Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

martedì 10 luglio 2012

Sulla violenza.

di JUAN DOMINGO SANCHEZ ESTOP

- uninomade -

“Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma.” (Machiavelli, Discorsi, I, 4)
1.La violenza è determinata dal potere, non dai movimenti sociali. È il potere a decidere, per esempio, che un’aggressione fascista non è «violenta» è che lo è invece una resistenza pacifica o passiva. È il potere a decidere che la prigione o la pena di morte non sono sanzioni violente, e che invece lo sciopero è una forma particolarmente violenta di difesa di un interesse particolare. Il potere decide che i tifosi di calcio o i papaboys possono occupare le strade per svariati giorni e non sempre comportandosi in maniera civile, mentre una tranquillissima acampada in un luogo pubblico o un’assemblea cittadina in una piazza costituiscono invece atti di violenza. Per quanto si cerchi in realtà non c’è nessun contenuto specifico sotto il termine «violenza» che non sia determinato da una decisione sovrana. Si può dire lo stesso a proposito del terrorismo. Sovrano, si potrebbe dire parafrasando Carl Schmitt, è chi decide su cos’è violenza, chi nomina il terrorista.
2. Secondo Aristotele esistono due tipi di movimenti, quello naturale, per cui un corpo si muove e muta in conformità alla sua propria essenza, e quello violento per il quale quello stesso corpo si muove e muta per effetto della forza di un corpo esterno. Il contrario della natura è la violenza. Nella modernità ciò che è naturale nell’ordine sociale lo definisce il potere. Come spiega Bodin, sovrano è colui che dà valore giuridico a un diritto naturale e lo definisce come tale. In altri termini, è il sovrano a decidere che cos’è la natura e quindi l’ordine naturale e, pertanto, che cosa invece si definisce come violenza. Il sovrano definisce ciò che è naturale e ciò che è violento e attribuisce alla «violenza», contraria all’ordine sociale «naturale», lo stato d’eccezione in cui la legge del sovrano non può essere applicata. Niente di strano in questo: ogni sovrano pretende di definire, senza alcun timore di cadere in una tautologia, l’ordine normale, quello naturale, come l’ordine in cui si possono applicare le sue leggi.
3.Nella modernità politica alla quale il potere sovrano appartiene, la natura non gode di alcun contenuto che le sia proprio. Il più grande traduttore dell’ordine politico sovrano in categorie metafisiche, Cartesio, sostiene che l’ordine naturale dipende continuamente dalla volontà divina. Violenta è quindi l’azione contro la natura e, nell’ordine sociale e politico, contro la legge e la volontà del sovrano che in essa si esprime. Ogni esigenza di condannare o approvare la violenza ruota intorno alla figura del sovrano.
4.Quando la natura non è l’«ordine naturale», ma piuttosto una correlazione di forze, l’opposizione natura-violenza viene necessariamente a cadere. Ogni ordine è precario ed effetto relativamente instabile di un equilibrio di forze. Lo stesso potere del sovrano che sta a fondamento di questo ordine – o il potere di Dio nell’universo – si dissolve in un tessuto di relazioni. Questa è la prospettiva democratica e sovversiva del materialismo, quella di Machiavelli e di Spinoza. Era anche la prospettiva dei materialisti dell’antichità, rispetto ai quali Machiavelli e Spinoza riconoscono la loro filiazione. È anche quella di Marx. Non c’è sostanza del potere, non c’è ordine naturale, e la violenza non è identificabile come caratteristica essenziale di un’azione, ma riconduce alla caratterizzazione politica di questa azione da parte di un potere sovrano che – a sua volta – è la risultante di una correlazione di forze interna alla moltitudine.
5. Il materialismo rende evidente la nudità del potere. Questo non può più basare la sua «legittimità» su un supposto ordine naturale. Deve fondarsi su di una relazione, sempre relativamente conflittuale con una moltitudine di altre forze. Il tentativo di neutralizzare la conflittualità, i tumulti della moltitudine, equivale alla soppressione della libertà, perché diminuisce la potenza della moltitudine, la sua produttività, e sommerge la moltitudine nella tristezza del potere assolutista. L’assolutismo, che pretende ridurre tutti in un unico corpo, chiama pace quello che è in effetti un deserto. Il totalitarismo moderno ce ne offre molteplici esempi.
6. Quella variante liberale dell’assolutismo che oggi chiamiamo «democrazia liberale» pretende anch’essa di basare il suo ordine sociale in una natura che, in un circolo vizioso, è contemporaneamente effetto e causa dell’ordine legale stabilito dal sovrano. Gli effetti di questo discorso libreral-assolutista si traducono oggi nel rifiuto e nella criminalizzazione di ogni illegalità perpetrata dai sudditi – tra i quali, ovviamente, non si contano i più potenti, che costituiscono parte integrante del sovrano. Il principio dello Stato di polizia è contenere entro i limiti della legalità la condotta dei sudditi attraverso uno stretto controllo. Criminalizzando gli spazi del conflitto e considerando come violenti anche i più inoffensivi atti di disobbedienza si uccide la libertà e si mortifica la vita in comune.
* Traduzione dallo spagnolo di Nicolas Martino.

lunedì 9 luglio 2012

Sotto il ricatto mortale.

Malati senza cibo ad Atene
di Francesco De Palo
Emergenza umanitaria in Grecia? Poco ci manca. Insieme con l’ospedale Elpis inizia a svanire la speranza per il salvataggio di un comparto delicatissimo come la salute. Dopo il caso dei malati di cancro costretti a pagare le cure chemioterapiche di tasca propria, per via delle casse dello stato drammaticamente vuote e dopo le lunghissime file di pazienti a cui le farmacie non potevano dare medicinali (in quanto in credito con lo stato per svariati milioni di euro) nella Grecia tecnicamente fallita il nosocomio Elpis non può più garantire i pasti ai propri ricoverati: le ditte fornitrici devono ancora ricevere i pagamenti relativi al 2011.
Un dato sconcertante che si aggiunge ad una criticità oggettiva sostanziale come quella dei materiali sanitari stessi che scarseggiano nelle strutture del paese. Alcune hanno chiesto in prestito addirittura le lenzuola ad altri ospedali. Nello specifico, l’Elpis dallo scorso mese di marzo non provvede a colazioni, pranzi e cene per i propri pazienti. E a questo punto rischia di non poter disporre neanche di alimenti basilari come l’olio d’oliva, la pasta e il semplice pane tostato. Dal Dipartimento di Nutrizione fanno sapere che le ditte fornitrici hanno lanciato un vero e proprio ultimatum: nessun nuovo ordine di alimenti se prima non verranno onorate le fatture dello scorso anno. Inoltre non sarà neanche possibile provvedere a soddisfare quei pazienti che devono seguire diete specifiche, per particolari patologie o perché in regime post operatorio, a cui neanche i parenti potrebbero far fronte, vista la peculiarità dei soggetti e delle relative esigenze.
Un panorama che non potrà che aggravarsi, considerata da un lato la non disponibilità della troika ad andare oltre uno sconto temporale (la ventilata concessione di spalmare l’impegno greco nel prossimo biennio, osteggiata dalla Finlandia) e l’allarmante crollo delle entrate per lo Stato. Infatti, a seguito delle misure proposte da Fmi, Ue e Bce, tra nuove tasse, (i cosiddetti karadzi), controlli anti evasione e lotta agli sprechi, il flop è stato nell’ordine del 70%. Ovvero su cento euro preventivati che l’erario ellenico avrebbe dovuto ricavare da queste prime iniziative legate al memorandum, ne sono entrati solo trenta. Significa che andrebbero riformati soprattutto quei dipartimenti fiscali che semplicemente non hanno accertato quante e quali tasse si sarebbero dovute pagare, specialmente nel settore privato. Mentre invece dipendenti pubblici, pensionati e salariati hanno subito senza se e senza ma un taglio verticale delle proprie buste paga nell’ordine del 25%, con l’iva schizzata al 23% e la benzina verde a due euro al litro. La stessa sanità, che sta offrendo esempi della levatura del nosocomio Elpis, è uno dei settori con le più grosse deficienze strutturali e materiali, dal momento che già si tratta di un settore che da sempre è stato in crisi nel paese. E che oggi, a maggior ragione dopo il memorandum, soffre tremendamente i minori trasferimenti economici da parte dello Stato. Con un intero indotto, quello dei fornitori, che accusa un 50% di flessione; i pazienti che subiscono un servizio non adeguato, e il personale medico e paramedico in agitazione.
Inoltre fonti del ministero dell’Economia ellenico riferiscono che secondo la troika il “buco nero” delle mancate entrate ammonterebbe a due miliardi di euro, ragion per cui i rappresentanti europei in pianta stabile ad Atene avrebbero avanzato forti preoccupazioni su questi risultati negativi oltre che sulle mancate privatizzazioni. Ormai le urne sono chiuse e l’attuale premier Samaras, dopo il forfait a Bruxelles, suo e del ministro Rapanos sostituito da Stournaras (componente della speciale commissione che curò il passaggio dalla dracma all’euro) dovrebbe dar seguito alle promesse elettorali.
Ritardi ci sono nell’abolizione del Codice di libri e dischi (una specie di Siae), nella fusione o soppressione della autorità doganali e fiscali annunciate ormai da tempo. Il governo replica che verrà istituita una task force per eliminare le esenzioni fiscali e i regimi speciali. Ma serve fare presto e farlo bene. E soprattutto portare risultati accettabile al prossimo Eurogruppo. Sempre sperando che premier e ministro preposto riescano ad essere presenti. Mentre per settembre già si prepara una nuova ventata di scioperi e manifestazioni anti memorandum e antigoverno.
da Il Fatto Quotidiano.it

Manifesto del buon senso in economia.

