Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 2 giugno 2012

Sandro Pertini

2 giugno 1946

La memoria al presente

Andrea Cortellessa - ilmanifesto -
Il 2 giugno, col sancire l'inizio di uno Stato democratico e repubblicano, è una ricorrenza di Liberazione. Festa di popolo, non parata di soldati. Una anticipazione da «alfabeta2»
In attesa che, dopo Berlusconi, debba toccare ai Monti-Boys (e nella fattispecie al super-ragioniere Enrico Bondi e alla sua spending review) il merito storico di liberarcene definitivamente, il Capo dello Stato - in perfetta continuità con l'indirizzo della Presidenza Ciampi e con le scelte culturali del centrosinistra italiano negli ultimi vent'anni - ha deciso dunque di non rinunciare neppure stavolta al momento più pacchiano (e inquietante) della vita repubblicana: la parata militare ai Fori Imperiali, che in previsione del 2 giugno da sempre blocca l'area al traffico per una settimanella buona, e poi il giorno fatidico pesta per ore il selciato coi cingoli dei mezzi corazzati, gli anfibi dei parà in mimetica, gli zoccoli dei carabinieri a cavallo, i tacchi delle infermiere-glamour... il tutto sorvolato dal boato mortifero delle Frecce Tricolori. Non è bastato neppure il terremoto in Emilia e in Romagna, a far sì che almeno ai Vigili del Fuoco venisse risparmiato il gran privilegio di far parte del caravanserraglio.
I principi dell'articolo 11Ma, al netto dell'emergenza sismica e dei conti dei super-ragionieri, c'è da chiedersi: che c'azzecca tutta questa ritualità col 2 giugno? Via dei Fori Imperiali è tra l'altro uno dei simboli urbanisticamente più protervi della politica (e scenografia) del piccone fascista. Mentre la festa del 2 giugno, come si sa o si dovrebbe sapere, commemora il referendum che quel giorno e il successivo, nel 1946, decretò la forma istituzionale - repubblicana - della nazione italiana. E dunque non si vede davvero perché la simbolizzazione di tale forma istituzionale debba essere appaltata in forma esclusiva proprio alle Forze armate, con tanto di deposizione di corona d'alloro al Sacrario del Milite Ignoto da parte del Presidente della Repubblica. Una Repubblica, fra l'altro, che è tra i pochi Stati a contemplare, nei propri principi costituzionali, una cosa meravigliosa come l'articolo 11 («L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», con quel che segue) - sia pure ripetutamente aggirato dal governo di Massimo D'Alema, Kossovo 1999, e dai suoi variopinti successori.
Prima che l'evidenza dell'attualità scatenasse la protesta generalizzata (domani le associazioni pacifiste danno vita a una serie di sit-in in varie città italiane, mentre a Roma la Tavola della Pace raccoglierà firme contro le spese militari e la Rete Disarmo darà vita a una serata di incontri e dibattiti alla «Città dell'altra economia» a Testaccio), da qualche tempo s'era cominciato finalmente a dire - per lo più dalla parte cristiana del movimento non-violento - che sarebbe ora di abolire l'orrida parata militare e sostituirla con qualcosa che ricordi - per esempio - come quella del 2 giugno 1946 sia stata anche la prima tornata elettorale ad ammettere al voto le donne, in Italia (così finalmente conferendo, anche a loro, piena cittadinanza); oppure che metta al centro la storia e i problemi attuali dei lavoratori - se è vero che, in quella famosa Carta costituzionale, l'articolo 1 dice quello che dice. Ed è quest'ultima l'idea che avevano ripreso Cgil Cisl e Uil - così interrompendo, con sorprendente alzata d'ingegno, un'annosa subalternità rassegnata alle politiche laburicide da tempo bipartisanizzate - organizzando per domani una manifestazione unitaria appunto dei lavoratori (poi rinviata, questa sì, data appunto l'emergenza terremoto). Susanna Camusso aveva così esplicitato il cortocircuito delle ricorrenze: «l'intenzione è quella di fare il 2 giugno una festa come quella del 1 maggio per avviare un percorso di rivendicazioni».

Γερμανική μαρτυρία σοκ: Αν η Ελλάδα επιτεθεί μας τα παίρνει όλα

- troktiko -
 Γερμανική μαρτυρία σοκ: Αν η Ελλάδα επιτεθεί μας τα παίρνει όλα
Για το ελληνικό χρέος μίλησε Γερμανός καθηγητής Ιστορίας-Οικονομίας στο Spiegel σε σκληρή γλώσσα για τη Γερμανία.Ο Γερμανός καθηγητής της Ιστορίας της Οικονομίας Albrecht Ritschl (LSE) τα λέει έξω από τα δόντια για το ελληνικό χρεός στο έξαλλα ανθελληνικό Spiegel, ο δημοσιογράφος του οποίου δεν πιστεύει στα αυτιά του. Αν αρχίσει η Ελλάδα και αν ποτέ αναγκαστεί η Γερμανία να πληρώσει, τότε θα μας τα πάρουν όλα.
Διαβάστε την πλήρη συνέντευξη του Γερμανού καθηγητή για το ελληνικό χρέος και τη Γερμανία:
Spiegel: Κύριε Ritschl, η Γερμανική κυβέρνηση ενεργεί με ακαμψία στο θέμα της Ελλάδας, στη λογική «λεφτά θα πάρετε μόνο αν κάνετε ό,τι σας λέμε». Κρίνετε δίκαιη αυτή τη συμπεριφορά;
Ritschl: Όχι, είναι απολύτως αδικαιολόγητη. Η Γερμανία έζησε τις μεγαλύτερες χρεοκοπίες της νεότερης ιστορίας. Την σημερινή οικονομική ανεξαρτησία της και το ρόλο του «Δασκάλου της Ευρώπης» η Γερμανία τα χρωστάει στις ΗΠΑ, οι οποίες μετά τον Α΄ αλλά και τον Β΄ Παγκόσμιο πόλεμο παραιτήθηκαν από το δικαίωμά τους για τεράστια χρηματικά ποσά. Αυτό το ξεχνούν όλοι.
Spiegel: Θα μας πείτε τι ακριβώς συνέβη τότε;

venerdì 1 giugno 2012

Al voto l'imprevedibile Irlanda con la paura di finire come la Grecia

ANNA MARIA MERLO - ilmanifesto -
Sotto ricatto, l'Irlanda - secondo paese dopo la Grecia ad essere stato messo sotto tutela dalla troika (Ue, Fmi, Bce) - vota oggi con un referendum sul fiscal compact, il trattato europeo di stabilità, coordinazione e governance che impone la «regola l'oro» di bilancio. I termini del ricatto sono chiari: se gli irlandesi votano «no», perdono immediatamente l'accesso al Meccanismo europeo di stabilità (Esm), la nuova struttura salva-stati. Il legame tra fiscal compact e Esm è stato voluto dalla Germania. Dublino ha assolutamente bisogno del Mes, perché la crescita zero blocca la possibilità di ritorno sui mercati, prevista nel 2013. Dopo tre anni di recessione e sette piani di rigore, l'ex «tigre celtica» continua ad avere il deficit strutturale più alto della zona euro e potrebbe aver bisogno il prossimo anno di un nuovo piano di sostegno finanziario per far fronte alle scadenze del rimborso del debito.
«La nostra ripresa è fragile, non prendiamo rischi», ha affermato il premier democristiano Enda Kenny, per invitare a votare «sì». Tutti i grossi partiti (Fine Gael e laburisti al governo, Fianna Fail, opposizione) chiedono di approvare il fiscal compact. Contro, si sono dichiarate forze molto diverse, dalla sinistra radicale al Sinn Fein, fino all'organizzazione del miliardario Declan Ganley, l'ultraconservatrice Libertas.
L'Irlanda - che almeno ricorre sempre al referendum sui trattati europei - aveva votato «no» nel 2001 contro Nizza e nel 2008 contro Lisbona, salvo poi essere richiamata alle urne, e votare «sì», dopo aver ottenuto alcuni opt out. Ma stavolta la situazione è diversa: Dublino è con le spalle al muro, ha bisogno dell'aiuto europeo e non ha nessun margine per ottenere qualche modifica al testo del fiscal compact, che entrerà in vigore appena 12 paesi sui 17 della zona euro l'avranno approvato (per ora l'hanno votato i paesi con il cappio al collo, Portogallo e Grecia, oltre alla Slovenia per quanto riguarda la zona euro, mentre l'8 maggio l'ha approvato anche la camera dei deputati della Romania, paese non euro). «Andremo alle urne con la pistola alla tempia», ha riassunto il sindacato Ictu, che non dà però indicazioni di voto.
L'Irlanda, che negli anni '80 e '90, era stata indicata ad esempio, si è insabbiata in una lunga crisi, che ha fatto salire il tasso di disoccupazione al 14%, in una situazione di austerità generalizzata, con aumenti delle tasse sui consumi di base, che hanno però lasciato in vigore il dumping fiscale a favore delle imprese. Il debito pubblico sarà al 120% il prossimo anno. L'economia irlandese è molto dipendente dalla zona euro (40% degli scambi) e dalla Gran Bretagna (20%). Dublino, un po' meno di tre anni fa, era riuscita a salvare le banche, bloccando un inizio di bank run grazie a una quasi-nazionalizzazione che ha permesso a un'agenzia specializzata di acquisire 90 miliardi di prestiti. Ma le famiglie restano fortemente indebitate, conseguenza della bolla immobiliare all'origine dello sboom.
L'Unione europea continua ad essere presa nella tenaglia del risanamento a tappe forzate imposto da Bruxelles e dai mercati. Ieri la Commissione ha reso pubbliche le «raccomandazioni» rivolte a 12 paesi, frutto di un'inchiesta avviata lo scorso febbraio nel quadro di una nuova struttura di controllo comune, destinata ad evitare brutte sorprese. La ricetta è sempre la stessa, per tutti, dall'Italia alla Francia, passando per Danimarca, Spagna, Svezia o Gran Bretagna: salari sotto controllo, meno pressione fiscale sul lavoro ma anche meno garanzie, consolidamento dei bilanci, interventi sulle pensioni ecc. Queste «raccomandazioni» della Commissione arrivano in Francia in un momento di transizione politica: Bruxelles ha fatto i calcoli sulla base dei dati forniti dal governo Fillon, che non c'è più; ora sarebbe la sinistra a doverle applicare, in caso di vittoria alle legislative del 10 e 17 giugno.
Per il presidente Hollande e il primo ministro Jean-Marc Ayrault si tratta di un'ingiunzione che va contro una serie di promesse fatte durante la campagna elettorale: ritorno alla pensione a 60 anni per chi ha cominciato a lavorare da giovane, leggero aumento dello Smic (salario minimo) a luglio, maggiore protezione contro i licenziamenti «di Borsa», investimenti pubblici nella scuola e per i giovani.

