Pubblicato il 9 set 2013
di Guglielmo Ragozzino – sbilanciamoci.info -
Quello che emerge dalle 208 pagine di motivazioni della Cassazione sulla condanna di Berlusconi è un marchingegno che consente di gonfiare le spese, pagare meno tasse e distorcere dal flusso regolare molto denaro per costituire fondi esteri fuori legge. Un vivido esempio di come girano le multinazionali, o almeno i loro diritti
“…
E processiamo un assassino perché non paga le tasse?” “
Beh, è sempre meglio che niente…” (Dialogo tra Elliot Ness e il suo contabile in ”The Untouchables” di Brian De Palma, 1987)
Ho seguito con scarsa sollecitudine i primi sussulti politici seguiti alle incerte pene inflitte a Berlusconi: sia gli anni di detenzione, sia l’interdizione temporanea (però sospesa, in attesa di un altro giudizio) dai pubblici uffici. L’Ordine giudiziario che mostrava la sua ferma clemenza e il potere politico che d’altro canto reagiva in modo disordinato di fronte all’interrogativo di sempre, sia pure espresso con parole inusitate: “Severino o non Severino, questo è il dilemma”.
Quando, quattro settimane dopo, la sentenza è stata pubblicata per l’intero, mi sono pentito della mia scarsa cura, del mio debole amor patrio; avendo saputo dalla rassegna stampa di Radio3 tenuta da Marco Damilano che il “Fatto Quotidiano” pubblicava quattro pagine tratte dalla sentenza, mi sono deciso, sia pure controvoglia, a comprare il quotidiano suddetto, cui non mi avvicinavo più dalle manette del debutto. Le pagine essendo risultate poco interessanti, ne ho attribuito la responsabilità alla fretta di leggere, riassumere e scrivere in pochi minuti il meglio di duecento pagine anche da parte di un vero cultore della materia; così mi sono deciso a leggere tutto, le 208 pagine della Cassazione che mi ero ormai immaginato fossero una specie di supplemento della Costituzione italiana. Non è stata una grande idea, almeno dal punto di vista del tardivo apprendimento del diritto. Una sentenza molto affrettata, piena di ripetizioni, disordinata, con almeno un errore di milioni (18,71 milioni di dollari invece di 28,019 come risultato della sottrazione tra 262,7 e 234,8 a pagina 147¹). Gli avvocati di Berlusconi presentano 48 motivi di ricorso, tutti disattivati con profluvio di citazioni tratte dal primo e secondo grado giudizio.
La Cassazione nella sentenza insiste sulla replica puntigliosa in punta di diritto a ciascun motivo di ricorso presentato dagli avvocati del protagonista e alla ulteriore manciata che i coimputati hanno a loro volta presentato. Insomma, un vero spasso. Lo stesso argomento lo si legge cinque o sei volte di seguito: come testimonianza, ricorso, replica del primo e secondo grado, decisione finale di legittimità. A un certo punto, verso pagina 160, la vicenda si ingarbuglia per la presenza di un altro processo simile, Mediatrade, generato da fatti successivi; altri imbrogli fiscali di Berlusconi. Il rischio sarebbe quello di confondere i processi paralleli e mandare il nostro eroe assolto, in base alle recenti leggi sulle prescrizioni ravvicinate. Allora i magistrati tengono il punto fermo, i processi divisi e condannano per la traccia estrema di un antico reato fiscale non completamente “ammortizzato” che proietta le sue conseguenze in un’epoca recente, non coperta dall’ultima prescrizione. La condanna, raggiunta per un margine di truffa molto ristretto, fa pensare a una piccola falla in un compatto sistema difensivo².
Fa pensare alla ripetizione in abiti moderni della saga dell’eroe Sigfrido che si è immerso nel sangue del drago Fafner per rendersi invulnerabile, ma per fatal combinazione una sua spalla è coperta da una foglia durante il bagno e quindi Sigfrido invulnerabile non è. La voce di questa foglia volante gira, anche per ingenuità della moglie Crimilde e il bieco Hagen ha modo di colpirlo a morte. Sigfrido ha fatto insomma tutto da solo; ha ammazzato il drago, ne ha raccolto il sangue, vi si è tuffato dentro, ha trascurato Crimilde, non si è accorto del foglietto: diverso il caso nostro del pelide Achille, neonato, immerso nello Stige dalla buona madre che lo reggeva per il tallone.
