Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 27 aprile 2013

Contro il governo Letta, Governo-ombra Rodotà


 - micromega -

di Paolo Flores d’Arcais, da il Fatto quotidiano, 25 aprile 2013
Nella più antica democrazia d’Europa, quella anglosassone, dopo le elezioni non viene formato un governo: ne vengono formati due. La maggioranza dà vita all’esecutivo di Sua Maestà britannica, e l’opposizione al “governo ombra”. I cittadini possono in questo modo vedere confrontarsi giorno per giorno provvedimenti di legge in alternativa e contrapposizione, e valutare la credibilità morale e politica dei ministri che i due schieramenti propongono.

Sarebbe dimostrazione di grande caratura istituzionale e coerenza democratica, oltre che di lungimirante intelligenza tattica, se i parlamentari del M5S si riunissero oggi (oggi, perché in politica è decisivo l’attimo fuggente, il kairòs che non perdona) per chiedere solennemente a Stefano Rodotà di formare il governo ombra di Sua Maestà il popolo sovrano. Nell’Italia dell’Inciucio, infatti, a differenza che in Albione, il governo Letta jr. rappresenta la minoranza del paese, anche se verrà plebiscitato dagli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. La metà dei parlamentari che quegli scranni occupa è stata eletta nelle liste del Pd, da cittadini che avevano udito Bersani giurare “con Berlusconi mai, nessun accordo per nessun motivo” e promettere “una vera svolta”, più profonda (garantiva Bersani) di quella agitata da Grillo.

Due italiani su tre hanno votato per voltare pagina, per chiudere col quasi ventennio di ruberia e impunità, che ha ridotto l’Italia a macerie. Si ritrovano invece con un governo Napolitano/Berlusconi (prossimo senatore a vita?), forse con la finta opposizione della Lega, per non dare alla vera opposizione del M5S le presidenze Copasir e Vigilanza che per regolamento gli spettano.

Un governo ombra Rodotà sarebbe perciò l’adamantina risposta costituzionale, l’entusiasmante risposta politica, l’ineccepibile risposta parlamentare e istituzionale, al deprecabile “voltar gabbana” dell’intero ceto dirigente del Pd, che ha ingiuriosamente stracciato la parola data agli elettori e tradito la loro inequivoca volontà. Allargando a baratro il fossato profondissimo che già divide i cittadini dal Palazzo.

Un governo ombra Rodotà otterrebbe non solo il sostegno di M5S e Sel, ma anche della pattuglia dei dissidenti del Pd che troveranno indecente condividere il governo con Mussolini e Santanchè, Cicchitto e Scilipoti. E soprattutto garantirebbe che la sacrosanta protesta popolare, che le misure del governo Letta jr./Alfano non faranno che alimentare e invelenire, saranno incanalate nell’alveo propositivo del vero riformismo, altrove introvabile.

No al governissimo sindacale.

di Giorgio Cremaschi - rete24aprile -
Il direttivo nazionale della CGIL ha dato via libera, con la sola opposizione della rete 28 aprile, alla stipula del patto sulla rappresentanza. Che bello, diranno gli ingenui, finalmente c'è la democrazia sindacale. Bè, non è proprio così. L'accordo che si prefigura si basa sullo scambio tra diritto alla rappresentanza e esigibilità degli accordi. Che vuol dire in concreto? Facciamo un esempio.(...)
Nel 2010 alla Fiat di Pomigliano Sergio Marchionne impose una accordo gravemente lesivo delle condizioni e delle libertà dei lavoratori. Quel patto fu accettato dalla maggioranza delle organizzazioni sindacali, delle rsu e dei lavoratori con un referendum. La FIOM comunque rifiutò quello che definì giustamente un ricatto, non accettò il pronunciamento maggioritario e si mise a contestare l'accordo per via sindacale e legale; e per questo fu esclusa dalla rappresentanza sindacale in Fiat e i suoi iscritti discriminati sul lavoro.

Con il nuovo accordo sulla rappresentanza tutto questo non succederà più.

La parola magica è esigibilità, termine del più puro sindacalese che oggi significa che chi vuol sedersi al tavolo della rappresentanza con i padroni deve preventivamente assicurare loro che cosa fatta capo ha.

Si azzera il sistema esistente e si riparte da capo. Ai tavoli dei contratti nazionali partecipano solo le organizzazioni che rappresentano più del 5% degli iscritti. A quelli dei contratti aziendali le rsu e i loro sindacati. L'accordo è valido quando la maggioranza dei sindacati o delle rsu lo sottoscrive. La consultazione dei lavoratori, non obbligatoria ma auspicata, può esprimere il suo giudizio finale. Ma cosa c'è allora che non va? L'esigibilità.

Per accedere a questo sistema si deve infatti sottoscrivere prima la rinuncia a contestare gli accordi che non si condividono.

Se in un contratto nazionale o aziendale si aumenta l'orario di lavoro, si abbassano le qualifiche, si toglie ai lavoratori il diritto ad ammalarsi, e se la maggioranza dei rappresentanti sindacali e dei lavoratori accetta, la minoranza non può più opporsi. Non può fare sciopero, non può andare in tribunale, non può neanche tutelare quei lavoratori che non ci stanno. Altrimenti è fuori.

Questo il succo, CGIL CISL UIL firmano con la Confindustria e così impegnano tutte le proprie organizzazioni e i propri delegati a rispettare il principio della esigibilità. Chi non ci sta è fuori. E gli altri sindacati? Se non ci stanno sono fuori e per starci, lo ripeto, devono preventivamente firmare che accetteranno qualunque accordo.

Ovunque ci sia una lotta o un ribellione vera allo sfruttamento, il sindacato dev'essere preventivamente esigibile. Già oggi succede, perché le lotte sindacali più importanti e partecipate della Lombardia, Trenord e S.Raffaele, vedono CGIL CISL UIL ostili ed estranee, come accade alla lotta dei lavoratori migranti della logistica e a tanti altri.

Però il problema degli accordi separati è superato. Tutti gli accordi sono preventivamente unitari perché non esiste più il diritto a non firmare ciò che non piace. Si supera il problema del dissenso cancellando il diritto a dissentire. Come la Fornero che ha superato la divisione tra chi è o non è tutelato dall'articolo 18, togliendo l'articolo 18 a tutti.

Questo accordo costituisce un esproprio di quella tanto auspicata legge sulla rappresentanza, che avrebbe dovuto finalmente garantire ai lavoratori il diritto alla democrazia sindacale, mentre invece realizza una privatizzazione corporativa di questo loro diritto.

Del resto questo è ciò che le "parti sociali" ricercano su un piano ben più ampio.

I gruppi dirigenti di CGIL, CISL e Confindustria hanno visto travolti dalle elezioni i rispettivi progetti politici. Le presidenziali, con la catastrofe del PD, hanno scatenato l'angoscia tra i quadri della CGIL, i cui più anziani hanno già vissuto la crisi del PCI e la distruzione del PSI.

Quindi la spinta ad affermare: che c'entriamo noi con la crisi politica noi siamo il sindacato, è fortissima. E sarebbe anche una buona cosa se fosse il segno di una volontà di rinnovare le pratiche della rappresentanza e del conflitto sociale. Ma CGIL CISL UIL escono da venti anni di concertazione, di moderatismo rivendicativo, di istituzionalizzazione. Tutta la struttura è stata selezionata da queste basi. Come si fa a cambiare?

