi di mantenere bassi i tassi d’inflazione.

Ma c’è un secondo motivo. L’attività principale per la maggior parte di noi consiste nel guadagnare un reddito decente. Così la maggior parte di noi vuole che l’economia produca in base al suo potenziale completo, in modo da poter ricevere redditi pieni. E’ per questo che la maggior parte di noi ha interesse in politiche che, innanzitutto, prevengano le recessioni e le interrompano quanto prima possibile. E’ per questo che la maggior parte di noi ha un forte interesse a politiche favorevoli alla crescita nel corso della recessione globale più grande da ottant’anni a questa parte.

Comunque la partita principale per i ricchi consiste nel conservare ed estendere il valore della loro ricchezza, il che non è la stessa cosa del massimizzare l’ammontare del reddito generato dall’economia. I ricchi possono aumentare il loro reddito anche quando il reddito totale crolla nelle recessioni, se aumentano a sufficienza la loro fetta della torta. Cosa più importante, la ricchezza esistente può essere redistribuita che l’economia produca al massimo del suo potenziale o no. Dunque, se le condizioni che consentono ai ricchi di appropriarsi di una quota più grande della ricchezza esistente consistono in risultati economici più scarsi quanto alla produzione, allora i ricchi – e l’industria finanziaria internazionale che gli rappresenta – non avvertiranno alcuna urgenza di migliorare i risultati dell’economia.

La politica della banca centrale è un esempio eccellente di come funziona questo conflitto d’interessi. Combattere l’inflazione serve gli interessi dei ricchi ed è preteso dall’industria finanziaria per conto loro. Combattere la disoccupazione servirebbe gli interessi dei lavoratori. Negli Stati Uniti la Federal Reserve Bank ha il mandato di decidere la politica monetaria in modo tale da tenere sotto controllo l’inflazione e la disoccupazione. Tuttavia la FED, negli ultimi quattro decenni, ha reso sempre più chiaro che combatte l’inflazione prestando scarsa attenzione, se mai la presta, alla disoccupazione. La Banca Centrale Europea ha il mandato di combattere la sola inflazione, il che è esattamente ciò che è andata facendo mentre i tassi di disoccupazione in Spagna e in Grecia salivano sopra il 20%. In pratica c’è poca differenza. La differenza sulla carta è un riflesso dell’ascesa del neoliberalismo, che è semplicemente un’economia che favorisce gli interessi dei ricchi a spese della maggioranza. Il mandato della BCE è stato scritto quando il neoliberalismo era molto più forte. Quando le banche centrali di altri paesi combattono soltanto l’inflazione – e quando i media agiscono come se questa fosse la sola cosa responsabile che le banche centrali possano fare – anche questo è un segnale del crescente potere del neoliberalismo a livello globale.


TT:
Perché il neoliberalismo è così ostile alla spese pubblica in infrastrutture o all’aumento delle remunerazione dei dipendenti pubblici al fine di stimolare la domanda? Che tipo di pericolo pone la spesa pubblica ai centri del potere finanziario internazionale?


RH: Una volta capito che il neoliberalismo significa gestire il capitalismo esclusivamente negli interessi dei ricchi, è facile vedere che il neoliberalismo si oppone alla spesa pubblica per qualsiasi cosa avvantaggi la maggioranza e non loro. I ricchi non vogliono aumentare le remunerazioni dei dipendenti pubblici perché (a) non sono dipendenti pubblici, (b) dovranno pagare più tasse per pagare salari più alti ai dipendenti pubblici e (c) se i dipendenti pubblici ottengono paghe più elevate, i datori di lavoro privati – che sono ricchi dovranno anch’essi pagare di più ai propri dipendenti. La spesa in infrastrutture è più complicata. Gran parte della spesa pubblica è assistenza alle imprese e le grandi imprese che beneficiano dei contratti governativi non si oppongono a quel genere di spesa. Il genere più ovvio di spesa pubblica che è assistenza alle imprese è la spesa in sistemi di armamenti militari, che raramente è contrastata dai tagliatori neoliberali dei bilanci. Ma la spesa in infrastrutture può anche garantire grandi profitti agli appaltatori governativi. Può anche rappresentare un sussidio ad altre imprese quando crea un ambiente più redditizio in cui operare. Perciò i neoliberali non sono sempre ostili alla spesa pubblica in infrastrutture. Si oppongono ad essa quando è parte di un programma per promuovere l’occupazione quando loro preferiscono invece abbandonare i mercati del lavoro.

sabato 21 luglio 2012

Sapete quanto guadagna il vostro capo?

