Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 14 settembre 2013

GRECIA:

Dove Europa scende agli inferi. E tutti se ne fregano

1329632532125PARIGI MANIFESTA
E’ un po’ che non si sente più parlare di Grecia. Non perché la situazione abbia smesso di essere critica ma perché la povertà ha smesso di fare notizia. Cosa dire “di nuovo” d’altronde: la gente è sempre in fila per il pane, la miseria corrode la società, la incattivisce, non mancano gli scontri violenti, gli scioperi sono ormai abituali, la frustrazione della popolazione aumenta, la politica non trova soluzioni e lo Stato si fa sempre più autoritario. Ma in fondo chi se ne frega. La Grecia, ormai, non sembra essere nemmeno più Europa. Per noi è dall’altra parte del mare ma ci interessiamo più dell’India. La nostra stampa tace, forse per farci stare tranquilli, forse per incuria e sciatteria.
Fondamenta d’ingiustizia
Ci sono i dati, aridi e feroci, a raccontare la tragedia: la disoccupazione è aumentata fino al 27,9% a giugno. La natalità è diminuita del 10% dal 2009. I suicidi sono raddoppiati dal 2009. La proroga ottenuta dal governo di Atene per raggiungere il pareggio di bilancio vale poco: già si parla di un nuovo bailout. Oltre alla politica di tagli quello che manca è una strategia per rilanciare il paese che da tre anni non arresta la propria discesa agli inferi. Anche il quotidiano greco Khatimerini si interroga: per salvare l’Europa si vuole sacrificare la Grecia? Ma l’Europa che nascerà avrà fondamenta d’ingiustizia.
Tra cibo scaduto e malnutrizione
Per combattere la crisi (e la malnutrizione che colpisce sempre più persone, anche bambini) si è recentemente acconsentito alla vendita di cibi scaduti nei supermercati. Sappiamo tutti che la data di scadenza anticipa, in genere, l’effettivo degrado del prodotto, ma ciò nulla toglie alla gravità di una simile scelta. Oltre a essere un’offesa alla dignità dei greci. Un popolo che ha pagato oltremisura le proprie responsabilità e che ora va salvato.
Oxfam (Oxford Commitee for Famine Relief) è una confederazione di organizzazioni non governative che si occupa della lotta alla povertà e alla fame. In un recente report ha lanciato il suo allarme, già perché Oxfam adesso si trova oggi a lavorare in Grecia. Nella nostra Europa, non nella miseranda Africa o in qualche tormentato paese dell’Indocina. E il messaggio è chiaro: non solo la Grecia ma l’Europa tutta si sta trovando ad affrontare un decennio perduto (lost decade) dal quale uscirà più povera: l’aumento dei poveri oscillerà tra i 15 e i 25 milioni di persone nel 2025 (fra poco più di dieci anni, domani insomma).
L’austerità che ci rende poveri
Max Lawson, uno dei responsabili di Oxfam, ha dichiarato al giornale britannico The Guardian che “Oxfam è stata fondata nel 1942 a causa della carestia in Grecia. Mai avremmo pensato di doverci tornare più di settant’anni dopo trovando il paese in condizioni terribili”. E denuncia: “Le misure di austerità, che in passato hanno portato al collasso paesi dell’America latina o dell’Asia, stanno uccidendo l’Europa. I soli beneficiari di tali misure sono i ricchi, quel 10% della popolazione che sta aumentando il proprio tenore di vita”. E conclude: “Il modello europeo è sotto attacco“.
E l’Italia sarà la prossima Grecia. Non lo dice nessun rapporto ufficiale, non lo dice il presidente di Bankitalia né il ministro delle Finanze. Lo dice la direttrice delle poste di una piccola cittadina di provincia, 20mila abitanti.
E mentre la nostra civiltà cade noi stiamo a guardare, come inebriati. La fine ha una sua voluttà. E noi europei amiamo la tragedia. Nel teatro di Epidauro mettono in scena la fine. Ma il vero dramma è che non c’è nemmeno un cane a vedere Europa che scende agli inferi.

giovedì 12 settembre 2013

CIA: armi chimiche in mano israeliana


CIA: armi chimiche in mano israeliana dal 1983
Un reportage di Foreign Policy svela documenti dell'intelligence USA, secondo i quali Israele produce sarin e gas chimici da trent'anni.

Redazione
mercoledì 11 settembre 2013 20:18


di Emma Mancini

Betlemme, 11 settembre 2013, Nena News - Mentre il mondo guarda alla Siria e Washington si arrampica sugli specchi per dimostrare l'utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Bashar al-Assad, spuntano nuove rivelazioni sugli arsenali in mano israeliana. In un reportage di Foreign Policy, pubblicato due giorni fa, compaiono documenti della CIA secondo la quale nel 1983 Tel Aviv ha avviato un vasto programma per rifornirsi di armi chimiche.

Per molti una notizia che fa poco scalpore: tra il 2008 e il 2009 la Striscia di Gaza subì un attacco senza precedenti, oltre 1.400 vittime. Durante Piombo Fuso, l'aviazione e l'esercito israeliano utilizzarono fosforo bianco contro la popolazione civile, un'accusa che Israele ha sempre rigettato ma che troverebbe conferma nelle prove raccolte da medici e infermieri, improvvisamente trovatisi di fronte a ustioni e ferite mai viste prima.

Secondo le rivelazioni di Foreign Policy, l'intelligence statunitense ritiene che Israele ha immagazzinato armi chimiche e biologiche già da trent'anni, al fine di completare il proprio arsenale nucleare. A dimostrarlo, una serie di documenti risalenti al 1983, chiusi negli archivi della CIA.

L'anno prima, nel 1982, satelliti spia americani individuarono "un probabile centro di produzione di gas nervino a Dimona, nel deserto del Negev", luogo che da anni viene identificato come magazzino nucleare israeliano. "Non possiamo confermare se Israele possiede agenti chimici letali, ma molti indicatori ci portano a ritenere che ha a disposizione sia gas nervino persistente e non persistente - si legge in uno dei documenti CIA - Si ritiene che esistano anche altre produzioni chimiche all'interno della ben sviluppata industria israeliana". Tra queste il famigerato sarin, gas che secondo Washington sarebbe stato utilizzato dal regime di Damasco a Ghouta, Damasco, il 21 agosto scorso.

Per ora Israele non commenta: l'ambasciata di Tel Aviv a Washington non ha rilasciato dichiarazioni in merito al reportage. Israele è uno dei quattro Paesi possessori di armi nucleari non riconosciuti come tali nell'ambito del Trattato di Non-proliferazione Nucleare. Tel Aviv non ha mai rilasciato dichiarazioni in merito, ma si ritiene che abbia avviato il proprio programma nucleare subito dopo la fine della Guerra dei Sei Giorni, nel giugno 1967. E sebbene non esistano dati certi, si stima che Israele possieda dalle 70 alle 400 armi nucleari.

Appare comunque stravagante l'attività di indagine della CIA sull'arsenale chimico israeliano: i servizi segreti americani hanno avviato la produzione e la sperimentazione di agenti chimici in casa israeliana, a partire dagli anni '70. Forse, quello che la CIA non sapeva era il proseguimento dell'attività nucleare e chimica israeliana, tenuta nascosta, ma che per molti altro non è che un segreto di Pulcinella.

Fonte: http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=86128&typeb=0&CIA-armi-chimiche-in-mano-israeliana-dal-1983.

