Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 10 agosto 2013

Il capitalismo oggi (risposta a Toni Negri)

INTERNAZIONALE | Autore: Alain Badiou                               
Vi proponiamo un estratto dal libro di Alain Badiou "Il risveglio della storia.Filosofia delle nuove rivolte mondiali" in cui il filosofo francese rispondendo alle critiche di Toni Negri traccia un profilo dell'attuale fase del capitalismo.
Mi si rimprovera spesso, anche nel «gruppo» dei miei potenziali compagni di fede politica, di non tener conto delle caratteristiche del capitalismo contemporaneo, e di non proporne un’«analisi marxista». Di conseguenza per me il comunismo sarebbe soltanto un’idea campata in aria, e io in definitiva sarei soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei nemmeno attento alle
sorprendenti trasformazioni del capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un «capitalismo postmoderno».
Antonio Negri, per esempio, durante una conferenza internazionale sull’idea di comunismo – ero e sono molto contento di avervi preso parte – mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti. Considerando il fatto che, per l’opinione corrente, il marxismo consiste nell’accordare un ruolo determinante all’economia e alle contraddizioni sociali che ne derivano, chi, oggi, non è «marxista»? I nostri padroni, che, non appena la Borsa comincia a traballare o i tassi di crescita ad abbassarsi, tremano e si riuniscono col favore della notte, sono tutti «marxisti». Provate invece a mettere sotto il loro naso la parola «comunismo», e vedrete come cominceranno a dare in escandescenze, considerandovi alla stregua di un criminale.
Qui invece vorrei dire, senza più preoccuparmi degli avversari e dei rivali, che anch’io sono marxista, in buona fede, pienamente e in un modo così naturale che non è neanche il caso di ripeterlo. Un matematico contemporaneo si preoccupa forse di provare la propria fedeltà a Euclide o a Eulero? Il marxismo reale, che si identifica con la lotta politica razionale e che ha come scopo l’organizzazione di una società egualitaria, è cominciato senza dubbio con Marx ed Engels nel 1848, ma in seguito ne ha fatta di strada, con Lenin, con Mao e poi ancora con qualcun altro. Io sono cresciuto con questi insegnamenti storici e teorici. Credo di conoscere bene sia i problemi che sono stati già risolti e che non serve a nulla ricominciare a studiare sia i problemi che rimangono in sospeso ed esigono riflessione ed esperienza, sia ancora i problemi che sono stati affrontati male e che ci impongono radicali rettifiche e faticose reinvenzioni. Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che sono stati o che devono essere costruiti o ricostruiti, e non da descrizioni ripetitive. Il marxismo non fa certo eccezione. Non è né una branca dell’economia (teoria dei rapporti di produzione), né della sociologia (descrizione oggettiva della «realtà sociale»), né una filosofia (pensiero dialettico delle contraddizioni).
Rappresenta, lo ripetiamo, la conoscenza organizzata dei mezzi politici atti a smantellare la società esistente e a sviluppare una figura egualitaria e razionale di organizzazione collettiva, la quale prende il nome di «comunismo».
Malgrado ciò, vorrei aggiungere che, quanto ai dati «oggettivi» del capitalismo contemporaneo, non penso affatto di essere particolarmente disinformato. Globalizzazione, mondializzazione? Spostamento di un grande numero di centri di produzione industriale nei paesi fornitori di mano d’opera a basso costo e a regime politico autoritario?
Passaggio – durante gli anni Ottanta – nei nostri vecchi paesi sviluppati, da un’economia incentrata su se stessa, con un aumento continuo del salario operaio e la ridistribuzione sociale organizzata dallo Stato e dai sindacati, a un’economia liberale integrata sugli scambi mondiali, e quindi esportatrice, specializzata, che privatizza i profitti, socializza i rischi e accetta l’aumento planetario delle disuguaglianze?
Rapidissima concentrazione dei capitali sotto la direzione del capitale finanziario? Utilizzo di nuovi strumenti grazie ai quali la velocità di rotazione prima dei capitali e poi delle merci, è considerevolmente accelerata (diffusione su ampia scala del trasporto aereo, telefonia globale, strumenti finanziari, Internet, programmi che mirano ad assicurare il successo delle decisioni istantanee ecc.)? Sofisticazione della speculazione grazie a nuovi prodotti derivati e a una sottile matematica della combinazione dei rischi? Indebolimento spettacolare, nei nostri paesi, del mondo contadino e di tutta l’organizzazione rurale della società? Assoluta e conseguente necessità di attribuire alla piccola borghesia urbana il ruolo di pilastro del regime sociale e politico esistente? Resurrezione, su larga scala, e in primo luogo presso i borghesi più ricchi, della convinzione vecchia come Aristotele che le classi medie siano l’alfa e l’omega della vita «democratica»? Lotta planetaria, a volte in tono minore a volte estremamente violenta, per assicurarsi materie prime e fonti di energia a basso costo, soprattutto in Africa, il continente oggetto di tutti i saccheggi «occidentali» e di conseguenza di tutte le atrocità? Conosco piuttosto bene questo argomento, come tutti d’altronde.1
La questione è sapere se questo insieme aneddotico di elementi costituisca un capitalismo «postmoderno», un capitalismo nuovo, un capitalismo degno delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, un capitalismo che sia capace di generare da solo un’intelligenza collettiva di tipo nuovo e suscitare l’insorgere di un potere costituente fino a questo momento asservito, che superi il vecchio potere degli Stati, che proletarizzi la moltitudine e trasformi i piccoli borghesi in operai della conoscenza immateriale, un capitalismo insomma rispetto al quale il comunismo possa rappresentare l’immediato rovescio e il cui Soggetto sia in qualche modo lo stesso di quello del comunismo latente che ne sostiene la paradossale esistenza. Un capitalismo insomma alla vigilia della sua metamorfosi in comunismo. Questa è, in maniera po’ grossolana ma fedele, la posizione di Negri. Più in generale, questa è anche la posizione di tutti quelli che è da trent’anni rimangono affascinati dalle mutazioni tecnologiche e dall’espansione continua del capitalismo, e che, ingannati dall’ideologia dominante («tutto cambia sempre e noi corriamo dietro a questo cambiamento memorabile»), immaginano di assistere a una prodigiosa sequenza della Storia – qualunque sia il loro giudizio finale sulla qualità della suddetta sequenza.
La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico.