Le diseguaglianze che crescono, e i cambiamenti nella loro percezione. Un'anticipazione dal libro "Le ricchezze oscene", di Phillippe Steiner (Ets, 2012)

Con la crisi finanziaria l’ordine economico si trova a doversi confrontare con una situazione che rende desuete tutte le nostre convinzioni sulla scala delle disuguaglianze, nonché sul mercato che dovrebbe fornire una misura del merito alla base di queste stesse disuguaglianze. La legittimità di quest’ordine appare messa in discussione, e non solo dalla base della gerarchia sociale.
Per comprendere l’ampiezza dei cambiamenti provocati dall’attuale crisi bisogna tornare indietro di una decina d’anni. Un’indagine internazionale, condotta nel 1999, fornisce risultati interessanti riguardo alla percezione delle disuguaglianze di reddito prima della crisi (1). Quattro dati saltano agli occhi: 1) La forma della distribuzione dei redditi è mal nota: la maggior parte delle persone se la rappresenta come un triangolo (una larga base di poveri e pochi ricchi) o come un rombo (pochi poveri, pochi ricchi e una classe media molto ampia), quando essa ha piuttosto la forma di un rombo troncato alla base. 2) Le disuguaglianze sono considerate troppo forti in tutti i paesi: si va dal 66% delle persone intervistate negli Stati Uniti all’89% in Spagna, passando per l’82% e l’87% in Gran Bretagna e in Francia. 3) La distribuzione dei redditi a forma di rombo è quella a cui gli individui aspirano: in questo modo un ampio ceto medio riposerebbe su uno stretto vertice di poveri e su questa base si innalzerebbero progressivamente i ceti più ricchi, fino a disegnare uno stretto vertice di persone ricchissime. 4) Alla fine, se gli stipendi e la loro gerarchia sono abbastanza noti, le remunerazioni più alte non lo sono affatto.
Se all’epoca si chiedeva alle persone di stabilire il rapporto tra quello che guadagnava il capo di una grande impresa e quello che guadagnava un operaio non specializzato, si ottenevano le risposte riportate nella prima riga della tabella qui sotto.
Rapporto tra il reddito del capo di una grande impresa e il reddito di un operaio non specializzato secondo l’indagine ISSP del 1999
Svezia Spagna Germania Stati
Uniti
Gran
Bretagna
Francia
Indice
stimato
3,8 5 8 12,5 12,5 16
Indice
auspicato
2,1 2,8 5 45 5,6 6,3
Gli ordini di grandezza erano già allora abbondantemente sballati, dal momento che nel 2002 il rapporto tra lo stipendio di un operario non specializzato francese e il reddito medio dei capi del gruppo CAC 40 erano di 1 a 177; nello stesso periodo, negli Stati Uniti, era dell’ordine di 1 a 300. In realtà, lo scarto stimato dagli intervistati corrispondeva piuttosto al rapporto tra il reddito dell’operaio non specializzato e i redditi delle classi medie superiori, come se gli intervistati non riuscissero a vedere al di sopra di quelli.