Paul Krugman, premio Nobel dell’Economia 2008, e Richard Layard, direttore di un centro studi della London School of Economics, hanno promosso sul Financial Times un manifesto per il buon senso in economia. Una radicale critica alle politiche di rigore ed austerità che secondo i due economisti anglosassoni hanno ripetuto, a partire dal 2010, tutti gli errori che già avevano prolungato la Grande Recessione negli anni trenta. Al Manifesto si può anche aderire al sito apposito, qui di seguito la traduzione italiana realizzata da Keynesblog.

Più di quattro anni dopo l’inizio della crisi finanziaria, le principali economie avanzate del mondo restano profondamente depresse, una scena che ricorda fin troppo quella del 1930. E la ragione è semplice: ci affidiamo alle stesse idee che hanno governato le azioni di politica economica nel 1930.

di Paul Krugman e Richard Layard
- micromega -
Queste idee, da tempo smentite, comprendono errori profondi sia sulle cause della crisi che sulla sua natura che sulla risposta appropriata. Questi errori hanno messo radici profonde nella coscienza pubblica e forniscono il sostegno pubblico per l’eccessiva austerità delle attuali politiche fiscali in molti paesi.
Quindi i tempi sono maturi per un manifesto in cui gli economisti mainstream offrano al pubblico una analisi dei nostri problemi maggiormente basata sulle evidenze.
Le cause. Molti responsabili politici insistono sul fatto che la crisi è stata causata dalla gestione irresponsabile del debito pubblico. Con pochissime eccezioni – come la Grecia – questo è falso. Invece, le condizioni per la crisi sono state create da un eccessivo indebitamento del settore privato e dai prestiti, incluse le banche sovra-indebitate. Il crollo della bolla ha portato a massicce cadute della produzione e quindi del gettito fiscale. Così i disavanzi pubblici di grandi dimensioni che vediamo oggi sono una conseguenza della crisi, non la sua causa.
La natura della crisi. Quando le bolle immobiliari su entrambi i lati dell’Atlantico sono scoppiate, molte parti del settore privato hanno tagliato la spesa nel tentativo di ripagare i debiti contratti nel passato. Questa è stata una risposta razionale da parte degli individui, ma – proprio come la risposta simile dei debitori nel 1930 – si è dimostrata collettivamente autolesionista, perché la spesa di una persona è il reddito di un’altra persona. Il risultato del crollo della spesa è stato una depressione economica che ha peggiorato il debito pubblico.
La risposta appropriata. In un momento in cui il settore privato è impegnato in uno sforzo collettivo per spendere meno, la politica pubblica dovrebbe agire come una forza di stabilizzazione, nel tentativo di sostenere la spesa. Per lo meno non dovremmo peggiorare le cose tramite grandi tagli della spesa pubblica o grandi aumenti delle aliquote fiscali sulle persone comuni. Purtroppo, questo è esattamente ciò che molti governi stanno facendo.
Il grande errore. Dopo aver risposto bene nella prima e acuta fase della crisi economica, la saggezza politica convenzionale ha preso una strada sbagliata, concentrandosi sui deficit pubblici, che sono principalmente il risultato di una crisi indotta dal crollo delle entrate, e sostenendo che il settore pubblico dovrebbe cercare di ridurre i suoi debiti in tandem con il settore privato. Come risultato, invece di giocare un ruolo di stabilizzazione, la politica fiscale ha finito per rafforzare gli effetti frenanti dei tagli alla spesa del settore privato.
Di fronte a uno shock meno grave, la politica monetaria potrebbe bastare. Ma con i tassi di interesse prossimi allo zero, la politica monetaria – mentre dovrebbe fare tutto il possibile – non può fare l’intero lavoro.
Ci deve naturalmente essere un piano a medio termine per ridurre il disavanzo pubblico. Ma se questo è troppo sbilanciato può facilmente essere controproducente annullando la ripresa. Una priorità chiave è ora quella di ridurre la disoccupazione, prima che diventi endemica, rendendo la rispesa e la futura riduzione del deficit ancora più difficile.
Come rispondono coloro che sostengono le politiche attuali agli argomenti che abbiamo appena avanzato? Usano due argomenti molto diversi a sostegno della loro causa.
L’argomento della fiducia. Il loro primo argomento è che i deficit pubblici alzeranno i tassi di interesse e quindi impediranno il recupero. Al contrario, essi sostengono, l’austerità aumenterà la fiducia e favorirà così la ripresa. Ma non c’è alcuna prova a favore di questo argomento. In primo luogo, nonostante i deficit eccezionalmente elevati, i tassi di interesse oggi sono bassi senza precedenti in tutti i principali paesi in cui c’è una banca centrale normalmente funzionante. Ciò è vero anche in Giappone, dove il debito pubblico supera ormai il 200% del PIL annuo, e il downgrade da parte delle agenzie di rating non hanno avuto alcun effetto sui tassi di interesse giapponesi. I tassi di interesse sono elevati solo in alcuni paesi della zona euro, perché la BCE non è consentito di agire come prestatore di ultima istanza per il governo. Altrove la banca centrale può sempre, se necessario, finanziare il deficit, lasciando inalterato il mercato obbligazionario. Inoltre l’esperienza passata non contiene nessun caso in cui i tagli di bilancio hanno effettivamente generato un aumento dell’attività economica.
Il FMI ha studiato 173 casi di tagli di bilancio dei singoli paesi e ha scoperto che il risultato coerente è la contrazione economica. Nella manciata di casi in cui il consolidamento fiscale è stato seguita da una crescita, i canali principali erano un deprezzamento della valuta nei confronti di un mercato mondiale forte, una possibilità non disponibile al momento. La lezione dello studio del FMI è chiara: i tagli al bilancio ritardano la ripresa. E questo è ciò che sta accadendo ora: i paesi con i maggiori tagli di bilancio hanno avuto le più pesanti cadute dell’output.
La verità è, come possiamo vedere, che i tagli di bilancio non ispirano la fiducia delle imprese. Le aziende investono solo quando possono prevedere abbastanza clienti con un reddito sufficiente da spendere. L’austerità scoraggia gli investimenti. Vi è quindi un’evidenza massiccia contro l’argomento della fiducia; tutte le presunte prove a favore di tale dottrina sono evaporate ad un esame più approfondito.
L’argomento strutturale. Un secondo argomento contro l’espansione della domanda è che la produzione è nei fatti vincolata dal lato dell’offerta da squilibri strutturali. Se questa teoria fosse giusta però, almeno in alcune loro parti le nostre economie dovrebbe essere a pieno regime, e così dovrebbe fare alcune attività. Ma nella maggior parte dei paesi non è questo il caso. Ogni settore importante delle nostre economie è in difficoltà, e ogni attività ha un tasso di disoccupazione più elevato del solito. Quindi il problema deve essere una mancanza generale di spesa e domanda. Nel 1930 lo stesso argomento strutturale è stato utilizzato contro le politiche di spesa proattive negli Stati Uniti, ma a seguito dell’aumento di spesa tra il 1940 e il 1942, la produzione è aumentata del 20%. Quindi il problema nel 1930, come oggi, era una carenza di domanda, non di offerta.
Come risultato delle loro idee sbagliate, in molti paesi occidentali i politici stanno infliggendo sofferenze enormi ai loro popoli. Ma le idee che sposano su come gestire le recessioni sono state respinte da quasi tutti gli economisti dopo i disastri del 1930, e per i successivi quarant’anni o giù di lì l’Occidente ha goduto di un periodo senza precedenti di stabilità economica e bassa disoccupazione.
E’ tragico che negli ultimi anni le vecchie idee abbiano di nuovo messo radici. Ma non possiamo più accettare una situazione in cui le paure sbagliate di tassi di interesse più elevati pesino di più sui i decisori politici rispetto agli orrori della disoccupazione di massa.
Politiche migliori differiranno da paese a paese e hanno bisogno di un dibattito approfondito. Ma devono essere basate su una corretta analisi del problema. Invitiamo quindi tutti gli economisti e gli altri che sono d’accordo con le linee generali di questo Manifesto a registrare la loro sottoscrizione su www.manifestoforeconomicsense.org, e sostenere pubblicamente un approccio più solido.
(30 giugno 2012)