Se Berlino sposa Pechino

Fonte: il manifesto | Autore: Michelangelo Cocco
        Con l’acuirsi della crisi, la locomotova d’Europa gioca su più tavoli. Impone l’austerità all’Unione, ma apre rapporti privilegiati con la superpotenza di domani. Scambi. La Germania rafforza i legami con la Cina. Per smarcarsi dall’Ue in crisi Uno studio di un think tank europeo analizza la nuova «relazione speciale» tra i due paesi in crescita
«Oggi i tedeschi possono ottenere prestiti allo 0,01% mentre gli altri pagano il 6%. Di questo passo però non ci sarà più un mercato europeo per i prodotti tedeschi, perché gli altri non avranno i mezzi per comprarli». La profezia lanciata la settimana scorsa dal presidente del Parlamento europeo Martin Schultz non preannuncia una catastrofe per la Germania, soprattutto se letta assieme all’ultimo documento dello European council on foreign relations (www.ecfr.eu) sulla «relazione speciale» che Berlino – da sola, non come membro dell’Unione europea – sta rafforzando con Pechino.
Tra i paesi dell’Ue, la Germania è il primo partner commerciale della Cina: la metà delle esportazioni europee nella Repubblica popolare proviene dalla Repubblica federale e tra 1/4 e 1/3 dell’export di Pechino verso l’Ue finisce in Germania. Una crescita vertiginosa dell’interscambio commerciale – soprattutto di quella delle esportazioni tedesche in Cina – che nell’ultimo decennio, secondo lo studio «China and Germany: why the emerging special relationship matters for Europe» ha superato qualsiasi aspettativa, tanto che presto la Repubblica popolare potrebbe scavalcare Stati Uniti e Francia, diventando il primo mercato di sbocco del made in Germany.
Gli estensori del rapporto sottolineano che «i cinesi si rivolgono sempre più all’Europa attraverso la Germania, invece che tramite gli organismi di politica estera istituiti dal Trattato di Lisbona». La Germania, secondo gli studiosi, è naturalmente proiettata verso l’Europa ma «i funzionari sono frustrati dal fallimento dei loro tentativi di sviluppare un approccio strategico comune europeo nei confronti della Cina e ritengono che non possono più aspettare».
Un anno fa si è svolto il primo vertice intergovernativo tra i due stati, un privilegio che fino ad allora la Germania aveva riservato solo a Francia, Israele e India. Tra la locomotiva industriale del Vecchio continente e la seconda economia del Pianeta le relazioni commerciali sono salde da decenni, ma è stata la crisi economica del 2008 a fornirgli un nuovo, inedito impeto: l’economia tedesca, fortemente orientata verso le esportazioni, è andata a nozze col programma di stimolo (oltre 400 miliardi di euro d’investimenti in infrastrutture e welfare) varato tre anni fa dal governo cinese. E ora, col crollo della domanda nei paesi dell’Ue, Berlino si scopre sempre più dipendente dalla Pechino.
Secondo i dati forniti nelle ultime settimane dall’ambasciatore tedesco a Pechino, Michael Schaefer, gli investimenti della Repubblica federale in Cina ammontano a 21 miliardi di euro mentre quelli cinesi in Germania a 600 milioni di euro. Il mese scorso, durante sua visita ufficiale in Germania, il premier cinese Wen Jiabao ha indicato l’obiettivo di raddoppiare l’interscambio commerciale entro il 2015, portandolo a 280 miliardi di dollari.
Il rapporto dello Ecfr definisce quella tra le due economie una «simbiosi quasi perfetta», dal momento che «i consumatori cinesi vogliono prodotti tedeschi di alta qualità, come le automobili, e le aziende cinesi hanno bisogno dei macchinari tedeschi».
Degli oltre 5milioni di veicoli a motore in circolazione a Pechino una gran parte è costituito da Volkswagen, Bmw, Audi, Porsche e Mercedes. E tra i due paesi è stato appena siglato un accordo per l’apertura di un grande stabilimento Volkswagen nello Xinjiang, la regione del nord-ovest della Cina ai margini dell’Asia centrale.
La «simbiosi» però non esclude futuri conflitti, perché le merci cinesi – che mirano a compiere un «balzo in avanti» tecnologico – potrebbero entrare in competizione con quelle tedesche. Il campanello d’allarme è suonato il mese scorso, quando la tedesca Q-Cells (pannelli solari), schiacciata dalla concorrenza cinese, ha dichiarato fallimento.
E quella parte delle riserve cinesi di valuta estera che ci s’illudeva potesse acquistare bond dei governi europei in crisi debitoria o alimentare il fondo «salva Stati» Efsf? È finita nei bund tedeschi, molto meno redditizi ma immensamente più sicuri dei titoli concorrenti. Il perché, secondo i ricercatori, è presto detto: «Con la crisi sullo sfondo, i membri del governo e gli analisti cinesi vedono una Germania sempre più potente, una Francia indebolita e una Gran Bretagna isolata».
Lo studio lo sottolinea nelle sue conclusioni: è stata l’incapacità dell’Unione europea di sviluppare una «partnership strategica» con la Cina a convincere i tedeschi – che «sentono che per loro la posta in gioco è altissima» – che non potevano più aspettare l’Europa».

Le buone intenzioni portano l’euro all’inferno

Fonte: micromega
       
 di Guido Rossi , da Il Sole 24 Ore, 
«Se era necessaria una prova della validità della massima che le vie dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni, la crisi economica in Europa l'ha fornita». La frase non è mia, ma di Amartya Sen in un articolo sul «New York Times» del 23 maggio, nel quale sottolinea poi che l'aspetto più inquietante dell'attuale malessere europeo è la sostituzione degli impegni democratici con i dettati finanziari da parte dei leader dell'Unione europea e della Banca centrale europea e indirettamente dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono notoriamente inaffidabili. Con questa diagnosi è difficile non essere d'accordo e, non è un caso allora che tutta la politica europea risulti vaga e inconcludente nei fatti, ma martellante e precisa nei continui annunci mediatici, su una crescita che non arriva, su una giustizia sociale che sembra l'ultima delle preoccupazioni della maggioranza dei leader europei e su una Grecia che debba essere salvata e rimanere nell'euro oppure no. Il deficit decisionale della politica europea si ripercuote anche in Italia, dove leader vecchi e finti nuovi cercano di confondere la volontà popolare con l'idea di un capo che tutto decide per il bene comune, persino aldilà e al di sopra di chi è stato eletto dal popolo.

Questa è una vera minaccia per la democrazia che, per sua natura, come aveva già sottolineato Hans Kelsen, non tollera i capi. Lo ricorda straordinariamente nel suo ultimo libro Luigi Ferrajoli (Poteri selvaggi, Laterza, 2011, pagg. 25), il quale poi aggiunge che sempre i capi, tanto più se abbietti o mediocri, sono soggetti a continue autocelebrazioni, come esseri eccezionali e diretti interpreti degli interessi popolari.

Per la verità l'idea è antica e addirittura risale alla Repubblica di Platone (III, 397 D), il quale scrive che «se si presentasse alla nostra città (…) chi in virtù della sua abilità sapesse recitare tutte le parti e imitare ogni modello, non mancheremmo certo di venerarlo come un uomo divino e meraviglioso, e ricco di fascino. E, tuttavia, gli diremmo anche che non c'è posto nel nostro Stato per un uomo come lui, né che ci potrebbe essere e lo dirotteremmo verso altre città, non prima di avergli versato sul capo essenze profumate e di averlo bendato con nastri di lana». Purtroppo Platone è lontano.

Sembra allora inquietante che i leader europei, escludendo qualunque discussione aperta con i cittadini, abbiano questa settimana ancora fallito nelle ambiziose iniziative necessarie per uscire dalla crisi e, per quello che riguarda il problema europeo di maggior rilievo, si siano da un giorno all'altro contraddetti; ciò risulta in modo particolare a proposito del salvataggio della Grecia e del fallimento totale della politica di austerità, con pericolosi disagi nella vita dei cittadini e un loro allontanamento dal mondo della politica, che li sovrasta in una sorta di nuvola surreale.