Le conseguenze del disamore

Autore: Mimmo Porcaro - controlacrisi
                
A fine primavera eravamo in pochi, a sinistra, a sostenere la necessità di rompere con l’euro, se non con l’Ue in quanto tale, facendo finalmente eco a coloro che già dall’inizio – onore al merito – avevano capito che l’euro era una iattura per i lavoratori europei. A fine estate il numero dei critici della moneta unica di colpo si è accresciuto: sarà la presa di posizione di un leader come Lafontaine e di alcuni dirigenti spagnoli, sarà la rottura delle reticenze da parte di Le Monde Diplomatique, sarà la durezza della realtà, fatto sta che ormai anche tenaci europeisti come Alfonso Gianni sono costretti ad immaginare, quantomeno, una pur improbabile via di mezzo tra euro e no. E fatto sta che, pur prendendo garbatamente le distanze dalle posizioni anti-euro, Mario Candeias – figura di spicco della Fondazione Rosa Luxemburg – deve dichiarare che nulla ci si può attendere dai lavoratori tedeschi (alleati agli esportatori del loro Paese) e che una riforma dell’Ue può partire solo dal sud Europa: che è come dire implicitamente che un “movimento europeo” è impossibile e che si deve ripartire da un’alleanza tra nazioni che rivendicano almeno una parte della loro sovranità.
Questo coro di critiche all’Unione (tanto ampio da includere anche studi di provenienza bocconiana: si veda, in Costituzionalismo.it, il recente lavoro di Luca Fantacci ed Andrea Papetti) ci esime, almeno per questa volta, dal tornare sui motivi che le legittimano; così come ci riserviamo di analizzare in seguito le diverse proposte di uscita totale o parziale dalla situazione attuale. Per adesso vorremmo solo indicare alcune conseguenze di questo improvviso “disamore” verso l’euro, ossia alcune implicazioni di quelle proposte, spesso sottovalutate dai loro stessi autori.
Prima implicazione: ogni seria, pur se moderata, riforma della situazione attuale porterebbe alla dissoluzione della zona euro e quindi probabilmente alla fine dell’Unione. E ciò per il semplice fatto che la frazione dominante del capitalismo europeo (quella bancaria) ed il Paese dominante dell’Unione (la Germania) sono certamente convinti fautori dell’euro, ma solo dell’euro così com’è: perché la sua stabilità garantisce i creditori; perché la sua netta sottovalutazione rispetto ai valori dell’economia tedesca (una vera e propria svalutazione stabile) avvantaggia gli esportatori di quel Paese; perché l’impoverimento indotto nei paesi debitori, anche se da una parte fa diminuire la domanda di merci tedesche, dall’altra favorisce nettamente la centralizzazione del capitale nel nucleo forte d’Europa. Quindi questo euro va bene, ma ogni altra forma no. Per conseguenza anche chi non se la sente di proporre decisamente la rottura e pensa piuttosto ad una riforma dei trattati o ad una moneta comune deve prepararsi a gestire, in caso di vittoria, la crisi ed il collasso dell’intera costruzione comunitaria. E se non lo fa è un irresponsabile. Siamo troppo netti, troppo dogmatici? Escludiamo a priori tendenze riformiste nel capitalismo tedesco? No: diciamo soltanto che al momento non si vede nessuna, ma proprio nessuna di queste tendenze (nemmeno, per intenderci, nei socialdemocratici tedeschi), che al momento dalla Germania possono venire solo alcune concessioni tattiche e che una tendenza riformista potrebbe eventualmente mostrarsi solo di fronte ad una decisa posizione dell’Europa del sud, del tipo “O si cambia o ce ne andiamo”. Siamo in grado di fare una proposta del genere, magari anche in sede di elezioni europee?
Seconda implicazione: è ora che il nostro Paese ripensi radicalmente la propria collocazione internazionale, affrancandosi dal rapporto servile con l’occidente neoliberista e rivolgendosi all’area mediterranea ed ai Brics, Paesi che per amore o per forza devono puntare su economie semi-regolate e sulla limitazione di quella libera circolazione dei capitali che ha distrutto la forza dei lavoratori. Altrimenti passeremmo dalla padella dell’Ue alla brace della zona atlantica di libero scambio, divenendo terreno di conquista del capitale Usa. L’uscita da sinistra dall’euro richiede l’uscita dalla subordinazione atlantica e dunque anche dalla Nato: ogni diversa soluzione sarebbe peggiorativa. Quello che si prospetta è insomma un tornante assai serio e pericoloso, ma ineludibile. E, per coloro che sventolano la bandiera rossa, è una grande occasione per superare le condizioni strutturali che hanno reso impossibile, in Italia, ogni seria ipotesi socialista. Ma anche per coloro che si attestano sulla difesa della Costituzione la scelta è inevitabile, giacché i più grandi insulti alla Carta fondamentale sono venuti proprio dall’alleanza atlantica, con la guerra, e dall’Unione europea che eliminando la sovranità nazionale ha distrutto il presupposto elementare della democrazia e della Costituzione stessa. Saremo consapevoli della necessità e della durezza della scelta? Sapremo costruire la forza politica ed il consenso popolare necessari a gestire questo passaggio davvero epocale?
Terza implicazione: come i preti che, per tener buoni borghigiani e villici, facevano affrescare le chiese medievali con truculente immagini dell’inferno, i fanatici dell’euro ci terrorizzano con l’elencazione delle infauste conseguenze della rottura, ossia svalutazione galoppante, crollo di tutti gli indicatori interni, salari falcidiati, miseria, fame. Si tratta di palesi esagerazioni contro le quali è doveroso polemizzare sempre, senza però cadere in una opposta e colpevole faciloneria. L’uscita dall’euro implicherebbe davvero, in un primo momento, seri problemi, ed è anche per questo che il Paese sceglierà questa soluzione solo quando sarà disperato. Tali problemi potrebbero essere risolti o attenuati solo da misure di tipo semi-socialista: la limitazione dei movimenti del capitale, la protezione dei salari, la nazionalizzazione delle imprese strategiche e soprattutto delle banche (che altrimenti sarebbero facile preda di acquisizioni ostili in quanto colpite dalla rivalutazione del loro debito con l’estero); la centralizzazione della politica industriale. Insomma: una pur parziale prospettiva socialista non è più un pio desiderio di alcuni di noi ma una necessità imposta dalle esigenze di sopravvivenza del Paese. Il che ci costringe a fare sul serio e a non parlare più solo di diritti e reddito, ma anche di proprietà e di organizzazione della produzione. Ne saremo capaci?
Quarta implicazione: tutto quello che si è detto sopra presuppone un significativo ampliamento e mutamento del nostro fronte sociale. Bisogna prendere atto che i lavoratori stabilmente occupati, anche se sono un elemento essenziale per la trasformazione del Paese, sono al momento alleati col capitale europeista e che le strutture sindacali e politiche a cui essi fanno normalmente riferimento sono vere e proprie cinghie di trasmissione dei desideri di quel capitale. Questa frazione di lavoratori non può più, almeno per adesso, essere considerata come la guida del nostro fronte, ed il rapporto col mondo del lavoro non può risolversi tutto nella relazione con questo o quel sindacato maggioritario, fosse anche quello più “di sinistra”. Pur continuando la nostra battaglia politica all’interno del lavoro stabile e dentro/contro i sindacati maggioritari, la nostra principale cura deve essere quella di aggregare lavoratori precari, atipici ed autonomi, e comunque tutti coloro che sono costretti a proporre soluzioni radicali della crisi attuale. E deve essere quella di sfondare il blocco sociale della destra aggregando (oltre a parti non irrilevanti della piccola-media impresa esportatrice) le frazioni più deprivate del proletariato e i piccoli imprenditori già berlusconiani attorno ad un programma che, pur mantenendo fermo il valore della lealtà fiscale, rimandi il pieno recupero della piccola evasione ad una futura fase di ripresa economica, e riduca sensibilmente le sanzioni attuali. In un primo momento i soldi non vanno rastrellati trai (numerosi) piccoli evasori, ma presi ai grandi evasori e alle banche (nazionalizzazione) e sottratti capitale finanziario internazionale (ridefinizione del debito e nuovo ruolo della Banca d’Italia). Solo dopo si potrà procedere ad una graduale regolarizzazione fiscale e ad un graduale superamento delle arretratezze della piccola impresa. Sapremo uscire dalle vecchie abitudini mentali ed immaginare un fronte sociale davvero nuovo, capace di farci divenire, potenzialmente, forza maggioritaria nel Paese?
Se risponderemo positivamente a tutte queste domande la fine dell’euro segnerà la nascita di una vera e nuova sinistra italiana, inevitabilmente orientata al socialismo. Altrimenti sarà gestita da qualche capopopolo avventurista o rimandata sine die dall’ineffabile PD: in ogni caso la conseguenza sarà la rovina dell’Italia.