È assolutamente conforme a quanto ci si poteva aspettare da esso, tanto più che la sua logica non è più ostacolata da azioni di classe risolute e localmente vittoriose. Prendiamo per esempio, per quello che riguarda il divenire del Capitale, tutte le categorie predittive di Marx e vedremo che è solo oggi che esse si sono confermate in tutta la loro evidenza. Marx non ha forse parlato di «mercato mondiale»? Ma cos’era il mercato mondiale nel 1860 in rapporto a quello che è oggi, quello che si è voluto inutilmente rinominare «globalizzazione»? Marx non aveva forse pensato il carattere ineluttabile della concentrazione del capitale? Che cos’era questa concentrazione, quali erano le dimensioni delle imprese e delle istituzioni finanziarie all’epoca di questa previsione, in rapporto ai mostri che ogni giorno nuove fusioni fanno sorgere? A Marx è stato a lungo obiettato che l’agricoltura sarebbe rimasta ferma a un regime di sfruttamento familiare, mentre lui prevedeva che la concentrazione avrebbe di sicuro vinto sulla proprietà fondiaria. Sappiamo oggi che l’effettiva percentuale della popolazione che nei paesi cosiddetti sviluppati (quelli cioè dove il capitalismo imperialista si è insediato senza trovare alcun ostacolo) vive di agricoltura, è, per così dire, insignificante. E qual è oggi l’estensione media delle proprietà fondiarie, rispetto a quello che erano al tempo in cui i contadini rappresentavano, in Francia, il 40% della popolazione totale? Marx ha analizzato in modo rigoroso il carattere inevitabile delle crisi cicliche, le quali attestano, oltre tutto, la sostanziale irrazionalità del capitalismo e il carattere necessariamente consequenziale delle sue attività imperialistiche e belliche. A provare, mentre ancora era vivo, queste analisi sono intervenute alcune gravissime crisi, e le guerre coloniali e inter-imperialistiche ne hanno completato la dimostrazione. Comunque, se guardiamo la quantità di beni andati in fumo, tutto questo non è ancora nulla in confronto alla crisi degli anni Trenta o alla crisi attuale, o in confronto alle due guerre mondiali del XX secolo, alle feroci guerre coloniali e agli «interventi» occidentali di oggi e di domani. Se consideriamo la situazione del mondo intero e non solo di una sua parte, non sarà necessario arrivare alla pauperizzazione di enormi masse di popolazione per ammetterne l’evidenza sempre più lampante.
In fondo, il mondo attuale è esattamente quello che, con una geniale opera di anticipazione, con una specie di fantascienza realistica, Marx aveva annunciato in quanto dispiegamento integrale delle virtualità irrazionali e, a dire il vero, mostruose del capitalismo.
Il capitalismo affida il destino dei popoli agli appetiti finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo senso, è un regime di banditi. Come si può accettare che la legge del mondo si regga sugli spietati interessi di una cricca di eredi e di parvenu? Non possiamo forse a ragione chiamare «banditi» uomini il cui unico principio è il profitto? E che, solo per assecondare tale principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di persone? In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone dipenda dai calcoli di questi banditi è così palese e così lampante, che accettare questa «realtà», come dicono i loro scribacchini, è qualcosa che sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante.
Allora, cari elettori, avete mandato al potere gente che di notte, proprio come in collegio, ha paura di venire a sapere che all’alba i rappresentanti del «mercato», ossia gli speculatori e i parassiti del mondo della proprietà e del patrimonio, hanno rifilato loro la nota AAB al posto di AAA?
Non è forse barbaro quest’ascendente consensuale che i nostri ufficiosi padroni, la cui unica preoccupazione è di sapere quali sono e quali saranno i benefici alla lotteria nella quale puntano i loro milioni, hanno sui nostri padroni ufficiali?
Senza contare che i loro belanti versi – «Ah! Ah! Beheheh!» – verranno ripagati con l’obbedienza agli ordini della cricca, e che sempre e invariabilmente sono: «Privatizzate tutto. Eliminate ogni sostegno ai deboli, alle persone sole, ai malati, ai disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non alle banche. Non curate più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i salari dei poveri, ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino fino a novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto agli ideologi di servizio». E l’esecuzione di questi ordini rovinerà di fatto la vita di milioni di persone.
Anche qui però la nostra realtà conferma, se non addirittura supera, le previsioni di Marx. È stato lui a definire «procuratori del capitalismo» i governi degli anni tra il 1840 e il 1850. E questo ci dà una chiave del mistero: in definitiva, i governanti e i banditi della finanza appartengono allo stesso mondo. La formula «procuratori del capitalismo» è diventata del tutto esatta soltanto oggi, quando, su questo punto, non esiste più alcuna differenza tra i governi di destra, Sarkozy o Merkel, e quelli «di sinistra», Obama, Zapatero o Papandreu.
Siamo quindi proprio noi a essere testimoni di un retrogrado compimento dell’essenza del capitalismo, di un ritorno allo spirito degli anni della metà del XIX secolo, un ritorno che giunge dopo la restaurazione delle idee reazionarie conseguente gli «anni rossi» (1960-1980), proprio come il periodo intorno alla metà del XIX secolo era stato reso possibile dalla Restaurazione controrivoluzionaria degli anni 1815-1840, in seguito alla Grande Rivoluzione del 1792-1794.
Certo, Marx pensava che, sotto la bandiera del comunismo, la rivoluzione proletaria avrebbe bruscamente interrotto questi eventi e ci avrebbe risparmiato il dispiegamento integrale di cui percepiva lucidamente l’orrore. L’alternativa era appunto, secondo lui, comunismo o barbarie. I formidabili tentativi di dargli ragione su questo punto verificatisi nei primi due terzi del XX secolo hanno di fatto considerevolmente frenato e deviato la logica capitalista, in particolare in seguito alla Seconda guerra mondiale.
Dopo circa trent’anni, dopo il crollo degli Stati socialisti come alternative percorribili (il caso dell’Unione Sovietica), o il loro sconvolgimento operato da un violento capitalismo di Stato dopo lo scacco di un movimento di massa esplicitamente comunista (è il caso della Cina tra gli anni 1965 e 1968), abbiamo finalmente il dubbio privilegio di assistere alla verifica di tutte le predizioni di Marx sull’essenza reale del capitalismo e delle società che esso regge. Alla barbarie siamo già arrivati, e vi stiamo sprofondando dentro di gran carriera. E tutto questo corrisponde nei minimi dettagli a ciò che Marx si augurava che la potenza del proletariato organizzato sarebbe riuscito a impedire.
Il capitalismo contemporaneo non è dunque in alcun modo creativo e postmoderno: pensando di essersi sbarazzato dei propri nemici comunisti, segue quella linea di cui Marx, approfondendo l’opera degli economisti classici in una prospettiva critica, aveva percepito l’andamento generale.
Non saranno di certo il capitalismo o la schiera dei suoi servi politici a risvegliare la Storia, se con «risvegliare» intendiamo l’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice, con lo scopo di uscire una volta per tutte dall’ordine stabilito. In tal senso, Fukuyama non aveva affatto torto: giunto al proprio completo sviluppo, e consapevole dell’ineluttabilità della propria morte – anche a costo, cosa disgraziatamente probabile, di una violenza suicida – al mondo moderno non resta altro che pensare alla «fine della Storia», proprio come quando Wotan, nel secondo atto de La Valchiria di Wagner, spiega a sua figlia Brünnhilde che il suo unico pensiero è «la fine! la fine!»
Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo nel carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza di un’Idea.
1. Per un’interpretazione molto chiara delle forme di capitalismo contemporaneo, rimando a due libri di Pierre- Noël Giraud: L’Inégalité du monde contemporain (Gallimard, Paris, 2001) e La Mondialisation (2008). Giraud chiarisce, in modo molto convincente, la modificazione globale (e reattiva) del capitalismo planetario a partire dalla fine degli anni Settanta.