SPRINGS

giovedì 31 maggio 2012

Intervista a Schröder: «Quello che Berlino impone ad Atene non ha senso né politico né economico»

Paolo Valentino - controlacrisi -
     Gerhard Schröder: «Merkel pensa in termini elettorali. E sbaglia»
ROMA — «Quello che fa il governo tedesco, cioè dire alla Grecia che bisogna fare contemporaneamente le riforme e la politica di austerità, non ha alcun senso né politico, né economico. È chiaro che hanno bisogno di più tempo. Non posso sottoscrivere in toto la poesia di Günter Grass sulla Grecia, ma ha un argomento forte: non abbiamo dato ad Atene molte chance».
Il giardino dell'Hotel de Russie è un luogo speciale per Gerhard Schröder. Fu qui, alle pendici del Pincio nella primavera del 2005, che l'allora cancelliere tedesco rivelò al suo ministro degli Esteri verde, Joschka Fischer, l'intenzione di voler giocare la carta delle elezioni anticipate. Fu l'inizio della fine per la coalizione rosso-verde: «Joschka era molto deluso, ma io non avevo altra scelta». Schröder perse quella scommessa solo in parte: Angela Merkel divenne cancelliera, ma fu costretta per quattro anni a governare insieme alla Spd.
La ragione di quell'azzardo politico ci riporta direttamente all'oggi. Schröder aveva varato la più radicale e dolorosa riforma del welfare tedesco dai tempi di Bismarck. La base socialdemocratica era in rivolta. La Spd veniva punita in ogni elezione regionale. Per di più la Germania e la Francia, con il permesso dell'Italia, avevano ottenuto di poter violare senza pagar dazio i criteri di Maastricht. «Nessun governo in una democrazia può imporre riforme strutturali e allo stesso tempo attuare una politica di austerità, pena gravi tensioni sociali. Questa fu la situazione tedesca nel 2003. Io avevo appena realizzato l'Agenda, oltre 20 miliardi di euro di tagli e una severa riforma del mercato del lavoro. Ma non potevamo strozzare ulteriormente l'economia. Così abbiamo chiesto un margine più ampio nel rispetto dei criteri. Poi ho perso le elezioni, la signora Merkel ne ha approfittato, l'economia è ripartita, ma questa è un'altra storia. La lezione di allora è che un Paese come la Grecia ha bisogno di più tempo».
C'è un reale pericolo che l'euro si disintegri?
«No, non credo. Analizziamo i termini del problema. Abbiamo un fiscal compact sottoscritto dai Paesi dell'eurozona. C'è stata un'elezione in Francia, con la vittoria di Hollande che chiede di rinegoziarlo. C'è qualche passo in direzione della politica economica comune, cioè verso l'unione politica. Cosa può ottenere in più il nuovo presidente francese? Probabilmente un completamento, non formale ma di sostanza, in direzione di un patto per la crescita, senza bisogno di rimettere in discussione il patto fiscale. Con il che potrà dire che la sua rivendicazione è stata recepita. Di questo faranno parte tre elementi: una concentrazione dei fondi strutturali e di coesione verso i Paesi che ne hanno più bisogno: ci sono ancora risorse significative disponibili per infrastrutture, ricerca, sviluppo. L'aumento della dotazione della Bei, attraverso i cosiddetti project bond, oppure l'aumento del suo capitale. Poi verranno gli eurobond, cioè il primo passo verso l'europeizzazione del debito…».
Ma è ciò che la Germania non vuole…
«È vero, la Germania in questo momento non lo vuole. Ma la questione è che contemporaneamente bisogna fare passi concreti verso il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie. Non si possono fare gli eurobond, senza portare a termine le riforme strutturali di cui ogni Paese ha bisogno e senza muoversi allo stesso tempo verso l'unione politica. Queste cose devono marciare insieme. E a queste condizioni, la Germania non avrebbe più argomenti per dire di no».

Un’offesa alla Repubblica

il manifesto | Autore: Tommaso Di Francesco
       
Nel momento del disastro materiale di popolazioni colpite dal terremoto, come si dà prova di «vitalità, forza democratica e fermezza», le virtù necessarie secondo il presidente Napolitano a celebrare la Festa della Repubblica, se non scartando dalla tradizione che vuole una parata militare e impegnando invece quegli uomini e mezzi nel soccorso e nell’aiuto? Invece delle urla dei comandi, del ritmare del passo dei soldati, dello sferragliare dei carri armati e delle scie assordanti dei cacciabombardieri nei cieli di Roma, non dovrebbe esserci un silenzio, questo sì «sobrio», rispettoso, operoso e partecipe per un’altra ferita civile che si apre nel cuore del Belpaese?
Dovrebbe essere un ragionamento ovvio e scontato di fronte all’emergenza dolorosa e immane che ha colpito l’Emilia, tanto più che è già accaduto nel 1976, ha ricordato il manifesto, quando per il terremoto del Friuli la presidenza Leone sospese la parata. Invece c’è solo la consapevolezza di tanti, dai siti web all’opposizione di sinistra (ma anche a destra), ma non delle cosiddette istituzioni, dalla presidenza della Repubblica al governo dei tecnici, nel taciturno e spettrale consenso di chi lo sostiene: il Pdl, e il Pd, che pure alla costola democratica dell’Emilia dovrebbe essere legato, come dovrebbe piangere sulla strage operaia dentro un modello produttivo che tanto ha esaltato.
Il fatto è che quella parata era un’offesa anche prima del terremoto. Uno spreco insopportabile il costo previsto e già attivato di circa 4 milioni di euro in piena crisi, a cui si è aggiunto il ridicolo dell’avere costretto ad imparare a marciare per il 2 giugno molti giovani che fanno parte del Servizio civile taglieggiato nei nuovi fondi governativi. Questa parata militare così concepita, più che celebrare la Festa della Repubblica, doveva e deve servire ad essere vetrina pubblicitaria del supermarket delle armi andato in onda all’ultimo vertice della Nato di Chicago del 20 e 21 scorsi. Utile quindi solo a giustificare i 10 miliardi di spesa nel bilancio del governo dei tecnici e del ministro-generale Di Paola, per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F-35. Visto che non basta più correre da un sisma all’altro, da un’alluvione all’altra, quanto assetto del territorio italiano potrebbe essere sanato con 10 miliardi di euro? Altro che l’aumento impopolare deciso ieri dal governo del 2% delle accise dei carburanti per arrivare a 500 milioni da destinare – forse, visto il ruolo delle assicurazioni private previsto dalla nuova legge per i rimborsi da terremoto – alla ricostruzione.
Ma naturalmente la parata deve rappresentare lo spot celebrativo delle guerre che ci hanno visti impegnati a disprezzo dell’articolo 11 della nostra costituzione, repubblicana appunto, che «bandisce il ricorso alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali». Ma di quali conflitti dovremmo essere fieri, visto che dall’Iraq, ai Balcani, dalla Somalia all’Afghanistan fino alla Libia quel «ricorso alla guerra», quegli interventi armati più o meno ipocritamente giustificati non hanno risolto le crisi ma, aggiungendo guerra a guerra e troppe stragi di civili, le hanno trasformate solo in immensi buchi neri e rovine della storia? Si dirà che in alcuni luoghi siamo forza di pace che si interpone. Bene, allora celebriamo la pace che si interpone inviando subito uomini e mezzi a soccorrere le popolazioni dell’Emilia.
La volontà sotterranea e nuova a dire no alla parata del 2 giugno è forte domanda di democrazia. Se inaspettatamente in Italia ha prevalso un referendum per impedire la privatizzazione dell’acqua, è ormai tempo di trovare forme e modi per una iniziativa popolare contro le spese militari. Siamo ancora in tempo a mobilitarci contro. A fermarla, la parata di rovine.

La guerra di Hollande ai super stipendi

La guerra di Hollande ai super stipendi- gadlerner -

François Hollande continua la sua battaglia contro gli stipendi troppo alti, nella politica e nelle grandi imprese pubbliche. Dopo aver tagliato del 30% la sua retribuzione e quella dei suoi ministri, a partire dal presidente del consiglio Ayrault, il nuovo inquilino dell’Eliseo sta realizzando un’altra promessa fatta in campagna elettorale, la riduzione dei salari stellari dei top manager. François Hollande aveva sottolineato come fosse ingiusto che il capo di un’azienda guadagnasse più di venti volte rispetto ad un suo dipendente. Attualmente il rapporto è molto superiore, anche nelle imprese a controllo statale, e il governo francese dovrebbe introdurre entro due settimane la nuova normativa che limiterà le retribuzioni nelle cinquantadue grandi imprese controllate o partecipate dallo Stato. Gli effetti della cura Hollande si stanno già vedendo. La buonuscita da 400 mila euro del presidente di Air France Pierre-Henri Gourgeon è stata bloccata dal governo, e nella prossima assemblea della società aeronautica i rappresentanti dell’azionista pubblico proveranno a cambiarla, come si intuisce dal durissimo comunicato rilasciato da Pierre Moscovici, ministro dell’Economia, e di Arnaud Montebourg, responsabile del nuovo dicastero del Risanamento produttivo.