Così ci si aggrappa ad una Confindustria anch'essa colpita da crisi di rappresentanza ed efficacia. E si rilancia il patto corporativo tra i produttori, che oggi più che mai è prima di tutto una patto di sopravvivenza tra grandi burocrazie in crisi.

Così, mentre tutti i riflettori dell'informazione sono concentrati sul governissimo di Giorgio Napolitano, CGIL CISL UIL e Confindustria stanno definendo il governissimo sindacale.

La CGIL aderisce al patto sulla rappresentanza con il concorso determinante di Maurizio Landini. Senza il suo apporto la segreteria di Susanna Camusso non avrebbe avuto oggi la forza politica di andare avanti. Perché?

Si sprecano le analisi di retroscena.

Ma questi dietro le quinte hanno però il difetto di nascondere la scena principale. Maurizio Landini ha dato speranza e coraggio al mondo del lavoro, acquisendo fama e prestigio, con il no a Pomigliano, non firmando un accordo accettato dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori. Ora quel no diventa un si attraverso l'accettazione della esigibilità. Maurizio Landini ha il dovere di spiegare questo ribaltamento della sua posizione e di quella della FIOM, senza sotterfugi, senza inutili sprechi di retorica.

In ogni caso contro questo accordo che normalizza e centralizza autoritariamente tutte le relazioni sindacali, bisognerà lottare. Tutte le forze e le esperienze sindacali che non ci stanno debbono organizzare la disobbedienza, il contrasto, la crisi del patto corporativo sulla rappresentanza.

Un regime sindacale degli esigibili, quando su tutti pesano i danni e i ricatti della disoccupazione di massa, è un altro macigno che precipita sul mondo del lavoro, bisogna reagire subito.

Il governo bunga-bunga e la protesta dentro il Pd

Fonte: sbilanciamoci | Autore: Donatella Della Porta
                 
Che succede a un partito di centro-sinistra quando fa compromessi indecenti con la destra? L’abbandono della base e il declino elettorale sono le lezioni delle esperienze di Psi e Pasok

Mentre i vertici di Pd e Pdl cercano accordi di governo, attivisti del Pd in tutto il paese occupano sedi del loro partito, si autoconvocano, bruciano le loro tessere in pubblico o le restituiscono in privato. Se certamente l’oscenità di un governo del bunga-bunga a guida pidina è (o sarebbe?) circostanza storicamente unica, non è invece la prima volta che si formano, dentro e attorno a partiti di centro-sinistra, movimenti di opposizione a quelli che vengono considerati da chi protesta come compromessi indecenti, perché snaturanti rispetto a una identità sentita come collettiva.
Gli effetti di questi movimenti sono stati diversi, a seconda della loro forza nella base del partito così come della presenza di potenziali alleati ai vertici. Se talvolta quei partiti si sono infatti rinnovati, aprendosi alle domande dal basso, in altri casi c’è stata invece una chiusura, con almeno due effetti disgreganti: abbandono da parte degli attivisti delusi e declino in termini elettorali.
La perdita degli attivisti – spesso considerati con fastidio dai vertici – ha in genere conseguenze nefaste per l’organizzazione, abbassando le barriere rispetto alle motivazioni opportunistiche di chi entra in politica per migliorare la propria condizione economica, e allontanando invece quelli che vedono nella politica un bene comune. Il caso che meglio illustra l’implosione del partito senza più attivisti è quello del Psi. La decisione di partecipare, nel 1963, al primo governo di centro-sinistra porterà, l’anno successivo, all’uscita dell’ala, minoritaria ai vertici, ma fortemente attiva, che fonderà il Partito Socialista di Unità Proletaria. Al declino elettorale (dal 20% del dopoguerra, il Psi si dimezzerà in termini elettorali), seguirà una profonda degenerazione del partito stesso, frammentato in protettorati di politici rampanti, in un contesto di corruzione sempre più diffusa, che minerà l’identità di sinistra del partito, fino alla sua scomparsa a seguito degli scandali emersi nel 1992. Come nel caso del Psi italiano, anche in quello del greco Pasok, il Partito socialista panellenico, lo spostamento a destra, fino al sostegno a un governo di grande coalizione, si è intrecciato a un crollo elettorale di dimensioni drammatiche. Un partito che aveva il 47% dei voti negli anni novanta raggiungerà appena il 12% nelle elezioni del 2012, passando da primo a terzo partito nel paese, mentre a competere con la destra resta la Coalizione della sinistra radicale, Syriza, che riuscirà ad occupare lo spazio abbandonato a sinistra dal Pasok.
Psiup e Syriza sono interessanti illustrazioni delle potenzialità in termini di politica elettorale che l’implosione dei partiti di centro-sinistra può aprire alla sinistra. Il Psiup ha rappresentato un onesto tentativo di difendere un’identità socialista di sinistra, con aperture ai movimenti che si svilupparono alla fine degli anni sessanta. Non a caso, il partito guadagnerà sostegno elettorale da quelle proteste, raggiungendo quasi il 5% alle elezioni politiche del 1968. La struttura organizzativa del partito rimarrà comunque ancorata a un centralismo democratico che ne limiterà la capacità di attrazione per gli attivisti dei movimenti, che nel frattempo sperimentano forme organizzative più decentrate e partecipate. Dopo l’insuccesso elettorale del 1972, il partito si dividerà infatti tra adesioni al Pci e allontanamenti dalla politica partitica verso quella dei movimenti.
Molto diversa sembra invece l’evoluzione di Syriza che, nata nella tradizione della sinistra radicale, si trasformerà profondamente dal punto di vista organizzativo, riprendendo dal movimento degli indignados istanze di orizzontalità, pluralità e inclusione dal basso. Il 27% degli elettori greci voterà Syriza nelle seconde elezioni del 2012 (erano stati solo il 4,6% nel 2009), premiando non solo una coerente opposizione alle politiche di austerity , ma anche una trasformazione nelle forme e nei modi del far politica del partito, che lo porterà ad aprirsi ben al di là della tradizionale base dei partiti della sinistra radicale. Se è difficile dire in che misura il modello organizzativo proposto da Syriza sia applicabile al caso italiano, certamente le opportunità che il prevedibile declino elettorale del centro-sinistra, compromesso col Caimano , aprono a un’opposizione di sinistra non potranno essere colte senza una profonda trasformazione nella concezione stessa della politica.

I Brics novità dal mondo. Quando ne parliamo?