La seconda riga della tabella mostra invece il rapporto che le persone intervistate consideravano auspicabile per ciò che riguarda la disuguaglianza di retribuzione tra l’amministratore delegato e l’operaio non specializzato. Ne risultava implicitamente la misura dell’uguaglianza nei diversi paesi. Fatta eccezione per la Germania, si può osservare come la riduzione auspicata della disuguaglianza fosse tanto più alta quanto più elevata era la disuguaglianza percepita: in Svezia e in Spagna sarebbe stato sufficiente dividere la disparità di reddito per un fattore di 1,8, mentre in Francia o negli Stati Uniti sarebbe stato necessario dividerlo per 2,5.
Cos’è successo dopo? Lo studio realizzato nel 2010 mostra un’evoluzione nelle risposte dei francesi: lo scarto stimato è stato moltiplicato per 4 (passando dall’1 a 16 all’1 a 63) e lo scarto auspicato è stato moltiplicato per poco meno di 3. L’esplosione delle disuguaglianze non è quindi sfuggita ai francesi. Questo significa forse che nel tempo l’opinione pubblica si adatta e finisce per accettare un livello sempre crescente di disuguaglianza? Quest’interpretazione, piuttosto comoda, non è tuttavia soddisfacente per una ragione essenziale: sia prima sia dopo la prova della crisi finanziaria, le risposte lasciano trasparire una forte sottovalutazione delle retribuzioni oscene. Certo, dal 1999 al 2010, l’errore di valutazione è diminuito della metà, ma è restato tuttavia considerevole, soprattutto se si pensa quanto siano sottostimati i picchi massimi di queste retribuzioni.
L’inchiesta del 2010 mette così in luce una differenza nella capacità di valutazione dei redditi. Per i redditi ordinari, le risposte fornite dai francesi intervistati sono molto vicine alle statistiche dell’Insee (2): l’errore medio va dal 10 al 14% per i redditi dell’operaio non specializzato, dell’impiegato e del medico, ed è pari a zero per il reddito di un insegnante, valutato in maniera pressoché esatta. Le risposte diventano invece meno precise quando si tratta dei ministri, il cui reddito è sopravvalutato del 23% – anche se c’è da dire che, in questi casi, il reddito monetario non è che una parte del reddito reale, che dipende anche dalle agevolazioni extra (alloggio, spese di viaggio, di rappresentanza, vitto, ecc.). Ma è con i redditi più elevati che le persone intervistate perdono la bussola: stimando il reddito dei capi delle grandi imprese intorno a 70.000 euro mensili, la sottovalutazione oscilla tra il 500 e il 300%, a seconda che si tenga conto o meno di stock options e bonus differiti! Lo stesso fenomeno si riproduce in scala minore per quanto riguarda il reddito delle «stelle del calcio»: con 165.000 euro al mese, il loro reddito è sottostimato del 190% (3).
Questa forte differenza nella capacità di valutazione dei redditi ha innanzitutto un significato sociale: c’è un baratro tra i redditi delle persone che si trovano alla sommità della gerarchia e quelli di tutti gli altri. Mentre l’ammontare dei redditi percepiti nel mondo economico ordinario è ben noto, i redditi che prevalgono al vertice della gerarchia non lo sono affatto. La sottovalutazione mostra come l’ammontare di questi redditi sfugga completamente al mondo economico ordinario, benché le persone intervistate abbiano ben compreso che le disuguaglianze si sono accresciute.