mercoledì 11 settembre 2013

QUARANT'ANNI FA il Cile



storie - SERGIO VUSKOVIC ROJO, IL PRIMO DELLA LISTA
 
11 settembre '73. Pinochet ha preso il potere, Allende si è ucciso. A poche ore dal golpe, il sindaco di Valparaiso viene condotto nella nave scuola della Marina militare e torturato per 9 giorni
Cile, 11 settembre 1973. Sergio Vuskovic Rojo, sindaco comunista di Valparaiso, viene condotto nella nave scuola della Marina militare cilena alle due del pomeriggio. Da poche ore, il generale Pinochet ha preso il potere con un colpo di stato. Il presidente socialista Salvador Allende ha preferito uccidersi piuttosto che arrendersi. Per nove giorni, Vuskovic non sarà che un corpo in catene nelle mani dei torturatori. Cosa succede alla mente sotto tortura? Vuskovic, da noi intervistato nel 2007, lo racconta in poche pagine di intensa riflessione dal titolo Un viaggio molto particolare, pubblicato nei Quaderni di via Montereale (N. 19-2007).

Cosa ricorda del periodo precedente il colpo di stato militare?
La grande partecipazione popolare alla vita pubblica, l'enorme consenso, le nazionalizzazioni. Ricordo il presidente Allende, un uomo di grande spessore politico e umano. Lo avevo conosciuto nel '52 insieme a Neruda, che era appena tornato dall'esilio. Ricordo il mio ultimo incontro con il poeta. Come sindaco di Valparaiso, ero andato a portargli una medaglia d'oro a nome del comune. Era malato, ma continuava a fare progetti. Mi ha detto: guarda, l'anno prossimo avrò 70 anni, sto scrivendo 7 libri, uno per ogni decade. Dopo, quando è morta la moglie Matilde, li ha pubblicati, era riuscito a finirli prima di morire. Il 26 giugno del 2008, i cento anni dalla nascita, torneremo a chiederci come abbia potuto Pinochet, un essere che sapeva solo latrare, guidare una rivoluzione conservatrice di quelle proporzioni.

Cosa accadde nelle ore del golpe?All'epoca ero un dirigente operaio del Partito comunista cileno, membro del comitato regionale di Valparaiso, di cui ero sindaco. Per questo motivo, mi hanno arrestato subito dopo il golpe, faceva parte del piano generale. Sembrava fosse scoppiata la Terza guerra mondiale, arrestavano chiunque senza motivo. Mi hanno portato alla nave scuola della Marina militare cilena e torturato per tre giorni. Ero legato a un palo, in mutande, le mani dietro la schiena. Mi applicavano scariche di corrente elettrica su tutto il corpo, soprattutto sui testicoli, il petto e la schiena. Poi, arrivava la gragnuola di colpi, calci e pugni, che mi lasciava lividi violacei dappertutto. Gli ufficiali facevano a turno, non so chi fossero, né quanti, perché avevamo tutti la testa coperta da un cappuccio. Alcuni torturavano ferocemente, altri meno. Quando entravano nei camerotti per colpirci, alcuni lo facevano con violenza, altri mettevano il piede in modo da farti meno male. Sono stato lì fino al 19 settembre. Poi, insieme ad altri compagni, sono stato trasferito sull'isola di Dawson, a sud del Canale di Magellano.

Come vi trattavano sull'isola?Era un campo di concentramento per soli uomini, l'isola apparteneva alla Marina militare. Eravamo ai lavori forzati. Ogni 15 giorni cambiava la guardia, la peggiore era quella dell'esercito, la forza armata il cui comandante in capo era Pinochet, quando era di turno la Marina o la forza aerea o i carabinieri era meno peggio. Cercavamo di riunirci e parlare, lontano dai soldati. Pioveva sempre, oppure grandinava o nevicava. Eravamo 42, due o tre sono morti per il freddo, i postumi delle torture e la cattiva alimentazione. Se non ci avessero trasferito in un campo di concentramento al centro del paese, saremmo morti tutti. Dopo, sono rimasto 8 mesi in un campo e altri sei in un altro prima di andare in prigione a Valparaiso. Ho fatto tre anni.

Già in quei primi mesi del golpe, molti prigionieri venivano uccisi o fatti scomparire nelle prigioni segrete. Lei come ha fatto a salvarsi?Giocarono, credo, alcuni fattori d'ordine generale e personale. Intanto, il nostro era stato un governo giusto, che non aveva avuto prigionieri politici, aveva rispettato i diritti dell'opposizione, compreso il ruolo della chiesa cattolica. Anche nelle forze armate, certi ammiragli erano d'accordo con le nazionalizzazioni del rame, perché pensavano che se lo stato cileno avesse avuto più soldi, ne sarebbero andati di più alla difesa. E non tutti i militari erano fascisti, solo che, da noi, le forze armate seguono gli alti comandi in modo prussiano. Quanto a me, non avevo mai rimosso un funzionario dell'opposizione, ed ero amico del comandante in capo della Marina militare. So che aveva chiesto di non torturarmi. Non gli hanno dato retta, e hanno torturato anche mio figlio di 17 anni, che era studente ed è rimasto 9 mesi in carcere. A mia moglie e a mia figlia, però, non hanno fatto del male. A casa ho ancora tutte le mie opere marxiste: questo almirante Merin ne aveva fatto una questione fra uomini, di riconoscimento del coraggio e così non mi aveva distrutto la casa. Intanto, l'università di Bologna mi aveva inviato al campo di concentramento un contratto di lavoro che avevo firmato, e il regime mi ha lasciato uscire dal paese. L'importante, per loro, era che non andassimo a chiedere rifugio in un'ambasciata, che non ci fosse troppo rumore sul piano internazionale.

Il suo libro racconta le astuzie della mente per resistere alla tortura, la lotta psichica fra il comunista prigioniero e quello che lei chiama l'Uccello torturatore. Un'esperienza quasi mistica.Quando due torturati si incontrano non si parlano, si abbracciano, e così si dicono tutto. Io, però, ho voluto che anche altri potessero capire. Dopo aver vissuto un'esperienza-limite, percepisci in modo diverso la realtà. Ti senti portatore di un'intima presenza, estranea al mondo quotidiano com'era per te prima. All'esiliato che sia passato attraverso la tortura, nei primi tempi di libertà, capita di rifiutare tutto ciò che è straniero. In quel modo distorto, rifiuta l'"altro" che lo ha torturato, l'altro-carnefice. Ma poi, si è preda di un sentimento ambivalente: da una parte si prova estraneità verso chi non ha vissuto quell'esperienza, dall'altra si avverte il bisogno di comunicarla. E però ci si accorge che mancano le parole: soprattutto quando la lingua del dolore è ormai solo un'invocazione, un modo di testimoniare un'esperienza, senza odio o vendetta. Quei codici della cultura comune, che appiattisce tutto, che rende incomunicabile l'esperienza del poeta, la vera percezione dell'altro, non sono adatti a trasmetterla.