“L’indennità è stata approvata dal precedente governo”, quello di centro-destra, di François Fillon, si legge ancora nel comunicato, “e non si iscrive nel senso delle regole di moderazione e di decenza annunciate dal presidente François Hollande”. I due ministri vanno giù duro: “Quell’indennizzo è inappropriato in un momento in cui l’azienda conosce un momento difficile”
Secondo alcune indiscrezioni, riprese anche dal Financial Times, il presidente di EDF, Henri Proglio, avrebbe accettato una riduzione del 70% del suo compenso, passandoo da un milione e seicentomila a neanche mezzo milione di euro l’anno per rispettare il nuovo rapporto 20 a 1. Il ministro Moscovici ha apprezzato molto la scelta del manager, evidenziando come “chi lavora per una compagnia pubblica, ed è attaccato al proprio paese, deve essere disponibile ad accettare questa paga ridotta”. Atri top manager sono nel mirino del governo, e tutti dovranno adeguarsi alla “decenza” nelle retribuzioni, come l’ha definita il ministro Montebourg, uno dei leader dell’ala sinistra dei socialisti. La svolta di Hollande in tema di grandi ricchezze, iniziata con il taglio del suo stipendio e che prevede ora la drastica riduzione dei salari dei top manager pubblici, proseguirà con l’introduzione di un’aliquota del 75% su chi guadagna più di un milione di euro. Una proposta molto popolare in Francia, e che lo stesso presidente ha definito un atto di moralità e patriottismo.

THE PARADE OF THE 2nd OF JUNE
the italian president insist to celebrate the traditional military parade(cost 3 million euro)despite  adverse opinion in the web and media  (the money could be given to the earthquake victims)
PARADE in italian also "to save a goal"

mercoledì 30 maggio 2012

Slavoj Zizek: Salvateci dai salvatori

Fonte: Sandwiches di realtà | Autore: Slavoj Zizek
        Un articolo di Slavoj Žižek sull'Europa e i greci uscito nei giorni scorsi sulla London Review of books. Il filosofo sloveno sarà sabato 3 a Atene per un incontro pubblico con il leader di Syriza Alexis Tsipras.
Immaginate una scena di un film distopico che raffigura la nostra società nel prossimo futuro. Guardie in uniforme pattugliano le strade mezze vuote del centro durante la notte, a caccia di immigrati, criminali e vagabondi. Quelli che trovano vengono brutalizzati. Quella che sembra una fantasiosa immagine di Hollywood è una realtà nella Grecia di oggi. notte, vigilantes in camicia nera del movimento negazionista neo-fascista Golden Dawn – che si è aggiudicato il 7 per cento dei voti nell’ultimo turno di elezioni, e ha avuto il sostegno, si dice, del 50 per cento della polizia ateniese – sono stati pattugliando la strada e picchiando tutti gli immigrati che possono trovare: afghani, pakistani, algerini. Così questo è il modo con cui l’Europa viene difesa nella primavera del 2012.
Il problema nella difesa del la civiltà europea contro la minaccia degli immigrati è che la ferocia della difesa è una minaccia alla ‘civiltà’ maggiore di qualsiasi numero di musulmani. Con difensori amichevoli di questo tipo, l’Europa non ha bisogno di nemici.
Cento anni fa, G.K. Chesterton articolò la situazione di stallo in cui i critici della religione si trovano: ‘Gli uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità finiscono buttando via la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa … I laici (secularists) non hanno distrutto le cose divine; ma i laici hanno distrutto le cose secolari, se questo è un conforto per loro’. Molti guerrieri liberali sono così desiderosi di combattere il fondamentalismo anti-democratico che finiscono col sopprimere la libertà e la democrazia pur di combattere il terrore. Se i ‘terroristi’ sono pronti a distruggere questo mondo per amore di un altro, i nostri guerrieri contro il terrore sono pronti a distruggere la democrazia in odio per l’altro musulmano. Alcuni di loro amano la dignità umana, tanto che sono pronti a legalizzare la tortura per difenderla. Si tratta di una inversione del processo attraverso il quale i difensori fanatici della religione iniziano attaccando la contemporanea cultura secolare e finiscono per sacrificare le proprie credenziali religiose nel loro desiderio di sradicare gli aspetti della laicità che odiano.
Ma i difensori anti-immigrati della Grecia non sono il pericolo principale: sono solo un sottoprodotto della minaccia vera, la politica di austerità che hanno causato la situazione difficile della Grecia.
La prossima tornata di elezioni greche si terrà il 17 giugno. L’establishment europeo ci avverte che queste elezioni sono cruciali: non solo il destino della Grecia, ma forse il destino di tutta l’Europa è in bilico.
La prossima tornata di elezioni greche si terrà il 17 giugno. L’establishment europeo ci avverte che queste elezioni sono cruciali: non solo il destino della Grecia, ma forse il destino di tutta l’Europa è in bilico. Un risultato – quello di destra, essi sostengono – consentirebbe al processo doloroso ma necessario di ripresa attraverso l’austerità di continuare. L’alternativa – se il partito di ’sinistra estrema’ Syriza vince – sarebbe un voto per il caos, la fine del mondo (europeo) come lo conosciamo.
I profeti di sventura hanno ragione, ma non nel modo in cui intendono. I critici dei nostri attuali sistemi democratici lamentano che le elezioni non offrono una vera e propria scelta: ciò che si ottiene, invece, è la scelta tra un partito di centro-destra e di centro-sinistra, i cui programmi sono quasi indistinguibili. Il 17 giugno, ci sarà una vera e propria scelta: l’establishment (Nuova Democrazia e Pasok) da un lato, Syriza dall’altro. E, come avviene di solito quando una scelta reale è in offerta, l’establishment è in preda al panico: il caos, la povertà e la violenza seguiranno, dicono, se la scelta sbagliata è fatta. La semplice possibilità di una vittoria di Syriza si dice che abbia inviato onde di paura attraverso i mercati globali. La prosopopea ideologica ha il suo giorno: mercati parlano come se fossero persone, esprimendo la loro ‘preoccupazione’ su cosa accadrà se le elezioni non riescono a produrre un governo con il mandato di persistere con il programma UE-FMI di austerità fiscale e riforme strutturali. I cittadini della Grecia non hanno tempo per preoccuparsi di queste prospettive: hanno abbastanza di cui preoccuparsi nella loro vita quotidiana, che sta diventando miserabile ad un livello mai visto in Europa da decenni.
Tali previsioni sono previsioni che si auto-avverano, causando panico e portando così le eventualità stesse contro le quali mettono in guardia. Se Syriza vince, l’establishment europeo si augurerà che impariamo nel modo più duro che cosa accade quando viene effettuato un tentativo di interrompere il circolo vizioso di complicità reciproca tra tecnocrazia di Bruxelles e populismo anti-immigrazione. Questo è il motivo per cui Alexis Tsipras, leader di Syriza, ha chiarito in una recente intervista che la sua prima priorità, dovesse Syriza vincere, sarà quella di contrastare il panico: ‘Il popolo vincerà la paura. non soccomberà, non cederà ai ricatti’ Syriza ha un compito quasi impossibile. La loro non è la voce della ‘follia’ di estrema sinistra, ma della ragione che parla contro la follia dell’ideologia del mercato. Nella loro disponibilità a prenderlo, hanno bandito la paura della sinistra di prendere il potere, hanno il coraggio di chiarire la confusione creata da altri. Avranno bisogno di esercitare una formidabile combinazione di principi e pragmatismo, di impegno democratico e la disponibilità ad agire con rapidità e decisione, ove necessario. Se stanno per avere anche una minima chance di successo, avranno bisogno di una manifestazione di solidarietà tutta-europea: non solo un trattamento dignitoso da parte di ogni altro paese europeo, ma anche le idee più creative, come la promozione del turismo solidale questa estate. Nelle sue Notes towards the Definition of Culture, TS Eliot ha osservato che ci sono momenti in cui l’unica scelta è tra eresia e non credenza – vale a dire, quando l’unico modo per mantenere viva una religione consiste nell’eseguire una scissione settaria. Questa è la posizione in Europa oggi. Solo una nuova ‘eresia’ – rappresentata in questo momento da Syriza – può salvare ciò che vale la pena di salvare dell’eredità europea: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria ecc. L’Europa che verrà fuori se Syriza è meno abile dei suoi avversari è un ‘Europa con valori asiatici’- che, naturalmente, non ha nulla a che fare con l’Asia, ma tutto a che fare con la tendenza del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia.
Ecco il paradosso che sostiene il ‘voto libero’ nelle società democratiche: uno è libero di scegliere, a condizione che si fa la scelta giusta. Per questo motivo, quando la scelta sbagliata è fatta (come quando l’Irlanda ha respinto la Costituzione europea), la scelta è trattata come un errore, e l’establishment chiede subito che il processo ‘democratico’ sia ripetuto in modo che l’errore possa essere corretto. Quando George Papandreou, allora primo ministro greco, ha proposto un referendum sull’accordo sul piano di salvataggio della zona euro alla fine dello scorso anno, lo stesso referendum è stato respinto come falsa scelta.
Ci sono due storie principali sulla crisi greca sui media: la storia tedesco-europea (i greci sono irresponsabili, pigri, spendaccioni, evasori fiscali etc, e devono essere portati sotto controllo e deve essere loro insegnata la disciplina finanziaria) e la storia greca (la nostra sovranità nazionale è minacciata dalla tecnocrazia neoliberista imposta da Bruxelles). Quando divenne impossibile ignorare la difficile situazione del popolo greco, una terza storia è emersa: i greci sono ora presentati come vittime umanitarie che hanno bisogno di aiuto, come se una guerra o una catastrofe naturale avesse colpito il paese. Mentre tutte e tre storie sono false, la terza è senza dubbio la più disgustosa. I greci non sono vittime passive: sono in guerra con l’establishment economico europeo, e ciò di cui hanno bisogno è la solidarietà nella loro lotta, perché è anche la nostra lotta. La Grecia non è un’eccezione. È uno dei principali banchi di prova per un nuovo modello socio-economico di applicazione potenzialmente illimitata: una tecnocraziadepoliticizzata in cui è consentito ai banchieri e altri esperti di demolire la democrazia. Salvando la Grecia dai suoi cosiddetti salvatori, salviamo anche l’Europa stessa.
25 maggio 2012
articolo originale dalla London Review of Books: Save us from the saviours
traduzione di Maurizio Acerbo

Annullata la parata del 2 giugno

Questa è la lettera di risposta che Lelio Basso scrisse all’allora ministro della Difesa Arnaldo Forlani che decise di sospendere la parata militare del 2 giugno 1976 dopo il terremoto che sconvolse il Friuli.