domenica 8 luglio 2012

Come in Grecia costruiamo un polo unitario della sinistra antiliberista

Paolo Ferrero
       
- controlacrisi -
Io penso che l’esperienza greca possa essere un utile punto di riferimento per ricostruire la credibilità e la forza della sinistra italiana. Innanzitutto dal punto di vista dei contenuti. Syriza si è caratterizzata per una posizione di intransigente contrarietà alle politiche neoliberiste europee. Questo a me pare il punto decisivo sul piano politico anche per quanto riguarda l’Italia. Come ci mostra il governo Monti e lo stesso governo Greco, la nostra realtà politica è solo formalmente divisa tra centro destra e centro sinistra. In realtà è divisa tra le forze che accettano i dictat europei - e li vogliono applicare ai rispettivi paesi - e le forze che si oppongono alle politiche europee e si battono per cambiarle. Syriza ha affermato chiaramente di non essere disponibile a formare alcuna maggioranza che non avesse come punto discriminante il rifiuto di applicare il memorandum imposto dall’Europa. Al contrario il Pasok e Sinistra Democratica sono stati disponibili a formare un governo con Nuova Democrazia che ha come punto fondamentale l’applicazione dei dictat europei. Lo stesso avviene in Italia con il governo Monti che è sostenuto in modo bipartisan da ABC al fine di applicare tutte le porcherie imposte dall’Europa: demolizione del sistema sanitario, del sistema di istruzione pubblico, del sistema previdenziale pubblico, del diritto del lavoro. Il primo insegnamento che viene dalla Grecia è quindi la necessità di costruire un polo della sinistra antiliberista e anticapitalista, autonomo dalle forze socialiste e con un progetto politico economico e sociale contrapposto alle ricette di centro destra e centro sinistra. L’idea che costruire una Syriza italiana in alleanza con il PD è peggio di una sciocchezza, è un mistificazione in cui si cerca in modo truffaldino di utilizzare la credibilità dei compagni e delle compagne greche per coprire il solito trasformismo italiano che tanti danni ha fatto al paese e alla sinistra. Questo orientamento ci viene confermato anche dalla decisione assunta dal Front de Gauche, che ha scelto di non votare la fiducia al governo Hollande, ritenendo il suo programma del tutto inadeguato ad affrontare la crisi e decisamente più moderato rispetto ai toni della campagna elettorale. Basti pensare al Fiscal Compact di cui Hollande chiedeva la modifica e che invece è stato accettato nella sua integrità. Ne si può dire che il governo Monti sarà una parentesi. Il governo Monti è un governo costituente dal punto di vista degli assetti sociali, della costruzione politica centrista e anche dal punto di vista degli effetti politici nel lungo periodo. L’accettazione del Fiscal Compact da parte della maggioranza di Monti determinerà una stretta enorme sulla spesa pubblica italiana, dell’ordine di 45 miliardi l’anno per un periodo di vent’anni. La politica economica dei prossimi governi – se si accettano i dictat europei – è già abbondantemente decisa ed è destinata a produrre una disoccupazione stabile di massa. Per questo occorre operare da subito per costruire un polo della sinistra in grado di presentarsi alle elezioni con un proprio profilo politico e programmatico. Anche al fine di costruire il polo della sinistra è utile l’esperienza greca come quella francese: il problema non è fare un nuovo partito ma costruire uno spazio pubblico unitario della sinistra in cui ognuno ci stia a partire dai propri convincimenti e dalle proprie pratiche sociali. Occorre costruire una aggregazione a base democratica, secondo il principio della democrazia partecipata e della valorizzazione del principio di “una testa un voto”. La crisi della sinistra italiana è infatti una crisi politica ma anche una crisi di legittimità democratica. La costruzione della sinistra unita deve quindi essere un percorso di chiarificazione politica e di rivoluzione nello forme organizzative. Il modello della federazione, della costruzione comune delle scelte politiche e del parallelo rispetto delle specificità culturali, politiche ed organizzative mi pare il modello che più si avvicina all’esigenza che dobbiamo soddisfare. A tal fine penso che sia necessario utilizzare i prossimi mesi per aprire la discussione pubblica sul programma e sulle forme di organizzazione dell’aggregazione politica a cui vogliamo dar vita.

Capitalismo kamikaze, immaginazione e rivoluzione culturale.

 
120707arton di Damiano Mazzotti - agoravox -
“La rivoluzione che viene” è un’opera che riunisce sei saggi molto originali di David Graeber, uno dei protagonisti del movimento “Occupy Wall Street”.
La tesi principale dell’antropologo americano consiste nel ritenere i pensatori neoliberisti ossessionati dall’idea di dover garantire che “non c’è nessuna alternativa” al capitalismo finanziario. Però i trionfi ideologici neoliberisti portano a ripetute catastrofi economiche e al diffondersi del “capitalismo kamikaze”: “un sistema che non esiterà ad autodistruggersi se ciò sarà necessario per sconfiggere i propri nemici”. Per questo motivo Graeber insiste nell’evidenziare alcuni aspetti centrali della lotta di classe nella società statunitense: “la negazione del diritto di comportarsi bene, di essere nobili, di ricercare valori diversi dal denaro”.
In realtà i principali membri della casta del potere multinazionale hanno compreso che il sistema “basato su un’antica alleanza tra potere militare e potere finanziario, tipica dell’ultimo periodo degli imperi capitalisti” è ancora in piedi quasi per miracolo. Oramai non si preoccupano di salvare l’attuale sistema capitalista-debitalista che è destinato all’implosione più o meno lenta e violenta. La loro strategia principale è diventata quella di eliminare ogni alternativa possibile dalle menti dei cittadini, in modo da essere “gli unici a poter fornire delle soluzioni” al momento della crisi finale.
In molti casi la società civile è riuscita nella difficile impresa di creare una piccola e breve egemonia culturale: ad esempio ha fatto progredire i diritti delle donne, ha arrestato l’espansione delle multinazionali dell’energia nucleare e ha ridotto lo strapotere del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale su molte nazioni. Le caste dirigenti occidentali temono i primi segnali di mobilitazione “e di solito cercano di distrarre l’attenzione con la proclamazione di una qualche guerra”, più o meno sbagliata. In particolare gli Stati Uniti “possono, in qualsiasi momento gli torni utile, decidere di regolare il livello di violenza in un altro continente. Questo si è dimostrato un metodo veramente efficace per disinnescare i movimenti che si occupano di problemi nazionali”.
La violenza è l’unico vero monopolio gestito dai governi e permette di stabilire delle relazioni più schematiche in bianco e nero, e delle pericolose semplificazioni. Per questo motivo “la violenza è spesso l’arma preferita degli stupidi: uno potrebbe quasi dire che sia la carta migliore, dal momento che è quella forma di stupidità alla quale è più difficile dare una risposta intelligente”.
Comunque oggigiorno il problema di molte nazioni è quello del debito pubblico. Le multinazionali si fanno fare leggi per non pagare le tasse. Troppi lavoratori sono stati licenziati o vengono pagati troppo poco e quindi non saranno più in grado di ripagare i debiti legati alla casa e ai consumi. D’altra parte dall’inizio della storia umana “il debito è il mezzo più efficiente mai creato per mantenere relazioni che sono fondamentalmente basate sulla violenza e su disuguaglianze violente, facendole sembrare giuste ed eticamente corrette. Quando il trucco non funziona più, esplode tutto”. Quando i beni diventano troppo costosi e gli interessi sui vari finanziamenti sono troppo pesanti i cittadini crollano a terra come asini massacrati dalla fatica.
Probabilmente non sarà questa gente disperata a trovare gli strumenti e le energie per innescare l’inevitabile rivoluzione culturale. Infatti saranno prevalentemente i giovani diplomati, i laureati disoccupati e precari i protagonisti di una nuova rivoluzione culturale che reinventerà i rapporti tra i cittadini, gli stati e le imprese, attraverso l’individualismo cooperativo. In ultima analisi “l’unico modo in cui si può convincere se stessi ad abbandonare il desiderio di fare del bene al mondo intero è quello di sostituirlo con un desiderio ancora più potente di fare del bene ai propri figli”.
Quindi serve una rivoluzione culturale centrata sulla creazione di oasi nazionali e internazionali dell’immaginazione gestite autonomamente dai giovani e bisogna iniziare a finanziare l’educazione demografica in tutte le scuole pubbliche. Nelle scuole private la cosa non è fondamentale, poiché le famiglie benestanti con figli disoccupati non creano nessuna problematica sociale seria. Alla fine dei conti il controllo delle nascite permetterà di lasciare più tempo e più spazio ai sentimenti altruistici e cosmopoliti e si eviteranno i ricatti lavorativi più miserabili, molti conflitti sociali e molte guerre civili.
Nel 1900 eravamo un miliardo e ora siamo sette miliardi: nessun genio sarebbe oggi in grado di fare il miracolo di dare un posto di lavoro a tutti ma qualsiasi burocrate animato dal buon senso potrebbe garantire un reddito minimo di sopravvivenza a tutti, in molti paesi, evitando gli alti costi sociali di molte immigrazioni che finiranno di saldare i figli disoccupati degli immigrati. Ad esempio la Banca Mondiale potrebbe finanziare direttamente i cittadini attraverso i micro-finanziamenti personalizzati agli studenti e ai disoccupati invece di perseverare nel foraggiare i dittatori e le caste dirigenziali parassitarie di quasi tutti i paesi.
In estrema sintesi la peggiore politica risiede nel monopolio del potere dello Stato e la politica è la “dimensione della vita sociale in cui le cose diventano veramente reali se un numero sufficiente di persone ci crede”. Così “Il rifiuto dei capitalisti di ripensare seppur minimamente ad alcuni dei propri assunti di base sul mondo, potrebbe significare non solo la fine del capitalismo, ma di tutto il resto”. Anche senza l’implosione finanziaria e la terza guerra mondiale termonucleare, questa cecità di classe finirà per certificare la fine del salutare senso di solidarietà tra gli esseri umani.
Nella vita l’importante non è saper anticipare il futuro, ma fare in modo che si realizzi nel modo migliore possibile, prima che sia troppo tardi per evitare eventuali sofferenze. Tra salvare una persona che sta affogando e recuperare il cadavere di un affogato c’è un bel po’ di differenza.

David Graeber è stato allontanato dall’Università di Yale a causa delle sue idee anticonformiste. Ora insegna Antropologia Sociale alla Goldsmiths University di Londra.