Forse perché la tortura, come la morte, è un viaggio nel dolore dai tratti unici che nessuna tecnica di resistenza può anticipare fino in fondo.
Il linguaggio ha difficoltà a far capire la tortura perché chi la subisce è di fronte a un mistero, al terrore psicologico nell'immaginare la scarica elettrica - soprattutto i colpi ai genitali - verso cui l'esperienza del dolore precedente non fornisce abbastanza difese. Il corpo anticipa quel terrore durante le sessioni di interrogatorio in cui un carnefice minaccia, e magari un altro fa la parte del "buono". Teso fino al parossismo, il corpo immagina l'arrivo del colpo. L'Io più nascosto sente che la malvagità di quello che ti interroga "con le buone" è in agguato. "Dov'è nascosto tuo figlio?" mi chiedevano. "E come faccio a saperlo se sono sempre stato qui?" rispondevo. "Ti rinfresco io la memoria" diceva l'Uccello Torturatore. Allora io cercavo di ricordare dei versi in lingua basca che avevo letto tanto tempo prima. In quale romanzo si trovavano? Forse in un'opera di Baroja. Com'era la traduzione? Per cercarla, dovevo assolutamente ricordare tutto il romanzo dal principio. Poi, arrivavano altre scariche. "Dove sono le armi?" mi chiedevano. "Ve lo dirò", rispondevo. "Ecco, così va bene". "Si trovano in caserma", dicevo. "Ci prendi per i fondelli", urlavano, e giù altre scariche. E allora facevo finta di gridare di più quando la corrente mi colpiva sulla schiena, dove invece sopportavo meglio, e a volte ci cascavano, ma non sempre. Quello che vale sempre, è però la determinazione iniziale: la libera scelta di non consegnarsi al carnefice e di andare fino in fondo. Per me, questo ha voluto dire viaggiare fino al limite della spoliazione dell'Io, verso il vuoto mentale assoluto: il pensiero svanisce, l'Io si paralizza e il suo ultimo attimo cosciente è quello in cui constata la perdita della sua identità ontologica. Dopo aver accolto il dolore, gli opposti si uniscono, diversi ma coesistenti, in una sintesi perenne che si riproduce. L'unità essenziale è completa: mentre una delle due parti soffre, l'altra prova piacere; mentre una cammina, l'altra rimane immobile; mentre una parte scende nella tomba, l'altra rinasce a nuova vita. Se la morte è solo una parte di questo corpo generale, non è così terribile. Se la tua carne è parte della carne del mondo che vive e si trasforma, ti chiedi: esiste forse anche una mente universale, in cui la tua coscienza non è che una piccola goccia nel mare? E allora, ecco che non hai più paura. Provi pietà persino per l'Uccello Torturatore, che ti costringe a un breve viaggio di ritorno per riadeguare il tuo sistema di difesa. Ora ti appare per quello che è: lo strumento di un sistema sociale dominante che per esistere deve ridurre le persone al grado zero dell'umano. Ma un sistema così è storicamente condannato.

Perché l’11 settembre 1973 nacque il mondo nel quale viviamo

11 set 2013

crearGennaro Carotenuto


Sarebbe bello poter dire che il «pueblo unido» abbia infine vinto in Cile e che le grandi vie dove passano gli uomini liberi si siano riaperte, come aveva vaticinato Salvador Allende nel suo altissimo discorso a braccio dallo studio della Moneda dove di lì a poco si sarebbe tolto la vita a testimoniare il suo sacrificio in nome della legalità, della democrazia e del popolo cileno. Allo stesso tempo sarebbe stato bello che quel «no pasarán» della guerra civile spagnola si fosse concretizzato almeno nella fine della tirannia franchista al momento della sconfitta del nazi-fascismo in Europa. Ricordare che Francisco Franco e Augusto Pinochet siano morti impuni nel loro letto non dice abbastanza di quanto questi abbiano trionfato. Lasciamo da parte il gallego e concentriamoci su quanto il Cile attuale sia ancora il trionfo pieno di Augusto Pinochet.
Oggi tre cileni su quattro dichiarano di non avere opinioni politiche. E questo è il trionfo più grande della dittatura e non solo in Cile iniziò un riflusso nel quale la militanza politica perse il senso che aveva avuto nei due secoli precedenti. Più della metà si considerano dei «perdenti» del modello economico vigente, quello neoliberale, ma la maggior parte di loro non saprebbe indicare un’alternativa o una maniera di mitigare le disuguaglianze. Non si considerano vittime. Incolpano se stessi dell’essere perdenti, perché non hanno saputo cogliere le enormi opportunità di uno dei paesi più aperti al mondo. Soprattutto sono stati indotti a pensare che tale modello sia naturale e che governi l’umanità dal tempo di Adamo ed Eva. Le ingiustizie non sono più ingiustizie. Semplicemente così va il mondo e chi siamo noi per pensare di cambiarlo?
I governi democratici succedutisi alla fine della dittatura hanno amministrato bene l’eredità pinochetista, diligentemente pattuita con la transizione che lascia intatta la costituzione scritta dal tiranno. In un paese ordinato, luccicoso di modernità, la forbice tra ricchi e poveri (il 10% più ricco possiede quasi il 60% delle ricchezze, quello più povero un quarantesimo) è costantemente aumentata anche negli ultimi decenni. Non è compito della democrazia ridurre le disuguaglianze. Come buoni amministratori di condominio gli inquilini della Moneda devono far andare bene le cose, cambiare le luci delle scale, assicurare la lucidatura dei pomelli delle porte, rassicurare gli investitori stranieri su quante poche tasse pagheranno e quanto pochi diritti hanno i lavoratori. Se dovessimo indicare una riforma civile in quasi un quarto di secolo di governi «riformisti» viene ancora in mente l’introduzione del divorzio da parte di Ricardo Lagos.
In Cile Milton Friedman e i suoi Chicago Boys, oltre un lustro prima che divenisse mondiale la rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, dimostrarono che al massimo di libertà economica potesse corrispondere il minimo di libertà civili. Quel giorno alla Moneda non poteva essere chiaro a Salvador Allende dove il mondo stesse andando. Lui, un uomo figlio della Seconda internazionale, entrato in parlamento durante la guerra civile spagnola, che credeva fermamente che il socialismo potesse essere realizzato in pace, libertà e democrazia, non poteva neanche immaginare che il golpe significasse chiudere scuole e ospedali, privare gli anziani di pensioni dignitose, espellere con rette altissime chiunque non fosse figlio delle classi dirigenti dalle università.
Allende non fa in tempo a sapere e non teme che il neoliberismo, che sarà la cifra della dittatura militare, spazzerà via la convivenza civile così come lui la concepisce. Confida nei sindacati, nei partiti, nelle rappresentanze di classe e non sa neanche immaginare una società non mediata da quelle strutture. Don Salvador pensava che nel Cile e nel mondo nessuno dovesse essere lasciato indietro ed era la punta più avanzata di un pensiero umanista che ha attraversato tutta la nostra modernità per finire bombardato quel giorno alla Moneda e divenire inattuabile e fuori moda. Il mondo che venne dopo, il mondo nel quale viviamo, pensa che sia giusto, naturale, utile lasciare indietro moltitudini. Non è un caso che laddove il medico Allende aveva concesso a tutti i bambini cileni la giusta razione quotidiana di latte una delle prime “riforme” di Pinochet fu negare quel latte a milioni di bambini che non potevano permetterselo.
Con quali parole dovremmo spiegare a Salvador Allende il Cile attuale nel quale i ricchi hanno una sanità privata tutta per loro e non contribuiscono affatto alla sanità pubblica alla quale sono condannati i poveri con le classi medie che si svenano per avere accesso a servizi migliori? Con quali parole dovremmo spiegare a Víctor Jara un’università del Cile sventrata, esclusiva ed escludente?
Smettete di far girare sul piatto quel vecchio vinile degli Inti-illimani che avete tirato fuori dalla soffitta stamane. Il Cile attuale, il mondo attuale, l’Italia attuale sono il trionfo di Augusto Pinochet.