Autore: Leonardo Masella - controlacrisi
Il sito del Sole 24 Ore ha descritto l’incontro dei paesi del Brics che c’è stato a Durban il 26 e 27 marzo, totalmente sottaciuto dal resto della nostra stampa e dalle nostre Tv, in questo modo: "Sono le economie più dinamiche del mondo e vogliono continuare a crescere, per contare sempre di più sullo scenario globale. Sono i Paesi Brics - Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - che a Durban si incontrano per un summit nel quale tracciare le strategie comuni. "Recentemente - spiega Goolam Ballim, capo economista della Standard Bank - sembra che questi Stati abbiano costituito un'alleanza per dare vita a una sorta di entità politica, nel senso che hanno interessi comuni e possono portarli avanti in modo multilaterale, facendo valere le proprie istanze su temi cruciali come i cambiamenti climatici, il commercio e le tensioni monetarie". Tradizionalmente, il flusso commerciale si muoveva dai Brics verso le nazioni occidentali, ma negli ultimi tempi si è registrata un'inversione di tendenza, con collaborazioni tra loro e sempre più esportazione delle proprie tecnologie. E così è un fatto normale oggi che un'azienda aerospaziale sudafricana sigli l'intesa continentale con la Russian Helicopters. "Non stiamo riducendo i legami con le compagnie occidentali - spiega Mike Kgobe, direttore della Denel Aviation - e continueremo a mantenerli. Ma crediamo che stabilirne di nuovi sia solo una buona cosa per il Sudafrica".Il fatto che questo summit, il quinto dei Paesi Brics, si tenga in Africa assume un valore particolare: proprio sullo sviluppo del Continente Nero si giocano infatti molte delle scommesse delle potenze emergenti. Scommesse che potrebbero, in tempi relativamente brevi, ribaltare gli equilibri globali del potere."
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Faccio notare che i cinque paesi di cui parliamo rappresentano il 40% della popolazione mondiale e quasi un terzo del PIL mondiale in termini di potere di acquisto comparato. In poco più di un decennio, il PIL combinato dei BRICS è cresciuto da circa 3.000 miliardi di dollari a più di 13.000 miliardi. Gli investimenti diretti esteri nelle cinque nazioni sono più che triplicati negli ultimi dieci anni, fino a una cifra stimata di 263 miliardi, nel 2012. Mentre gli scambi intra-BRICS sono saliti da 27 miliardi nel 2002 a 282 miliardi nel 2012.
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Questo vertice ha sancito una novità, nel lancio del progetto della creazione della Banca per lo Sviluppo BRICS, che avrà come scopo principale il sostegno a progetti di infrastruttura e sviluppo sostenibile e consentirà ai paesi del BRICS di usare le proprie monete per gli scambi commerciali fra di loro, includendo uno yuan globalmente convertibile, fuoriuscendo per la prima volta dal dominio del dollaro.
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La BRICS Development Bank venne proposta dall’India al vertice dello scorso anno, in risposta alle critiche da parte delle nazioni in via di sviluppo verso gli attuali creditori come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, dominati dai governi occidentali. I Paesi BRICS dichiarano, inoltre, che l’attuale equilibrio del potere globale è impraticabile, mentre le istituzioni come Banca Mondiale, FMI e Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono irrilevanti davanti ai problemi dell’economia globale.
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I leader di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa hanno anche ratificato in questo vertice di Durban due accordi: un accordo multilaterale per il cofinanziamento infrastrutturale per l’Africa, e uno per la cooperazione multilaterale nel co-finanziamento dello sviluppo sostenibile. Uno dei risultati più importanti del vertice di quest’anno è la formazione di un nuovo Consiglio per gli affari dei BRICS composto da cinque membri per ciascuno dei Paesi membri. Il Consiglio si riunirà due volte all’anno e presenterà una relazione in ciascuna delle riunioni annuali dei BRICS. Gli obbiettivi chiave del Consiglio sono il rafforzamento delle relazioni commerciali, la promozione dei rapporti commerciali, del trasferimento tecnologico e della cooperazione nei settori bancario, dell’economia verde, della produzione e dell’industrializzazione.
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Questo vertice ha smentito sia l’esistenza di divisioni fra i paesi del BRICS sia una crisi economica della Cina, speranze su cui puntavano commentatori americani ed europei. A smentita della crisi cinese, portiamo il parere di Jim O’Neil, di Goldman Sachs, che segnala che anche se la Cina è cresciuta economicamente “solo” del 7,7% nel 2012 “ha creato, in 11 settimane e mezza, l’equivalente dell’economia greca”. Secondo O’Neil il rallentamento della Cina è stato “strutturale e ciclico”, un ciclo pianificato per riuscire a controllare il riscaldamento e l’inflazione.
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Di fronte a questo processo i punti di valutazione politica che non solo la sinistra ma ogni persona di buon senso dovrebbe fare sono sinteticamente i seguenti:
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1) Siamo di fronte ad una novità e ad una tendenza mondiale. Mentre assistiamo ad una crisi economica occidentale assolutamente inedita dal dopoguerra, si manifesta incontestabilmente una crescita inarrestabile dei BRICS e di altri paesi del Sud del mondo. Il Sud globale ex-colonizzato sta superando ad una velocità vertiginosa il Nord ex-colonizzatore nella gara economica.
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2) Ci sono caratteristiche comuni dei paesi del Brics che li hanno messi al riparo dalla crisi ? Di sicuro ce ne sono due: un ruolo forte dello Stato nel controllo dei processi economici, del potere dei grandi gruppi monopolistici e del sistema finanziario; economie a prevalenza produttiva rispetto alla finanza.
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3) Nei cinque paesi del BRICS c'è la presenza di forti e influenti partiti comunisti al governo o con influenza di massa sui governi, cosa questa di cui nessun organo di informazione occidentale dice mai niente (nella tesi bugiarda della sparizione dei comunisti dopo il crollo dell’Urss).
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In conclusione, pur senza fare di questi paesi modelli validi per il nostro o per i nostri paesi europei, per le grandi diversità storiche, culturali, istituzionali, sociali esistenti, molte delle quali vanno però riducendosi, ci sono degli insegnamenti da trarre e quanto meno, quando si parla di crisi, c’è da fare una valutazione mondiale e non solo limitata al sempre più stretto occidente.
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Leonardo Masella, 25 aprile 2013

Il Pd salvato dai ragazzini

dal blog di Giuseppe Civati

Care e cari amici democratici di #OccupyPd,
mi rivolgo a voi perché per me siete l’unica «riserva della Repubblica» a cui guardare in queste ore. Da Bologna, da Torino, da molti circoli, si è levata una voce libera, preoccupata e a tratti indignata per quanto stava accadendo.
Capisco e condivido la vostra amarezza e il vostro spaesamento, che sono anche i miei. Non ho la presunzione di darvi la soluzione, ma ho la certezza che solo ascoltandovi potremo andare da qualche parte.
Sembra che nessuno voglia davvero ascoltare la ‘base’, nemmeno quando i dirigenti falliscono così miseramente. Dopo avere fatto primarie per qualsiasi cosa, a ripetizione, il momento più alto della vicenda politica del Pd è precipitato in una decisione oscura, di 101 parlamentari che hanno eliminato il padre fondatore del Pd dalla corsa al Quirinale, per correre verso l’alleanza che in cuor loro cercavano da tempo. Senza assumersene alcuna responsabilità: prima l’ovazione, poi il voto segreto, poi l’appello perché fosse Napolitano a dirci che cosa avremmo dovuto fare. Come se non fosse una nostra decisione.
Il segretario Bersani, che certo ne ha sbagliate, è stato già dimenticato, perché altri, che ora si presentano come abili in politica e nella vita (perché c’è molto di esistenziale, in tutto questo), avevano da fare.
Ecco, mi piacerebbe che partissimo da qui, per raccontare una storia diversa, che vi veda protagonisti. Che non contempli più le divisioni per corrente di vent’anni fa, ma la nuova Italia che possiamo e vogliamo costruire.
Tocca a voi, care ragazze, cari ragazzi. Che siete più esperti, perché siete più liberi. Da parte mia, c’è l’impegno a condividere con voi ogni passo, ogni parola, ogni momento e a portarlo all’attenzione delle cronache, per quanto mi sarà possibile.
Siamo viaggiatori leggeri, non dimentichiamolo,
pippo