Una frase ripetuta una ventina di volte o più ancora nel corso del testo della Suprema Corte è: “Picchia giù sui prezzi”. È uno dei collaboratori più stretti di Berlusconi, Carlo Bernasconi che lo raccomanda ad altri funzionari dell’impresa. I lettori capiscono subito cosa significhi; non è un invito a pagare il meno possibile, ma proprio il contrario: raccomanda di segnare i prezzi più alti possibili al momento di pagare. Fininvest o Mediaset saranno indotte dai propri funzionari a pagare una volta e mezza o due volte quello che il fornitore, per esempio una qualsiasi delle majors di Hollywood, richiede. Un caso per tutti, il noleggio del film “Leone d’inverno” del 1968 di Anthony Harvey (tre premi Oscar compreso quello a Katharine Hepburn) contro una richiesta della Universal di 50 mila dollari ne costerà 120 mila tra 18 luglio 1996 e 1 gennaio 1997. Il 140% di ricarico e quindi di profitto segreto in meno di sei mesi. In generale quello che emerge dal testo della Cassazione è un modello di impresa mediatica, multinazionale, Fininvest o Mediaset, che opera nei sistemi televisivi di vari paesi, mette in onda i programmi che ha prodotto o comprato e ripaga i costi con la pubblicità; che a fianco del sistema ufficiale usufruisce anche di un apparato parallelo, una sorta di Fininvest o Mediaset 2, “sconosciuto” anche al consiglio di amministrazione che ha il compito di acquistare al prezzo commerciale film o serie televisive dalle majors come Metro o Columbia e rivenderlo ad altre strutture aziendali a un prezzo doppio. La major vende la sua merce a un imprenditore che ben conosce, Berlusconi o a un suo rappresentante e poi si disinteressa del seguito. Quando l’acquisto diventa disponibile per Fininvest che lo ha comprato, essa non lo usa direttamente ma lo rivende a un altro utilizzatore (possiamo ben dire: l’utilizzatore finale) a un prezzo molto maggiorato il che è assolutamente lecito. Solo che il nuovo compratore è di nuovo Fininvest, quella ufficiale che non è al corrente del prezzo maggiorato, ma con le sue magnifiche strutture e reti, si serve copiosamente della merce acquistata al fine di incartare la pubblicità che deve vendere. Il marchingegno consente di gonfiare le spese e quindi pagare meno tasse, distorcere dal flusso regolare molto denaro per costituire fondi esteri fuori controllo e fuori legge nonché frodare i soci di Berlusconi, se ce ne sono o gli eventuali azionisti di Fininvest o più tardi di Mediaset. La ricostruzione di questa trafila è dovuta in particolare alle indagini di KPMG, il primo revisore contabile internazionale, spesso citato in sentenza. Sono indicate varie cifre su questi giri: una riguarda diritti dal 1994 al 1998 con prezzo d’acquisto di 135 milioni di dollari e rivendite a 199,5 e dunque un margine di utile del 50% secco. Per dirla con altre parole, Le imprese, le società-frode di Berlusconi2 comprano a colpo sicuro i diritti di serie televisive film per esempio dalla XXth Century Fox che rivendono a Berlusconi1 che li compra e le mette in rete. Il guadagno è sull’attività industriale, sui costi gonfiati che consentono di pagare meno tasse e sulla costituzione di fondi liberi da ogni gravame all’estero, in qualche paradiso fiscale. Il danno e le beffe ricadono sul fisco italiano e sugli azionisti delle società di Berlusconi, oltre che sugli eventuali altri soci.