La trattativa Stato-Berlusconi

 
È tutto chiaro, limpido, ostentato e senza nessuna vergogna. Lo Stato è ricattato e piegato ai voleri delle mafie e dei delinquenti. Mai come in questo ultimo periodo si è assistito al blocco completo delle istituzioni per il volere del padrino politico più importante degli ultimi decenni.
Possiamo giocare e fare finta che sia tutto normale, possiamo evitare di guardare realmente le cose e i fatti di questi ultimi giorni, possiamo disinteressarci, ma quello che l’Italia sta subendo è uno dei fatti storici più eclatanti della nostra Repubblica.
Sappiamo tutto e per molti questa realtà è normale.
È normale che Berlusconi abbia fatto un patto con Cosa Nostra. Leggere le motivazioni della Sentenza della Corte di Appello di Palermo, relativa alla condanna di Dell’Utri, e vedere nero su bianco che Berlusconi aveva ed ha un patto concreto con Cosa Nostra dovrebbe far venire il vomito a chiunque e soprattutto alle massime istituzioni.
Primo fra tutti il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Invece no, nel paese di pinocchio tutto è permesso. Come se non bastasse ora, come un vero Al Capone, Berlusconi è stato condannato definitivamente per frode fiscale. Ma definitivamente per un padrino politico non esiste.
Mai si poteva pensare che dopo tre gradi di giudizio, la realtà fosse sempre distorta a piacimento.
Proviamo noi comuni mortali ad evadere il fisco e vediamo in quanto tempo andiamo dentro in carcere. Se riuscite, provate a chiedere a Re Giorgio un incontro al Colle. O magari per Voi fate andare il vostro amico dipendente o prestanome. Fatelo andare al Colle a chiedere la Grazia. Su provate.
Se non bastasse provate a dire sui giornali e le Vostre Tv che la condanna è politica e che non corrisponde alla realtà. E se vogliono portarVi dentro, dite che non è possibile perché avete tanti amici, o avete tanti mi piace su facebook (citazione di Crozza ieri a Ballarò), o siete amministratori di un grande condominio, o avete preso i voti in convento.
Follia pura. Ma detta e ridetta dai servi del padrino in ogni mezzo di comunicazione. Senza un minimo di dignità e vergogna. Parole troppo alte per certi personaggi. Ormai assistiamo a tutto e al contrario di tutto.
Non si può più nascondere il Patto Stato-Mafia e fratellanze deviate.
Napolitano che instancabile continua a fregarsene della Costituzione e inesorabilmente fa da garante alle famose grandi intese. Grandi intese che devono essere chiamate con il giusto nome.
Compromesso di Governo per salvare Berlusconi e i suoi trasversali interessi.
Non c’è più bisogno di nascondere certe cose. Sono clamorose ed evidenti. Basterebbe leggere le varie dichiarazioni dei vari Schifani e Alfano per capire in che mani siamo. E come un Ministro dell’Interno si permetta di affermare certe cose.
L’Italia va affondo e la mafia si diverte. Lo Stato non esiste più e la Mafia ha preso il suo posto. È la più grande strategia di sempre. È lo Stato che è Mafia.
A breve la trattativa sarà terminata e porterà a questa definitiva conclusione.
Poco da discutere ancora, niente da dire sul Pd, non ha più senso. Niente più parole da spendere in difesa di nessuno. La legge è un qualcosa di astratto e non più applicabile al forte e al politico.
Ma la tua forza è l’appartenenza alla grande famiglia.
I giochi sono finiti. Sono riusciti a fare quello che volevano. La Trattativa è andata a buon fine. Non è più “Stato”.

martedì 10 settembre 2013

“La Costituzione stravolta nel silenzio”. L’appello contro la riforma presidenziale

Costituzione
 
Pubblichiamo l’appello contro il ddl di riforma costituzionale firmato anche da Alessandro Pace, Gianni Ferrara, Alberto Lucarelli, Don Luigi Ciotti, Michela Manetti, Raniero La Valle, Claudio De Fiores, Paolo Maddalena, Cesare Salvi, Massimo Siclari, Massimo Villone, Silvio Gambino, Domenico Gallo, Antonio Ingroia, Beppe Giulietti, Antonello Falomi, Raffaele D’Agata, Mario Serio, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, Aldo Busi, Salvatore Settis, Gian Carlo Caselli, Salvatore Borsellino, Roberta De Monticelli, Paolo Flores D’Arcais, Maurizio Viroli, Maurizio Crozza, Gustavo Zagrebelsky, Mario Almerighi, Franco Baldini, Bianca Balti, Aldo Busi, Adriano Celentano, Luisella Costamagna, Ennio Fantastichini, Ficarra e Picone, Fabrizio Gifuni, Gene Gnocchi e Valentina Lodovini, Davide Dileo “Boosta”, Milena Gabanelli, Daniele Luttazzi, Francesca Neri, Ottavia Piccolo, Claudio Santamaria, Giulia Maria Crespi, Massimiliano Fuksas, Gianna Nannini, Marco Tullio Giordana, Gino Strada, Giancarlo De Cataldo, Dario Fo, Andrea Occhipinti, Sandro Ruotolo e Vauro, Paola Turci, Donatella Versace, Gianni Boncompagni, Sabrina Impacciatore, Franco Battiato, Riccardo Iacona, Andriano Sansa, Gianni Vattimo, Gigi Proietti, Milly Bossi Moratti, Piergiorgio Odifreddi, Carlo Lucarelli, Carlo Freccero, Elio e le Storie Tese, Giovanna Maggiani Chelli, Lidia Ravera, Natalino Balasso, Paul Ginsborg, Luca Guadagnino, Luca Mercalli, Stefano Bonaga, Nicoletta Mantovani, Maurizio Maggiani, Marisa Laurito, Fabio Picchi, Armando Spataro, Associazione Addiopizzo, Giuseppe Cederna, Alessandro Haber, Enrico Lucherini, Nicola Piovani, Carlo Smuraglia, Lorella Zanardo, Giorgio Cremaschi, Aldo Nove, Isabella Ferrari, Bruno Gambarotta, Francesco Pinto, Marina Rei, Valeria Parrella, Ugo Mattei, Roberto Faenza, Giulio Casale, Nicola Di Grazia-Movimento per la Giustizia, Enrico Di Nicola, Paolo Rossi, Sergio Rubini, Carlo Verdone, Gianfranco Bettin, Sabrina Ferilli, Marco Revelli, Gianfranco Amendola, Roberto Esposito, Stefano Sollima, Andrea Camilleri, Anna Kanakis, Giovanni Veronesi, Ileana Argentin, Caparezza, Oliviero Toscani, Claudio Baglioni, Geppi Cucciari, Sandro Gerbi, Silvio Muccino, Federica Sciarelli, Carmen Llera, Valeria Golino, Loredana Taddei, Gherardo Colombo, Elio Germano, Claudia Zuncheddu, Dacia Maraini, Stefano Benni, Maurizio Scaparro, Serena Dandini, Paolo Sollier, Vinicio Capossela, Francesco Rosi, Paolo Sorrentino.