La mescolanza

minestrone.jpg

Il governo che sta nascendo è un'ammucchiata degna del miglior bunga bunga. Tutti passivi tranne uno che di bunga bunga se ne intende. Una mescolanza che sconfina nell'incesto, lettiana, che ha in sé il profumo di famiglia, da Mulino Bianco dell'Inciucio. Zio e Nipote Letta si sono alternati come sottosegretari alla presidenza del Consiglio negli ultimi vent'anni. Cambiava il presidente, ma la famiglia Letta era sempre presente. A garanzia di chi? E' una coincidenza singolare questa successione monarchica. Una famiglia di predestinati.
L'esultanza dei giornali e delle televisioni per l'ammucchiata di regime è propria dei servi che hanno conservato il posto di lavoro. I partiti hanno evitato una Caporetto e si sono rinchiusi in un bunker, tutti assieme appassionatamente, ormai è amore. Coloro che si insultavano in campagna elettorale "Comunisti!", "Mai con Berlusconi!" si sono infilati insieme sotto le coperte pur di non dover rendere conto alla Nazione del loro fallimento. Il governo minestrone avrà i peggiori odori e sapori della Seconda Repubblica e qualche resto avariato della Prima, come Amato, il tesoriere di Craxi. Pietanze che solo le televisioni riescono a far digerire. Televisioni strafallite dal punto di vista economico.
Nel 2012 perdite per 235 milioni di euro per Mediaset e di circa 200 milioni per la RAI, La 7 ha accumulato quasi mezzo miliardo di perdite in cinque anni. Chi paga questo profondo rosso? Mediaset si è retta grazie a una concessione governativa dell'uno per cento dei ricavi concessa da D'Alema, il miglior uomo del pdl, quando era presidente del Consiglio. La RAI grazie alla nostre tasse che ripianano i debiti di un'armata colossale di 13.000 dipendenti, ventriloqui dei politici. La 7 per merito delle bollette telefoniche, i suoi debiti sono stati sempre ripianati da Telecom. Tasse, concessioni incredibili e cresta sulle bollette, di questo hanno vissuto e vivono i megafoni del Potere che ogni giorno attaccano il MoVimento 5 Stelle come causa di tutti i mali. Opinionisti che vivono di carità pubblica mentre chiude un'azienda al minuto.
Cosa verrà dopo il bunker? Berlusconi presidente della Repubblica incoronato dai comunisti Napolitano e capitan findus Letta, lo stoccafisso scongelato? Berlusconi ha detto "Poco importa chi guiderà questo governo, importante che ci siano un governo e un Parlamento per approvare provvedimenti urgenti". I suoi!

venerdì 26 aprile 2013

«Hanno tradito la Liberazione»

Fonte: il manifesto | Autore: Carlo Lania                   
Intervista a Sandra Bonsanti , presidentessa di Giustizia e Libertà
Va giù duro: «Hanno tradito il 25 aprile. Il teatrino osceno a cui abbiamo assistito in questi giorni è il risultato di una serie di sconfitte di cui tutti siamo responsabili, e più di tutti il Pd». Giornalista, scrittrice, ex parlamentare e oggi presidente di Libertà e Giustizia, Sandra Bonsanti si dice «sopraffatta» dall’amarezza per come è avvenuta l’elezione del presidente della Repubblica e per come si sta arrivando alla formazione del nuovo governo.
Perché parla di tradimento?
Perché il 25 aprile ha sempre rappresentato per tutti un momento di grande speranza perché uscire da una dittatura, riavere la libertà è stato un momento grandioso della nostra storia. Oggi però ci sentiamo oppressi da questa situazione ed è molto difficile festeggiare.
Vede messi in pericolo i valori della Resistenza?
Fare un governo, prendere decisioni insieme a persone che hanno a dir poco irriso la Liberazione significa legittimare anche loro.
Quindi un eventuale governo di larghe intese sarebbe un’espressione del tradimento?
Messa così… Capisco che non è un discorso politico e non mi sento di fare un ragionamento freddo, ma nemmeno di pensare che l’emergenza è alta per cui dobbiamo ingoiare qualunque cosa. All’emergenza si fa fronte con la determinazione e soprattutto con dei principi. Perché se all’emergenza sociale si vuole porre rimedio senza garantire il diritto di uguaglianza di ogni cittadino, allora non si risolve nessuna emergenza. E questo cos’è se non un altro tradimento? Si ha la sensazione che questo paese, ormai senza futuro, stia perdendo anche la sua anima, la sua storia.
Il discorso diventa politico però se la sua è un’accusa alla sinistra di non fare il proprio mestiere.
Io accuso la sinistra ma accuso tutti noi. Non voglio salvare nessuno. Accuso la sinistra, il Pd, la società civile di non aver fatto abbastanza, perché se abbiamo perso qualche motivo ci sarà. Sicuramente il Pd ha fatto la sua parte, venendo meno nel momento più importante. Ha scoperchiato la pentola e dentro c’erano tutti i problemi irrisolti da anni e anni, di casta e di anche di indifferenza verso la voce di quelle persone, dei giornali, dell’opposizione, verso tutto ciò che era alla sua sinistra e ciò che si muoveva nel paese. Non ci hanno dato ascolto.
Il risultato è che l’antipolitica ha portato in parlamento persone che dicono che il fascismo non è stato tutto male e che invocano la marcia su Roma.
Condivido le cose dette da Barbara Spinelli: non cerchiamo di essere più severi del dovuto con il M5S. Accusarli oggi è facilissimo, perché effettivamente non sono all’altezza della situazione. Dopo di che: abbiamo mai chiesto ai parlamentari del Pdl o anche a quelli del Pd di essere preparati? No, quindi forse c’è un errore anche da parte nostra. I grillini sono una novità, ma c’è tanta roba lì dentro. Se pensa che il 38% dei loro elettori a Torino proviene dal Pd….
Anche perché poi sono le stesse persone che hanno proposto Stefano Rodotà al Quirinale.
Tanto di cappello per tutti i nomi che hanno proposto, magari li avessero fatti gli altri. E come si è visto è stata una grande sconfitta non avere insistito su Rodotà.
Lei dice: c’è stata troppa fretta nel rieleggere Napolitano.
Sì c’è stata molta fretta. Anche se è vero che siamo in una situazione particolare, con la paura dello spread, dei mercati. Siamo un popolo bloccato da queste paure che non si sa quanto siano giustificate.
Napolitano ha fatto male ad accettare?
Non mi permetto di criticare. Sono abbastanza vecchia da rispettare le istituzioni, dopo di che avrei preferito Rodotà. Così si è stabilito un precedente pericoloso in un momento in cui tutti si affrettano, a colpi di banalità e luoghi comuni, a dare addosso alla Costituzione.
A proposito di Costituzione: quanto accaduto non è un anticipo di presidenzialismo? Stiamo andando in quella direzione?

giovedì 25 aprile 2013

«Pd un po’ peggio del Pasok»

 
«Pd un po’ peggio del Pasok»