Quindi si può fare. Scriviamo a Napolitano da qui

Udine, 1976.
Sono personalmente grato al ministro Forlani per avere deciso la sospensione della parata militare del 2 giugno, e naturalmente mi auguro che la sospensione diventi una soppressione.
Non avevo mai capito, infatti, perché si dovesse celebrare la festa nazionale del 2 giugno con una parata militare. Che lo si facesse per la festa nazionale del 4 novembre aveva ancora un senso: il 4 novembre era la data di una battaglia che aveva chiuso vittoriosamente la prima guerra mondiale. Ma il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della coscienza civile e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro alleati: il clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini armati e di mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano anzi un corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della democrazia?
C’era in quella parata una sopravvivenza del passato, il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato di rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi la continuità con questo passato. Certo, non si era potuto dopo il 2 giugno riprendere la marcia reale come inno nazionale, ma si era comunque cercato nel passato l’inno nazionale di una repubblica che avrebbe dovuto essere tutta tesa verso l’avvenire, avrebbe dovuto essere l’annuncio di un nuovo giorno, di una nuova era della storia nazionale. Io non ho naturalmente nulla contro l’inno di Mameli, che esalta i sentimenti patriottici del Risorgimento, ma mi si riconoscerà che, essendo nato un secolo prima, in circostanze del tutto diverse, non aveva e non poteva avere nulla che esprimesse lo spirito di profondo rinnovamento democratico che animava il popolo italiano e che aveva dato vita alla Repubblica.
La Costituzione repubblicana, figlia precisamente del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Una repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di armi sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere imperiali, quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica alle forze armate, ci ripiombava in pieno nel clima della monarchia, quando il re era il comandante supremo delle forze armate, “primo maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e anche quella italiana, eran nate da un cenno feudale e la loro storia era sempre stata commista alla storia degli eserciti: non a caso i re d’Italia si eran sempre riservati il diritto di scegliere personalmente i ministri militari, anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente del consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che, all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Tradizionalmente le forze armate avevano avuto due compiti: uno di conquista verso l’esterno e uno di repressione all’interno, e ambedue sembravano incompatibili con la nuova costituzione repubblicana.
Repubblica democratica in secondo luogo. In una democrazia sono le forze armate che devono prestare ossequio alle autorità civili, e, prima ancora, devono, come dice l’art. 52 della costituzione, uniformarsi allo spirito democratico della costituzione. Ma in questa direzione non si è fatto nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito caratteristico del passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei corpi separati, sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I nostri governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della carriera elementi fascisti, come il gen. De Lorenzo, ex-comandante dei carabinieri, ex-capo dei servizi segreti ed ex-capo di stato maggiore, e, infine, deputato fascista; come l’ammiraglio Birindelli, già assurto a un comando Nato e poi diventato anche lui deputato fascista; come il generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e ora candidato fascista alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del giuramento di fedeltà alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano costoro, come supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto incarnare la repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro truppe, nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e Miceli, entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in prigione, che dire della ormai lunga lista di generali che sono stati o sono ospiti delle nostre carceri per reati infamanti? Quale prestigio può avere un esercito che ha questi comandanti? E quale lustro ne deriva a una nazione che li sceglie a proprio simbolo?
Infine, non dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della costituzione non ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per questo non sarebbe più opportuno che lo si esaltasse almeno simbolicamente, che a celebrare la vittoria civile del 2 giugno si chiamassero le forze disarmate del lavoro che sono per definizione forze di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà inevitabilmente fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la classe di governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze armate, ha gettato nel precipizio?
Vorrei che questo mio invito fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche, proprio come un segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei terminare ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati di vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica.
Lelio Basso

GRECIA: Quando Dio può risolvere la crisi, per intercessione del Cremlino

di Marco Marchionni - eastjournal -

Benedizione del Parlamento di Atene, foto di Fabio Petrobelli (fonte Uaar)
In Grecia la recessione è ormai giunta al quinto anno, il numero dei disoccupati, su una popolazione di circa undici milioni, ha superato il tetto di un milione nel novembre 2011: tasso record del 20,9%, in crescita del 48,7% annuo. Il debito pubblico è pari al 140% del PIL, che è diminuito del 6,8% nel 2011, del 16% rispetto al 2008, il cui rapporto col Deficit è al 13.6%.
Le elezioni del 6 maggio non hanno dato vita ad alcun governo politico, tanto che il 17 giugno si tornerà alle urne, a riguardo i sondaggi cambiano di giorno in giorno, segnale che la situazione è sempre più confusa. Al momento non sembra esserci nessuna via d’uscita certa dalla crisi, mentre sui giornali di tutta Europa si rincorrono le più disparate voci sul futuro dello Stato ellenico. Anche il sostegno morale ai cittadini greci sembra venir meno, come dimostrano le parole del direttore generale dell’Fmi, Christine Lagarde, che afferma in un’intervista al Guardian: «bisogna che i greci si aiutino da soli pagando le tasse» e di avere «maggiore simpatia per i bambini africani senza istruzione»
Apertura e sostegno, invece, arrivano da mesi dalla Russia, attraverso la persona del Patriarca di Mosca Kirill I°, capo di quella Chiesa Ortodossa russa che negli ultimi anni è diventata uno dei pilastri del sistema creato da Putin, in cui i sacerdoti svolgono un ruolo sempre più influente. Kirill I°, sfruttando abilmente la situazione in cui versa lo Stato ellenico, è riuscito a consolidare i rapporti con quella che al momento sembra essere la più forte componente sociale della penisola ellenica, la Chiesa Ortodossa Greca che vanta numerose sponde in parlamento nelle file dei partiti conservatori e di estrema destra.
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martedì 29 maggio 2012

Siria. Cronache dell'orrore e della libanizzazione



di Pino Cabras - 28 maggio 2012
Una strage in Siria, venerdì 25 maggio 2012, nella città di Houla, ha superato la soglia cinica che i media usano per dare importanza a una notizia nei casi di conflitti a “bassa intensità”. Cento morti in un giorno sono stati annunciati molte volte, spesso falsamente o senza poterlo verificare.
Stavolta, però, tutte le parti del conflitto siriano concordano: la gamma delle atrocità misurate a Houla si pesa proprio su una scala orrenda e verificabile, quella della carneficina di massa che colpisce gli innocenti. Per metà bambini.
Ecco dunque le prime pagine, che raccontano l’imminente fallimento del piano di pace di Kofi Annan accettato il 27 marzo dal governo siriano. Ma in questi ultimi due mesi le prime pagine poco hanno detto sulle enormi difficoltà e le gravi azioni che hanno indebolito e svuotato sin da subito il piano delle Nazioni Unite. La strage di Houla è solo l’ultimo fatto in ordine di tempo, fra le migliaia di violazioni del piano fin qui registrate, fra bombe stragiste contro i gangli dello stato, azioni di guerriglia, massacri interetnici perpetrati da squadroni della morte, traffici transfrontalieri di armi (con una tensione sempre maggiore in Libano), fino a sottrazioni di controllo del territorio che diventeranno la premessa per “zone cuscinetto” in grado di rendere endemica la guerra civile e l’internazionalizzazione del conflitto.
La parola “libanizzazione”, vecchia di decenni, torna in auge per provare a descrivere quel che può attendere la Siria.
Il coinvolgimento dei carri armati negli scontri di Houla è stato interpretato da un’organizzazione londinese inattendibile, l’Osservatorio siriano per i diritti umani, come l'unica causa del massacro: i morti sarebbero da imputare ai bombardamenti dell’esercito di Assad durante le manifestazioni antiregime di venerdì. Gran parte dei media occidentali e delle petromonarchie arabe accredita questa versione. Un riflesso rimane nel comunicato di condanna scaturito dalla riunione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, con la Russia che si è allineata agli altri membri nel menzionare una responsabilità dell'esercito siriano nella violazione del cessate il fuoco. Le agghiaccianti immagini delle vittime che possiamo osservare sollevano però alcuni dubbi. I morti non appaiono colpiti da bombardamenti indiscriminati ma da esecuzioni, compresi i bambini. In un contesto in cui operano squadroni della morte e agenti del caos di diverse tendenze, la vicenda assume una luce diversa (e non meno inquietante).
In questo film dell’orrore non vedrete la testa di una bambina che spunta dalle macerie, come a Gaza nel 2009, ma corpicini di infanti stesi a fianco di un muro intatto e macchiato da uno schizzo di sangue. Nella contabilità dell’orrore cambia poco. Nella comprensione dei fatti cambia prospettiva.

La prova che Monti mente arriva dalla Bocconi

La prova che Monti Mente Bocconi Claudio Messora Byoblu Byoblu.com di Giancarlo Niccolai

- byoblu -
C'è un po' di confusione sull'Economia, su che cos'è e a che cosa serve. E' comprensibile, visto l'uso scriteriato e folle che ne ha fatto Monti, assieme a molti altri. Se seguite Byoblu.com sapete più o meno tutto quello che c'è da sapere, ma quello che forse non si è ancora capito bene, però, è che coloro che si definiscono "economisti", ossia scienziati che studiano l'economia, hanno decretato la "morte dell'economia di mercato" da almeno quarant'anni. Gli studi di Stiglitz, Fitoussi, Kenneth Arrow e Brian Arthur, solo per citarne alcuni, indicano chiaramente che la festa è finita.