La grande ammucchiata che ci aspetta.

di Zag - ListaSinistra -
L'uscita di Fini ( la grande coalizione) e l'adesione che ha raccolto tra i tanti rami che si stanno distaccando tra assemblee, fondazioni, associazioni dalla grande destra pidiellina può rappresentare il quadro partitico che si sta disegnando per il dopo Monti. Appunto una grande coalizione che va dal PD a Casini ai finiani ( quello della copertura politica al massacro di Genova), ai vari Pisanu, Scajola e ai giovani pidiellini fino a raggiungere SEL ad eccezione della Lega e di IdV. Una grane ammucchiata , insomma.
La cosa ha un suo fascino. La riproposizione di quel che è già in atto ( con un grande salto di gesto politico e scatto di fantasia istituzionale :-D ) come contenitore, e un leader che si fà sempre in tempo a trovarlo. In fondo che ce vo? Una bella faccia videotelegenica, un passato ( se presente, no perché potrebbe essere tacciato , dai maligni, di confitto d'interessi, per carità didio!) da imprenditore illuminato , con una qualche laurea anche se ad honorem( meglio se non comprato tipo "figliodibossi")  in qualche istituto bocconiano o giù di li, si può sempre trovare .
Se questo è il quadro che si sta preparando, e lo pongo come ipotesi, allora tutti i tasselli si incastrerebbero come in un puzzle.

La presunta legge elettorale ( o quantomeno il disegno della nuova legge elettorale) tutta protesa ad eliminare i ramoscelli oppositivi a questo disegno e tutta tesa a garantire una governabilità al riparo da possibili  ribaltoni o opposizioni interne. Con o senza presidenzialismo  o semi presidenzialismo. Fuori da questo quadro ma dentro gli schemi vi sarebbe il grillismo. Essi però sono funzionali al sistema, se non al quadro che si sta prefigurando. Garantirebbe , senza che rappresentino un problema, l'opposizione tale da garantire la facciata di democraticità delle istituzioni. Le loro uscite clownesche servono a rendere battute quelle cose dette che se anche attuate sarebbero pericolose ( per il mantenimento del sistema). Il tutto quindi rende inoffensivo quel movimento, ma anzi utile. Al centro i partiti , o meglio il sistema di partiti, che continuerebbero ad esercitare il proprio potere all'interno delle istituzioni, eleggere tutte le cariche, garantirsi tutto il sottopotere e i centri di potere dall'informazione pubblica, ai centri dispensatrice di sanità, istruzione, cultura ecc ecc .    

Il moderatismo sindacale e della Camusso in particolare . Delle altre confederazioni non vale nemmeno la pena di parlarne inquadrate come sono ancor prima di parlare.
La confederazione, in verità non è mai stata una centrale sovversiva, diciamoci la verità. Ha sempre rappresentato la mediazioni di fronte alle spinte in avanti della Fiom. Mi viene in mente i tempi di Lama segretario CGIL. Ma oggi è ancor più evidente la fraseologia barricadiera e i fatti del tutto contraddittori. E in questo disegno si raffigura anche il patto definito patto di Serravale fra la CGIL e la Confindustria fra la Camusso e Squinzi in cui l'85% delle cose dette sono state condivise da entrambi. Beh se il quadro è quello sopra descritto questa alleanza ( patto fra produttori si diceva un tempo, appunto ai tempi di Lama) è funzionale alla pace sociale necessaria a che il quadro possa avere gambe. La Fiom si trova perciò isolata, e l'indecisione del suo segretario non giova all'uscita dall'impasse stretto fra l'attacco degli industriali ( Marchionne in testa) e la melma della CGIL e di quel che resta del PD. Dovrà , nei tempi brevi, prendere delle decisioni, O cammina da sola, insieme ai lavoratori, licenziati, e pensionati e precari, ceto piccolo borghese produttivo di fatto anticapitalista, per un patto egemonico in senso gramsciano o rimarrà invischiato anche lei nelle sabbie mobili della politica del palazzo.

Ia funzione dei  Talk Show va in questa direzione. Se avete modo di vedere i talk Show indipendentemente dagli orari e dalle testate e dai conduttori, queste sono legate da un unico standard. In studio vi sono, indipendentemente dal ruolo che occupano nella società sia esso nel giornalismo, economisti, politologi, tuttologi tutti sono embedded. Sono un coro all'unisono, sono tutti, con i diversi accenti più o meno estremi, ma concordi nel considerare questa politica, l'unica possibile. L'uscita dal bipartitismo barricadiero , a parole, e la concordia nazionale.  Un filo conduttore che dal berlusconismo porta al montismo e al montismo in chiave aggiornata. Poi , per amore della democraticità ( e che cazzo siamo per la libera informazione e la pluralità delle voci!) si invitano uno , ad andar bene, che ha più o meno una voce atonale. Scordata. E questo si può notare maggiormente in Rai e Mediaset (questa in maniera minore in quanto produce minor format di questo tipo) . Si distacca LA7 , ma non per contenuti , ma per una sua declinazione tutta particolare. Ossia la sua politica editoriale è quella di far condurre questo tipo di format a conduttori che per semplificare direi uno di destra ed uno moderato. Fifty-fifty A Porro si affianca Telese, a  Natasha Lusenti ( ex SKy conduttrice di format di cucina) , Filippo Facci

Riusciranno i nostri eroi? Io, se è verosimile l'ipotesi da me avanzata, non vedo alternative. E' l'unica strada che potrebbe consentire a questo establishment a continuare a sopravvivere a se stessa. Non vedo , sopratutto, chi possa contrastare un percorso di questo tipo. I contenuti poi? Ma qui non sono in discussione i contenuti, la vera politica. Questa è un fatto scontato. Sono i mercati che ce lo chiedono ,è' l'Europa che ce lo impone . Fino a quando , però, resterà di Europa. 
Zag(c)
Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

sabato 7 luglio 2012

Dazi o schiavitu'.


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di Beppe Grillo - beppegrillo -
Il capitale è amorale, si sposta dove il profitto è maggiore. Non è interessato ai diritti dei lavoratori o all'ambiente. Non li contempla neppure. La globalizzazione ha liberato gli sciacalli e gli avvoltoi delle multinazionali e della finanza tenuti prima alla catena. In alcune aree del pianeta come parte dell'Europa, grazie a durissime lotte sociali durate un paio di secoli, la tutela dei diritti dei lavoratori e del territorio sono diventate un fatto acquisito. Il WTO con con la globalizzazione dell'economia ed il commercio libero sta creando un mercato di schiavi di massa. Una serie di vasi comunicanti in cui i capitali migrano verso i Paesi con meno garanzie e diritti e, quindi, con un'alta remunerazione. Non c'è gioco. Il costo del lavoro di un rumeno o un indiano è imbattibile. Nessuna azienda italiana può competere se non riazzerando diritti e regole, come in effetti sta succedendo. Mi sembra una follia. Il mondo si sta allineando verso il basso, sempre più. Verso nuovi faraoni. Non c'è limite alla bulimia del capitale. Mentre si esportano capitali, si importano beni di qualunque tipo, trascurando del tutto l'impatto ambientale del trasporto. L'inquinamento non è conteggiato nel prezzo del prodotto.
Col tempo gli Stati importatori, con la perdita della produzione, si impoveriscono e gli Stati esportatori perdono quote dei mercati mondiali. E tutto torna al punto di partenza con, nel frattempo, un accumulo di grandi capitali, lo spostamento del potere politico verso le multinazionali e la perdita di diritti nei Paesi importatori senza alcun miglioramento sociale nei Paesi esportatori, che si ritroveranno il loro territorio devastato. Un disegno degno di menti criminali, di alieni che si sono impossessati dei corpi dei manager delle multinazionali e del WTO per distruggere il pianeta Terra. La libera circolazione delle merci può avvenire solo a parità di diritti sociali e sindacali. Altrimenti si applichino i dazi.

20 anni di mani pulite.