- ilmanifesto - 

di Daniela Preziosi -
Quando alla direzione Pd Matteo Orfini pronuncia la parola «paletti» si alza un vocìo spazientito. Lui insiste: meglio «condizioni»? Comunque: «Sarebbe un errore se il Pd non si assumesse le sua responsabiltà, se vuole essere un partito. Il documento è una cessione di responsabilità». I paletti di Orfini sono tre e servono al Pd «per reggere politicamente»: governo di innovazione, capacità di interloquire con la società e possibilità di sfidare a 360 gradi il parlamento. Tradotto: fuori i 5 stelle e la sinistra sfrantumata fra sfiducia e astensionismo si allontanerà ulteriormente dal Pd arreso a Napolitano e al Pdl. Per questo bisogna fare ancora un tentativo per coinvolgere i 5 stelle. Ma il Pd dei nuovi-vecchi dirigenti post-bersaniani questo discorso non lo vuole sentire mai più: premi il comando cancella, via tutto il vocabolario bersanese, lo «scouting», il «giaguaro», la «ditta».
Poco dopo Stefano Fassina, altro ‘turco’ che però ha detto sì a Franco Marini al Colle, ritenta: «Paletti non ne possiamo mettere, possiamo dare qualche suggerimento. La nostra delegazione non consegnerà un comunicato, interloquirà col presidente». Ma è una speranza mal riposta, lo sa bene. Alle 6 e un quarto dal Nazareno, la sede del Pd, partono Letta, Speranza e Zanda, la delegazione che consegnerà il Pd a Napolitano, in obbedienza alle condizioni che lo stesso presidente ha messo per accettare il rinnovo del mandato. Il documento, cioè la bandiera bianca, è approvato con un mare di sì, 14 astenuti fra turchi (Fausto Raciti, Andrea Orlando, Fassina alla fine vota sì), e prodiani (Rosy Bindi, Sandro Gozi e Sandra Zampa). Si astiene il dalemiano Stefano Esposito. Sette no, fra loro Walter Tocci, che negli ultimi mesi non ha risparmiato critiche a Bersani. Ma è un bottino magro. E il lettiano Francesco Boccia esulta: «Andiamo da Napolitano a dire che saremo con lui e gli daremo la nostra delega per riformare dalle fondamenta questo paese».
Il Pd rovescia la linea politica della campagna elettorale e dei 55 giorni di «tentativo Bersani»; va oltre il muro delle larghe intese senza passare per un congresso, né per un’assemblea nazionale, né per un referendum della base, istituto messo a statuto ma mai regolamentato, per interdirne l’uso. La sinistra interna ne esce acciaccata. «In questo momento dobbiamo ritrovare l’unità e consentire che nasca un governo, è in gioco il paese e il futuro di tutta la sinistra. Non possiamo fare subcomponenti né accodarci a Grillo. Ci metteremo la faccia. Il problema è che ce la metterà anche il Pdl. E il rischio per noi è altissimo», riflette Fassina. Due giorni fa è stato contestato per strada. Allora ha postato un invito su facebook: «Mi piacerebbe incontrare quanti mi hanno insultato. Vorrei provare a ascoltare le loro ragioni, e raccontare le mie». Hanno risposto in quattro. Appuntamento martedì prossimo. Lui, ormai ex responsabile economico Pd, ha passato gli scorsi 16 mesi opporsi alla politica economica del governo Monti. Adesso si ritroverà a votare con il Pdl di Brunetta.
Intanto in giro per l’Italia si moltiplicano i malumori Pd per lo più targate giovani democratici. «C’è un po’ di tutto fra loro», spiega Fausto Raciti, deputato e segretario della giovanile. «Chi era contro Marini, chi contro un governo con Berlusconi. È un segno di vitalità». «Comunque da ora la faccia su queste scelte ce la metterà qualcun altro», ragiona Orfini. In questi giorni si è sottoposto a un vero tour de force mediatico per spiegare e spiegare: perché no a Rodotà, perché sì a Napolitano. Stagione finita. Fuori dal Pd, ormai all’opposizione, Sel corteggia Barca e Cofferati in una rifondazione della «sinistra di governo», accelerando le pratiche per aderire al Pse. «Per me il no al governo con il Pdl resta», ma mai dire scissione: «Non usciremo dal nostro partito, nessuno si illuda», avverte Orfini. Martedì aveva proposto Renzi a Palazzo Chigi. Il sindaco di Firenze aveva detto sì. Napolitano e Berlusconi hanno detto no. Nulla di fatto. E però ormai renziani e dei giovani turchi si avviano al congresso su strade convergenti. Ma prima deve passare la lunga nottata del governissimo. «Vediamo che governo sarà. Se sarà con il Pdl voteremo no nei gruppi. In aula ci adegueremo alla maggioranza. Fatto questo, dovremo darci una gestione collegiale. Enrico Letta non ci garantisce. E subito dopo si va a congresso». La linea del Pd è cambiata di 180 gradi. E di tutto il programma della campagna elettorale il bilancio è «un’Italia un po’ meglio della Grecia, un Pd un po’ peggio del Pasok», ovvero il partito che a Atene governa con il centrodestra di Nea Demokratia.
Il Manifesto – 24.04.13

Il 25 aprile è morto

   

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nella grassa risata del piduista Berlusconi in Parlamento il 25 aprile è morto,
nella distruzione dei nastri delle conversazioni tra Mancino e Napolitano il 25 aprile è morto,
nella dittatura dei partiti il 25 aprile è morto,
nell'informazione corrotta il 25 aprile è morto,
nel tradimento della Costituzione il 25 aprile è morto,
nell'inciucio tra il pdl e il pdmenoelle il 25 aprile è morto,
nella rielezione di Napolitano e il passaggio di fatto a una Repubblica presidenziale il 25 aprile è morto,
nell'abbraccio tra Bersani e Alfano il 25 aprile è morto,
nella mancata elezione di Rodotà il 25 aprile è morto,
nella resurrezione di Amato, il tesoriere di Bottino Craxi, il 25 aprile è morto,
nei disoccupati, nelle fabbriche che chiudono, nei tagli alla Scuola e alla Sanità il 25 aprile è morto,
nei riti ruffiani e falsi che oggi si celebrano in suo nome il 25 aprile è morto,
nel grande saccheggio impunito del Monte dei Paschi di Siena il 25 aprile è morto,
nel debito pubblico colossale dovuto agli sprechi e ai privilegi dei politici il 25 aprile è morto,
nei piduisti che infestano il Parlamento e la nazione il 25 aprile è morto,
nelle ingerenze straniere il 25 aprile è morto,
nella perdita della nostra sovranità monetaria, politica, territoriale il 25 aprile è morto,
nella Repubblica nelle mani di Berlusconi, 77 anni, e Napolitano, 88 anni, il 25 aprile è morto,
nei processi mai celebrati allo "statista" Berlusconi il 25 aprile è morto,
nella trattativa Stato - mafia i cui responsabili non sono stati giudicati dopo vent'anni il 25 aprile è morto,
nel milione e mezzo di giovani emigrati in questi anni per mancanza di lavoro il 25 aprile è morto,
nell'indifferenza di troppi italiani che avranno presto un brusco risveglio il 25 aprile è morto.
Oggi evitiamo di parlarne, di celebrarlo, restiamo in silenzio con il rispetto dovuto ai defunti.
Se i partigiani tornassero tra noi si metterebbero a piangere.

Travaglio, l'imbalsamazione e l'Italia modello Paperopoli

L'editoriale di oggi, 25 aprile, firmato da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

In ossequio alle nuove disposizioni impartite dal Minculnap alla stampa nazionale affinché cooperi con il nuovo governo evitando notizie e atteggiamenti disfattisti per il bene supremo della Patria, e a parziale rettifica di quanto affermato in questa sede, teniamo a precisare che, nonostante le apparenze, l'Italia non s'è trasformata in una monarchia assoluta. Nelle monarchie assolute, infatti, la corona e il trono si tramandano di padre in figlio, mentre in Italia si procede per imbalsamazione (presidenza della Repubblica) o per una particolare forma di partenogenesi modello Paperopoli, da zio a nipote (presidenza del Consiglio). Entrambe le discendenze denotano comunque una ristrettissima varietà di cognomi (da Napolitano a Napolitano, da Letta a Letta), onde evitare il disorientamento delle masse e assicurare la dentizione e nutrizione dei branchi (il cosiddetto "familismo molare"). Per il resto, il quadro è chiarissimo.