  Per capire perché la festa è finita, bisogna capire che il mercato non può gestire beni a prezzo infinito, come la salute o l'acqua nel deserto. Né può gestire beni pubblici come la sicurezza e le infrastrutture. E neanche beni ad informazione asimmetrica, come le assicurazioni o i titoli finanziari derivati. Scientificamente, si dimostra che il mercato fallisce nel gestire questi problemi. Significa che non si trova un prezzo di equilibrio, o il prezzo è assurdo, o in costante ed erratica variazione.

Ma il colpo di grazia lo danno le economie di scala crescenti. Ossia, quei prodotti nuovi nella storia dell'umanità che possono essere prodotti all'infinito con un costo per copia via via decrescente. In tutte le teorie economiche, neoclassiche, austriache, keinesiane, marxiste, monetariste ecc. vige l'assunto che se produco un certo numero di pezzi di un prodotto, ogni copia in più mi farà guadagnare un po' di meno della copia precedente. Scorte, invenduti, problemi di gestione, materie prime che mano a mano che le uso costano di più, maggiore disponibilità di beni sul mercato ecc. sono tutti fattori che riducono il prezzo ed aumentano il costo di produzione. Ad un certo punto produrre l'ennesimo pezzo mi frutterà zero: andare oltre diventerebbe un costo.

Ma da un po' di tempo, per molti mercati, le cose non stanno più così. Nei mercati ad alto contenuto di tecnologia (software, hardware innovativo, strumenti finanziari negoziati elettronicamente, alcuni tipi di servizi ad alta automazione come i servizi bancari, musica, cinema, televisione) i prodotti possono essere "stampati" all'infinito. In alcuni di questi mercati, addirittura, il prezzo di un bene tende ad aumentare mano a mano che esso diventa più diffuso. Ad esempio la pubblicità su Google. Tutte le teorie economiche studiate fino oggi, tutte quante, sono finite. I (neo)classici i (neo)Keinesiani, i (neo)Monetaristi e così via sono completamente fuori rotta. La stessa idea di PIL è inutile, sia nella finanza derivata come persino nell'economia reale, per esempio con mercati come quello del software, dei servizi tecnologici (motori di ricerca, social network), oppure dei "contenuti multimediali" che da soli e in pochi anni hanno fatto ormai mezzo PIL mondiale.

Serve un cambio di paradigma, e il momento è adesso. Al di là dell'inganno dell'Euro, che crea un sistema di vasi comunicanti al contrario, permettendo a chi ha un vantaggio iniziale di crescere a dismisura a danno degli altri, e al di là delle ideologie di destra degli "uomini forti", per le quali la troppa democrazia fa male all'economia, il giocattolo si è rotto. Lo ha rotto un prodotto che non si può limitare, non si può pesare, perché nel momento stesso in cui lo pensi, ne hai creato di nuovo: il pensiero. Nessuna ricetta tradizionale basata sulla creazione di circoli auto-alimentati di scambio fra produzione e moneta, che sia essa la follia inflazionistica Barnardiana, o la lucida demenza dell'omicidio collettivo dell'austerità Montiana, può porre rimedio a questa situazione. E allora?

PIAZZA DELLA LOGGIA BOMBING, 37 years ago still a mystery
The United States was accused of playing a large part in the campaign of anti-communist terrorism in Italy during the cold war, together with italian subversive state agents

lunedì 28 maggio 2012

Un socialismo per l’Italia

MIMMO PORCARO - controlacrisi -
       
Del socialismo in generale.
Anche se nel resto del mondo centinaia di milioni di persone vivono in stati o si sono date governi che si dicono socialisti, o semi-socialisti, nell’occidente capitalistico il socialismo è ancora oggetto di discredito e dileggio. Ovviamente non ci si può attendere altro da chi mostra, ancora oggi, di credere che il sedicente libero mercato sia il miglior viatico alla prosperità. Ma nell’insistenza con cui si continua ad escludere il socialismo dal lessico pubblico non c’è solo un’ ovvia presa di partito ideologica. C’è anche la necessità di nascondere il fatto che il socialismo è tornato in Europa ed in America, ma è tornato come socialismo dei padroni. A dire il vero nei giornali finanziari la cosa viene, a mezza voce, riconosciuta: “L’idea che oggi tutto andrebbe bene se fossero state rispettate le regole sui bilanci [pubblici] è sbagliata. I guai maggiori sono derivati dall’irresponsabilità del settore privato”. Così Martin Wolf. E Alberto Orioli: “La pioggia di liquidità con cui gli stati hanno deciso di inondare il continente ha creato una sorta di cambio di referente per il sistema dello stato sociale: al welfare state tradizionalmente destinato al lavoro si è aggiunto il welfare finanziario”. Si è aggiunto, o meglio si è sostituito, giacché per rifinanziare le banche, il modello sociale europeo viene distrutto. Il debito privato viene di fatto accollato agli Stati e trasformato in debito pubblico, per ridurre il quale si tagliano le erogazioni sociali. Il presunto principio-guida del capitalismo (ossia: premiare il rischio e sanzionare l’insuccesso) viene sospeso per le banche e per i grandi gruppi industriali, mentre per i lavoratori il mercato deve funzionare appieno, e più di prima. Socialismo per i padroni, mercato per i lavoratori (e, andrebbe ricordato ogni volta, per le piccole imprese): questa è la nuova bandiera dell’Occidente.
Insomma, il capitalismo occidentale non sarebbe sopravvissuto alla sua recente crisi senza il massiccio ricorso al sostegno pubblico. Ed è proprio questa palmare evidenza a porre nuovamente all’ordine del giorno il problema del socialismo. Non si tratta quindi solo delle utopie di gruppi minoritari, della necessità di pianificare l’uso delle risorse naturali, del bisogno di gestire al meglio quella risorsa eminentemente sociale che è la scienza. Il socialismo si presenta oggi soprattutto come esigenza politica attuale di realizzare un elementare principio di logica e di giustizia, che è anche condizione per la ripresa di un nuovo ed equilibrato sviluppo: tutte le attività economiche che sopravvivono grazie al sostegno pubblico devono proporzionalmente passare sotto il controllo pubblico, esercitato come indirizzo politico o come diretta proprietà delle imprese. Non è una soluzione occasionale, dettata dalle contingenze: è piuttosto l’esito coerente della fondamentale contraddizione che Marx ha individuato nell’intimo funzionamento del capitalismo, quella tra il carattere sociale della produzione e la forma privata dell’appropriazione. L’attuale dipendenza dell’impresa privata dalle risorse pubbliche non è che l’espressione della sua generale dipendenza dalla ricchezza dell’intera società: e il socialismo è la gestione sociale di ciò che solo grazie alla società può funzionare.
La cosa appare ancor più chiara se viene vista in prospettiva storica. Con l’attuale crisi finanziaria si torna, pur se in forme assai diverse, a quella stessa situazione per fuggire dalla quale la finanziarizzazione è sorta, ossia all’approssimarsi di una soluzione socialista. Infatti la grande impresa moderna necessita di tali e tanti investimenti che nessun singolo capitale può affrontarli da solo, ed il capitalismo si è quindi sviluppato drenando sempre ricchezza sociale, sia nella forma di debito privato sia in quella di debito pubblico.

Ο ματωμένος γάμος της Ευρωζώνης

Tου Γιάννη Βαρουφάκη - elinasasfalistis -

varufakis
Καλά εμείς. Έστω ότι είμαστε φοροφυγάδες, διεφθαρμένοι, τεμπέληδες, ελλειμματικοί από την κούνια, Ελληνάρες που απαιτούμε να ζούμε από τον ιδρώτα των λαών που παράγουν. Οι Ισπανοί όμως; Εκείνοι τι φταίνε;
 
- Η Ισπανία δεν είχε πλεονασματικό προϋπολογισμό λίγο πριν ξεσπάσει η κρίση;
- Η Ισπανία δεν είχε χρέος κατά πολύ χαμηλότερο της Γερμανίας λίγο πριν ξεσπάσει η κρίση;
- Η Ισπανία δεν ήταν εκείνη που πέτυχε να κάνει τους μόνους πλεονασματικούς Ολυμπιακούς Αγώνες της Ιστορίας, αφήνοντας πίσω τους μια Μπαρτσελόνα χάρμα ιδέσθαι;
- Η Ισπανία δεν ήταν εκείνη που, με παράδειγμα τη Ζάρα, απέδειξε ότι η Ευρώπη μπορεί να παράγει προϊόντα υφαντουργίας χωρίς να χρειάζεται να μεταφέρει τις θέσεις εργασίας στην Άπω Ανατολή;
- Η Ισπανία δεν προσέφερε στη Volkswagen τα πιο επικερδή εργοστάσιά της στην Ευρώπη (εκείνα της Seat);...
Κι όμως, η χώρα αυτή βρίσκεται σήμερα στην ίδια μαύρη τρύπα με εμάς. Πώς είναι κάτι τέτοιο δυνατόν, αν η κρίση οφείλεται σε κακοδαιμονίες που, δίχως αμφιβολία, χαρακτηρίζουν την Ελλάδα αλλά σε καμία των περιπτώσεων την Ισπανία;
Για μια στιγμή ας ξεχάσουμε τα δικά μας και ας αναλογιστούμε το δράμα που εκτυλίσσεται στην Ισπανία (όχι μόνο από αλληλεγγύη προς τον συμπαθή λαό της δυτικής Μεσογείου, αλλά γιατί έτσι θα καταλάβουμε καλύτερα τι μας συμβαίνει κι εμάς τώρα, αυτή τη στιγμή): Από πέρσι το καλοκαίρι, οι ζημίες των ανόητων ισπανικών ιδιωτικών τραπεζών (που προκλήθηκαν από τζόγο στην αγορά ακινήτων) έχουν μεταφερθεί στους ώμους του ισπανικού δημοσίου, με αποτέλεσμα την ουσιαστική εκπαραθύρωση του τελευταίου από τις «αγορές». Για να μην αναγκαστεί η EE να παραδεχθεί ότι η Ισπανία είναι η τέταρτη χώρα που «καταπίπτει», αποφασίστηκε η εξής παρανοϊκή «λύση»:

1
Η ΕΚΤ θα δέχεται ό,τι παλιόχαρτο της φέρνουν οι ισπανικές τράπεζες ως «εχέγγυο» και έτσι θα τις δανείσει πάνω από 300 δις με επιτόκιο 1%.