- antoniodipietro -
Nell’avvicinarci ai 20 anni di Mani Pulite, questa intervista di Piercamillo Davigo al Corriere della Sera di oggi è importante. Perchè ci fa capire a che punto siamo e le differenze con la Tangentopoli di allora.
«Mani Pulite? Non è servita Centrodestra e centrosinistra uniti nell’ostacolare i processi»
Nostalgia?
«Neanche un po’. La situazione dell’Italia vent’anni fa era indegna di un Paese civile».
Eppure lei stesso dice…
«Che girano più tangenti oggi di allora, certo. Mani Pulite poteva essere una svolta, invece è stata tentata una restaurazione».
E dunque?
«Dunque la Seconda Repubblica è semplicemente figlia della Prima. Ma la madre non era meglio: il debito pubblico che tuttora scontiamo continua a essere il frutto prodotto in quarant’anni da quel sistema là».
È questa la sintesi dell’allora pm e oggi giudice di Cassazione Piercamillo Davigo, vent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa che il 17 febbraio 1992 innescò un domino da quattromila inquisiti, la scoperta di tangenti per migliaia di miliardi in una rete sterminata di conti esteri, l’azzeramento di cinque partiti: e per riassumere il resto ci vorrebbe un libro.
Con che risultato?
«Direi duplice. Da una parte non c’è dubbio che dall’evento di Mani Pulite è derivata una cesura netta nelle dinamiche politiche del Paese. Determinata dall’elettorato, tengo a ricordare, non dai magistrati. Il cui ruolo è stato solo quello di portare a galla dei fatti».
E l’altra parte è stata Berlusconi?
«No. L’altra parte è stata che il potere politico, tutto, di centrodestra e centrosinistra, a fronte del quadro devastante emerso dalle indagini non si è affatto preoccupato di prendere provvedimenti per contenere la corruzione, ma semplicemente di contrastare e rendere più difficili i processi».
Anche il centrosinistra?
«Il centrodestra lo ha fatto in modo talmente spudorato da risultare vergognoso: rendere il falso in bilancio perseguibile solo su querela degli azionisti (di fatto di maggioranza) è come perseguire un furto su querela del ladro, dal momento che, se estranei, cambierebbero gli amministratori. Ma il centrosinistra ha dimostrato abilità più sottili, per esempio con la riforma dell’abuso d’ufficio e la precedente introduzione della “modica quantità” nell’annotazione di fatture per operazioni inesistenti: cose passate in silenzio, senza il clamore delle leggi ad personam, ma che hanno reso più difficile contrastare i fenomeni».
Adesso la responsabilità civile dei magistrati.
«Che è comunque demagogica, la sua estensione comporterebbe solo un maggior premio assicurativo da pagare. Ma a quel punto si porrebbe un problema di tutela sindacale visto che, per esempio, l’assicurazione per la responsabilità civile sui veicoli dello Stato è pagata dallo Stato e non dagli autisti: perché l’assicurazione per i processi la dovrebbero pagare i magistrati?».
Solo una questione di soldi?
«Naturalmente no, la citazione diretta di un magistrato avrebbe come conseguenza anche il suo obbligo di astenersi e nel procedimento penale ciò implica la rinnovazione degli atti compiuti: il che può far saltare il sistema».
Vi hanno detto mille volte: se la corruzione c’era da una vita voi dov’eravate prima del ’92?
«È una delle tante scempiaggini che si ripetono da vent’anni. Eravamo lì, ma la corruzione è come la mafia: non è come un omicidio, dove trovi un cadavere e fai le indagini. È un reato che si regge su un patto segreto tra chi lo compie: finché non viene uno a raccontartelo non lo sai».
E perché nel ’92 vengono a dirvelo?
«L’ho ripetuto in mille convegni, ogni volta in cui qualcuno rispolverava l’altra scempiaggine del complotto: Mani Pulite è partita banalmente perché il sistema aveva finito i soldi. Finché il costo delle tangenti poteva essere caricato sul prezzo degli appalti, e le amministrazioni pagavano, gli imprenditori erano ben contenti di corrompere i partiti. Altro che vittime. Poi, quando hanno cominciato a non veder più saldati i lavori per cui prima avevano pagato le tangenti, allora si sono arrabbiati e sono venuti da noi. Tutto qui».
Altre scempiaggini?
«Certo, e ancora più dannose perché a forza di ripeterle sono entrate nel pensiero comune. La prima è stata la giustificazione addotta per anni da chi veniva beccato a rubare: “Ma rubano anche gli altri, perché prendete me?”. Come se un ladro d’auto pretendesse di essere processato solo dopo che sono stati presi tutti gli altri».
A nessuno piace essere processato.
«Ci mancherebbe. Ma la cosa grave è che in questo Paese è diventato “normale” pensare di potersi difendere negando la legittimità del proprio giudice. Pretendendo di fondare le sempre più numerose istanze di ricusazione non sulla contestazione di atti specifici ma sul fatto che un magistrato abbia, per esempio, un orientamento politico».
Se è opposto al mio, e deve giudicare me, può darmi fastidio.
«Ma lui deve motivare per iscritto ogni decisione che prende, e lei può impugnarla nel merito! In un Paese anglosassone il giudice ti condanna semplicemente “poiché la giuria ti ha ritenuto colpevole”, punto: facciamo cambio? E se un imputato di terrorismo islamico chiedesse di ricusare un giudice perché va a messa? Dovrà smettere di andarci? Però allora potrebbe non piacere a un imputato cattolico: dovrà fare la comunione di nascosto?».
Nel ’92 dicevate: noi non facciamo politica. Qualcuno vi disse: sarà la politica a risucchiare voi. Gerardo D’Ambrosio è diventato senatore e Antonio Di Pietro ha fondato un partito.
«I magistrati non devono fare politica nell’esercizio delle loro funzioni. D’Ambrosio e Di Pietro non sono più magistrati e non hanno più tale vincolo».
Esiste un tasso di corruzione fisiologico?
«Tutto sta a intendersi sul quanto. In Italia ci sono meno condanne per corruzione che in Finlandia, che però Transparency International considera il Paese meno corrotto del mondo. Noi siamo a fondo classifica. È l’altra scempiaggine di quanti ripetono che la corruzione è il costo della democrazia: balle. Così la democrazia ce l’hanno rubata».
Al netto delle tangenti lievitate, in cosa la Seconda Repubblica è diversa dalla Prima?
«Per esempio nel fatto di aver lacerato il velo dell’ipocrisia, che per certi versi è considerata un difetto ma è anche la tassa che il vizio paga alla virtù: prima ci si mascherava da buoni perché essere cattivi era considerato brutto, adesso non c’è neanche più la maschera».
Gli italiani hanno i politici che meritano? Siamo condannati all’illegalità?
«Per niente, anzi. Non credo affatto a un Dna delle tangenti, non siamo un popolo sbagliato: siamo solo uno Stato con leggi sbagliate e più facili da aggirare. Pensare il contrario è il più pericoloso e qualunquista degli alibi».
In che senso?
«L’ho detto anche l’altro giorno agli studenti di un liceo di Milano, per me è la cosa più insopportabile di tutte: è quando sento qualcuno dire che “rubano tutti”. Allora ogni volta gli chiedo “Scusi, lei ruba? No? Ecco, neanche io: siamo già in due”. Ripartiamo da qui»

Come si possono leggere i datti.

di Zag in ListaSinistra
I dati statistici e quelli di tendenza, al di la delle parole e delle fraseologie ad effetto, parlano chiaro.Certo a sentire la tv , tutte le tv, a leggere i giornali cartacei ed elettronici, le notizie pur non risollevanti, sono pur consolatrici. Ce la faremo, ci stiamo allontanando dal burrone, pur se questo avanza più veloce, i sacrifici sono necessari, ci riusciremo e via di questo passo.  Ottimismo , ma con moderazione, per riuscire a indorare la pillola al veleno che ci propinano ogni giorno. Poi arrivano i dati e su questi c'è poco da scherzare, A volerli leggere. Si perché i dati si possono anche leggere in due modalità. Prendo ad esempio il dato sulla disoccupazione in USA, che è sintomatico di come è stata data in Italia.
Ferma al 8,2. Nonostante tutto è all'8,2%. Non cala la disoccupazione in USA. Riuscita a frenare la disoccupazione in USA.
e via di questo passo.
E qui siamo anche al di là della lettura del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno
.
Ma veniamo ai dati di quest'oggi di casa nostra.


Al netto dell'inflazione, il potere d'acquisto ha subito un calo nel primo trimestre del 2012 dell'1% rispetto al trimestre precedente, e del 2% rispetto al primo trimestre del 2011. In qualsiasi modo lo si voglia leggere si tratta del livello più basso rilevato negli ultimi 12 anni, cioè dal terzo trimestre del 2000. Che per quanto ottimismo uno ci può mettere rimane un fatto.
Certo qualcun altro  può anche arrivare a dirla come quel contadino che con il suo carro si era scontrato con il panzer tedesco e di fronte al nazista con la luger ancora fumante dopo che aveva ammazzato il suo cavallo agonizzante , senza un braccio, con il capo sanguinante, e zoppicante , saltellando dice " Che culo ! Non mi son fatto niente...non mi son fatto niente!" e si allontana, sperando di non fare la stesa fine del suo cavallo.

Ma i dati non sono ancora terminati
Il tasso di investimento delle famiglie consumatrici, cioè il rapporto tra gli investimenti fissi lordi, che comprendono esclusivamente gli acquisti di abitazioni, e il reddito disponibile lordo è stato pari al 6,7%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto all'ultimo trimestre del 2011 e di 0,4 punti rispetto al periodo gennaio-marzo 2011. Federconsumatori e Adusbef hanno sottolineato come il ribasso del potere d'acquisto delle famiglie comporta che «dal 2008 a fine anno la perdita complessiva delle capacità d'acquisto ammonterà a -11,8%».

Ma anche le imprese produttrici quelle non finanziarie, quelle non finanziarie,  non stanno messe bene. La quota di profitto nel primo trimestre del 2012 è scesa al 38,8%, con una diminuzione di 0,9 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Nel medesimo periodo il tasso di investimento delle società non finanziarie è stato invece pari al 21,6%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto all'ultimo trimestre del 2011.

Uno può anche stare chiuso nel suo guscio, non uscire, non andare al supermercato, chiuso nelle sue stanze in Università, in ufficio a Palazzo Chigi e nella sua stanza di redazione, non vedere la gente al mercato, nei negozi , per la strada , ma ai dati occorre che uno sguardo lo dia. E i dati in qualsivoglia li si vuole leggere sono questi. E non da oggi.