(1) Considero solo i dati relativi all’Europa (Svezia, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania) e agli Stati Uniti. Per una visione più generale dell’indagine, cfr. il libro di Michel Forsé, Maxime Parodi, Une théorie empirique de la justice sociale, Hermann, Paris 2010, capitolo 6.
(2) [L’Insee (Institut national de la statistique et des études économiques) è l’ente incaricato della produzione e dell’analisi delle statistiche in Francia].
(3) Nel 2009, il reddito medio dei dieci calciatori francesi più pagati del campionato si aggirava intorno ai 3,8 milioni all’anno.
* Il testo qui pubblicato è uno stralcio tratto dal primo capitolo del libro "Le ricchezze oscene", di P. Steiner, Ets 2012 (10 euro).

"Anche i ricchi piangono": in Germania si apre il confronto sulla tassa patrimoniale

Fonte: wall street italia
           In Europa sono in molti a concordare sul fatto che i due problemi principali del continente siano gli enormi livelli di debito e l'ineguaglianza tra i ricchi e il resto della popolazione. Finalmente le autorita' politiche si sono mosse per cercare di mettere in atto un piano in grado di risolvere entrambe le questione.

L'idea, abbozzata per la prima volta da un'organizzazione di economisti tedeschi, e' semplice: imporre una tassa del 10% sul patrimonio degli europei piu' facoltosi, costringendoli a prestare soldi ai loro governi.

Il piano esorta a imporre una tassa una tantum del 10% sugli asset totali in mano ai cittadini europei che detengono piu' di 309 mila dollari in portafoglio (per le coppie la soglia sale a $611.000). All'imposta verrebbe accompagnato un programma di 'prestiti forzati', secondo il quale i piu' benestanti verrebbero spinti a prestare denaro ai loro governi. Soldi che verranno restituiti nel tempo.

Ad avere avanzato ufficialmente la proposta e' Stefan Bach del prestigioso istituto di ricerca economica tedesco DIW, con sede a Berlino.

"In molti paesi i livelli di debito sovrano sono aumentati in maniera considerevole e allo stesso tempo abbiamo immense quantita' di asset privati in mano a pochi. Se prese tutte insieme superano di molto i debiti nazionali complessivi di tutti gli stati membri dell'Eurozona presi insieme".

In poche parole, il patrimonio dei ricconi e' sufficiente a coprire i buchi di bilancio di tutti i governi in difficolta' dell'area a 17.

mercoledì 4 aprile 2012

I ricchi servono alla società?

MURIZIO FRANZINI in Micromega
- controlacrisi -
Esce oggi il nuovo numero di Micromega che non risparmia critiche al Governo Monti e dibatte sulle prospettive di una vera alternativa ai tecnici. Pubblichiamo uno stralcio del saggio dell'economista Franzini.

La pubblicazione delle retribuzioni – spesso stratosferiche – dei ‘tecnici’ del nuovo governo non ha suscitato la stessa, unanime, indignazione che viene solitamente riservata alla casta dei politici e ai loro privilegi. Per quale motivo? Perché sono retribuzioni, si è detto, provenienti dalle loro professioni e dunque dal libero mercato. Ma è giusto che le ricchezze acquisite nel settore privato siano indiscutibili? Sono davvero sempre frutto di merito e competenza?
Maurizio Franzini
Da qualche tempo, nel dibattito pubblico, si parla molto, certamente più che in passato, di disuguaglianze economiche e di equità. Si tratta di una novità positiva, ma il rischio che si corre è che l’argomento venga trattato concedendo troppo alle emozioni e troppo poco all’analisi. Questo sembra essere accaduto anche in occasione della pubblicazione dei redditi percepiti dai ministri del governo Monti. Di fronte a quella lista – che contempla redditi elevatissimi all’interno di una distribuzione che, però, probabilmente farebbe assumere valori molto alti ai tradizionali indici di disuguaglianza – vi è stato chi ha pronunciato parole di indignazione e chi, invece, non ha nascosto la propria ammirazione nei confronti dei più ricchi.
Di argomenti anche soltanto vagamente analitici, a sostegno dell’una o dell’altra posizione ne sono circolati pochi e spesso sono apparsi deboli quanto può esserlo la riproposizione di qualche logoro luogo comune. In realtà, sulla ricchezza, sui meccanismi che la generano e sugli effetti che essa produce, molto vi sarebbe da riflettere perché qui, probabilmente, si nasconde un’importante chiave di lettura del capitalismo contemporaneo e delle sue trasformazioni. In particolare, è interessante chiedersi che caratteristiche abbiano i mercati (intesi in senso lato) che permettono retribuzioni non altrimenti definibili che stratosferiche.
Sorprendentemente, o forse no, quanti giustificano quelle stratosferiche retribuzioni lo fanno accontentandosi di richiamare che esse si sono formate in liberi mercati, come tali non facilmente sindacabili. Non ci si chiede, però, se quei mercati siano gli stessi mercati ai quali la teoria economica riconosce la capacità di assicurare l’efficienza e di premiare il merito, anche se questo va inteso nel senso piuttosto ristretto di «merito di mercato».