Tutto questo comincia alla fine del decennio settanta, quando nascono le televisioni di Berlusconi e continua fino agli ultimi anni; risulta che se c’è stato un cambiamento importante, non è dovuto alla “discesa in campo” cioè in politica del cavaliere del lavoro Berlusconi (il titolo onorifico è del 1977, per meriti edilizi), ma alla quotazione in Borsa di Mediaset nel luglio 1996, un fatto che rendeva assai più pericolose le libertà finanziarie precedenti, ora sotto lo sguardo severo del controllore Consob. Così da allora ha lentamente inizio una nuova fase in cui la Mediaset maggiora i costi per comprimere le tasse riducendo al massimo interventi più spericolati. È la nuova fase che la Cassazione ha preferito tenere ben distinta da quella del giro dei diritti.
Silvio Berlusconi è stato dunque condannato, con le conseguenze importanti per le vicende politiche e istituzionali della Repubblica italiana e forse della stessa Unione europea che possiamo immaginare. Rimane il dubbio che la leggera, impalpabile traccia, la bavetta, di pochi milioni di dollari rimasti su un foglietto, il residuato di una grandiosa truffa, per il resto prescritta, siano davvero troppo poco per cambiare il mondo.
Ma c’è dell’altro. Il testo della Cassazione, con le sue forbite 208 pagine, è importante perché ci consente di leggere come girano le multinazionali, o almeno i loro diritti. Come avvenne per Enron anni fa, come per Parmalat o per banca Lehman, o Montedison o Ilva. Una sentenza offre modo di conoscere meglio il mondo in cui viviamo. Ogni tanto questo mondo sommerso torna alla luce. La storia si fa così. Il sistema dell’informazione mette qui a disposizione tutti gli elementi decisivi che emergono dalla sentenza del giudice – della Cassazione in questo caso – per conoscere e per scegliere. Ognuno integra quello che viene a sapere con quello che sapeva già, per il suo lavoro o le sue conoscenze. Poche settimane e poi i poteri, torneranno compatti e metteranno qualche sordina, per ostacolare, distogliere, silenziare, perdonare, dimenticare. Qui vediamo una multinazionale di seconda fascia, ma importante nel suo ambito, che imbosca in qualche zona remota e fuorilegge il denaro sufficiente per aggredire le friabili difese di un paese, conquistarlo con la sua proposta irresistibile; un modello di vita che propaganda per tutti i telespettatori: “arricchisciti; puoi! Dopo sarà tutto più facile”. Occorrono capitali per lo scopo. Occorre vincere nello stesso tempo ogni difesa, ogni persona che faccia resistenza, corrompendo funzionari e leggi, manipolando e devastando. Sembrerà esagerato leggere tutto questo nella legge di Bernasconi “Picchia giù sui prezzi”, ma l’esame accurato del “giro dei diritti” nel quale alla fine sono coinvolte molte o tutte le società del ramo, prive di ogni convincimento morale, visto che quello potrebbe costare, a conti fatti milioni di dollari, se messo in opera; milioni da giustificare assai difficilmente di fronte al tribunale degli azionisti. Quindi pronte tutte a mettere da parte, a imboscare fondi bianchi o neri, a dimenticarsi subito della conclamata base morale del comportamento, tanto in ogni azione quotidiana, quanto nel programma a più lunga scadenza. Berlusconi non è peggio degli altri, forse meglio, al punto che lo hanno premiato, ne hanno fatto il Ceo di un paese decisivo nel mondo. Le altre multinazionali sono come Berlusconi; la Cassazione, senza dirlo apertamente, ci mette sull’avviso e noi possiamo impararlo. Detto altrimenti, oggi le imprese multinazionali sono davvero troppo forti, di fronte alla nostra debolezza; così quando una viene allo scoperto, allora impariamo qualcosa che – forse – riguarda tutte loro e – certo – riguarda tutti noi.