Lucarelli, Salvi, Ingroia, La Valle, Giulietti e altri chiedono una firma per fermare la procedura di modifica della Carta messa in opera dalla maggioranza delle larghe intese. Che affossa l'articolo 138, umilia i parlamentari e tiene all'oscuro l'opinione pubblica. Mentre il Porcellum resta

Ignorando il risultato del referendum popolare del 2006 che bocciò a grande maggioranza la proposta di mettere tutto il potere nelle mani di un “Premier assoluto”, é ripartito un nuovo e ancor più pericoloso tentativo di stravolgere in senso presidenzialista la nostra forma di governo, rinviando di mesi la indilazionabile modifica dell’attuale legge elettorale. In fretta e furia e nel pressoché unanime silenzio dei grandi mezzi d’informazione la Camera dei Deputati ha iniziato a esaminare il disegno di legge governativo, già approvato dal Senato, di revisione dall’articolo 138, che fa saltare la “valvola di sicurezza” pensata dai nostri Padri costituenti per impedire stravolgimenti della Costituzione.
Ci appelliamo a voi che avete il potere di decidere, perché il processo di revisione costituzionale in atto sia riportato sui binari della legalità costituzionale. Chiediamo, innanzitutto, che l’iter di discussione segua tempi rispettosi del dettato costituzionale, che garantiscano la necessaria ponderazione delle proposte di revisione, il dovuto approfondimento e anche la possibilità di ripensamento. Chiudere, a ridosso delle ferie estive, la prima lettura del disegno di legge costituzionale, impedisce un vero e serio coinvolgimento dell’opinione pubblica nel dibattito che si sta svolgendo nelle aule parlamentari.
In secondo luogo vi chiediamo di restituire al Parlamento e ai parlamentari il ruolo loro spettante nel processo di revisione della nostra Carta costituzionale. L’aver abbandonato la procedura normale di esame esplicitamente prevista dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame delle leggi costituzionali, l’aver attribuito al Governo un potere emendativo privilegiato, l’impossibilità per i singoli parlamentari di sub-emendare le proposte del Governo o del Comitato, la proibizione per i parlamentari in dissenso con i propri gruppi di presentare propri emendamenti, le deroghe previste ai Regolamenti di Camera e Senato, costituiscono altrettante scelte che umiliano e comprimono l’autonomia e la libertà dei parlamentari e quindi il ruolo e la funzione del Parlamento.
Vi chiediamo ancora che i cittadini possano liberamente esprimere il loro voto su progetti di revisione chiari, ben definiti e omogenei nel loro contenuto. L’indicazione generica di sottoporre a revisione oltre 69 articoli della Costituzione, contrasta con questa esigenza e attribuisce all’istituendo Comitato parlamentare per le riforme costituzionali indebiti poteri “costituenti” che implicano il possibile stravolgimento dell’intero impianto costituzionale.
Non si tratta di un intervento di “manutenzione” ma di una riscrittura radicale della nostra Carta fondamentale non consentita dalla Costituzione, aperta all’arbitrio delle contingenti maggioranze parlamentari. Chiediamo che nell’esprimere il vostro voto in seconda lettura del provvedimento di modifica dell’articolo 138, consideriate che la maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti le Camere per evitare il referendum confermativo, in ragione di una legge elettorale che distorce gravemente e incostituzionalmente la rappresentanza popolare, non coincide con la realtà politica del corpo elettorale del nostro Paese. Rispettare questa realtà, vuol dire esprimere in Parlamento un voto che consenta l’indizione di un referendum confermativo sulla revisione dell’articolo 138.
Vi chiediamo infine di escludere dalle materie di competenza del Comitato per le riforme costituzionali la riforma del sistema elettorale che proprio per il suo significato politico rilevantissimo ha un effetto distorsivo nell’ottica della revisione costituzionale. E’ in gioco il futuro della nostra democrazia.
Assumetevi la responsabilità di garantirlo.

Tra perseverare nell’euro e uscirne, c’è una terza strada da percorrere

di Alfonso Gianni*

Bisogna riconoscere che dopo la pubblicazione l’anno scorso dell’eBook di Micromega (Oltre l’austerità) e i tanti contributi che sono poi comparsi su questo e su altri giornali, il dibattito nella sinistra si è disincagliato dalla semplice alternativa tra restare o uscire dall’Eurozona. D’altro canto la crisi in Europa non smette di aggravarsi, le elezioni europee si avvicinano e sarebbe disastroso se una sinistra non si presentasse con un discorso innovativo sul tema della unità monetaria e della governance della Ue.

Tra le forze della destra estrema è molto agitato il tema di una fuoriuscita immediata dall’euro. Questo è una logica conseguenza dell’antieuropeismo caratteristico delle forze più aggressive della destra europea. Quest’ultimo oggi si ammanta di ragioni economiche, che vengono a sovrapporsi, grazie alle conseguenze evidenti della crisi sulle popolazioni europee, agli archetipi patriottardi e xenofobi delle destre.

In Germania è nata una nuova forza politica, Alternative fuer Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania), ansiosa di testare la propria consistenza elettorale nelle imminenti elezioni di settembre - per ora nei sondaggi non superiore al 2,5% - che ha fatto della distruzione dell’attuale sistema dell’euro la propria bandiera. “ Dobbiamo preparare un’uscita degli Stati del Sud dell’Europa dall’euro. Non so se si debba cominciare con i piccoli, Grecia e Cipro, o varare subito una soluzione globale, dividersi nell’insieme. Tra una specie di Nord-Euro e una specie di Sud-Euro”, ha dichiarato in una intervista di fine agosto, il professor Bernd Lucke, leader carismatico dell’ AfD. L’impronta violentemente nazionalistica e antisolidaristica di una simile posizione non può lasciare dubbi sulla sua origine ideologica.


Il calabrone non può volare all’infinito

Con tollerabile semplificazione possiamo dire che fino all’esplosione in Europa (2008) della crisi economica mondiale iniziata l’anno prima negli Usa, ha prevalso la convinzione che in fondo, per quanto imperfetta fosse, la moneta unica avrebbe potuto durare e che un sistema generalizzato di bassa inflazione poteva tornare comodo anche alle classi lavoratrici e ai ceti più indigenti. Il calabrone poteva continuare a volare con la benedizione anche di chi stava più in basso. La sinistra moderata, ovvero il social-liberismo, poteva occuparsi, con più affidamento delle destre, a raddrizzarne il volo, contribuendo a rafforzare le pareti della gabbia monetaria entro cui stringere la fortezza europea, attenuando al contempo le proteste popolari. D’altro canto il principale paese europeo era guidato da una Grosse Koalition, con a capo la Merkel (2005-2009), e questa garantiva dell’impegno e della indispensabilità di tale sinistra alla risoluzione di quel compito.

Ma con il dilagare degli effetti della grande crisi sul continente europeo le preoccupazioni sulla tenuta del sistema euro sono diventate generali, fino a essere devastanti come nella fase attuale. Ormai gli editorialisti del Financial Times, Wolfgang Munchau in testa, fanno a gara a prevedere come imminente l’implosione dell’Eurozona. La crisi del più piccolo paese, vedi il caso cipriota, o di una banca, il temuto pronunciamento della Corte costituzionale tedesca sulla partecipazione della Germania ai timidi programmi di salvataggio dei paesi in difficoltà, per non parlare da ultimo dei timori di una ripresa in grande stile della speculazione internazionale in seguito agli annunci della Federal Reserve americana di mettere fine o limitare l’erogazione di liquidità a favore del sistema bancario; insomma tanto avvenimenti circoscritti e apparentemente minimali, quanto sommovimenti di rilievo mettono quotidianamente in forse la sopravvivenza dell’Euro. E’ lecito quindi domandarsi se siamo veramente di fronte ad una profonda modificazione degli stessi obiettivi su cui è sorta la Unione europea e su cui si è strutturata dal suo inizio la sua moneta, oppure se il corso attuale delle cose non fosse implicito fin dall’inizio e potesse quindi essere previsto.