In ossequio ai principi della più squisita democrazia parlamentare e della più rigorosa separazione dei poteri, il Presidente della Repubblica si presenta alle Camere genuflesse per chiedere la fiducia sotto la minaccia di sganciare l'arma letale: le sue dimissioni. E così confessa di aver accettato il secondo mandato a una precisa condizione: che il Parlamento gli consenta di fare il governo che vuole lui, altrimenti se ne va. I vecchi partiti obbediscono per acclamazione, ben lieti di prendersi qualche finta scudisciata in cambio del salvataggio delle rispettive poltrone e prebende. Sistemato il potere legislativo, il Presidente risale sull'ermo Colle e si occupa dell'esecutivo: finge di consultare i partiti per mezza giornata (il tempo di una genuflessione per uno), poi finge di pensarci su un'intera notte, infine incarica un suo clone, che appena nato era già vecchio, ma giusto perché non può fare tutto lui ed è bene che, almeno formalmente, le cariche di presidente della Repubblica e del Consiglio siano affidate a due persone diverse. Però tiene a precisare che Lettino l'ha scelto lui, mica il Parlamento.


Tanto il Nipote, a parte rimangiarsi quel che ha detto per anni su B., non ha molto da fare: il programma gliel'ha già scritto Napolitano, tramite gli appositi saggi, saggiamente nominati quando ancora si pensava che avrebbe lasciato il Quirinale. Idem per la lista dei ministri, una pura formalità: il capo dello Stato la passa al premier che l'indomani, cioè oggi, gliela riporta su al Colle, dove lui fingerà sommo stupore come se non fosse sua e poi la firmerà; seguiranno giuramento, brindisi e molte autocongratulazioni. Così sistemati il legislativo e l'esecutivo, cosa resta? Ah sì, i poteri di controllo. Ma anche lì il più è fatto. La Corte costituzionale, che ha nelle mani il processo Mediaset per un conflitto di attribuzioni, doveva sbloccarlo ieri con una sentenza: ma ha fatto sapere che non è il momento, se ne occuperà un'altra volta, ci farà sapere, non c'è fretta.


Il tutto per bocca del relatore Sabino Cassese, giurista insigne, già consigliere del Colle e candidato del Colle al Colle, nonché accompagnatore e tutor della brillante carriera universitaria di Giulio Napolitano (da non confondersi con Giorgio: è il figlio). Viene così rinviata sine die, e forse avviata a prescrizione, sentenza che potrebbe trasformare un padre della Patria in un pregiudicato per frode fiscale, altrimenti poi la gente si ricorda i processi (peraltro tutti sospesi da giudici servizievoli fino a data da destinarsi) e torna in piazza. Resta qualcosa? Ah, già, la libera stampa: il Presidente assume su due piedi la guida dell'Ordine dei Giornalisti e della Federazione della stampa e lancia il monito più superfluo della storia dei moniti, quello a "favorire, cooperare e non rinfocolare". I cooperanti annuiscono quasi all'unisono, solo un po' offesi dal sospetto di voler rinfocolare: ma quando mai, Sire. Com'è umano lei.

mercoledì 24 aprile 2013

Il mistero buffo della rielezione

10. New Man 1923 by El Lissitzky 1890-1941Carlo Formenti
Come definire la rielezione di Giorgio Napolitano? Non parlerei di golpe perché, in questo coup de theatre, il dramma si mescola alla farsa, per cui preferirei definirlo (in omaggio a Fo) mistero buffo. Ma veniamo alle performance degli attori; a partire dai media,
i quali, invece di recitare il ruolo di cronisti sono stati fin dall’inizio parte in causa, incalzando la “casta” perché svolgesse diligentemente il compito di passiva esecutrice dell’interesse dei mercati.
Così Michele Ainis (sul Corriere del 21 aprile) ha salutato la rielezione di Napolitano come sbocco inevitabile del “tempo dell’eccezione” (citazione schmittiana?), e il giorno dopo il duo Alesina – Giavazzi ha indicato sulle stesse pagine la via obbligata tracciata dallo “stato di necessità”: ridurre le tasse e tagliare la spesa pubblica. Intanto nessun giornale, a parte Micromega, dedicava uno spazio adeguato alla notizia che i due massimi teorici dell’austerità, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, avevano ammesso che i loro dati erano sbagliati (ennesimo scacco per la teoria secondo cui non si esce dalla crisi senza ridurre il debito pubblico).
Passiamo a Napolitano. Come è stato autorevolmente argomentato, non c’è stata violazione della Costituzione. Il vero punto è un altro: che senso ha parlare di stato di eccezione se non esiste un sovrano? O meglio, se sovrano non è lo stato nazione, che Napolitano dovrebbe incarnare, bensì i mercati? In effetti Napolitano è stato rimesso lì proprio per servire il vero sovrano, ruolo che aveva già assolto egregiamente chiamando Monti alla guida di un governo che ha fatto strame delle nostre condizioni di vita.
Chi ce lo ha rimesso? Tutte le componenti di un sistema democratico in stato di decomposizione avanzata (non a caso molti hanno evocato lo spetto di Weimar), ma il vero regista del mistero buffo è stato il Pd, o meglio la sua attuale, palese impotenza, approdo finale della lunga deriva iniziata con il compromesso storico, con il definitivo accantonamento della sua identità di classe e la conseguente trasformazione in uno dei tanti partiti che si dicono interpreti dell’interesse generale e del bene comune – pompose espressioni dietro le quali (come ben sapevano i vecchi militanti del Pci) si nasconde appunto l’interesse del mercato sovrano.
Ora Vendola (e Barca?) si candidano a rifondare una “vera” sinistra riformista, degna di sedere al fianco delle socialdemocrazie europee. Ma è un’operazione fuori tempo massimo, visto che anche quei partiti, sebbene con stili più dignitosi, accettano passivamente i diktat di istituzioni europee che agiscono come una cupola regionale del finanzcapitalismo globale. Perché il Pd non ha votato Rodotà, si sono chiesti i milioni di elettori di Sel, 5Stelle e dello stesso Pd.
Ebbene, il Pd non poteva votare Rodotà e non tanto perché, come si è detto, ciò avrebbe spaccato il partito (che probabilmente si spaccherà comunque), ma perché a proporre Rodotà è stato 5Stelle, un movimento che – sia pure rozzamente e senza un vero progetto politico – rappresenta quella rabbia popolare contro l’austerità che terrorizza un sistema di cui il Pd è parte integrante; e ancor più perché Rodotà incarna una cultura politica e giuridica che tenta di fare sintesi fra principi e valori della sinistra tradizionale e la domanda di nuovi diritti che sale dai movimenti (parla troppo di beni comuni e troppo poco di bene comune).
Tentativo senza dubbio problematico e in ogni caso troppo radicale per non risultare indigesto all’establishment. Infine due parole su Grillo. La sua reazione è stata significativa: ha gridato al golpe ma poi ha edulcorato il giudizio parlando di “golpettino furbetto”; ha evocato la piazza ma poi si è ben guardato dal mobilitarla.
Grillo “cavalca” la rabbia popolare ma al tempo stesso la teme, ha paura che gli sfugga di mano perché non è in grado di governarla politicamente. Per farlo ci vorrebbe una sinistra antagonista che oggi in Italia non esiste. Tocca dunque sperare che i tanti progetti paralleli di rimetterla in piedi la smettano di contemplarsi l’ombelico, e diano vita a un serio progetto di aggregazione a partire dall’obiettivo comune: rendere la vita difficile al sovrano.
Dal numero 29 di alfabeta2 – a maggio nelle edicole e nelle librerie