2
Επειδή αυτά τα χρήματα αποτελούν δανεικά, και με τα δανεικά δεν αποφεύγεται μια πτώχευση (παρά μόνο αναβάλλεται), το ισπανικό κράτος θα δανειστεί κι άλλα χρήματα (από το EFSF) με επιτόκιο περί το 4% για να τα χαρίσει στις τράπεζες (στο πλαίσιο της επανακεψαλαιοποίησης) - χωρίς βέβαια να λάβει κοινές μετοχές (κάτι που αποτελεί κατάφορη παραβίαση των κανόνων του...καπιταλισμού).

3
Λόγω όμως του 2, το ισπανικό κράτος σπρώχνεται βαθύτερα στην πτώχευση. Για να μην βουλιάξει άμεσα, σκέφτηκαν το εξής σοφό: Οι τράπεζες, την ίδια ώρα που θα παίρνουν δανεικά (κι αγύριστα) από το ισπανικό κράτος, θα του δανείζουν με επιτόκια 6% μέρος των δανεικών που παίρνουν από την ΕΚΤ με επιτόκιο 1%.

Κατανοείτε τι σημαίνουν τα παραπάνω; Οι πτωχευμένες τράπεζες πρώτα μετέφεραν τις ζημίες τους στο ισπανικό κράτος, οδηγώντας το στην πτώχευση, κατόπιν εξασφάλισαν τόνους δανείων από την ΕΚΤ (με επιτόκιο 1%), μετά δάνεισαν ένα μέρος αυτών των χρημάτων στο... ισπανικό δημόσιο (με επιτόκιο 6%) και, παράλληλα, δανείζονται από το ισπανικό δημόσιο κι άλλα χρήμα τα οποία ο Ισπανός ψορολογούμενος δανείζεται από το EFSF. Και σαν να μην έφταναν όλα αυτά, ο απαράβατος όρος για να επιτραπεί στην Ισπανία αυτή «λύση» είναι η επιβολή λιτότητας, που θα συρρικνώσει κι άλλο το εθνικό εισόδημα, από το οποίο το κράτος θα πρέπει να αντλήσει τους φόρους που απαιτούνται για την αποπληρωμή όλων αυτών των δανείων που έχει φορτωθεί ο ισπανικός λαός εκ μέρους των τραπεζιτών.


Όταν, λοιπόν, Ευρωπαίοι συνάδελφοι, δημοσιογράφοι και πολιτικοί, δακτυλοδείχνουν την Ελλάδα επειδή τόλμησε να πει όχι στο ευρωπαϊκό «σχέδιο» καταπολέμησης της κρίσης, τους απαντώ χωρίς περιστροφές: Θα παραδεχθώ ό,τι θέλετε, αλλά μόνο όταν μου εξηγήσετε, στη βάση του Ορθού Λόγου, «τι στο διάβολο κάνετε στην Ισπανία;»
.

* Το Παραπάνω κείμενο δημοσιεύεται στο περιοδικό
HOT DOC

Fioccano da nord a sud le denunce contro Monti e Napolitano


di Marina Marinetti per ilsussidiario.net
Mentre la Bocconi de’ noantri (leggasi Luiss di Roma) sbandiera un francamente poco credibile 43,79% di consensi nei confronti di Mario Monti, spingendosi a sostenere che un’inverosimile lista guidata dal già consulente Goldman Sachs (nonché membro della Trilateral e del Bilderberg), arriverebbe a conquistare il 29,6% delle preferenze degli italiani, da nord a sud, isole comprese, contro di lui (e non solo) fioccano denunce che rischiano di intasare la Procura della Repubblica di Roma.
Attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato (art. 241 del codice penale), associazione sovversiva (art. 270 c.p.), attentato contro la Costituzione dello Stato (art. 283 c.p.), usurpazione di potere politico (art. 287 c.p.), attentato contro gli organi costituzionali (art. 289 c.p.), attentato contro i diritti politici del cittadino (art. 294 c.p.) e financo cospirazione politica mediante accordo e mediante associazione (artt. 304 e 305 c.p): sono le accuse che, in blocco, ma anche a puntate, vengono rivolte a colui che più d’uno principia ad appellare come “Re Giorgio”, insieme col bocconiano premier e la nutrita squadra di qualificati tecnici che lo affiancano nella missione di salvare il Bel Paese. Li si accusa, in parole povere, di aver fatto un vero e proprio “colpo di Stato”.


Non sono le uova lanciate dai ragazzi dei centri sociali all’indirizzo dei ministri Fornero e Profumo a Torino: sono i (masochistici) appelli di cittadini di ogni luogo e censo che reclamano quella sovranità che, stando al primo articolo della Costituzione, appartiene al popolo. Ad Abbiategrasso Salvatore Mandarà, a Vicenza Fabio Castellucci, a Vigevano Giuseppe Contini, A San Sebastiano al Curone Marines Zanini, a Perugia Carla Catanzaro, a Brescia Davide Trappa, a Biella Stefano Prior, a Nuoro Lai Estevan, a Bologna Roberto Chiavetteri, ad Alba Mediterranea Orazio Fergnani, ad Ascoli Piceno Dario De Angelis, solo per citarne alcuni: la lista degli indomiti (o incoscienti che dir si voglia) si allunga in tempo reale... presumibilmente anche negli schedari di qualche poco illustre servizio deputato al mantenimento della “pubblica quiete”.
Un movimento che, passateci l’azzardata analogia, ricorda quei sedevacantisti che, dal Concilio Vaticano II in poi, dichiarano occupato abusivamente il Soglio che fu di Pietro. Ma se quelli, dei quali si occupa la Congregazione per la dottrina della fede (ex Sant’Uffizio, già Romana e Universale Inquisizione), rischiano la scomunica, questi cosa dovranno attendersi? Certo non l’esilio, che ben lungi dall’essere castigo, potrebbe semmai costituire consolazione.

Indomiti, dunque. Ma spontanei, e popolari: su Facebook, dove il consenso, democraticamente, si misura col pollice recto e il dissenso col pollice verso, la fan page dell’avvocato cagliaritano Paola Musu, che come molti altri collega l’arrivo del governo tecnico ai diktat di Bce e banche internazionali e parla di attentato contro la Costituzione dello Stato, conta già 15.594 “mi piace”. A un migliaio di chilometri più a nord, un altro avvocato, Gianfranco Orelli, di chiara fama filoinsubrica, chiama in causa per attentato alla Costituzione il presidente Napolitano che, insieme con Mario Monti e Silvio Berlusconi, avrebbe anteposto alla fiducia del parlamento quella della Bce e del Fondo monetario internazionale, “piegando le istituzioni alle ragioni di una strumentalizzata emergenza”. Perché è vero che “si stava meglio quando si stava peggio”. Ma è anche vero che, per molti, il meglio è nemico del bene.

Presidenzialismo travestito

... e mentre in Europa si gioca il nostro destino noi ci stiamo ancora occupando di nani e ballerine! :-(
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Mai come ieri la vita della Repubblica è stata scandita da momenti solenni. E al centro di tutto, ancora lui, Silvio Berlusconi. Primo momento solenne: sale sul banco dei testimoni, a Milano, Marysthell Polanco, che comunica al mondo che il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi amava vederla ancheggiare vestita da Barak Obama. Divertente. Ma ancor più che amava vederla ballare vestita da Ilda Bocassini. Molto divertente. Lo diceva alla Bocassini, peraltro, forse nell’impossibilità di dirlo a Obama. E si permetteva anche qualche notazione critica: “Berlusconi rideva di più quando facevo la Bocassini”. Chissà il disappunto di Obama. Secondo momento solenne: nella splendida cornice del Senato della Repubblica, lo stesso Silvio Berlusconi, il famoso ventriloquo, muoveva a ritmo il suo pupazzo Angelino Alfano, per fargli raccontare l’epocale svolta che la politica italiana aspetta da sempre: una riforma presidenziale alla francese con elezione diretta del Presidente della Repubblica, che, nel caso, potrebbe essere proprio Silvio Berlusconi travestito da Silvio Berlusconi. Ma solo “per senso di responsabilità”, ovviamente, cioè per il nostro bene. Un’ipotesi così remota e incredibile che il pupazzo chiama già il suo ventriloquo “presidente della Repubblica”, con gaffe molto divertente. Certo, se Alfano l’avesse detto vestito da Bocassini sarebbe stato più divertente.
Intanto – altro momento solenne – al tribunale di Milano, il mitico ragionier Spinelli spiegava di aver portato in due anni ad Arcore, per le piccole spese di Silvio Berlusconi, circa 20 milioni in contanti, che finivano in “beneficienza”, cioè a pagare ragazze seminude truccate da Ilda Bocassini. Dicendo anche questo a Ilda Bocassini, però vestita di tutto punto che non rideva per niente. Nel frattempo, nell’altro momento solenne della giornata, alcuni grandi intellettuali di destra esprimevano apprezzamento per le riforme annunciate. “Stiamo parlando di cose alte”, diceva Gasparri travestito da Gasparri. Molto male, perché si sa che a Silvio piacciono basse e senza trucco. E la Santanché chiosava deliziata: “Il PdL è tornato al centro dell’agenda politica”. Certo, l’avesse detto vestita da Obama sarebbe stato più divertente. Per ore i notisti politici hanno discusso a quale dei due momenti solenni dare più risalto, se a Marysthell Polanco vestita da giudice, a Berlusconi vestito da Presidente della Repubblica o a Gasparri vestito da Ronaldinho. Poi hanno deciso: non importa, tanto Obama, quello vero, leggerà tutto lo stesso vestito come vuole lui. E quando incontrerà il prossimo Presidente della Repubblica italiana, si farà qualche risata anche lui. Unica nota stonata, la faccia di Berlusconi mentre guardava Alfano, un mix di depressione e scoramento: possibile che in tanti anni di alta politica non sappia ancora usare come si deve il palo della lap dance? La Minetti! Quella sì che aveva il quid!