venerdì 9 agosto 2013

Ciance e fandonie sulla crisi.

ITALIA | Autore: fabio sebastiani
                     Il punto rimane lo stesso: meno salari e meno diritti
La ripresa? Solo quando si interverrà sul mercato del lavoro. Su questo punto sono d’accordo sia la Bce che Bankitalia, che ieri si sono esercitate sulla “divinazione” dell’uscita dalla crisi. Nessuno ci sta capendo niente, in realtà. E allora l’argomento diventa ottimo per speculazioni politiche e retoriche varie. Sull’attacco al lavoro, però, guarda caso sono tutti d’accordo. Se non si prosegue sulla strada della diminuzione dei salari, il ridimensionamento dei diritti, la privatizzazione del welfare, e l’aumento della flessibilità la ripresa sarà men che meno di un argomento da talk show.
Se si vuole incoraggiare la crescita i paesi dell'area euro devono procedere, raccomanda la Bce, a una "piu' rapida attuazione delle necessarie riforme strutturali al fine di promuovere la competitivita', la crescita e la creazione di posti di lavoro". La Banca centrale chiede anche la "rimozione delle rigidita' nel mercato del lavoro, la riduzione degli oneri amministrativi e il rafforzamento della concorrenza nel mercato dei beni e servizi di particolare giovamento per le piccole e medie imprese". Queste misure "sono essenziali per abbassare il livello attualmente elevato di disoccupazione specie nelle fasce piu' giovani della popolazione". Ieri, perfino il premier Letta ha parlato di una crescita senza lavoro, alludendo al fatto che il prossimo tavolo sindacale sarà fondamentale per dare un segnale al Paese. .
Insomma, pare di capire che il refolo di ripresa che tutti annunciano per fine anno/inizio 2014 sarà debole e non sufficiente a muovere la granitica disoccupazione che ormai in Europa è dell’ordine di 23 milioni di persone.
Il nodo della crisi rimane tutto finanziario, cioè in capo alle banche, da dove è cominciato tutto. Da questo punto di vista non c’è nessuna differenza tra Usa ed Europa. Tutti e due i sistemi hanno affrontato la crisi a partire dal mantenimento degli istituti di credito. In Usa sono stati salvati dalla mano pubblica, in Europa dai cittadini, sotto varie forme. In Italia pagando una tassa invisibile chiamata differenziale del costo del denaro.
Infatti, i tassi bancari sui prestiti alle societa' non finanziarie dalla fine del 2011 "rimangono su un livello superiore" a quello registrato in Francia e Germania. Anche sui mutui alle famiglie per l'acquisto di abitazioni i tassi bancari attivi in Italia e Spagna sono superiori a quelli di Francia e Germania. Piu' nel dettaglio i mutui ipotecari in questi due paesi a inizio 2010 "hanno registrato un aumento piu' brusco" che nelle due principali economie europee. Da fine 2011, nota la Bce, i tassi sui mutui ipotecari si sono contratti, anche se "in Italia e Spagna restano superiori ai livelli osservati nel 2010, sebbene i tassi di politica monetaria abbiano raggiunto i minimi storici". Quello delle banche pare, specialmente in Italia, un punto molto dolente. Si serrano infatti ulteriormente i cordoni della borsa: a giugno i prestiti al settore privato - rileva Bankitalia - hanno registrato una contrazione su base annua del 3% (a maggio la contrazione era stata del 2,4%). I prestiti alle famiglie sono scesi dell'1% sui 12 mesi (invariato rispetto al mese precedente), quelli alle societa' non finanziarie sono diminuiti del 4,1% (-3,6% a maggio). Il tasso di crescita su base annua delle sofferenze e' stato del 22% (in diminuzione rispetto al 22,4% nel mese precedente). A giugno le sofferenze bancarie in Italia hanno mostrato un lieve rallentamento del ritmo di crescita annuo, ma i prestiti al settore privato e in particolare alle imprese hanno visto un nuovo accentuarsi della contrazione.
L'Italia è tanto più dipendente dal sistema creditizio perché non sembra in grado di sviluppare, a causa della debolezza e della frammentazione della classe dirigente imprenditoriale, un suo ruolo definito all'interno della divisione internazionale della produzione. L'alto potere di ricatto di banche e flussi finanziari di tutti i generi non solo impediscono la ripresa se non a certe condizioni, ma definiscono precisamente quale deve essere il profilo dei vari settori economici avendo perso il Bel Paese via via tutti i "gioielli di famiglia" dentro la grande svendita delle privatizzazioni.

Crisi, in aumento i sequestri di oro e argento.

CONFLITTI - ITALIA
                     Arresti in crescita del 200% rispetto al 2012
Sono più di 179 i kg di oro e di argento sequestrati dalla Guardia di Finanza da inizio anno, con un aumento pari a più dell'86% se paragonato allo stesso periodo del 2012.
Si contano 86 responsabili di traffico sia di metalli preziosi che di ricettazione che sono stati denunciati nelle operazioni condotte attraverso indagini sul territorio, ma anche ispezioni antiriciclaggio agli operatori del settore e a seguire controlli ai valichi di frontiera.

52 arrestati, più del 200% in più rispetto al 2012.

Anche le indagini antiusura sono aumentate del 40% rispetto al 2012.

In 266 operazioni sequestrati patrimoni accumulati in modo illecito per 167.000.000 di euro,oltre il 1500% rispetto al 2012, denunciando 248 usurai, di cui 49 tratti in arresto.

"Le indagini - spiegano le fiamme gialle - segnalano un'evoluzione del fenomeno a favore di una dimensione più associativa, con sodalizi criminali che danno luogo, in alcuni casi, a vere e proprie 'strutture societarie' esercitando attivita' finanziaria abusiva ed usuraria nei confronti di commercianti, piccoli imprenditori ed artigiani. La crisi economica, che ha ridotto il potere di acquisto e le possibilità di accesso al credito di famiglie ed imprese, rappresenta uno dei motivi per cui talvolta le categorie più disagiate preferiscono vendere il proprio oro ed argento per soddisfare il bisogno di liquidità immediato o rivolgersi a canali 'diversi' dal sistema bancario''.

Il prezzo della crisi: 8 suicidi al mese. Il 6,3% per motivi economici. Uno su quattro tra 35-44 anni

ITALIA | Autore: g.m.
                                
“Debiti, fallimenti, licenziamenti, paura per il futuro, rassegnazione hanno già portato al gesto estremo decine e decine di imprenditori e oggi fanno vittime in maniera sempre più evidente anche tra i disoccupati”.

Queste è la dichiarazione di Nicola Ferrigni, direttore di Link Lab. non ci sono dubbi allora, i numeri diffusi dal Centro studi e ricerche socio economiche, mostrano che dal 2012 sino ad oggi suicidi per motivi economici salgono a 165.

Nel primo semestre del 2013 se ne contano invece 76.
Suicidi e crisi: in Italia dunque il 6,3% è per motivi economici.
“Un terzo dei suicidi si è verificato nel mese di aprile con 24 casi e nei mesi successivi – dice Ferrigni – probabilmente a causa dell’ennesima dose di fiducia degli italiani nei confronti del nuovo Governo e delle politiche economiche per il rilancio del Paese, il numero dei suicidi ha conosciuto una diminuzione. Purtroppo i recenti casi di cronaca e gli ultimi drammatici dati sulla disoccupazione presentano un quadro sconfortante e i suicidi per crisi economica continuano ad essere un fenomeno seriamente preoccupante per il nostro Paese”.
“Nel primo semestre del 2013 – continua Ferrigni – sono cresciuti notevolmente i casi di suicidio tra i disoccupati: si pensi che sono già 29 i suicidi tra i senza lavoro nei primi sei mesi del 2013, contro i 18 registrati nello stesso periodo lo scorso anno e i complessivi 28 casi dell’intero 2012. Si tratta di un quadro preoccupante che rappresenta le drammatiche difficoltà legate alla crisi economica in cui versa il Paese”.
Otto suicidi al mese, questo è il prezzo della crisi
Il numero dei suicidi fra gli imprenditori è il più alto: "34 nei primi sei mesi dell’anno, 83 dall’inizio del 2012 ad oggi i titolari delle aziende che, maggiormente esposti all’andamento negativo del mercato e dell’economia, hanno scelto di rinunciare alla propria vita ritenendo insormontabili le difficoltà e le problematiche legate alla crisi".
Per quanto riguarda l'età, nel primo semestre un suicida su quattro è fra i 35 e i 44 anni.
Se nel primo semestre del 2012 le vittime di suicidio tra i 35 e i 44 anni erano il 9,4% dei suicidi, in quello concluso la percentuale è salita al 23,7%.
Sono infatti diciotto i casi registrati nel primo semestre del 2013 contro i 6 dei primi sei mesi dello scorso anno.
Aumenta sensibilmente il numero dei suicidi nel Nord-Ovest del Paese: 17 gli episodi contro i 7 del primo semestre del 2012. 17 i casi registrati al Centro, poi il Sud con 12 e le Isole con 9.

Un'altra Europa (e un'altra Italia) non passano da Bruxelles. Men che meno da Francoforte



Fonte: liberazione.it | Autore: dino greco
                
Dovrebbe essere superfluo annotare che lo stato di diritto, in una formazione economico-sociale dominata da rapporti capitalistici di proprietà, diventa concetto alquanto vago, petizione di principio, formula astratta che anela ad un’idea di uguaglianza dei cittadini, negata però dalla materialità dei rapporti sociali e dalla sostanziale asimmetria delle possibilità di ciascuno.

Quando poi la classe dei proprietari (diciamo pure: il capitale) esercita il suo potere in modo diretto e particolarmente dispotico, come accade ai giorni nostri, le garanzie formali, labili per definizione, si liquefano come neve sotto i raggi del sole.
Allora accade che la legge del più forte si manifesti in tutta la sua violenza, senza più paraventi ideologici, senza bisogno di ricorrere a mascheramenti che ne ottundano il carattere prevaricatore. Struttura e sovrastruttura della società, rapporti di produzione e forme della politica, attività culturale e, persino, senso comune e comportamenti individuali tendono ad identificarsi, ad appiattirsi su un piano orizzontale: la classe dominante esercita con pienezza il suo potere, “domina”, appunto, anche quando non sa più “dirigere”, pur nel sopruso esercitato sui molti, di cui riscuote paradossalmente il consenso. E reprime con il massimo della coercizione coloro che (movimenti, partiti, associazioni, singoli individui) trovano ancora la forza e l’indipendenza intellettuale necessarie per opporsi.