E quel qualcuno lo stesso che continua a lodare l'attuale politica recessiva, che continua a vedere il bicchiere mezzo pieno, che guarda a quel che potrebbe succedere e non vede a quel che sta succedendo deve per un solo attimo fermarsi e ragionare. Se non lo fa o è uno sciocco , o è uno che ha interessi che succede quel che sta succedendo. Si perché in questa guerra non è che siamo tutti  su lo stesso fronte. C'è chi ci sta rimettendo e chi ci sta guadagnando. E quel qualcuno sicuramente non ci sta rimettendo. Se non è uno sciocco!
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Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

L'altra Europa da Bruxelles a Roma

di Giulio Marcon

Lunedì 9 luglio, presso la Casa Internazionale delle Donne – Roma, via della Lungara 19 – dalle 10.30 alle 20.00, si terrà il convegno: Uscire dalla crisi con un’altra Europa, una giornata di incontri e dibattiti promossa dalla Green European Foundation con il contributo di Sbilanciamoci!, un confronto per proseguire la strada delineata nel forum di Bruxelles

Dopo il Consiglio Europeo del 28 e 29 giugno, l'Europa naviga in acque tempestose, nonostante le diplomatiche riappacificazioni (con la Merkel) e qualche passo indietro. Il conflitto tra governi e schieramenti di stati (Italia, Spagna, in parte la Francia da una parte e Germania, Gran Bretagna, Olanda, Finlandia dall'altra) prosegue. Un conflitto aperto e le pur timide novità sul possibile intervento della Bce per calmare lo spread e la realizzazione dell'unione interbancaria rischiano di impantanarsi nelle dispute interpretative (perché il diavolo è sempre nel dettaglio) e nelle farraginose e lunghe procedure attuative. Si vedrà cosa succederà il 9 luglio nella prossima riunione dell'Eurogruppo, che dovrebbe tradurre nella zona dell'euro le misure del Consiglio Europeo. Più che un primo passo, il Consiglio del 28 e 29 giugno è un leggero abbrivio dagli esiti ancora assai incerti e comunque modesti. La crisi non demorde e – proprio a causa dell'inerzia di Bruxelles – potrebbe essere destinata ad aggravarsi ulteriormente in Europa. Nel frattempo bisognerebbe aspettare molti anni per la modifica (in senso positivo, speriamo) dei trattati, o attendere anche meno tempo, un anno e più, per sperare di veder evolvere verso sinistra l'equilibrio politico in Italia (primavera 2013) e in Germania (autunno 2013) e modificare così l'equilibrio europeo. Comunque troppo tempo: frattanto saremo definitivamente travolti dalla crisi, dal fallimento dell'architettura europea e dal declino del modello sociale europeo.
Di fronte a questa situazione la sinistra, il sindacato e anche i movimenti sociali europei sono in difficoltà, incapaci di mettere in campo una forte ed incisiva mobilitazione contro le scelte dei governi europei e le politiche di austerity, che altro non sono che la "continuazione del neoliberismo con altri mezzi". Proprio contro il neoliberismo dieci anni fa i movimenti europei erano stati capaci di organizzarsi, coordinarsi, manifestare. E oggi, che di questa mobilitazione ci sarebbe ancora più bisogno, la debolezza della protesta e della capacità di coordinarsi e unirsi risulta paradossale e preoccupante. La crisi sembra avere messo in questione la capacità della società civile globale – in questo caso europea – di organizzarsi e costruire le alternative necessarie. Continuano ad esserci, ma non si coagulano, non fanno "massa critica".

venerdì 6 luglio 2012

Tsipras, il Che della Grecia

Tsipras, il Che della Grecia
3che
di Barbara Ciolli
Ha idee forti, carisma da vendere e il physique du rôle che, in Europa, gli è valso l'appellativo di «Che Guevara» della Grecia.
Alle elezioni del 6 maggio, il leader della Sinistra radicale (Syriza) Alexis Tsipras ha visto il suo partito schizzare dal 5% al 25%. E ad Atene è rimasto forse l'unico politico a poter girare indisturbato in centro con la sua moto, o addirittura a piedi, senza rischiare di essere aggredito a colpi di uova marce e insulti.
IL RIFIUTO A PAPANDREOU. E non solo perché, nel 2008, il 38enne astro nascente dei comunisti fece la scelta fortunata di snobbare l'alleanza (e il futuro governo) con l'ex premier socialista George Papandreou. «Ci releghereste in un angolo, con due o tre ministeri inutili. Grazie mille, ma diciamo no», rispose con orgoglio il leader di Syriza al Pasok.
L'ASCESA DELL'INGEGNERE. Già allora, l'ascesa di questo giovane ingegnere no-global era vista come «pericolosa» da chi, anche a sinistra, faceva parte del sistema.
Così per neutralizzarlo, Papandreou aveva provato a lanciargli l'esca di una grande coalizione riformista. Inutile dire che il leader cresciuto nel vivaio del Partito comunista greco Synaspismos e ora intenzionato a stracciare il memorandum dei controllori della Troika (Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) non abboccò.
Nei cinque di anni di recessione che hanno portato la Grecia al crollo del 7% del Prodotto interno lordo (Pil), Tsipras è sempre rimasto fuori dai giochi, giudicando l'operato dei governi dall'esterno e mantenendo fede ai principi che, nel 2006, gli valsero un sensazionale 10,5% di preferenze nella corsa a sindaco di Atene.
IL FRONTE ANTI-LIBERISTA. Come nessun altro l'allora 30enne - che, nel 2004, aveva dato vita alla coalizione della sinistra radicale ed ecologista Syriza - era riuscito a convincere le piazze sull'urgenza di bloccare le riforme neo-liberiste, foriere d'austerity. E sulla necessità di creare un fronte europeo comune, che, attraverso il Social Forum, si schierasse compatto contro i potentati finanziari globali.
Con la crisi economica del 2009 e il crollo dell'Eurozona del 2012, in Grecia e non solo, il manifesto politico di Tsipras è diventato l'unica alternativa al diktat dei tagli alla spesa e della demolizione dei diritti al lavoro, all'istruzione e alla sanità pubblica.
DIRETTO E DAI TONI DECISI. Padre di un figlio e compagno di Peristera Baziana - sua vicina di banco al liceo e militante, pure lei, nei giovani comunisti -, sin dai comizi studenteschi, Tsipras ci è sempre andato giù duro con i toni.
Forse perché, sui contenuti, non ha mai avuto dubbi. «Non credo negli eroi e nei salvatori. Ma credo nella lotta per i diritti. E nessuno ha il diritto di ridurre un popolo fiero come il nostro in un tale stato di miseria e umiliazione», ha dichiarato il leader parlando del suo Paese precipitato in un «clima di pessimismo, depressione e suicidi di massa».
«LA STRADA DELL'INFERNO SOCIALE». Sul perché si sia arrivati alla «strada dell'inferno sociale», il numero uno di Syriza ha le idee chiare e non da ora.
La Grecia, uno dei Paesi più piccoli e vulnerabili dell'Eurozona, è stata usata come «esperimento» da «banchieri globali, capitalisti e speculatori di Borsa», per imporre lo «choc neo-liberista» agli Stati membri.
Per Syriza, dunque, nell'Ue è in corso una guerra tra «popoli e capitalismo», con Atene in prima linea. «Se l'esperimento continua, il modello sarà imposto a tutti. Ma se riusciamo a fermarlo, sarà una vittoria non solo per la Grecia, ma per tutta Europa. La sola, vera sconfitta è una battaglia non combattuta».
Sia chiaro, Tsipras non ce l'ha con la Germania, anche se sostiene che il governo della cancelliera Angela Merkel ha «una responsabilità storica» nella crisi dell'Eurozona. Né, populisticamente, ha mai chiesto l'uscita di Atene dall'euro.
«Non siamo contro l'Unione europea o contro l'unione monetaria. Vogliamo solo convincere i nostri partner che il modo scelto per affrontare la crisi greca è totalmente controproducente. È come gettare i soldi in un pozzo senza fondo», ha ribadito in campagna elettorale.
Quel che conta, per Tsipras, è tenere la schiena dritta, rifiutando qualsiasi forma di sottomissione imposta dal ricatto della Troika.
LA FORZA DEI DEBITORI. È bene, infatti, ricordare a banchieri e governi alleati che, «in un prestito, la forza è anche dei debitori». «Se salta il memorandum», ha minacciato Tsipras, «saltano anche i pagamenti degli interessi. John Maynard Keynes lo diceva molti anni fa. Con il moltiplicarsi del debito, anche la persona che presta, cioè le banche, possono trovarsi in una posizione difficile».
A più riprese, i leader tedeschi hanno minimizzato, dichiarando come, ormai, l'effetto domino della Grecia «sia stato neutralizzato». «Ma poi ci sono il Portogallo, la Spagna, l'Italia... », ha ribattuto sicuro Tsipras. Che, di certo, non è uno che scherza.
Persino politici europei progressisti come il tedesco Martin Schulz, presidente del parlamento europeo, hanno espresso stima nei suoi confronti. Ma hanno anche ammesso di temerlo per alcune sue posizioni «rischiose».
LA LINKE TEDESCA DALLA SUA PARTE. I leader della Linke, la sinistra radicale tedesca, hanno invece stretto la mano al «Che Guevara greco», nato, ironia della sorte, il 28 luglio come il venezuelano Hugo Chávez, seppur qualche anno dopo.
Al suo fianco, nel Partito della Sinistra europea, c'è anche il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero. Perché, con «con Syriza che propone una modifica della politica economica a partire dall'azzeramento del memorandum», siamo «dalla parte della soluzione», non «complici della catastrofe». E il «re è nudo».
da lettera43.it