Nota ¹ “ … Correttamente pertanto è stata inclusa nell’imputazione la maggiorazione di costo derivante dal transito dei diritti per IMS e calcolata dalla d.ssa Chersicla in 18,71 mil. di $, importo corrispondente alla differenza tra 262,7 mil di $ di pagamenti effettuati da Mediaset a Ims e i pagamenti ai fornitori che ammontano a 234,681 mil. di $” (pag. 51 sent. I grado)
Nota ² “Il Gup del Tribunale di Milano del 18/10/2011, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di Berlusconi Silvio in ordine ai reati di appropriazione indebita pluriaggravata e continuata, e di frode fiscale continuata, reati commessi a Milano fino al 30/09/2009 per non aver commesso il fatto. Il ricorso del PM avverso la decisoione è stato rigettato dalla Corte di cassazione con sentenza del 18/05/2012 n. 24075, per come megli si vedrà in seguito. Osserva questa Corte di legittimità che, in realtà, tale decisione non incide in alcun modo e sottoqualsiasi profilo, sulle vicende del procedimento in questione per i seguenti motivi….”
Questo coro di critiche all’Unione (tanto ampio da includere anche studi di provenienza bocconiana: si veda, in Costituzionalismo.it, il recente lavoro di Luca Fantacci ed Andrea Papetti) ci esime, almeno per questa volta, dal tornare sui motivi che le legittimano; così come ci riserviamo di analizzare in seguito le diverse proposte di uscita totale o parziale dalla situazione attuale. Per adesso vorremmo solo indicare alcune conseguenze di questo improvviso “disamore” verso l’euro, ossia alcune implicazioni di quelle proposte, spesso sottovalutate dai loro stessi autori.
Prima implicazione: ogni seria, pur se moderata, riforma della situazione attuale porterebbe alla dissoluzione della zona euro e quindi probabilmente alla fine dell’Unione. E ciò per il semplice fatto che la frazione dominante del capitalismo europeo (quella bancaria) ed il Paese dominante dell’Unione (la Germania) sono certamente convinti fautori dell’euro, ma solo dell’euro così com’è: perché la sua stabilità garantisce i creditori; perché la sua netta sottovalutazione rispetto ai valori dell’economia tedesca (una vera e propria svalutazione stabile) avvantaggia gli esportatori di quel Paese; perché l’impoverimento indotto nei paesi debitori, anche se da una parte fa diminuire la domanda di merci tedesche, dall’altra favorisce nettamente la centralizzazione del capitale nel nucleo forte d’Europa. Quindi questo euro va bene, ma ogni altra forma no. Per conseguenza anche chi non se la sente di proporre decisamente la rottura e pensa piuttosto ad una riforma dei trattati o ad una moneta comune deve prepararsi a gestire, in caso di vittoria, la crisi ed il collasso dell’intera costruzione comunitaria. E se non lo fa è un irresponsabile. Siamo troppo netti, troppo dogmatici? Escludiamo a priori tendenze riformiste nel capitalismo tedesco? No: diciamo soltanto che al momento non si vede nessuna, ma proprio nessuna di queste tendenze (nemmeno, per intenderci, nei socialdemocratici tedeschi), che al momento dalla Germania possono venire solo alcune concessioni tattiche e che una tendenza riformista potrebbe eventualmente mostrarsi solo di fronte ad una decisa posizione dell’Europa del sud, del tipo “O si cambia o ce ne andiamo”. Siamo in grado di fare una proposta del genere, magari anche in sede di elezioni europee?
Seconda implicazione: è ora che il nostro Paese ripensi radicalmente la propria collocazione internazionale, affrancandosi dal rapporto servile con l’occidente neoliberista e rivolgendosi all’area mediterranea ed ai Brics, Paesi che per amore o per forza devono puntare su economie semi-regolate e sulla limitazione di quella libera circolazione dei capitali che ha distrutto la forza dei lavoratori. Altrimenti passeremmo dalla padella dell’Ue alla brace della zona atlantica di libero scambio, divenendo terreno di conquista del capitale Usa. L’uscita da sinistra dall’euro richiede l’uscita dalla subordinazione atlantica e dunque anche dalla Nato: ogni diversa soluzione sarebbe peggiorativa. Quello che si prospetta è insomma un tornante assai serio e pericoloso, ma ineludibile. E, per coloro che sventolano la bandiera rossa, è una grande occasione per superare le condizioni strutturali che hanno reso impossibile, in Italia, ogni seria ipotesi socialista. Ma anche per coloro che si attestano sulla difesa della Costituzione la scelta è inevitabile, giacché i più grandi insulti alla Carta fondamentale sono venuti proprio dall’alleanza atlantica, con la guerra, e dall’Unione europea che eliminando la sovranità nazionale ha distrutto il presupposto elementare della democrazia e della Costituzione stessa. Saremo consapevoli della necessità e della durezza della scelta? Sapremo costruire la forza politica ed il consenso popolare necessari a gestire questo passaggio davvero epocale?