lunedì 2 aprile 2012

Bankitalia: la ricchezza dei 10 Paperoni d’Italia vale quanto tre milioni di persone più povere

- ilfattoquotidiano -
Il divario più ampio rispetto alla distribuzione del reddito: quanto posseduto dagli italiani dipende sempre di più dal patrimonio accumulato in passato e sempre meno dal reddito

L’Italia è il Paese dove i dieci Paperoni posseggono una ricchezza che vale tutta insieme quella di altri tre milioni di italiani più poveri. Un divario molto più ampio di quello della distribuzione del reddito. Un fenomeno presto spiegato: l’Italia è ancora piuttosto ricca, ma la ricchezza degli italiani è composta sempre di più dal patrimonio accumulato in passato e sempre meno dal reddito.

Ad analizzare la ricchezza nazionale è uno studio di Giovanni D’Alessio, del servizio studi di Banca d’Italia, in un rapporto pubblicato negli Occasional papers diffusi da Palazzo Koch. Negli ultimi anni, secondo Bankitalia, si è invertita la distribuzione della ricchezza tra le classi di età: oggi al contrario che in passato gli anziani sono più ricchi dei giovani che non riescono ad accumulare. Se da un lato i dati evidenziano l’esistenza di un conflitto generazionale in termini di redditi, il livello di diseguaglianza è comparabile, secondo D’Alessio, a quello di altri Paesi europei.

Il reddito da capitale. Il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni, ma è aumentato altrettanto anche il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. Questo significa che sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo.

Le tasse sulla ricchezza. Lo studio sottolinea che è “notevole” che in Italia “il carico fiscale sulla ricchezza all’inizio degli anni Duemila fosse tra i più bassi d’Europa e che, al netto dei condoni, sia diminuito sensibilmente nel corso del decennio”. Da qui “l’inversione di questa tendenza occorsa con il decreto di fine 2011 è apparsa opportuna”.

martedì 28 febbraio 2012

Il Governo del 5%

ilfattoquotidiano
Adesso che questo “Governo dei tecnici” ha pubblicato le sue dichiarazioni dei redditi, possiamo concludere, all’ingrosso, che tra la punta alta di una guardasigilli che guadagna sette milioni di euro all’anno e il più “sfigato” del gruppo, che ne guadagna solo 120 mila, la media è decisamente al di sopra dei 200 mila euro annui.

Perché metto l’indice su questa cifra? Perché secondo le statistiche, questa è la barriera oltre la quale si colloca il 5% dei contribuenti italiani. Questo, almeno, è quello che dichiarano. Ma noi sappiamo che abbiamo a che fare con donne e uomini d’onore, e dunque gli crediamo.

Il 5% vuol dire che, al di sopra di quella barriera, si colloca un italiano su venti.

Ora, dalle mie letture giovanili riemerge, per caso, una definizione dell’individuo che Karl Marx formulò da qualche parte: “L’uomo è il punto d’intersezione di tutti i suoi rapporti sociali”. Quando la lessi pensai che andava bene per l’individuo sociale, perché ritenevo che l’uomo fosse una cosa anche assai più complessa. Ma, a grandi linee, direi che è una buona definizione. Cosa voleva dire Marx? Che ognuno riflette l’ambiente in cui vive, le persone che frequenta, il posto e le funzioni lavorative che conosce. Insomma ha un orizzonte, e una coscienza, che – appunto – sono il prodotto di tutte quelle intersezioni.

Dunque, tornando a quel 5%, se si applica la definizione di Marx, si può ragionevolmente immaginare qual’è il loro orizzonte. Bene: abbiamo un governo che rispecchia il loro orizzonte, cioè che rappresenta il 5% della popolazione del paese.

Direi che si vede da molti segnali. Non mi stupisce dunque che Monti si lasci sfuggire una frase come quella che il posto fisso è una gran noia. Lassù, dove non si è mai disoccupati, sicuramente lo è.