Modelli di welfare tra le due sponde

        Antonio Lettieri
       
Nel confronto con la crisi, l’asse Francoforte-Bruxelles si muove lungo il doppio binario dell’austerità e delle riforme strutturali. C’è un punto in cui i due binari s’incontrano per diventare uno solo. E’ il punto dove il taglio della spesa pubblica (austerità) si risolve nel taglio di alcuni capitoli della spesa sociale (riforme strutturali). In tutta l’Unione europea, i due capitoli sui quali s’interviene sono le pensioni e la sanità. In Italia è stata utilizzata la mannaia per le pensioni. Ora s’intensifica l’opera di erosione del sistema sanitario pubblico.
Quando le autorità europee dettano i canoni delle riforme strutturali, il paradigma di riferimento è la riduzione della spesa pubblica associata a dosi crescenti di privatizzazione del welfare. In altri termini il modello americano che nei sistemi pensionistici, sanitari, educativi è caratterizzato dal crescente predominio del mercato.
In questi giorni, mentre in Italia si discute di ennesimi tagli alla sanità, è stata portata all’attenzione la riforma sanitaria americana che, si è salvata dal rischio di essere cancellata dalla Corte Suprema – possibilità sulla quale contava Mitt Romney, il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali di novembre.
Quando Obama arrivò alla Casa Bianca, 47 milioni di americani erano privi di assistenza sanitaria, una vergogna per il paese più ricco del mondo. La via più semplice, lungamente coltivata dall’ala liberal del Partito democratico, era la generalizzazione del sistema di assistenza pubblica, Medicare, instaurato da Lyndon Johnson negli anni Sessanta a favore delle persone da 65 anni in su. Si sarebbe trattato di un servizio universale a più basso costo. Ma questo modello si scontò con la violenta opposizione del potente complesso assicurativo-sanitario privato. Lo scontro proseguì per oltre un anno nel Congresso e nel paese senza esclusione di colpi. Obama fu accusato di essere un “socialista”, e di voler importare negli Usa un sistema di welfare di tipo europeo. Il risultato finale fu il compromesso che oggi, per fortuna di Obama, la Corte suprema ha convalidato.
Sulla base della riforma, trentatré milioni di americani che ne sono privi avranno nel corso dei prossimi anni un’assicurazione sanitaria. Di questi, 17 milioni saranno associati a Medicaid, l’assistenza pubblica per i poveri; mentre altri 16 milioni fruiranno di una sovvenzione pubblica tramite un credito d’imposta correlato al livello di reddito. La riforma, cosa non meno importante, prevede anche che le compagnie assicuratrici non potranno rifiutare o revocare l’assicurazione in rapporto alla storia medica o alla patologia delle persone interessate. Come contropartita le assicurazioni hanno chiesto e ottenuto l’obbligo per tutti di contrarre una polizza assicurativa – obbligo che era al centro della denuncia alla Corte suprema da parte di alcuni governatori repubblicani, e che il presidente John Roberts, nominato da Bush, rovesciando la maggioranza di tendenza conservatrice, ha sorprendentemente risolto, interpretando l’obbligo assicurativo, di dubbia legittimità, come una tassa che il Congresso federale poteva imporre senza ledere l’autonomia dei singoli stati.
Obama ha salvato la riforma, e probabilmente il secondo mandato, ma la riforma, per quanto salutata con comprensibile sollievo dai democratici, rimane lontana dalla soluzione dei due fondamentali problemi del sistema sanitario americano: i costi e la diseguaglianza di fronte ai problemi della salute. I costi, infatti, continuano a crescere in termini esplosivi. Alla fine del 2011, il costo medio di una polizza familiare ha superato 15.000 dollari annui. La spesa sanitaria è cresciuta fra il 1999 e il 2011 tre volte di più dei salari e quattro volte di più dell’inflazione media. Poi, dietro le medie si celano profonde diseguaglianze. E’ evidente che,dal punto di vista della prevenzione e dall’accesso alle cure, una polizza, mettiamo, da 10 mila dollari ha un contenuto assicurativo radicalmente diverso da un’altra di 20.000 . Gli assistiti non sono tutti uguali, anche se uguali sono le malattie,le disabilità, i bisogni di cura. E, non a caso, a dispetto dall’alto livello di eccellenza che si riscontra al vertice del sistema per chi può accedervi, l’attesa media di vita è al di sotto della media dell’Ocse, mentre al di sopra è la mortalità infantile.
Intanto, la voracità del sistema fa crescere i costi complessivi a livelli astronomici. Alla fine del 2011, il costo totale ha raggiunto 2,7 trilioni di dollari, il 18 per cento del Pil americano. E, secondo le previsioni si avvia a toccare il 20 per cento del Pil, come dire che un dollaro su cinque della ricchezza prodotta in America sarà consegnato al complesso assicurativo-sanitario. Il confronto con i sistemi sanitari europei di carattere universale e, in linea di principio, gratuiti è clamoroso. Il costo totale medio nell’Unione europea è circa la metà di quello americano, intorno al 9 per cento del Pil. In Francia e Germania con i sistemi più costosi la spesa totale è intorno all’11,5 per cento del Pil. In Italia, la spesa sanitaria totale è pari al 9,6 per cento del Pil (gli ultimi dati comparativi dell’Ocse sono del 2009), al disotto della media europea, più bassa che nel Regno Unito, due punti di Pil al disotto della Francia e della Germania.
Secondo una vecchia graduatoria dell’Ocse, i sistemi sanitari francese e italiano spiccano per la loro eccellenza a livello mondiale. Il vantaggio derivante dal carattere pubblico del sistema è fuori discussione. Questo, ovviamente, non significa che nei sistemi pubblici non vi siano problemi di efficienza, di sprechi, di corruzione. Certamente vi sono. Ma, come ci ha insegnato Albert Hirshman nel suo celebre saggio sulla Retorica della reazione, è un tipico atteggiamento ideologico della conservazione dare l’assalto alle conquiste democratiche e, in particolare, allo stato sociale, denunciandone gli effetti perversi non per eventualmente correggerli, ma allo scopo di trarne motivo per corroderle e smantellarle.
In sostanza, il punto non è ignorare o negare l’insufficienza o lo scadimento della qualità di un servizio pubblico che deve rispondere a bisogni di massa, ma si tratta di intervenire in modo puntuale e razionale per correggerne le disfunzioni non per smembrarlo e, più o meno esplicitamente, avviarne la privatizzazione in nome di una superiore efficienza del mercato che, come dimostra l’esempio americano, è un puro fantasma ideologico alimentato da precisi interessi privatistici.
Sotto questo aspetto, non potrebbe esservi un paradosso più sconcertante. Mentre i democratici americani sognano un modello il più possibile europeo, la tecnocrazia dell”asse Francoforte-Bruxelles, alleata alle destre più o meno tecnocratiche che governano nella maggioranza dei paesi dell”Unione, guardano al modello americano. Va in questa direzione l’opera di erosione della spesa sociale del governo Monti che, sotto il titolo attraente quanto ingannevole della spending review, il carattere di attacco allo Stato sociale, sotto la maschera delle riforme di struttura.

Grecia, via ai tagli e alla svendita del patrimonio pubblico.

Fonte: il manifesto | Autore: Argiris Panagopoulos
       
Altro che rinegoziazione del Memorandum. Samaras, tornato dopo due settimane al palazzo della presidenza del governo, a causa dell’operazione all’occhio, ha promesso ieri ai rappresentanti della troika l’accelerazione del programma delle riforme strutturali per sostenere l’economia e l’occupazione e garantire la coesione sociale.
Samaras ha assunto già la veste del macellaio, promettendo ai rappresentanti della troika che il suo governo presenterà un generoso pacchetto di privatizzazioni, tagli nel settore pubblico e una riforma fiscale. Secondo Samaras le privatizzazioni saranno maggiori da quelle che prevede il Memorandum. Cercando di addolcire la minaccia di svendita del patrimonio pubblico, Samaras ha detto che l’economia greca non può sopportare nuovi tagli degli stipendi e delle pensioni, né nuove tasse.
Il nuovo governo “tripartitico” di Samaras sente già una doppia pressione. La troika e la Germania premono sulla Grecia per applicare le misure micidiali previste dal Memorandum, mentre la società si prepara a resistere ai nuovi tagli e all’annunciata svendita del paese, sulla nuova ondata di austerità che dilaga quasi in tutta l’Europa del Sud.
Il nuovo governo ha una schiacciante maggioranza in parlamento e i tre partiti che lo sostengono hanno eletto il presidente della camera con una votazione da record. Paradossalmente però il governo di Samaras è cosi debole e contraddittorio creando le prime liti interne nella Sinistra Democratica, visto che alcuni suoi dirigenti si ricordano ancora la loro appartenenza alla sinistra. La verità è che la Sinistra Democratica dovrà fare spesso un bagno di coscienza, visto che dovrà accettare un mare di privatizzazioni nel periodo prossimo.
Il nuovo ministro “tecnico” delle Finanze Giannis Stournaras ha fatto presente ieri che la troika ha avvertito il governo che il programma è uscito fuori dai suoi obbiettivi dopo le due tornate elettorali. «Noi non vediamo i membri della troika come conquistatori ma come nostri colleghi che rappresentano i creditori con i quali siamo obbligati a convivere», ha detto Stournaras, mentre quando i rappresentanti della troika lo hanno avvertito che lunedì non sarà facile per Atene nell’Eurogruppo lui ha risposto: «Lo so».
Il professor Stournaras ha avvertito anche i greci che li aspettano anni duri. «Da oggi entriamo in acque profonde. Ci aspettano tempi difficili e promettiamo solo una lavoro duro. Vedo una luce nel fondo del tunnel, anche se è lungo», ha detto Stournaras
Syriza ha già dato i primi segnali per una opposizione dura contro la nuova macelleria sociale che si prepara, denunciando anche il fatto che il primo ministro greco prima di presentare il suo programma di governo in parlamento si era incontrato ieri con i rappresentanti della troika ad Atene. Secondo la coalizione – partito di sinistra radicale Nuova Democrazia, Pasok e Sinistra Democratica – che sostiene il governo di Samaras, sarebbero già state dimenticate le premesse pre-elettorali per la rinegoziazione del Memorandum, sostenendo l’applicazione dei tagli senza modifiche.
Il portavoce del governo Simos Kedikoglou ha risposto che «l’esecutivo vuole la permanenza della Grecia in Europa e nell’euro. Syriza e gli interessati alla dracma possono aspettare le prossime elezioni».
Anche se le urne non sono per il momento all’ordine del giorno, Syriza sfiderà il solleone e le altissime temperature per tornare nelle piazze e trovare con la sua gente modi di resistenza contro il nuovo governo e forme di solidarietà e partecipazione cittadina attraverso i movimenti. La coalizione di sinistra vuole trasformarsi in un partito di massa in due tappe, con scedenze a ottobre e in primavera, mentre ha già aperto le sue porte a migliaia di simpatizzanti.
Da parte sua Samaras ha chiuso ieri il ristorante del palazzo presidenziale, che costava 63 mila euro ogni anno, mentre il deputato del Pasok Kremastinos ha detto che i deputati «fanno la fame» e ha denunciato come populisti i deputati che hanno rifiutato la macchina offerta dal parlamento, i bonus di 150 euro per ogni partecipazione in una commissione o ancora peggio hanno rifiutato la scorta.
Da parte loro, uno dopo l’altro i neodeputati di Syriza hanno già cominciato a rinunciare ai tanti extra a cui hanno diritto i parlamentari, mostrando una grande preferenza per le loro macchine da comuni cittadini e dichiarandosi assolutamente non a loro agio di fronte all’evenienza di essere accompagnati da poliziotti.