L'avvenire dell'Europa si gioca in Grecia

È urgente sostenere la sinistra radicale greca e lo slancio democratico, antifascista e unitario che la porta. Un documento appello di Etienne Balibar, Michel Lowy e Eleni Varikas
- senzasoste -
La situazione attuale della Grecia è senza precedenti dalla fine dell’occupazione tedesca nel 1944: riduzione brutale dei salari e delle pensioni. Disoccupazione giovanile al 50%. Imprese, piccolo commercio, giornali, case editrici in fallimento. Migliaia di mendicanti e senza tetto nelle strade. Imposte stravaganti e arbitrarie e tagli a ripetizione su salari e pensioni. Privatizzazioni in serie, distruzione dei servizi sociali (sanità, istruzione) e della sicurezza sociale. I suicidi si moltiplicano. La lista dei misfatti del «Memorandum» potrebbe continuare.
Al contrario, i banchieri, gli armatori e la Chiesa (il maggiore proprietario terriero), non sono tassati. Si decreta la riduzione di tutti i bilanci sociali ma non si tocca il gigantesco bilancio della «difesa»: si obbliga la Grecia a continuare ad acquistare materiale militare per miliardi di euro da quei fornitori europei che sono anche – pura coincidenza – quelli che esigono il pagamento del debito (Germania, Francia).
La Grecia è diventata un laboratorio per l’Europa. Si testano su cavie umane i metodi che saranno in seguito applicati al Portogallo, alla Spagna, all’Irlanda, all’Italia, e così via. I responsabili di questo esperimento, la Troika (Commissione europea, Banca centrale europea, FMI) e i loro associati dei governi greci non erano preoccupati: si sono mai visti porcellini d’India, topi di laboratorio protestare contro un esperimento scientifico? Miracolo! Le cavie umane si sono rivoltate: malgrado la repressione feroce condotta da una polizia largamente infiltrata dai neonazisti, reclutati nel corso degli ultimi anni, gli scioperi generali, le occupazioni delle piazze, le manifestazioni e le proteste non si sono fermate da un anno. E ora, colmo dell’insolenza, i greci hanno votato contro la continuazione dell’«esperimento», dimezzando i voti dei partiti di governo (la destra e il centrosinistra che contro il suo programma ha firmato il memorandum) e moltiplicando per quattro il sostegno a Syriza (coalizione della sinistra radicale).
Non c’è bisogno di far parte della sinistra radicale per vedere che i rimedi neoliberisti della Troika sono catastrofici; Paul Krugman, premio Nobel pere l’economia, non smette di dirlo: come «risanare le finanze» della Grecia se si mette il paese in ginocchio, in recessione, cosa che evidentemente non può che diminuire le entrate e squilibrare il bilancio? A che cosa sono serviti i «generosi» prestiti dell’Europa e del FMI? A pagare ... il debito verso le banche, per poi indebitarsi ancor più. Gli «esperti» della Troika hanno il capitalismo come religione (W. Benjamin 1921): una religione le cui divinità – i mercati finanziari dai decreti imprevedibili, arbitrari e irrazionali – esigono sacrifici (umani).
THE POPE ABOUT VATICANLEAKS: "It is a new Babel"

domenica 27 maggio 2012

La Grecia prigioniera

Gabriele Pastrello              -  il manifesto -
       
Negli scacchi si chiama zugzwang , ed è quando un giocatore ha la scelta solo tra due mosse ugualmente cattive. Sembra proprio la posizione della Grecia, tra rimanere nell’euro o uscirne. Restare e rispettare i patti, come dicono la Commissione europea e la cancelliera Angela Merkel, significa solo immiserimento progressivo. In un quadro recessivo europeo e mondiale, la politica di riduzione del rapporto tra debito e Pil non può che portare all’aumento di quel rapporto. Il debito, infatti, non può che aumentare, dato che il deficit dello Stato greco può essere finanziato solo con fondi europei provenienti dal Fondo europeo di sostegno. L’alternativa di uscita dall’euro non pare più rosea. Il ritorno alla dracma non può che portare a una fortissima svalutazione che si potrebbe tradurre rapidamente in inflazione.
Inoltre, data l’evasione fiscale greca, superiore a quella italiana, si potrebbe innescare una dinamica iperinflazionistica come quella tedesca dei primi anni Venti. Per di più, dato lo scarso peso del settore esportatore, i vantaggi di un’uscita potrebbero non essere molto grandi. Cioè, mentre non entrare nell’euro avrebbe potuto avere vantaggi, uscirne pare avere solo svantaggi. Forse una soluzione potrebbe essere quella proposta dal partito di sinistra Syriza: rimanere nell’euro ma ricontrattando i termini degli impegni presi. La linea sembra, però, doversi scontrare con un ostacolo apparentemente insormontabile. Siccome il governo greco non può finanziarsi sui mercati, la sostenibilità del suo deficit statale dipende oggi dalla disponibilità del Fondo di sostegno europeo a finanziarlo, a condizione che gli impegni siano rispettati. Quindi, se il governo greco denunciasse quegli accordi, un qualsiasi funzionario del Fondo potrebbe chiudere il rubinetto, e impedire al governo greco di far fronte alle spese correnti. La cosa è di per se inaccettabile, ma potrebbe succedere. Quantomeno solo una decisione politica dovrebbe poter costringere la Grecia a uscire dall’euro sospendendo il finanziamento corrente. Ma se l’interruzione di finanziamenti fosse automatica, l’uscita sarebbe forzata ben prima che si potesse riaprire una discussione politica.
In realtà, la Bce, o meglio il sistema delle banche centrali europee, potrebbe intervenire. Si è discusso molto sul fatto che nelle funzioni della Bce manchi quello di prestatore di ultima istanza. Si è fatto notare che paesi molto indebitati, come Usa e Uk, non hanno i problemi greci o spagnoli perché godono di sovranità monetaria: cioè, la loro banca centrale può intervenire a calmierare i mercati. In realtà non è del tutto vero che la Bce manchi di questo strumento. L’unico vero divieto è il finanziamento diretto dei deficit statali. Peraltro, Draghi, nel dicembre 2011, con il suo programma di rifinanziamento a tre anni del sistema bancario europeo, l’ha aggirato. E’ vero che le banche ci hanno fatto profitti indecenti, ma bisogna ricordare che l’alternativa era l’immediato collasso finanziario. Questo programma non potrebbe essere applicato alla Grecia. Ma c’è una misura, poco nota, addirittura riservata, che potrebbe servire: l’Ela, emergency liquidity assistance , l’assistenza di liquidità d’emergenza.
L’Ela può essere decisa solo da una banca centrale nazionale, nel caso quella greca, mentre la Bce dovrebbe solo dare l’assenso; diversa quindi dalla misura Draghi. E’ stata usata per l’Irlanda nel 2010; mentre capitali in euro fuggivano verso la Germania, l’Ela riforniva di liquidità le banche irlandesi, impedendone il collasso. Ma da Draghi, già determinato, nel dicembre 2011, nell’attuare una linea di salvataggio dell’euro, ci possiamo aspettare che permetta un aiuto d’emergenza al sistema bancario greco, che impedisca l’uscita forzata della Grecia dall’euro; cioè che si metta in moto un effetto domino che potrebbe concludersi con l’esplosione dell’euro. Fatto che amplierebbe a livello europeo i problemi che la Grecia potrebbe incontrare a uscire dall’euro. Questa misura d’emergenza potrebbe riaprire la discussione politica. Hollande, ma anche Monti, se hanno idee e carattere, potrebbero mettere sul tavolo una diversa politica europea, verso la Grecia in particolare, ma più in generale una politica non più dominata dall’isteria dell’austerità. Alla Grecia dovrebbe essere concessa una moratoria fiscale, e un condono di parte del debito.
Questo potrebbe far guadagnare tempo per permettere a un governo greco di studiare un piano complessivo per far ripartire l’economia. In questo modo, la Grecia, da capro espiatorio, esempio a chi non rispetta l’austerità europea, potrebbe diventare invece esempio di un’Europa che si prende carico dei problemi dei suoi membri, esempio dell’Europa lungimirante che vorremmo al posto di quella micragnosa e arcigna che vediamo.

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