Qui la manipolazione della realtà e il rovesciamento della verità toccano vertici assoluti: gli eversori si trasformano in tutori della legalità e coloro che si battono per ottenere un minimo di giustizia o di garanzie democratiche sono messi all’indice e perseguitati come guastatori dell’ordine pubblico.

Niente di nuovo sotto il sole, ovviamente. Ma di questi tempi non è inutile ricordarlo, a beneficio degli smemorati, ai cloroformizzati e a quanti ancora, ormai privi di strumentazione critica, continuano a cadere nella rete.

Oggi, tutta la rappresentanza politica ufficiale, quella che in virtù del consenso elettorale riscosso siede in parlamento, si muove dentro un “range” ben delimitato, dentro un perimetro culturale sostanzialmente omogeneo. Gli elementi costitutivi delle relazioni sociali date rappresentano un patrimonio condiviso. Non di quello si discute nel pur litigiosissimo caravanserraglio della politica nostrana. L’acqua che si pesta in quel mortaio è sempre la stessa. Ne sia prova inconfutabile il fatto che la maggiore e più impegnativa richiesta che il Partito democratico avanza ai propri supposti antagonisti del Popolo della libertà è quello di liberarsi di Berlusconi. Ove questa richiesta fosse accolta, la coalizione bipartisan che ha compiuto il proprio apprendistato sotto la direzione dell’uomo della Trilateral e che ora si è trasformata in governo organico (delle “larghe intese”) potrebbe tranquillamente protrarre il proprio sodalizio ben oltre l’emergenza con la quale aveva giustificato la propria nascita, sotto l’impulso e l’autorevole padrinaggio del presidente della Repubblica.

Il problema delle classi subalterne è che tali sono rimaste (o tornate ad essere), malgrado la crisi di sistema abbia prodotto l’impressionante impoverimento di miliardi di esseri umani in tutto il pianeta ed il contemporaneo arricchimento di un pugno di “proprietari universali.
Alla crisi del paradigma sociale dominante non corrisponde cioè la capacità delle moltitudini che ne pagano drammaticamente il prezzo di immaginare un progetto di società diverso ed una strategia per renderlo credibile e praticabile.
L’articolatissimo mondo del lavoro, dei proletari, di coloro che lungo la catena variegatissima dello sfruttamento offrono le loro braccia senza più lo straccio di un diritto esigibile, è stato messo fuori gioco. A questo risultato il capitale si è dedicato con scrupolo scientifico. Purtroppo, dall’altra parte non si è manifestata un’analoga capacità.

Il carattere inesorabilmente territoriale, nella migliore delle ipotesi nazionale, del movimento dei lavoratori ha inesorabilmente cozzato contro il carattere transnazionale dell’impresa capitalistica e della capacità di essa di muovere istantaneamente enormi risorse finanziarie da paese a paese, eludendo ogni possibilità di risposta e corrompendo i legami di solidarietà fra proletari.
A questo colossale spiazzamento non si è sino ad ora trovata, e forse neppure davvero cercata, una replica efficace. A maggior ragione necessaria di fronte al radicale esproprio di sovranità popolare di Stati e Costituzioni che è il tratto distintivo dell’Europa comunitaria nata e sviluppatasi sotto la stella del finanzcapitalismo, dell’economia di mercato e dell’ideologia liberista.
Del mito dell’Europa, di questa Europa, occorre liberarsi al più presto. E non certo per rinculare dentro pericolose illusioni nazionalistiche. Se si aspira ad un Europa dei popoli, nutrita dalla linfa delle costituzioni antifasciste ed egualitarie, non si può ragionevolmente pensare che questa scaturisca – per una sua naturale evoluzione – da una “correzione” dei difetti che oggi stanno catastroficamente demolendo ogni sistema di protezione sociale e tutti i diritti del lavoro.

Proseguire per questa via significherebbe annichilire la stessa prospettiva di un’Europa unita, perché lì continueranno a prevalere gli interessi più forti, come sempre avviene nei tradizionali conflitti intercapitalistici.
Togliersi dal collo quel nodo scorsoio è divenuta una necessità vitale, per tornare a lottare con convinzione contro poteri dotati di reale giurisdizione. Ed anche per ritessere la tela della solidarietà proletaria, totalmente lacerata e resa ininfluente nel contesto continentale.
Il futuro di una possibile Europa unita, a sovranità popolare, e quello della sinistra, oggi non passano da Bruxelles, tanto meno da Francoforte.

L’Italietta d’avanspettacolo getta le ultime maschere dopo la condanna del Cavaliere.

  
Di enzo sanna ·     
La democrazia italiana è profondamente malata e in certe sue parti le infezioni sono a un passo dal degenerare in cancrena. Buttarla sul ridere può essere a volte una buona medicina, a condizione di non considerarla l’unica. Molti esperti sostengono che il “prenderla a ridere” immetta nell’organismo sostanze anti-ossidanti e altri elementi capaci di espellere le tossine proteggendo il corpo e persino aiutando l’organismo a guarire. Proviamoci, allora.

Partiamo con le dichiarazione del redivivo Bondi il quale, dopo essere sparito dai pubblici spalti, forse per sottoporsi a inutili (visti i risultati) sedute di meditazione atte a fargli ritrovare il senso perduto, fuoriesce dal guscio qual chiocciola investita d’acqua piovana nelle serate d’arsura estiva, percependo però solo i sentori dell’umidità, senza ben comprendere il senso della precipitazione atmosferica e gettandosi, dunque, nella vischiosa melma con dichiarazioni tanto improvvide da riprodurre quasi in fotocopia i proclami di fine anni settanta delle brigate rosse, con tanto di minacce annesse e connesse. Povero Bondi! Se solo fosse rimasto a poltrire dentro il guscio.

Un posto sulla scena del ridicolo spetta di diritto all’ex sindaco di Roma Alemanno il quale, non pago dei calcioni ricevuti di fresco dai suoi concittadini, va a capeggiare una sorta di contromanifestazione ai Fori Imperiali, resi finalmente liberi dai veicoli per iniziativa del nuovo, ben più serio e concreto sindaco Marino. Non vi è dubbio alcuno che il tempismo della protesta capeggiata da Alemanno, circondato da un misero manipolo di esaltati (si prenda visione dei video), sottintenda ben altri molto meno nobili scopi rispetto a quelli dichiarati; a dimostrazione, la botta in testa assestata alla povera vice-capo dei vigili urbani con un fendente portato con l’asta di bronzo che issava lo stendardo della Madonna di non so cosa. Povero Alemanno! Se solo possedesse il senso della pudicizia e della vergogna.

Esprimersi sulle dichiarazioni rese alla stampa dalle “donne” del PDL necessita sempre di particolare prudenza. Essere tacciati di maschilismo o roba simile è un attimo. Ma come si fa a non ridere a crepapelle nel sentire le interviste rilasciate da quella “profonda intellettuale” della Biancofiore, come pure dalla “filosofa di nonsoché” della Santanchè, col buon seguito delle altre cosiddette “amazzoni”, evitando di infierire sulla penosa Carfagna, poveretta, o ancor peggio, sulle volgarità da trivio della Mussolini. Bisogna essere forti e motivati per resistere alla tentazione di ribattere parola su parola alle insensate meschinerie delle appena citate. Povere donne del PDL! Perdonale, o Signore, non sanno quel che fanno, ancor meno quel che dicono.

La palma dell’ilarità non può che andare, però, a quel manipolo di esponenti del cosiddetto “esercito di Silvio” i quali, in numero di circa una dozzina, come è misura il contare le uova delle galline, presidiavano le scalinate del palazzo della Cassazione, capeggiati da un tizio dichiaratosi alla stampa, udite udite, “rappresentante del popolo”. Costoro gioivano alla lettura della sentenza senza averne compreso una mazza, come capita a tanta gente del loro partito, sino a quando un povero cristo in seria difficoltà dovette spiegar loro che proprio non era il caso di esultare, datasi la condanna definitiva, inoppugnabile e non più appellabile, del loro “idolo”. Se questo è l’esercito di Silvio, beh, povero Silvio!