Terza implicazione: come i preti che, per tener buoni borghigiani e villici, facevano affrescare le chiese medievali con truculente immagini dell’inferno, i fanatici dell’euro ci terrorizzano con l’elencazione delle infauste conseguenze della rottura, ossia svalutazione galoppante, crollo di tutti gli indicatori interni, salari falcidiati, miseria, fame. Si tratta di palesi esagerazioni contro le quali è doveroso polemizzare sempre, senza però cadere in una opposta e colpevole faciloneria. L’uscita dall’euro implicherebbe davvero, in un primo momento, seri problemi, ed è anche per questo che il Paese sceglierà questa soluzione solo quando sarà disperato. Tali problemi potrebbero essere risolti o attenuati solo da misure di tipo semi-socialista: la limitazione dei movimenti del capitale, la protezione dei salari, la nazionalizzazione delle imprese strategiche e soprattutto delle banche (che altrimenti sarebbero facile preda di acquisizioni ostili in quanto colpite dalla rivalutazione del loro debito con l’estero); la centralizzazione della politica industriale. Insomma: una pur parziale prospettiva socialista non è più un pio desiderio di alcuni di noi ma una necessità imposta dalle esigenze di sopravvivenza del Paese. Il che ci costringe a fare sul serio e a non parlare più solo di diritti e reddito, ma anche di proprietà e di organizzazione della produzione. Ne saremo capaci?
Quarta implicazione: tutto quello che si è detto sopra presuppone un significativo ampliamento e mutamento del nostro fronte sociale. Bisogna prendere atto che i lavoratori stabilmente occupati, anche se sono un elemento essenziale per la trasformazione del Paese, sono al momento alleati col capitale europeista e che le strutture sindacali e politiche a cui essi fanno normalmente riferimento sono vere e proprie cinghie di trasmissione dei desideri di quel capitale. Questa frazione di lavoratori non può più, almeno per adesso, essere considerata come la guida del nostro fronte, ed il rapporto col mondo del lavoro non può risolversi tutto nella relazione con questo o quel sindacato maggioritario, fosse anche quello più “di sinistra”. Pur continuando la nostra battaglia politica all’interno del lavoro stabile e dentro/contro i sindacati maggioritari, la nostra principale cura deve essere quella di aggregare lavoratori precari, atipici ed autonomi, e comunque tutti coloro che sono costretti a proporre soluzioni radicali della crisi attuale. E deve essere quella di sfondare il blocco sociale della destra aggregando (oltre a parti non irrilevanti della piccola-media impresa esportatrice) le frazioni più deprivate del proletariato e i piccoli imprenditori già berlusconiani attorno ad un programma che, pur mantenendo fermo il valore della lealtà fiscale, rimandi il pieno recupero della piccola evasione ad una futura fase di ripresa economica, e riduca sensibilmente le sanzioni attuali. In un primo momento i soldi non vanno rastrellati trai (numerosi) piccoli evasori, ma presi ai grandi evasori e alle banche (nazionalizzazione) e sottratti capitale finanziario internazionale (ridefinizione del debito e nuovo ruolo della Banca d’Italia). Solo dopo si potrà procedere ad una graduale regolarizzazione fiscale e ad un graduale superamento delle arretratezze della piccola impresa. Sapremo uscire dalle vecchie abitudini mentali ed immaginare un fronte sociale davvero nuovo, capace di farci divenire, potenzialmente, forza maggioritaria nel Paese?
Se risponderemo positivamente a tutte queste domande la fine dell’euro segnerà la nascita di una vera e nuova sinistra italiana, inevitabilmente orientata al socialismo. Altrimenti sarà gestita da qualche capopopolo avventurista o rimandata sine die dall’ineffabile PD: in ogni caso la conseguenza sarà la rovina dell’Italia.