Anche qui bisogna guardarsi da risposte troppo semplificatorie come da atteggiamenti di indifferenza. Non c’è dubbio che per quanto le crisi economiche siano frequenti nel sistema capitalistico e che questa frequenza sia aumentata nel secondo dopoguerra con particolare intensità con l’inizio di questa fase della globalizzazione, cioè dagli anni Ottanta in poi, nessuno poteva veramente dire di avere previsto una crisi di tali proporzioni quale quella attuale. E in effetti nessuno la previde, con qualche rara e parziale eccezione come quella di Roubini, per l’appunto sbeffeggiato come Mr. Doom. La famosa e maliziosa domanda che la Regina d’Inghilterra rivolse a una autorevole riunione di economisti: “come mai non è stato possibile prevedere la crisi?” è rimasta sostanzialmente senza risposte o con troppe e divergenti, il che è più o meno la stessa cosa.


L’Europa non era e non è un’area valutaria ottimale

lunedì 9 settembre 2013

Il giro dei diritti

  
Il giro dei diritti

Pubblicato il 9 set 2013

di Guglielmo Ragozzino – sbilanciamoci.info -
Quello che emerge dalle 208 pagine di motivazioni della Cassazione sulla condanna di Berlusconi è un marchingegno che consente di gonfiare le spese, pagare meno tasse e distorcere dal flusso regolare molto denaro per costituire fondi esteri fuori legge. Un vivido esempio di come girano le multinazionali, o almeno i loro diritti
“… E processiamo un assassino perché non paga le tasse?” Beh, è sempre meglio che niente…” (Dialogo tra Elliot Ness e il suo contabile in ”The Untouchables” di Brian De Palma, 1987)
Ho seguito con scarsa sollecitudine i primi sussulti politici seguiti alle incerte pene inflitte a Berlusconi: sia gli anni di detenzione, sia l’interdizione temporanea (però sospesa, in attesa di un altro giudizio) dai pubblici uffici. L’Ordine giudiziario che mostrava la sua ferma clemenza e il potere politico che d’altro canto reagiva in modo disordinato di fronte all’interrogativo di sempre, sia pure espresso con parole inusitate: “Severino o non Severino, questo è il dilemma”.
Quando, quattro settimane dopo, la sentenza è stata pubblicata per l’intero, mi sono pentito della mia scarsa cura, del mio debole amor patrio; avendo saputo dalla rassegna stampa di Radio3 tenuta da Marco Damilano che il “Fatto Quotidiano” pubblicava quattro pagine tratte dalla sentenza, mi sono deciso, sia pure controvoglia, a comprare il quotidiano suddetto, cui non mi avvicinavo più dalle manette del debutto. Le pagine essendo risultate poco interessanti, ne ho attribuito la responsabilità alla fretta di leggere, riassumere e scrivere in pochi minuti il meglio di duecento pagine anche da parte di un vero cultore della materia; così mi sono deciso a leggere tutto, le 208 pagine della Cassazione che mi ero ormai immaginato fossero una specie di supplemento della Costituzione italiana. Non è stata una grande idea, almeno dal punto di vista del tardivo apprendimento del diritto. Una sentenza molto affrettata, piena di ripetizioni, disordinata, con almeno un errore di milioni (18,71 milioni di dollari invece di 28,019 come risultato della sottrazione tra 262,7 e 234,8 a pagina 147¹). Gli avvocati di Berlusconi presentano 48 motivi di ricorso, tutti disattivati con profluvio di citazioni tratte dal primo e secondo grado giudizio.
La Cassazione nella sentenza insiste sulla replica puntigliosa in punta di diritto a ciascun motivo di ricorso presentato dagli avvocati del protagonista e alla ulteriore manciata che i coimputati hanno a loro volta presentato. Insomma, un vero spasso. Lo stesso argomento lo si legge cinque o sei volte di seguito: come testimonianza, ricorso, replica del primo e secondo grado, decisione finale di legittimità. A un certo punto, verso pagina 160, la vicenda si ingarbuglia per la presenza di un altro processo simile, Mediatrade, generato da fatti successivi; altri imbrogli fiscali di Berlusconi. Il rischio sarebbe quello di confondere i processi paralleli e mandare il nostro eroe assolto, in base alle recenti leggi sulle prescrizioni ravvicinate. Allora i magistrati tengono il punto fermo, i processi divisi e condannano per la traccia estrema di un antico reato fiscale non completamente “ammortizzato” che proietta le sue conseguenze in un’epoca recente, non coperta dall’ultima prescrizione. La condanna, raggiunta per un margine di truffa molto ristretto, fa pensare a una piccola falla in un compatto sistema difensivo².
Fa pensare alla ripetizione in abiti moderni della saga dell’eroe Sigfrido che si è immerso nel sangue del drago Fafner per rendersi invulnerabile, ma per fatal combinazione una sua spalla è coperta da una foglia durante il bagno e quindi Sigfrido invulnerabile non è. La voce di questa foglia volante gira, anche per ingenuità della moglie Crimilde e il bieco Hagen ha modo di colpirlo a morte. Sigfrido ha fatto insomma tutto da solo; ha ammazzato il drago, ne ha raccolto il sangue, vi si è tuffato dentro, ha trascurato Crimilde, non si è accorto del foglietto: diverso il caso nostro del pelide Achille, neonato, immerso nello Stige dalla buona madre che lo reggeva per il tallone.
Una frase ripetuta una ventina di volte o più ancora nel corso del testo della Suprema Corte è: “Picchia giù sui prezzi”. È uno dei collaboratori più stretti di Berlusconi, Carlo Bernasconi che lo raccomanda ad altri funzionari dell’impresa. I lettori capiscono subito cosa significhi; non è un invito a pagare il meno possibile, ma proprio il contrario: raccomanda di segnare i prezzi più alti possibili al momento di pagare. Fininvest o Mediaset saranno indotte dai propri funzionari a pagare una volta e mezza o due volte quello che il fornitore, per esempio una qualsiasi delle majors di Hollywood, richiede. Un caso per tutti, il noleggio del film “Leone d’inverno” del 1968 di Anthony Harvey (tre premi Oscar compreso quello a Katharine Hepburn) contro una richiesta della Universal di 50 mila dollari ne costerà 120 mila tra 18 luglio 1996 e 1 gennaio 1997. Il 140% di ricarico e quindi di profitto segreto in meno di sei mesi. In generale quello che emerge dal testo della Cassazione è un modello di impresa mediatica, multinazionale, Fininvest o Mediaset, che opera nei sistemi televisivi di vari paesi, mette in onda i programmi che ha prodotto o comprato e ripaga i costi con la pubblicità; che a fianco del sistema ufficiale usufruisce anche di un apparato parallelo, una sorta di Fininvest o Mediaset 2, “sconosciuto” anche al consiglio di amministrazione che ha il compito di acquistare al prezzo commerciale film o serie televisive dalle majors come Metro o Columbia e rivenderlo ad altre strutture aziendali a un prezzo doppio. La major vende la sua merce a un imprenditore che ben conosce, Berlusconi o a un suo rappresentante e poi si disinteressa del seguito. Quando l’acquisto diventa disponibile per Fininvest che lo ha comprato, essa non lo usa direttamente ma lo rivende a un altro utilizzatore (possiamo ben dire: l’utilizzatore finale) a un prezzo molto maggiorato il che è assolutamente lecito. Solo che il nuovo compratore è di nuovo Fininvest, quella ufficiale che non è al corrente del prezzo maggiorato, ma con le sue magnifiche strutture e reti, si serve copiosamente della merce acquistata al fine di incartare la pubblicità che deve vendere. Il marchingegno consente di gonfiare le spese e quindi pagare meno tasse, distorcere dal flusso regolare molto denaro per costituire fondi esteri fuori controllo e fuori legge nonché frodare i soci di Berlusconi, se ce ne sono o gli eventuali azionisti di Fininvest o più tardi di Mediaset. La ricostruzione di questa trafila è dovuta in particolare alle indagini di KPMG, il primo revisore contabile internazionale, spesso citato in sentenza. Sono indicate varie cifre su questi giri: una riguarda diritti dal 1994 al 1998 con prezzo d’acquisto di 135 milioni di dollari e rivendite a 199,5 e dunque un margine di utile del 50% secco. Per dirla con altre parole, Le imprese, le società-frode di Berlusconi2 comprano a colpo sicuro i diritti di serie televisive film per esempio dalla XXth Century Fox che rivendono a Berlusconi1 che li compra e le mette in rete. Il guadagno è sull’attività industriale, sui costi gonfiati che consentono di pagare meno tasse e sulla costituzione di fondi liberi da ogni gravame all’estero, in qualche paradiso fiscale. Il danno e le beffe ricadono sul fisco italiano e sugli azionisti delle società di Berlusconi, oltre che sugli eventuali altri soci.
Tutto questo comincia alla fine del decennio settanta, quando nascono le televisioni di Berlusconi e continua fino agli ultimi anni; risulta che se c’è stato un cambiamento importante, non è dovuto alla “discesa in campo” cioè in politica del cavaliere del lavoro Berlusconi (il titolo onorifico è del 1977, per meriti edilizi), ma alla quotazione in Borsa di Mediaset nel luglio 1996, un fatto che rendeva assai più pericolose le libertà finanziarie precedenti, ora sotto lo sguardo severo del controllore Consob. Così da allora ha lentamente inizio una nuova fase in cui la Mediaset maggiora i costi per comprimere le tasse riducendo al massimo interventi più spericolati. È la nuova fase che la Cassazione ha preferito tenere ben distinta da quella del giro dei diritti.
Silvio Berlusconi è stato dunque condannato, con le conseguenze importanti per le vicende politiche e istituzionali della Repubblica italiana e forse della stessa Unione europea che possiamo immaginare. Rimane il dubbio che la leggera, impalpabile traccia, la bavetta, di pochi milioni di dollari rimasti su un foglietto, il residuato di una grandiosa truffa, per il resto prescritta, siano davvero troppo poco per cambiare il mondo.
Ma c’è dell’altro. Il testo della Cassazione, con le sue forbite 208 pagine, è importante perché ci consente di leggere come girano le multinazionali, o almeno i loro diritti. Come avvenne per Enron anni fa, come per Parmalat o per banca Lehman, o Montedison o Ilva. Una sentenza offre modo di conoscere meglio il mondo in cui viviamo. Ogni tanto questo mondo sommerso torna alla luce. La storia si fa così. Il sistema dell’informazione mette qui a disposizione tutti gli elementi decisivi che emergono dalla sentenza del giudice – della Cassazione in questo caso – per conoscere e per scegliere. Ognuno integra quello che viene a sapere con quello che sapeva già, per il suo lavoro o le sue conoscenze. Poche settimane e poi i poteri, torneranno compatti e metteranno qualche sordina, per ostacolare, distogliere, silenziare, perdonare, dimenticare. Qui vediamo una multinazionale di seconda fascia, ma importante nel suo ambito, che imbosca in qualche zona remota e fuorilegge il denaro sufficiente per aggredire le friabili difese di un paese, conquistarlo con la sua proposta irresistibile; un modello di vita che propaganda per tutti i telespettatori: “arricchisciti; puoi! Dopo sarà tutto più facile”. Occorrono capitali per lo scopo. Occorre vincere nello stesso tempo ogni difesa, ogni persona che faccia resistenza, corrompendo funzionari e leggi, manipolando e devastando. Sembrerà esagerato leggere tutto questo nella legge di Bernasconi “Picchia giù sui prezzi”, ma l’esame accurato del “giro dei diritti” nel quale alla fine sono coinvolte molte o tutte le società del ramo, prive di ogni convincimento morale, visto che quello potrebbe costare, a conti fatti milioni di dollari, se messo in opera; milioni da giustificare assai difficilmente di fronte al tribunale degli azionisti. Quindi pronte tutte a mettere da parte, a imboscare fondi bianchi o neri, a dimenticarsi subito della conclamata base morale del comportamento, tanto in ogni azione quotidiana, quanto nel programma a più lunga scadenza. Berlusconi non è peggio degli altri, forse meglio, al punto che lo hanno premiato, ne hanno fatto il Ceo di un paese decisivo nel mondo. Le altre multinazionali sono come Berlusconi; la Cassazione, senza dirlo apertamente, ci mette sull’avviso e noi possiamo impararlo. Detto altrimenti, oggi le imprese multinazionali sono davvero troppo forti, di fronte alla nostra debolezza; così quando una viene allo scoperto, allora impariamo qualcosa che – forse – riguarda tutte loro e – certo – riguarda tutti noi.
Nota ¹ “ … Correttamente pertanto è stata inclusa nell’imputazione la maggiorazione di costo derivante dal transito dei diritti per IMS e calcolata dalla d.ssa Chersicla in 18,71 mil. di $, importo corrispondente alla differenza tra 262,7 mil di $ di pagamenti effettuati da Mediaset a Ims e i pagamenti ai fornitori che ammontano a 234,681 mil. di $” (pag. 51 sent. I grado)
Nota ² “Il Gup del Tribunale di Milano del 18/10/2011, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di Berlusconi Silvio in ordine ai reati di appropriazione indebita pluriaggravata e continuata, e di frode fiscale continuata, reati commessi a Milano fino al 30/09/2009 per non aver commesso il fatto. Il ricorso del PM avverso la decisoione è stato rigettato dalla Corte di cassazione con sentenza del 18/05/2012 n. 24075, per come megli si vedrà in seguito. Osserva questa Corte di legittimità che, in realtà, tale decisione non incide in alcun modo e sottoqualsiasi profilo, sulle vicende del procedimento in questione per i seguenti motivi….”