Qualora ci trovassimo nell’Italia della Maga Circe e dell’Ulisse buggerato, con i suoi amici trasformati in porci, potremmo anche trovare una qualche passione verso gli avvenimenti citati. Purtroppo, invece, non rimane che piangere sulle reazioni di esponenti delle istituzioni ai vari livelli. Che dire, ad esempio, della più che tardiva indignazione del Presidente Napolitano alle parole eversive di esponenti del PDL come se fossero le prime? Su di lui pesa e peserà nei secoli avvenire l’atteggiamento di tolleranza e, in taluni momenti, persino di appoggio all’allora Governo Berlusconi quando la credibilità internazionale del nostro Paese toccava i più infimi bassifondi intrisi della peggior sozzura cialtrona e cafonesca senza che il Quirinale assumesse alcuna determinazione.

E’ mai possibile che debba essere un giornale come Famiglia Cristiana a dire qualcosa di sensato nel panorama politico invitando tutti, per primi quelli del PDL, a considerare “bollito” il pluri-condannato Cavaliere? E’ mai possibile che il Partito Democratico accetti di governare, in nome di non si sa quale realpolitik , con un partito, il PDL, pregno del peggio del peggio della rappresentanza nazionale, con provate infiltrazioni persino di parte mafiosa?
L’abbiamo iniziata sul ridere, la finiamo col piangere, anche perché la pseudo opposizione del Movimento cinque stelle, impegnata a combattere tutto e tutti, sé stessi compresi, ha imbrigliato un quarto degli elettori nella inutilità di un voto sprecato, godente e goduto su scontati temi di protesta quanto insipiente e insignificante sugli argomenti della proposta.
Insomma, siamo mal messi. Accidenti a noi! Cadono le ultime maschere, mentre i commedianti continuano a recitare, come se nulla fosse, nell’anfiteatro nazionale, ma ora con la faccia scoperta, interpretando la più sconcertante e becera farsa mai messa in scena di fronte all’intero pubblico di questa povera Italietta, col condannato in Cassazione che manifesta la propria innocenza, urlandola da un palco di fronte a un pubblico esultante, felice di adorare uno che scamperà alla galera solo per le leggi che si è fatto da sé.
Prendiamo atto che neppure il salutare umorismo può lenire la grave malattia della democrazia italiana; solo una dose abbondante di forti antibiotici somministrati dai cittadini onesti potrebbe contribuire allo scopo.

giovedì 8 agosto 2013

New York Times: il problema dell'Italia non è solo Berlusconi ma anche gli ex comunisti


INTERESSANTE EDITORIALE DEL NOTO FOGLIO SOVVERSIVO "NEW YORK TIMES" DAL TITOLO: SILVIO BERLUSCONI NON E' L'UNICO PROBLEMA DELL'ITALIA.

"Il centro-sinistra non ha alcun leader né un vero programma: i suoi dirigenti più noti sono ex-comunisti troppo ambiziosi di provare la loro ortodossia capitalista attraverso un'adesione cieca alle dottrine ascetiche preferite dai banchieri tedeschi. Questo non li ha resi popolari con gli elettori italiani. Né ha aiutato l'economia italiana che oggi vive una doppia recessione. La disoccupazione è intorno al 12 per cento, con una crescita insignificante negli ultimi dieci anni".

http://www.nytimes.com/2013/08/06/opinion/its-not-just-silvio-berlusconi.html?ref=global-home&_r=2&

mercoledì 7 agosto 2013

Germania e austerità, finita la luna di miele?

Luigi Pandolfi

Fino a pochi mesi fa, se si chiedeva in giro “a chi giova l’austerità?”, la risposta sarebbe stata scontata: “alla Germania”, ovviamente! La qual cosa non era peraltro priva di fondamento, stanti i livelli dell’economia tedesca in rapporto a quelli del resto d’Europa.

Grazie all’euro ed alle politiche di contenimento della spesa pubblica nell’area Ue, la Germania ha potuto beneficiare per alcuni anni di un reale vantaggio competitivo sui mercati del continente ed anche su quelli emergenti. Da un lato il tasso di cambio reale effettivo nell’area euro ribassato del 15-20% rispetto all’ipotesi del mantenimento della divisa nazionale, dall’altra il deprezzamento della moneta unica rispetto al dollaro ed allo yen, hanno fatto sì che le esportazioni tedesche spiccassero il volo, dentro e fuori i confini dell’Europa, passando dal disavanzo al surplus della bilancia commerciale.

Prima dell’introduzione dell’euro le esportazioni tedesche verso i paesi europei costituivano il 25% del totale, poi, almeno fino al 2012, la percentuale è salita fino al 70% (dato Bundesbank 2011). Sennonché, approfittando proprio dei vantaggi derivanti da un euro debole, negli ultimi tempi la Germania ha puntato molto anche su alcuni mercati emergenti, Cina in primis, abbandonando quote di quello che potremmo definire il mercato “di cortile”.
Fin qui quel che è stato. Ed ora? Due fattori concomitanti rischiano di far finire questa lunga e bella luna di miele. La crisi prolungata nei paesi europei ed il rallentamento dell’economia cinese, stanno minando alla radice alcune certezze dei governanti tedeschi, a cominciare dall’infallibilità delle politiche di rigore.

Secondo i dati forniti dall’Ufficio federale di statistica tedesco (Destatis), le esportazioni sono calate a maggio 2013 complessivamente del 2,4%, la più vistosa contrazione delle esportazioni tedesche dal dicembre 2009, contro una previsione degli esperti che non andava oltre lo 0,4%. Il surplus della bilancia commerciale di maggio si è attestato così a 14,1 miliardi di euro, contro i 17,5 miliardi di euro di aprile. Segnali. Come segnali da prendere in considerazione sono quelli che giungono dall’economia. Certo, stiamo parlando ancora di un sistema in salute, solido, ma alcuni dati permettono di ragionare anche su ipotesi di prospettiva. In questo quadro non sono da sottovalutare il fatto che il Prodotto interno lordo abbia visto solo un debole +0,1% nel primo trimestre 2013, contro lo 0,7% del 2012 e l’1,5% del 2011, che a maggio la produzione è calata dell’1% e sono calati anche gli ordinativi alle aziende, che si è registrato un -1% nelle assunzioni rispetto all’anno precedente.

Cosa ha determinato questa contrazione nella produzione e nelle esportazioni? Alcuni analisti più inclini ad assecondare le ragioni della Cancelliera Merkel e dei fautori del rigore si sono subito affrettati ad imputare questo passo indietro ai problemi di domanda che si registrano nel mercato cinese. Ed in parte è vero. Ma questo non spiega tutto. Per quanto ridottosi l’interscambio con i paesi della Ue, esso costituisce ancora una quota rilevantissima del totale (40%), e la forte recessione che investe alcuni partner commerciali europei, compresa l’Italia, sta avendo un effetto molto negativo sulla capacità di esportazione della Germania. Lo dicono i numeri: - 3,6% le esportazioni nei paesi dell’area euro negli ultimi cinque mesi, soprattutto per il vacillare dei partner commerciali storici, come la Francia, l’Italia e la Spagna.

Chi di austerità ferisce, di austerità perisce? Non è un’ipotesi peregrina, in base alle leggi più elementari dell’economia, o della macroeconomia, se si preferisce. D’altronde non servono grandi sistemi di analisi per capire che se non c’è domanda non ci sono consumi e che senza consumi non c’è produzione ed occupazione. Molto efficace a tal riguardo l’espressione usata da Paul Krugman in un suo recente saggio: “La tua spesa è il mio reddito, la mia spesa è il tuo reddito”. Una regoletta semplicissima a cui nemmeno la Germania può sottrarsi.