Austerità in Europa, l’inizio della fine?

di Anna Maria Merlo - sbilanciamoci -
Anche per il presidente della Commissione europea Barroso ora l’austerità ha “oltrepassato i limiti”. Molti paesi cancellano tagli e mantengono i deficit. Solo l’Italia fa la prima della classe?
PARIGI. Hannes Swoboda, capogruppo S&D all’europarlamento, si è congratulato con José Manuel Barroso, presidente della Commissione, “finalmente uscito da cinque anni di coma”, per aver riconosciuto che, “pur continuando a pensare che la politica di austerità sia fondamentalmente giusta, abbia oltrepassato i limiti” nella zona euro. “Per riuscire – ha aggiunto Barroso – non basta che una politica sia ben concepita: deve godere anche di un minimo di sostegno politico e sociale”.
L’Europa sta voltando le spalle all’austerità? Glielo ha chiesto persino l’Fmi. Ufficialmente, nulla cambia. Il Commissario Olli Rehn, reagendo la settimana scorsa alla tempesta causata dalla rivelazione della serie di errori contenuta nella Bibbia del rigore – lo studio di due economisti di Harvard che stabiliva che un paese che oltrepassa il 90% di debito rispetto al pil è destinato al declino – aveva affermato che non si cambia politica in base a delle critiche. Ma ammette: “il ritmo di aggiustamento di bilancio in Europa si è già rallentato dal 2012”.
Difatti, qualcosa si muove. La Spagna, secondo El Pais, avrebbe ottenuto due anni di tempo di più per rientrare nel 3% del debito, cioè fino al 2016. La Francia e il Portogallo hanno ottenuto un anno di più. Parigi aveva già fatto sapere di non poter rispettare quest’anno l’impegno di riportare al 3% il deficit pubblico, che dovrebbe essere al 3,7% (se non sfiorare il 4% a fine anno). In Portogallo la Corte costituzionale ha bocciato l’austerità ad oltranza. L’Olanda, finora uno dei pilastri del fronte del rigore guidato dalla Germania, sotto la pressione dei sindacati ha rinunciato al piano di austerità. Il governo di coalizione liberali-laburisti ha rinunciato a una riduzione immediata della spesa pubblica di 5 miliardi e ha ammesso che il paese non rispetterà l’impegno di ridurre il deficit pubblico al 3% nel 2014. I salari della funzione pubblica non saranno congelati, il progetto di rendere più facili i licenziamenti è stato rimesso nel cassetto, non verranno ridotti gli assegni di disoccupazione.
“Dopo cinque anni di crisi, José Manuel Barroso ha finalmente riconosciuto la realtà: l’austerità non è efficace né socialmente sopportabile”, ha commentato Swoboda. Bruxelles ha ben capito che anche la Bce ha ormai armi spuntate e che al massimo potrà ancora ridurre di poco i tassi di interesse, già molto bassi (0,75%). Gli ultimi dati europei sono estremamente preoccupanti: dopo un calo del pil dello 0,6% nel 2012, quest’anno ci sarà una recessione a meno 3% del pil complessivo. La disoccupazione salirà all’11%, la domanda langue dappertutto. L’effetto scontato delle politiche di austerità non c’è stato nella zona euro: il debito aumenta invece di diminuire. La maggior parte dei paesi affonda nei deficit e solo la Germania nel 2012 ha chiuso i conti pubblici con un attivo dello 0,3%. I paesi della periferia continuano ad avere un deficit elevato: 10,6% in Spagna, 10% in Grecia, 7,6% in Irlanda, 6,4% in Portogallo, 6,3% a Cipro. Ma anche il cuore della zona euro è in difficoltà: nel 2012 la Francia ha avuto un deficit del 4,8%. L’Italia in crisi fa invece la figura della prima della classe,: 3% di deficit, superata solo da Austria (2,5), Finlandia (1,9%), Lussemburgo e Estonia.
Il conto è stato presentato agli italiani in termini di disoccupazione, perdita di potere d’acquisto e recessione (meno 1% previsto nel 2013), e la risposta è stata il voto di sfida di febbraio. Troppa austerità porta la minaccia di deflazione, hanno messo in guardia vari istituti di ricerca (tra cui il francese Ofce). La zona euro ha migliorato i deficit a un ritmo forsennato, simile a quello imposto all’America latina, all’Asia e all’Africa alla fine del secolo scorso. Le riforme strutturali sono avviate dappertutto. E se questo era lo scopo – limitare i diritti del lavoro – è stato raggiunto alla grande. Adesso si possono allentare le briglie del rigore, per non soffocare il malato con le troppe medicine. Resta da convincere la Germania, che a pochi mesi dalle legislative non sembra per il momento disposta a permettere ai partner di cambiare rotta. Merkel è la nuova Tina (There is no alternative – il motto di Margaret Thatcher). Ma “nella vita ci sono sempre alternative” ha commentato il think tank Bruegel.

Attacco alla Costituzione

La via italiana al risanamento della crisi che non c'è

Quarantotto

Avevamo parlato della sentenza della Corte costituzionale portoghese che aveva dichiarato la illegittimità di 4 su 9 delle misure di austerity imposte, nella legge finanziaria approvata a fine anno, dal memorandum della trojka.

Le misure ritenute incostituzionali tagliavano pensioni e sussidi di disoccupazione (in Italia alle prime ci ha pensato la Fornero, senza colpo ferire, e ai secondi...pure: ora dovranno reperire un miliardo, ma naturalmente da tagli e tasse aggiuntivi, perchè in Costituzione c'è il pareggio di bilancio).

Ora, la situazione, come abbiamo altrettanto visto, è che la Commissione UE non demorde e neppure il FMI: i tagli in qualche modo vanno fatti e poco importa se attiveranno il moltiplicatore fiscale negativo, acuendo la recessione. Il FMI a livello di Blanchard-ufficio studi dice una cosa, ma quando poi si esprime ufficialmente conta la determinazione della Lagarde a tutelare la "stabilità finanziaria" e gli "investitori esteri", formule riassuntive di "banche straniere creditrici, essenzialmente franco-tedesche".

Insomma
, "Pedro Passos Coelho, il primo ministro portoghese di centrodestra,doveva comunque tagliare, ai primi d'aprile, la spesa pubblica di 4 miliardi per adeguarsi al programma di "bail out" per 78 miliardi imposto dal memorandum della trojka.
Ora, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, deve operare tagli per 5,3 miliardi per tenere fede alle scadenze del memorandum fissate per la fine di maggio.

La decisione della Corte ha innescato a livello negli "investitori" il dubbio che si debba ricorrere a un secondo bail-out
" (cioè a una procedura concordata che implica un default guidato)".

Inutile dire che "planned cuts impinge in public-sector pay, pensions and benefits".

Il che, nonostante la tregua determinata dal singolare "balletto istituzionale", preannuncia quello che
la Commissione, coi suoi "warnings", pretenderà dall'Italia. In un modo o nell'altro, qualunque tipo di governo sieda a Palazzo Chigi, e senza indugio: altrimenti gli investitori si "adombrano" e, si sa, gli spread salgono. Almeno per l'Italia; e non per la Francia, pacificamente destinata a diluire il consolidamento fiscale, attutendo la recessione - sempre per effetto del moltiplicatore fiscale che, quando vogliono, ammettono che esista- in cui la stessa Francia si sta avviando secondo le previsioni del FMI. Ma, per ora, il sistema bancario di Vichy, pardon, francese, è un socio indispensabile per mantenere in piedi il sogno europeo (dei banchieri "chiusi in una stanza a decidere").