domenica 8 settembre 2013

Landini e Rodotà, un buon inizio

8 settembre, 2013

Conferenza stampa della FIOM per avviare i necessari confronti e definire le iniziative a difesa della Carta CostituzionaleSi è conclusa da poco, alla presenza di molte persone, la manifestazione promossa da Landini, Rodotà, Zagrebelsky, Don Ciotti e Carlassare.
A mio parere molto positiva per i seguenti motivi.
1) È stato prodotto un primo testo “la via maestra”, i cui contenuti sono una buona base di partenza.
2) È stata indetta una manifestazione nazionale per il 12 ottobre che – proponendosi non solo di difendere, ma anche di applicare la Costituzione – si pone come iniziativa in contrasto con le politiche che questo Governo e quelli precedenti hanno attuato.
3) È stato proposto che in vista della manifestazione si organizzino in tutti i territori assemblee per promuovere la manifestazione e per farne conoscere i contenuti.

4) È stato detto che la manifestazione è un punto di partenza e non di arrivo e che, dunque, l’iniziativa proseguirà anche successivamente.
5) Quello che è stato proposto questa mattina è la costruzione di uno Spazio Pubblico dove tutti – singoli, movimenti, forze sindacali e politiche, potranno portare il loro contributo sulla base della condivisione del progetto e dei contenuti. Quello che ci si propone, quindi, non è la costruzione di un partito o di una lista elettorale, ma un processo che abbia come primo obiettivo quello di riportare alla partecipazione le molte persone che oggi non si riconoscono nelle attuali forze politiche.
Un buon inizio. Da domani al lavoro nei territori per organizzare le iniziative e per far diventare la manifestazione del 12 ottobre un grande appuntamento di popolo.

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