Qualcuno dovrebbe spiegare a Matteo Renzi che Barack Obama, l’uomo di cui indegnamente aspira a presentarsi come un clone di provincia, non ha mai pensato di abolire il ferreo sistema di contrappesi parlamentari che nella democrazia americana limita il potere del presidente eletto dal popolo. Anche lì ci sono due camere (elette con sistemi diversi, ma con la stessa funzione legislativa) e anche lì Obama si trova a dover governare con numeri parlamentari che intralciano qualunque sua velleità decisionista. Se Renzi, oltre a fare, come ci ha informati, la sua corsetta mattutina con i discorsi di Obama nell’ipod si fosse anche applicato a seguire il tortuoso iter della riforma sanitaria americana lo saprebbe. E saprebbe anche che a Obama non è mai venuto in mente, sol per questo, di abolire il Senato o la Camera d’imperio con la scusa che rendono farraginoso fare le riforme o che costano troppo (eppure anche lì negli Usa c’è una vasta opinione pubblica provata dalla crisi che se la prende con la casta di Washington).
Ma Renzi non lo sa, o finge di non saperlo. E va avanti come Brancaleone nella sua crociata contro Palazzo Madama, che non è però una crociata contro il palazzo, bensì contro la rappresentanza, dal momento che secondo il suo progetto il palazzo resterebbe, ma abitato da senatori non eletti bensì delegati dai Comuni e dalle Regioni, e con funzioni residuali. L’intervista del presidente del Senato su la Repubblica di oggi dovrebbe servire a farlo riflettere, ma non servirà, perché Brancaleone è Brancaleone e non si fa fermare da nessuno.
Renzi invece sa, perché l’ha detto e ridetto e ripetuto per giustificare il suo patto con Berlusconi sulla legge elettorale, che le riforme istituzionali e costituzionali non si possono fare a colpi di maggioranza. E se questo l’ha fatto valere sulla legge elettorale, che non è una riforma costituzionale, a maggior ragione dovrebbe farlo valere per la riforma del bicameralismo e della forma di governo. Invece qui va avanti come un carro armato, forte ora dell’alleanza con Berlusconi (al Senato), ora (alla Camera) della maggioranza schiacciante di deputati di cui il suo partito gode grazie a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Il carrarmato non prevede soltanto la tabula rasa del bicameralismo, con la sola Camera titolare del voto di fiducia al governo e del processo legislativo. Prevede altresì, anche se questo il buon Matteo non lo dice ma si limita a farlo trapelare, il rafforzamento dei poteri del premier; e si può facilmente immaginare che di un premier così rafforzato si richieda, o prima o poi, l’elezione diretta. Per la quale, grazie all’Italicum, basterebbe il 37% dei votanti, ovvero meno del 30% del corpo elettorale. Dopodiché il premier si troverebbe a regnare con pieni poteri sull’unica Camera superstite, nella quale disporrebbe, sempre grazie all’Italicum, di una schiacciante maggioranza costituita da parlamentari scelti da lui stesso, nella doppia qualità di candidato premier e segretario del partito cui spetta la formazione delle liste elettorali bloccate.
Non bisogna essere esperti di ingegneria costituzionale per valutare il tasso di democraticità di questo progetto. Si tratta palesemente, come dice lo scarno appello promosso da Libertà e giustizia, di una svolta autoritaria, identica a quella che non abbiamo fatto mettere a segno da Silvio Berlusconi negli anni passati (http://www.libertaegiustizia.it/2014/03/27/verso-la-svolta-autoritaria/). Mi allineo dunque a quell’appello sottoscrivendolo parola per parola, nel giudizio non solo sulla riforma (“un sistema autoritario che dà al presidente del consiglio poteri padronali”) ma su ciò che rischia di renderla possibile (“la stampa, i partiti e i cittadini [che] stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare”) e sulla gerarchia delle responsabilità in gioco (“la responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto” perché Berlusconi non c’è più ed è “il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria”). A parziale correzione aggiungo solo una sfumatura, questa. Non è che il Pd metta la sordina sulla svolta autoritaria perché a gestirla adesso c’è il suo leader e non più il Cavaliere. Il fatto vero, che emerge ogni giorno con maggiore evidenza, è che per la maggioranza del Pd questa svolta nell’assetto costituzionale, al pari della svolta nei diritti del lavoro che si annuncia con il jobs act, va benissimo oggi e andava benissimo anche ieri, solo che purtroppo a impedire di attuarla c’era la persona di Berlusconi: come si dice, pareva brutto. Tolta di mezzo la persona, si può finalmente farsi titolari del suo progetto: senza sordina ma ribattezzandolo “il bene degli Italiani”, come Renzi strombazza tre volte al giorno. Chissà perché ci siamo tanto tormentati su come uscire dal ventennio berlusconiano. In fondo era semplice, semplicissimo: bastavano una sentenza che mettesse fuori gioco il Cavaliere e un erede cresciuto nell’altra metà del campo che ne continuasse l’opera.