giovedì 5 luglio 2012

GIORGIO CREMASCHI – Come in Grecia. La criminalità economica governa

gcremaschiLa truffa più grande che stiamo subendo è quella che ci vuol far credere che le misure che il governo Monti ha preso, prende e prenderà, hanno lo scopo di evitare di finire come la Grecia.

- micromega -
E’ vero esattamente il contrario. Le misure sono come quelle che hanno portato la Grecia alla catastrofe economica e al disastro sociale.
Magari vengono scaglionate nel tempo, in modo da evitare un impatto complessivo ed immediato che forse avrebbe costretto i sindacati più tremebondi d’Europa – Cgil, Cisl e Uil – a lottare. Ma le misure sono le stesse.
Prima il massacro sulle pensioni, aggravato dalla manifesta incompetenza del ministro Fornero, a cui Bersani, Berlusconi e Casini non han fatto mancare la fiducia, alla faccia degli esodati. Poi la controriforma del lavoro, che ha liberalizzato precarietà e licenziamenti mentre la crisi economica avanza. Ed ora la manovra correttiva di tagli sociali, ipocritamente coperta dal
solito trucco dell’uso dell’inglese. Ma quale spending review del cavolo!
Assisteremo sicuramente a qualche operazione di facciata, che verrà esaltata dalla sempre più insopportabile stampa di regime per coprire i tagli veri. Che come in Grecia saranno su tre fronti.
Privatizzazioni con svendita del patrimonio pubblico. Licenziamenti dei dipendenti pubblici, che come ad Atene non bastano e non basteranno mai a far quadrare i conti, ma che scateneranno nuovi drammi occupazionali nel pubblico come nel privato. Tagli drammatici a tutti i servizi sociali e in particolare a quelli sui quali si può fare cassa subito, i trasporti e la sanità.
Sui trasporti è utile ricordare che secondo l’amministratore delegato delle ferrovie già ora non ci sono più i soldi per tutto ciò che non sia alta velocità. Sulla sanità il rischio è ancora peggiore, perché ciò che viene messo in discussione è il diritto alla salute.
Proprio in Grecia l’organizzazione mondiale della sanità ha riscontrato una pericolosa regressione delle condizioni sanitarie per una popolazione sempre più povera, soprattutto per fanciulli ed anziani. Con le misure in atto ed annunciate dal governo Monti succederà la stessa cosa da noi. Prevenzione, controlli, cure saranno sempre più difficili da ottenere senza costi insopportabili per chi ha un basso reddito. E i poveri si ammaleranno di più.
Quelle che si stanno attuando sono misure di criminalità economica che colpiscono a fondo le nostre vite. Sono quelle imposte dalla logica dei Memorandum della Troika – Fmi, Bce, Ue – che il governo italiano ha accettato a Bruxelles, mentre l’opinione pubblica credeva il contrario. Complice una stampa che quei giorni parlava solo di calcio e mescolava in piena malafede Monti e Balotelli.
E così andiamo verso la Grecia mentre ci spiegano che stiamo andando nella direzione opposta. È la più grande truffa politico mediatica del dopoguerra.
Giorgio Cremaschi
(5 luglio 2012)

Stiglitz: “L’accordo di Bruxelles serve solo a prendere tempo, mentre nessuno pensa alla crescita”

Posted by keynesblog
C’è poco da stare allegri, nonostante l’immediata euforia che è seguita alla conclusione del summit europeo sulle misure salva-euro: la voce di Joseph Stiglitz si unisce al diffuso scetticismo di molti economisti circa la possibilità degli accordi presi a Bruxelles di ristabilire la fiducia dei mercati nella moneta unica.

Secondo Stiglitz l’euro è ad oggi come un condannato a morte al quale è stata rinviata l’esecuzione. Insomma, è sì vero che sono stati compresi alcuni meccanismi di ordine finanziario – come l’inefficacia di azioni di prestito alle banche per salvare gli stati e di prestiti agli stati per salvare le banche – ma non è questo il cuore del problema e si tratta in definitiva di questioni molto semplici a cui si sarebbe potuto arrivare ben prima.
Ben poco si è fatto sull’aspetto cruciale della crisi, cioè la crescita economica, sapendo peraltro che non può essere certo conseguita con piani di austerità. Quel po’ che esiste nel merito, la ricapitalizzazione della Banca Europea degli Investimenti, è ben poca cosa ed è stato fatto troppo tardi, sottolinea Stiglitz. E i mercati badano al sodo: sanno che questo non può funzionare, che l’austerità non funziona, e quindi i tassi di interesse sul debito non scenderanno. La Germania nel frattempo sembra far finta di nulla e insiste con le sue ricette nefaste che non possono che portare al fallimento degli stati in gravi situazioni debitorie.
Ciò che davvero può garantire la solidità del sistema finanziario dei paesi in difficoltà – sostiene il premio Nobel – è la ripresa di un robusto processo di crescita. Nessuna regola, per quanto sofisticata, di controllo del sistema bancario può fare altrettanto. E’ necessario in tal senso ragionare sul fatto che i paesi in crisi finanziaria non riscontravano problemi prima della crisi. Allo stesso tempo la Germania dovrebbe rendersi conto che anche a sua economia dipende dalla tenuta dell’euro e dal buon andamento delle economie periferiche.
Debbono e possono essere messe in campo politiche di intervento alternative, questo è il punto, conclude Stiglitz. Temporeggiare è ormai pernicioso, tanto più che la sfiducia dei mercati non è specifica delle economie deboli della periferia, ma è riferita alla capacità che l’intero costrutto dell’euro sia in grado di funzionare efficacemente, dimostrando di saper riappianare i suoi squilibri.
Leggi l’articolo su Project Syndicate (in Italiano)

La storia si ripete

Riflessioni sulle conclusioni del summit europeo del 28-29 giugno 2012

di Andrea Fumagalli

La chiusura del vertice europeo di Bruxelles del 28-29 giugno è stata salutata dalla stampa europea, e in particolare da quella italiana, come una svolta. La conferenza stampa finale ribadiva il cambiamento. Ma siamo certi che sia proprio così?

Due erano i principali punti all’ordine del giorno. Il primo doveva trattare delle situazioni nazionali che vivevano una particolare situazione di crisi, soprattutto nell’ambito del mercato del credito. I riflettori erano puntati su Grecia, Spagna e Cipro. Con riferimento alla Grecia, si trattava di dare una risposta alla richiesta del nuovo governo ellenico, pressato da una crescente opposizione politica, di diluire nel tempo il piano, ancora di lacrime e sangue, di rientro del debito pubblico, in un contesto, comunque, in cui il commissariamento europeo, ledendo la sovranità greca sul solo lato della spesa, garantiva il reperimento della liquidità necessaria al pagamento degli interessi (da usura) alle banche creditrici di Germania e Francia. Ebbene, molto semplicemente tale richiesta non è stata nemmeno presa in considerazione. Si è preferito soffermarsi, invece, sul problema della sostenibilità finanziaria delle banche cipriote e spagnole. Al riguardo, con particolare riferimento alle banche spagnole (declassate più volte dalle agenzie di rating), oltre a confermare l’intervento dell’ammontare di circa 62 miliardi di euro deciso nelle settimane scorse sotto il patrocinio della BCE, si è provveduto a garantire e a definire il processo di ricapitalizzazione di alcune banche, anche attingendo al Fondo Salva Stati (come già dichiarato dal governatore Draghi). Questo aspetto è legato a una delle richieste che da più parti è stata sollevata negli ultimi giorni: quella di procedere a una unione bancaria europea.

L’idea è tanto semplice quanto perversa. Poiché, dopo 20 anni, ci si è resi conto che la sola Unione Monetaria non era sufficiente a fare da scudo alle pressioni speculative (nonostante quanto dichiarato più volte), allora si propone (sempre negli ambiti dell’oligarchia finanziaria) che un maggior coordinamento bancario a livello europeo possa costituire una sorta di scudo in grado di prevenire comportamenti opportunistici e speculativi. Di fatto, come ai tempi di Maastricht, lo scopo è quello di rinsaldare la struttura della governance finanziaria, oggi perno su cui ruota il processo di valorizzazione capitalistica. Tale strategia viene giustificata con l’argomentazione, tipicamente neo-liberista, che è il “mercato” come entità metafisica a volerlo. Nella realtà sappiamo bene che si tratta dell’ennesimo tentativo ribadire la forza dei dispositivi dominanti, nella stretta della crisi. Errare humanum est, perseverare diabolicum.

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