Alcuni osservatori, con un certo ottimismo, sostengono che a metà anno le cose dovrebbero andar meglio, ma se il rallentamento del Pil[1] continuasse ai ritmi attuali tra due trimestri la Germania sarebbe da considerarsi ufficialmente in recessione, il che avrebbe un effetto non secondario sulla tenuta dell’attuale impalcatura euro-finanziaria, se non altro per i rivolti psicologici di una simile evenienza al netto dei problemi economici reali che di fatto comporterebbe.

Torna allora il tema di come uscire da questa crisi e di cosa dovrebbe fare la Germania per propiziare tale evenienza. C’è un’unica soluzione, ancora oggi: allentare la morsa dei vincoli di bilancio, consentendo ai singoli paesi politiche di stimolo all’economia attraverso la leva degli investimenti pubblici, in linea generale; per la Germania, ed altri paesi in surplus, come l’Olanda ad esempio, si tratterebbe, attraverso lo stimolo alla domanda interna, anche di incrementare il livello delle importazioni, a vantaggio della ripresa di competitività dei paesi dell’Eurozona maggiormente colpiti dalla crisi.

Diversamente sarà difficile mantenere in piedi l’attuale costruzione euro-monetaria, che scricchiola in parecchi punti e si è fatta già parecchi nemici. Senza una riforma della Bce, che trasformi l’istituto in prestatore di ultima istanza, e una drastica rivisitazione del patto di stabilità dell’Unione, nel prossimo futuro è immaginabile un solo default: quello dell’euro.
E nelle condizioni date non è detto che quest’ultima sia l’evenienza più temibile per il futuro dei popoli europei.


[1] Per il 2014 la Bundesbank prevede una crescita dell’1,4%, contro una previsione dell’1,9%. Ma sarà proprio così?

martedì 6 agosto 2013

«Così siamo ripartiti, nella Grecia in default»

Fonte: il manifesto | Autore: Jamila Mascat
Dall’edilizia ai detersivi naturali. La Vio.me di Salonicco ha riconvertito la produzione e prova a ripartire dall’autogestione. Parla un lavoratore
A febbraio scorso i lavoratori della azienda di materiali edili Vio.Me di Salonicco, senza stipendio da maggio del 2011, hanno rimesso in moto la loro fabbrica avviando la produzione autogestita di detersivi naturali. Con questo slogan: «Voi non potete, ma noi possiamo». Da subito è stata lanciata una campagna di solidarietà per chiedere al governo greco la legalizzazione di quest’impresa. In Francia Makis Anagnostou, membro dell’assemblea generale degli operai della Vio.Me, ha incontrato i lavoratori e le lavoratrici della Fralib di Gémenos (vicino a Marsiglia), la filiale francese del gruppo agroalimentare Unilever che è rinata producendo thé e infusioni grazie all’iniziativa degli ex dipendenti, dopo che la compagnia ha chiuso i battenti nel 2011. Anche Fralib, come Vio.me, si batte per il riconoscimento legale della propria attività.
La direzione della Vio.Me ha abbandonato la fabbrica a maggio del 2011 lasciando a spasso tutti i dipendenti. Dopo una grande mobilitazione, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone a Salonicco e dintorni, gli operai hanno rilanciato la produzione autogestita il 12 febbraio del 2013. Cosa è successo nell’arco di questi due anni?
Per prima cosa, quando Vio.Me ha deciso di chiudere l’attività nonostante non fosse affatto sull’orlo della bancarotta, abbiamo cominciato a batterci per reclamare i salari arretrati e i nostri posti di lavoro. Poi, a luglio del 2011, il sindacato di fabbrica – nato nel 2006 e indipendente dalla Gsee, la Confederazione generale dei lavoratori greci, e dal Pame, il fronte sindacale di ispirazione comunista – si è trasformato in assemblea e ha votato quasi all’unanimità (97%) l’occupazione dello stabilimento confiscando le macchine e i prodotti. A quel punto abbiamo cominciato a immaginare soluzioni alternative. Riciclando i materiali di scarto siamo riusciti a raccogliere un po’ di soldi che ci sono serviti nei mesi successivi per autofinanziarci. Da subito abbiamo creato una cassa di sciopero e abbiamo anche ricevuto una marea di aiuti alimentari, tanto che ogni giorno tornavamo a casa con due buste della spesa piene di cose da mangiare. Me lo ricordo come un momento magico, perché è riuscito a risollevarci il morale. Nel frattempo abbiamo iniziato a considerare l’ipotesi dell’autogestione, sperando nel supporto del governo e delle amministrazioni locali, ma è stata una perdita di tempo, e qualche mese dopo ci siamo costituiti in cooperativa. L’idea era semplice ed è diventata il nostro slogan: se loro, i padroni, non possono, noi operai invece possiamo. Nonostante tutto un anno fa eravamo molto demoralizzati perché non eravamo sicuri di potercela fare da soli, in 38, e in più illegalmente. E invece il supporto del Comitato locale di solidarietà, composto per lo più da attivisti della sinistra radicale o di orientamento anarchico, ci ha fatto intravedere la possibilità di andare avanti anche da soli e immaginare una produzione diversa che non fosse tossica, ma naturale.
Parliamo della riconversione. Per quale motivo avete deciso di passare dalla produzione di materiali da costruzione alla produzione di detersivi naturali? E in che misura oggi si produce in modo diverso rispetto a ieri?
Non produciamo più la stessa cosa per ragioni di sostenibilità economica e soprattutto ecologica. I nostri detersivi – saponi, ammorbidenti, detergenti per i vetri – costano poco, sono pensati per le famiglie greche al tempo della crisi, e non contengono additivi chimici ma solo componenti naturali. Diciamo che trasformare un’impresa chimica e inquinante in una fabbrica attenta all’ambiente per noi è stato anche un modo per ripagare un debito alla società. Ora il lavoro e la cooperativa sono gestiti collettivamente. Facciamo assemblee tutti i giorni e ogni mattina decidiamo chi fa cosa assegnandoci ciascuno una postazione diversa, a rotazione. Nessuno dà gli ordini e ci trattiamo tutti allo stesso modo, sia a livello di stipendi – purtroppo ancora molto bassi – sia a livello di decisioni. Abbiamo stabilito infatti che ogni lavoratore è membro della cooperativa e che ogni membro della cooperativa deve essere un lavoratore, cioè le quote dei membri non possono essere cedute né rivendute. È un modo per garantire la democrazia diretta.
In questo regime di illegalità come riuscite a comprare le materie prime e a rivendere i prodotti?
Sfacciatamente, direi. Per acquistare non abbiamo problemi, perché paghiamo subito e in contanti, e oggi in Grecia se hai disponibilità di soldi liquidi puoi comprare tutto quello che vuoi. Però noi non diciamo che vendiamo i nostri detersivi, ma che li «distribuiamo» nei circuiti di un’economia solidale. La distribuzione è possibile grazie a una rete militante che si è creata fin da subito intorno alla nostra iniziativa e che sorprendentemente finora ha funzionato molto bene. La gente compra in fabbrica o presso i rivenditori che ci sostengono. Per ora siamo distribuiti a livello regionale e stiamo provando a raggiungere il Peloponnes e la Germania, dove ci è stato chiesto di inviare un camion di prodotti da far circolare nei negozi del commercio equo. Abbiamo inventato il nostro slogan: «Date una bella pulita…con la solidarietà!» Se questo sistema riesce a dare i suoi frutti in un contesto di illegalità, chissà che cosa potremmo fare se fosse legale.
A proposito di solidarietà. Qual è il senso dell’appello alla mobilitazione che avete indetto per il 26 giugno ?
Il 26 giugno eravamo in piazza per dire a tutti che produciamo illegalmente. Per dire che fabbrichiamo prodotti naturali e economici e che questo per il governo greco è illegale. Insieme al Comitato di solidarietà alla lotta di Vio.me abbiamo pensato che dichiarare apertamente la nostra condizione potesse essere un’arma per fare pressione sul governo in vista della legalizzazione, e anche un modo per prevenire eventuali azioni di repressione da parte delle forze dell’ordine. Finora non è successo ancora niente. La polizia è soltanto venuta a trovarci con la scusa di fare un sopralluogo, ma senza far nulla. Se dovessero tornare saremmo pronti ad accoglierli come si deve, ma ovviamente non è quello che ci auguriamo. Perciò per ora abbiamo scelto un’altra strada e fatto appello a tutti i comitati di sostegno alla nostra iniziativa, in Grecia e all’estero, suggerendo di organizzare sit-in e manifestazioni per chiedere al governo greco che la cooperativa venga riconosciuta legalmente. La questione della legalità è fondamentale per le conseguenze economiche che comporta. Se vogliamo andare avanti, non possiamo prescindere da questo aspetto.
Qual è il ruolo del Comitato di solidarietà di Salonicco e come è nato?
È nato intorno alla fabbrica, nel momento in cui abbiamo cominciato a contattare associazioni e gruppi di attivisti chiedendo aiuto pratico e supporto logistico e politico. Non abbiamo ricevuto nessuna risposta da parte delle forze politiche governative, dai sindacati e spesso nemmeno dalle organizzazioni della sinistra; in compenso abbiamo avuto il sostegno dei militanti e dei collettivi di base. Sono stati loro a mettere in moto la macchina della solidarietà, che ha fatto conoscere la nostra lotta dappertutto, in Egitto, in Danimarca, in Australia. E sono stati loro i nostri principali interlocutori in tutti questi mesi di preparazione dell’autogestione.
E adesso come pensate di andare avanti?
C’è ancora parecchia strada da fare e mille cose da migliorare: ridurre i costi di produzione, espandere la rete della distribuzione, crescere. Per ora abbiamo dimostrato che sappiamo essere più ecologici dei padroni, ma c’è ancora molto da sperimentare per riuscire a fabbricare colla, malta e altri materiali da costruzione naturali. Speriamo anche di moltiplicarci. In Grecia sono già in corso alcune esperienze importanti di autogestione. Penso alla Sekap tabacchi di Zante, o alla Heracles di Evia, che fabbrica cemento. Noi ci aspettiamo che di esperienze del genere ce ne siamo sempre di più. Qui a Salonicco, per esempio, la produzione industriale si è ridotta del 50%, come pure in molte altre regioni. L’area delle fabbriche è piena di stabilimenti fantasma che sono stati abbandonati e di operai a spasso; e anche quelli che hanno la fortuna di lavorare spesso non hanno la fortuna di essere pagati. L’autogestione può servire a invertire la rotta. Non credo che ci sia niente di pionieristico o innovativo in quello che stiamo facendo. Le nostre rivendicazioni e i nostri strumenti di lotta hanno radici profonde nella storia del movimento operaio. Anzi forse l’occupazione delle fabbriche è la prima cosa a cui pensano naturalmente i lavoratori licenziati in un periodo di crisi. Alcuni di noi all’inizio non erano nemmeno particolarmente di sinistra – oggi invece quelli più a destra votano Syriza – ma erano pronti lo stesso a battersi contro l’azienda per il trattamento che ci ha riservato. Per questo mi auguro che l’autogestione operaia possa fare da traino, cioè che possa funzionare proprio come la ruota di un ingranaggio – è questo il simbolo che abbiamo scelto per il nostro logo- che muovendosi rimette in moto l’intero meccanismo della società. Sperando che siano sempre di più quelli che possono seguire il nostro esempio.