Saranno dei tecnici, ammettiamolo, ma stanno anche loro lassù in cima. Come tutti i governi degli ultimi quarant’anni. Del resto vi risulta che ci sia qualche operaio, in parlamento, o lavoratrice, o artigiano? Se c’è è un ex, che si è già dimenticato tutto.

Che rapporto ci potrebbe essere tra il loro orizzonte, di quelli che devono stringere la cinghia, e quello del 5%? E c’è qualcuno che pensa che si possa scendere, con la fantasia, al di sotto di quel loro orizzonte? L’inverso si può fare, fantasticando. Ma scendere è proprio impossibile. Solo la Fornero ha pianto. Per sbaglio.

sabato 25 febbraio 2012

Aldo Tortorella: Chi gioca coi soldi di tutti

di Aldo Tortorella - controlacrisi -
Merita qualche riflessione in più, rispetto a una rinnovata constatazione della concentrazione finanziaria, lo studio sugli incroci proprietari delle maggiori multinazionali di recente pubblicazione su una delle più rigorose riviste scientifiche della rete e poi ripresa da molti siti e da pochi quotidiani. La conclusione di questa ricerca è che 1300 multinazionali, in prevalenza banche, assicurazioni, gruppi finanziari, controllano una miriade di altre grandi società assommando così il 60% del fatturato globale e che 147 di esse sono quelle “superconnesse” in modo tale da rappresentare il 40%della ricchezza del pianeta. «Un pugno di società controlla il mondo. Ecco la rete globale del potere finanziario», titolò anche La Repubblica on line il 2 gennaio.
È stato giustamente detto che per molti, ad esempio per il movimento Occupy Wall Street, la cui parola d’ordine è «siamo il 99% del pianeta contro l’1%», si tratta di una non notizia o, al massimo, di una conferma scontata. È quasi un luogo comune, infatti, che il 20% dei più ricchi possiede l’80% del patrimonio mondiale, oppure che pochi dei più grandi finanzieri hanno più di quanto posseggano un bel po’ di Stati africani. La notizia nuova rappresentata da quella ricerca, però, sta sia nella sua fonte
e nella sua qualità sia, mi pare, nelle sue implicazioni non puramente quantitative.
La fonte è quella della cattedra di analisi dei sistemi complessi, dell’Istituto di alta tecnologia di Zurigo, uno dei maggiori centri di ricerca del mondo, che vanta tra i suoi studenti e professori del passato lontano e recente una trentina di premi Nobel nellematerie scientifiche (tra cui Einstein), oltre che una serie di celebrità in tutti i campi. Presso questa cattedra, che applica le conoscenze matematiche implicite nella materia ai sistemi economici e sociali, lavorano i tre studiosi – Stefania Vitali, James Glattfelder, Stefano Battiston – autori di questo saggio (The network corporate control) che ha le caratteristiche di una ricerca pura.
Essa, cioè, è del tutto priva di qualsiasi premessa o intenzionalità ideologica, come ben chiariscono gli autori nelle discussioni accademiche e non accademiche che hanno seguito la pubblicazione sulla rete. Il che vale a dire, com’è ovvio, che nella sua origine e motivazione non vi è alcuna ipotesi favorevole od ostile alle dottrine economiche liberistiche o antiliberistiche e meno che mai a ipotesi su supposti complotti del capitale.
Semplicemente, ma non facilmente, gli autori hanno creato un (complicato) metodo di indagine per accertare gli intrecci proprietari a partire dal database Orbis che catalogava 37 milioni di società finanziarie e industriali, banche, assicurazioni, enti economici di tutto il mondo. La principale diversità di questa ricerca rispetto alle altre che l’hanno preceduta sta appunto nel fatto di non limitare l’analisi a un gruppo ristretto di società, ma di avere preso come punto di avvio il massimo possibile dei soggetti da esaminare.

venerdì 27 gennaio 2012

Global corporate power



Fonte: sbilanciamoci
Chi sono le persone che rappresentano l’1%? Quali compagnie gestiscono? In che modo evitano la trasparenza? I grafici del Transnational Institute di Amsterdam dimostrano i costi sociali e ambientali del potere delle corporation globali

La crisi economica, sociale ed ecologica che l’umanità sta affrontando non è fortuita, ma il risultato di politiche perseguite da una elite circoscritta, che ha sistematicamente preso in ostaggio le scelte politico-economiche in tutto il mondo.