domenica 4 agosto 2013

Intervista a Stefano Rodotà: «È il momento di unire le forze dei movimenti»

Autore: Eleonora Martini
 
La grazia a Berlusconi? «Inaccettabile. Anche perché sarebbe come fare di Napolitano una sorta di super-Cassazione che elimina tutti gli effetti della condanna». Intervista al giurista Stefano Rodotà che parla di «rischio istituzionale e costituzionale che non va corso». È un momento delicato questo per il Paese, dice Rodotà, che richiederebbe un po’ di «coraggio e lungimiranza politica» da parte dei partiti. «Subito la riforma della legge elettorale, e poi il voto», auspica. E nel frattempo, «insieme ad altri», sta pensando a un modo di «unire le forze di quei soggetti civili, politici e sociali» tornati da tempo protagonisti e che ora «non possono più essere trascurati».
Mentre per il Financial Times «cala il sipario sul buffone di Roma», Sandro Bondi usa toni apocalittici minacciando la «guerra civile». Frasi che il Quirinale giudica come «irresponsabili». C’è da preoccuparsi o è solo un’altra farsa?
Ciò che sta avvenendo non è solo una reazione simbolica, rivolta a imrpessionare l’opinione pubblica. I comportamenti tenuti sono qualificabili come eversivi, nel senso che negano i fondamenti della democrazia costituzionale… La richiesta ufficiale del Pdl che, dicono, formalizzeranno nell’incontro con Napolitano, è di «eliminare un’alterazione della democrazia». Sono parole e comportamenti da valutare come rifiuto dell’ordine costituzionale. Al di là delle conseguenze, non si può cedere ancora all’abitudine di derubricare e sottovalutare quelle che vengono considerate «intemperanze verbali». Sono molto colpito dalla parola «irresponsabile» attribuita al presidente Napolitano, che di solito è molto cauto. Ma è evidente che la situazione configurata da Berlusconi e dal Pdl – considerare «un’alterazione della democrazia» una sentenza passata in giudicato – è eversiva. È un fatto di assoluta gravità che non possiamo sottovalutare.
Dunque i toni apocalittici vanno presi sul serio?
Assolutamente sì.
Ma non era tutto prevedibile?
Certo, il governo delle larghe intese è stato un grandissimo azzardo perché tutti sapevano che in pista c’era la vicenda giudiziaria di Berlusconi e che il Pdl non avrebbe certo mostrato responsabilità. Si è scelta questa strada nella speranza che non sarebbe accaduto, ma la storia di Berlusconi, fin da quando rovesciò il tavolo della bicamerale di D’Alema per sottrarsi al giudizio, testimonia esattamente che tutto era prevedibile. E allora oggi confidare in un ravvedimento operoso è pericoloso. Perché Berlusconi può continuare a condizionare pesantemente non solo il governo ma l’intero sistema costituzionale. Presidente della Repubblica, parlamento, magistratura: l’intero sistema costituzionale è in questo momento sotto ricatto.
Un ricatto che rischia di immobilizzare in ogni caso Napolitano. Secondo lei, il capo dello Stato dovrebbe concedere la grazia a Berlusconi?
No. Indipendentemente dai toni, penso che Napolitano non debba concedere la grazia. E sembra che il Quirinale vada prudentemente in questa direzione. Napolitano dovrebbe dire e dirà che una richiesta proveniente da Schifani e Brunetta è irricevibile dal punto di vista formale, anche perché per concedere la grazia vanno prese in considerazione una serie di condizioni, non ultima la condotta del condannato. Su Berlusconi invece pendono altri procedimenti e una condanna di primo grado nel processo Ruby. Rispetto a una persona che ha questo profilo, si può intervenire con un provvedimento di clemenza? Ma c’è di più: una grazia all’indomani della condanna assumerebbe la funzione di un quarto grado di giudizio, cioè una sconfessione della magistratura, facendo di Napolitano una sorta di super-Cassazione che elimina tutti gli effetti della condanna. È un rischio istituzionale che non va corso.
Ieri sul manifesto il presidente della Giunta per le autorizzazioni Dario Stefano ha ricordato l’iter istituzionale che seguirà la decadenza di Berlusconi da senatore. Non è un atto dovuto, dunque?
Ricordiamoci che Alfano ritirò la fiducia al governo Monti dopo l’approvazione della norma sulla decadenza e sull’ineliggibilità. Naturalmente la decadenza dovrebbe essere un atto dovuto e questo passaggio previsto in Parlamento può apparire una singolarità. Ma la legge è molto chiara sul punto: il passaggio in Parlamento è una presa d’atto di un provvedimento operativo nei confronti di uno dei suoi membri. La procedura può essere anche macchinosa ma l’esito non può essere discrezionale.
Il voto non riserverà sorprese?
Forse, visto che la legalità per una certa parte politica è un optional. Ma al Senato c’è una maggioranza che va ben al di là dei numeri del Pdl; sarebbe un fatto davvero istituzionalmente inqualificabile.
Come mai ora sarebbe «necessaria» quella riforma della giustizia fin qui ritenuta «impensabile»?
Appunto. Questa riforma assume il significato della rivincita politica di Berlusconi nei confronti della magistratura. Riscrive – nella situazione drammatica che vive l’Italia – le priorità dell’agenda come condizione per far vivere il governo. Ma anche questa non è una novità. Faccio un solo esempio: quando si costituì la Commissione bicamerale D’Alema Berlusconi chiese che al primo posto fosse iscritta la questione giustizia. Non era compresa tra i compiti della commissione ma ne divenne l’architrave, per accontentare Berlusconi. E infatti, come ci ha rivelato alcuni giorni fa l’ex ministro Flick il suo pacchetto di riforma della Giustizia venne allora bloccato; D’Alema stesso glielo chiese con una lettera. Non si può continuare su questa strada.
Nemmeno con il lavoro dei «saggi»?
Considero quella commissione istituita solo per dare consigli, che non può diventare in nessun modo politicamente rilevante né tantomeno vincolante. E in più ritengo nel merito largamente inaccettabili le loro proposte.
Allora elezioni subito? Con questa legge elettorale?
No, perché rischiamo di nuovo l’ingovernabilità. E ormai sappiamo – ce lo ha detto la Corte costituzionale e ricordato il suo presidente – che andremmo a votare con una legge viziata di incostituzionalità. Sulla questione a dicembre ci sarà una sentenza della Consulta, su richiesta della Cassazione. Ma al di là di questo, c’è anche un problema politico: si può accettare di andare al voto con una legge incostituzionale e politicamente devastante per gli effetti che ha prodotto? Propongo di riconvocare subito le camere per affrontare la legge elettorale. Non occorre sospendere le vacanze: possiamo utilizzare lo spazio riservato alla riforma costituzionale calendarizzata all’inizio di settembre per arrivare subito a una riforma elettorale. D’altronde non si può fare una riforma costituzionale con chi mette in discussione l’ordine costituzionale, è incosciente in questo clima. E invece occorre un’iniziativa immediata per anticipare i tempi e modificare in brevissimo tempo la legge elettorale, partendo a settembre dalla proposta più semplice, quella di Giachetti di ritorno al mattarellum. È l’unica iniziativa politica possibile per mettere minimamente in sicurezza il sistema.
Settembre è un tempo breve e lungo insieme. E il M5S ha smentito di essere disponibile a un governo, sia pur programmatico, con il Pd.
Indipendentemente dalle dichiarazioni del M5S, il Pd dovrebbe porre il problema di sciogliere le camere solo nel caso fosse accertata la mancanza di una maggioranza per costituire un governo, anche di breve durata, che si faccia carico immediatamente della riforma della legge elettorale. Ed è un problema che si presenta solo al Senato. Ma è un passaggio politico che richiede iniziativa, coraggio e lungimiranza politica da parte dei partiti; non ci si può solo chiedere cosa farà il capo dello Stato. Lui deve essere lasciato nella condizione di fare il suo lavoro ma non nel vuoto politico che si era determinato quando i tre responsabili dei partiti che oggi costituiscono la maggioranza, incapaci di eleggere un qualsiasi presidente della Repubblica, si ripresentarono da Napolitano facendo una mossa politicamente gravissima, dettata da debolezza politica.
Lei stesso ne fu protagonista…
Venni coinvolto ma oggi guardo alla vicenda con distacco. Piuttosto come allora in questo periodo, non solo in questi giorni, si è sedimentato attorno al tema della difesa della Costituzione – ma in senso alto: difesa dei valori e dei principi – un’attenzione di forze sociali politiche e civili che non può essere assolutamente trascurata. Ci sono state moltissime iniziative, tra le quali io metto anche l’ostruzionismo parlamentare di Sel e del M5S che ha inseguito la forzatura dell’approvazione ai primi di agosto della legge sulla revisione costituzionale. Ma in questo momento sono necessario iniziative non solo per sostenere la difesa di questi principi ma anche per porre le forze politiche davanti alla loro responsabilità.
Quali iniziative?
È ancora presto per dirlo, con altri abbiamo appena cominciato a pensarci, ma qualcosa è assolutamente necessario fare.
Potrebbe tornare lei stesso protagonista?
I discorsi da protagonista li ho sempre scartati. Dico solo che oltre alle responsabilità dei partiti, c’è una responsabilità propria di soggetti politici sociali e civili che in questo periodo si sono mobilitati – ne abbiamo visto un esempio a Bologna il 2 giugno – e che devono trovare forme di espressione. Non è questione di investitura, semmai l’investitura l’hanno ricevuta in molti e questo è il momento di unire le forze…

Partiti o comitati elettorali?

di Rossana Rossanda

Questo impianto del pensiero politico moderno sta saltando dal 1989 in poi con la crisi dei partiti comunisti e di quel “compromesso keynesiano”, che era nato dopo il disastro economico del ’29, il sorgere dei fascismi e la seconda guerra mondiale. Ed era stato alla base delle costituzioni democratiche, come la nostra. Esso riconosceva che fra capitale e salariato gli interessi sono opposti e cercava di frenare sia una rivoluzione, come quella russa del 1917, sia una reazione come quella fascista e nazista, ponendo dei limiti alla classe più forte, quella del capitale. Era allora comune che il modo di produzione capitalistico dominante in occidente andasse corretto, l’ondata liberista riaperta da Thatcher e Reagan ha dichiarato l’unicità e l’eternità dell’assetto sociale capitalista con la famosa “Tina” e ha messo fine ai “partiti” come espressione di “parti sociali’, lasciando legittimità soltanto ai bilateralismi anglosassoni e a un modo in parte diverso di amministrare l’unica società possibile, quella capitalista. E questo ritorno a Von Hayek è apparso persuasivo agli eredi europei dei partiti comunisti, anzi, come ebbe a dire D’Alema, la “normalità” cui hanno auspicato che anche l’Italia arrivasse.
Da quel momento anche i partiti che hanno continuato a dirsi di sinistra hanno cessato di esprimere un diversa idea di società, con relativi valori e controvalori, avversari e obiettivi e il loro asse si è spostato dalla proposta di un’idea di società e di paese alla promozione delle persone che si candidano a dirigerlo. Non stupisce che il più travolto e sconvolto dal mutamento sia l’erede del Partito comunista, il Pd. Traversato da lotte furibonde tra autoproposti a tenere il presente e i pochi che vorrebbero mantenere una differenza sociale, essere insomma non dico ancora comunisti ma ancora keynesiani. I più, anche nella cosiddetta società civile, di conflitti non ne vogliono più sentir parlare e preferiscono lamentare la degenerazione morale di una politica che non può essere che quella. E non ne vogliono sapere, non per caso, della proposta di Fabrizio Barca, consistente nel ridare ai partiti soltanto il ruolo di propositori di idee di società, separandoli dalle istituzioni dello Stato, con relativi posti e prebende. Non è una proposta semplice ma non è stata presa neanche in considerazione dai candidati leader alla segreteria, e il Pd già non è che un comitato elettorale, il cui problema principale è decidere se la base degli elettori deve essere riservata a chi ne costituiva la base sociale composta dai senza mezzi di produzione (capitali, terre, miniere) oppure l’intera popolazione, capitalista o no. Il voto andrà esclusivamente alla persona del candidato e al suo modo di fare e apparire in una società appunto “normalizzata” come sopra. Un giovane come Renzi non esita a dire che del partito non gliene importa niente, se non come mezzo sul quale salire per arrivare al governo; perché di una società altra non gli cale affatto.
Non so se un partito del genere sarebbe in grado di risanare la crisi italiana, sezione della crisi mondiale in cui il liberismo ci ha messo. Questo non sta nei suoi intenti, come non mi è nota l’analisi delle cause che ne fa finora Barca. Più modestamente la sua proposta sarebbe in grado liberarci da quella sovrapposizione di bassi interessi e illegalità che deprecava Marco Revelli nell’auspicare la fine dei partiti? Forse sì, ma se ne uscirebbe ripulita la sfera della rappresentanza, l’intera formazione della struttura politica andrebbe ripensata. E sarebbe impossibile cancellare il conflitto sociale come oggi fa tutta la politica, destra e sinistra, rappresentati e non rappresentati.

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