Questa elite globale – meglio conosciuta come la classe di Davos – si riunisce ogni anno nella cittadina-resort svizzera durante l’ultima settimana di gennaio, per ribadire la propria fede nell’ortodossia delle politiche economiche favorevoli alle corporation.

Continua a farlo, nonostante sia diventato ancora più evidente che i costi di queste politiche significano crisi del debito irrisolvibili, crescita della disoccupazione e della disuguaglianza e crisi ecologiche sempre più pressanti.

Nell’ambito di un progetto sul “corporate power”, il Transnational Institute di Amsterdam sta realizzando una serie di infografici per tutto il 2012, mostrando la realtà del “corporate power” e la necessità di un radicale cambio direzione.

Le corporation che governano il mondo:
Quali sono le più grandi compagnie al mondo? Quali corporation le controllano? Il loro potere, in che rapporto è con gli Stati?

Lo 0,001% globale:
10,9 milioni di persone controllano 42,7 trilioni di dollari, due terzi del prodotto interno lordo mondiale. Cosa potremmo farci, con quei soldi?

Gli uomini più ricchi del mondo:
Chi sono, e come hanno fatto i loro soldi? Quali sono i paesi in cui è meglio essere ricchi?

Gli architetti del neoliberismo:

Un’economia globale di cui beneficia solo un’elite circoscritta non è fortuita: è stata sapientemente delineata da politici che spesso hanno lavorato per le corporation transnazionali e che, una volta lasciato l’incarico, sono stati ricompensati.

domenica 15 gennaio 2012

Come cresce (e dove va) la ricchezza dei ricchi.

Piero Ricci sbilanciamoci
Anche con la crisi la ricchezza aumenta, soprattutto per i più ricchi. Ma, con patrimoni meno liquidi, l’effetto sui consumi in paesi come l’Italia è modesto

Alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane (attività reali e attività finanziarie, al netto delle passività finanziarie), è risultata di circa 8.640 miliardi di euro e, secondo stime preliminari, nel primo semestre 2011 è leggermente aumentata in termini nominali, secondo i dati della Banca d’Italia (Supplementi al Bollettino Statistico anno 2011 - La ricchezza delle famiglie italiane 2010 p. 5).

La variazione della ricchezza complessiva reale può essere riferita a due fattori: il flusso di risparmio (al netto degli ammortamenti) e i capital gains (variazioni dei prezzi delle attività reali e di quelle finanziarie al netto della variazione del deflatore dei consumi). Nel 2010 il risparmio delle famiglie è stato di circa 50 miliardi di euro mentre i capital gains sono stati negativi essenzialmente per il forte calo dei corsi azionari avvenuto nel corso dell’anno. Tra il 1995 e il 2010 il risparmio incide nella crescita del valore della ricchezza netta in misura lievemente superiore rispetto ai capital gains. Questi ultimi sono interamente ascrivibili alle abitazioni e agli altri beni reali, essendo i capital gains sulle attività finanziarie pressoché nulli.

Nella seconda metà degli anni ‘90 è la componente finanziaria a costituire la principale determinante dell’aumento della ricchezza complessiva delle famiglie. La ricomposizione della ricchezza verso le attività finanziarie è un fenomeno comune a tutti i paesi del G7, tanto è vero che negli anni ‘80 la gran parte della ricchezza delle famiglie era costituita da attività reali mentre nel corso degli anni ‘90 i risparmiatori si indirizzarono verso le attività finanziarie, in particolare le azioni. L’aumento risultò disomogeneo, con una crescita del peso delle attività finanziarie inferiore nel Regno Unito e in Canada dove era già molto elevato, e maggiore in Francia e in Italia, dove la partecipazione al mercato azionario era più limitata. Dal 2000 è iniziata invece una fase di riduzione dei corsi azionari, con l’interruzione della crescita del rapporto tra attività finanziarie e attività reali sino al 2003, come mostrano i dati Banca d’Italia.

martedì 27 dicembre 2011

Giorgio Bocca. I misfatti del mercato (globale)

Fonte: repubblica
Ricchezza e tecnologia per pochi e povertà e insicurezze per moltissimi, distruzione dell’ecosistema e crescita della delinquenza: questi, e troppi altri, gli effetti del neoliberismo globale che i padroni del mercato perpetrano a tutti i costi (altrui).

di Giorgio Bocca, da MicroMega

Nessuno sa quale sarà il futuro del mondialismo neoliberista, quali effetti sociali e politici avrà nei prossimi decenni. Ma nel presente alcune sue connotazioni sono di una feroce chiarezza. La prima è quella della forbice fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, che vale sia per i paesi avanzati che per il Terzo Mondo. La mitica marea del progresso che doveva sollevare tutte le barche non ha funzionato neppure nei dieci più ricchi paesi del pianeta. Negli ultimi quindici anni i profitti del capitale in questa area privilegiata sono aumentati del 300 e passa per cento, ma i salari dei lavoratori sono rimasti stazionari, solo perché le donne sono entrate in massa nella produzione. E si sono allargate le sacche di povertà: nella florida Francia, Secours Catholique assiste 800 mila famiglie, 600 mila persone sono senza casa, e a Milano – la più ricca città italiana, con una popolazione di un milione e mezzo di persone – 300 mila sono sulla soglia della povertà. Fra paesi ricchi e paesi poveri siamo a diversità abissali: il primato è toccato al rapporto Svizzera-Mozambico, passato in due secoli dal 5 al 400 a 1. Nell’America Latina e in Africa aumenta una povertà che si nasconde, che è quasi impossibile censire. Solo la metà del genere umano ha luce elettrica e telefono, un terzo ignora la tecnologia moderna, un miliardo di lavoratori ha paghe giornaliere inferiori alle 500 lire e anche nei paesi opulenti 160 milioni non superano le 2.000 lire.
Trentacinque disoccupati nel mondo povero, 8 in quello ricco, dove il paese più ricco, gli Stati Uniti, consuma 8 volte più energia che l’intera Africa.

Ricchi sempre più divisi dai poveri. Negli Stati Uniti ci sono 30 mila comunità blindate, circondate da muri e inferriate, guardate da uomini in armi. E quasi a misura della ricchezza aumentano la società penitenziaria e l’analfabetismo di ritorno. L’élite militare tecnologica progetta lo sbarco su Marte, ma i milioni del popolo basso corrono perennemente dietro le virtualità del nuovo mercato. È molto difficile definire il neoliberismo, che non si sa bene dove vada fra i successi dei pochi e le delusioni dei molti. Doveva ridurre il tempo del lavoro, ma nel più ricco Stato dell’Unione, la California, è aumentato rispetto a 15 anni fa di 5 ore la settimana. Lavorano ossessivamente anche quelli della società alta: orari e contabilità sono continuamente superati dalla corsa al profitto. Chi entra nella rete informatica deve essere raggiungibile in qualsiasi ora, il patriottismo aziendale non ammette eccezioni. Una tendenza costante della nuova società del profitto è di far ricadere sulla collettività spese e sprechi che sono della minoranza ricca. Non si contabilizzano l’aumento del lavoro e la diminuzione del salario dovuti alla flessibilità; in qualsiasi evento i profitti della pubblicità, che dipende dai padroni, sono enormemente più grandi di ciò che va alla comparsata. La trasmissione il Grande fratello è stata la metafora del banchetto di una rete televisiva e delle briciole rimaste ai poveretti che pensavano di salire nell’Olimpo passeggiando in mutande in una finta casa.

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