Nella situazione di obiettivo ricatto, in cui Passos Coelho pare trovarsi perfettamente a suo agio, (alla stessa stregua dei nostri governanti degli ultimi 20 anni, con punte di "eccellenza" negli ultimi tre), che ti va a pensare l'establishment PUD€ portoghese? Seguite bene perchè rischia di anticipare il completamento del disegno già iniziato in Italia col pareggio di bilancio, (nel senso che siamo veramente all'avanguardia in Europa!), che ha il "piccolo inconveniente" di cozzare frontalmente con varie norme costituzionali programmatiche delle funzioni e prestazioni statali, direttamente connesse ai principi fondamentali.

"Passos Coelho vuole che la Costituzione sia rivista per assottigliare lo Stato (!) in modo da consentire i tagli che ha garantito alla trtojka. Con ogni probabilità, per abbattere pensioni, stipendi pubblici e sussidi di disoccupazione (magari introducendo, in nome dei filo-europei festanti, il "salario di cittadinanza", ndr.), vuole cambiare la clausole che hano consentito, al presidente della Repubblica e all'opposizione l'accesso diretto alla pronuncia della Corte costituzionale". E qui potremmo pensare a un sospiro di sollievo...paradossale: norme equivalenti nella nostra Costituzione non ci sono, essendo l'accesso, in queste materie, solo "incidentale" in un giudizio ordinario già instaurato. Peraltro, l'accesso diretto è previsto in quella tedesca sì e, infatti, ne hanno fatto uso. Anche se poi a bocciare il fiscal compact ci ha pensato direttamente il Bundesrat (nel silenzio del nostro dibattito politico e mediatico).

Ma adesso viene il bello.

Il Cambiamento

Marco Cedolin

Ci sono voluti quasi due mesi, dopo le elezioni di febbraio, per condurre l'Italia al punto d'incontro con il secondo golpe, promesso da Napolitano e da Monti a tutti i poteri forti internazionali alla vigilia della campagna elettorale.

In molti si supponeva che saremmo giunti al nuovo colpo di stato, attraverso le ire dei mercati ed il progredire dello spread, invece la strada scelta è stata di tutt'altra natura. Bersani e Berlusconi hanno di fatto menato per il naso gli italiani che li hanno votati, attraverso due mesi di teatrino tanto folkloristico e disordinato, quanto mirato ad ottenere l'effetto voluto. Il primo ostinandosi fintamente ad inseguire l'appoggio di Beppe Grillo, pur sapendo bene che mancava qualsiasi spazio per ottenerlo. Il secondo cavalcando l'affondamento dell'Italia (quasi le colpe del disastro fossero di un evento tellurico) ed inseguendo Bersani, fingendo di volerlo abbracciare stretto.

PD e PDL hanno passato il tempo cianciando di cambiamento e chiamando i propri elettori a manifestazioni farsa, fino ad arrivare al momento dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.....

Giunti al punto concordato, Bersani, pur avendo la possibilità di fare eleggere fin dalla prima votazione un uomo del suo partito, nella persona di Stefano Rodotà, proposto molto generosamente da Beppe Grillo, unitamente alla promessa di quell'apertura in chiave nuovo governo a lungo (fintamente) agognata, ha detto di NO, preferendo proporre Marini con il gradimento di Berlusconi. Giunto alla quarta votazione, quando Marini avrebbe avuto i voti per venire eletto, essendo scesa la soglia, ha detto di NO anche a Marini, preferendo riesumare il cadavere politico di Romano Prodi, uno dei pochi uomini invisi a Berlusconi e pertanto destinabile a venire bruciato, mancando l'appoggio del PDL e del partito di Monti.

A questo punto i giochi erano fatti, per giustificare l'avvento del golpe. Tutti i partiti (a parte Grillo ovviamente) in fila alla corte di Giorgio Napolitano, per incoronarlo alla guida del secondo colpo di stato, così come imponevano i dettami della troika e dell'amministrazione Obama.

Basta dissidi, basta veti incrociati, basta franchi tiratori, basta distinguo, basta presidi a comando davanti a Montecitorio, basta polemiche. Tutti uniti, felici e soddisfatti, nel nome del nuovo che avanza e garantirà all'Italia un futuro prospero, sulla falsariga di quanto sperimentato negli ultimi anni.

Molto (ma proprio molto) presto anche la formazione del nuovo governo non sarà più un problema. Nessuno parlerà più di elezioni, nessuno si sentirà in difetto ad abbracciare il proprio avversario politico, nessuno si sognerà di creare problemi. Napolitano nominerà Enrico Letta alla guida di un nuovo governo delle banche, sulla falsariga di quello guidato da Monti e tutto sarà pronto per le nuove tasse, i nuovi licenziamenti, i nuovi suicidi ed il nuovo crollo del paese.

Il cambiamento arriva a grandi passi, attenti a non rimanere disorientati. E Beppe Grillo? Fino all'ultima votazione il movimento 5 stelle ha continuato a sostenere il nome (condivisibile o meno) di Stefano Rodotà, ma a detta della vulgata si tratterebbe di un partito incoerente, inesperto e privo di senso di responsabilità. Buona parte della colpa di quanto accaduto verrà attribuita a lui. Voleva il cambiamento e ora che Napolitano viene ad incarnarlo non si sente in dovere di appoggiarlo? Vergogna!

martedì 23 aprile 2013

Ma il grillismo fu vera gloria?

- vecchiatalpa -
A quasi due mesi dalle elezioni, il quadro istituzionale è più chiaro, credo, e quindi è tempo di alcune considerazioni, che prima non si potevano fare. Da più parte di indica come vincitore di questa tornata il grillismo e in parte il Berlusconi. Chi unanimemente considerato il perdente quasi allo sfascio il PD. Su quest'ultimo punto credo che sia evidente, anche se non credo proprio al suo disfacimento. Il Grillismo viene considerato il vincitore in quanto avrebbe portato all'evidenza la crisi del sistema e ilsuo disfacimento. Vittorioso quindi lo slogan "Tutti a casa"
Siamo sicuri?

Partiamo dalla realtà. Dai fatti evidenti. Avevamo, prima delle elezioni un Napolitano Presidente della Repubblica e un governissimo sua creatura , con capo del governo un uomo della cosidetta Troika con un programma fatto di lacrime e sangue per i lavoratori, sorretto da PD e PDL.
Dopo le lezioni abbiamo ancora Napolitano presidente della Repubblica, con un probabile governo sorretto da PD PDL, e un probabile presidente del consiglio Amato e se anche non fosse lui, molto simile a lui, senza la scusante dell'appellativo tecnico , ma proprio politico in quanto Letta e Alfano saranno i probabili vicepresidenti. E in più , tanto per non farci mancare nulla, un programma ( quello stilato dai saggi) anch'esso bello e pronto e fornito dal Presidente della Repubblica. Dalla repubblica rappresentativa ad una repubblica presidenzialista dal punto di vista costituzionale e di una dittatura in veste democratica dal punto di vista politico
Siamo messi meglio o peggio di prima? ( e naturalmente quel noi sta per noi lavoratori/pensionati/precari ecc ecc )
Ora supponendo che il grillismo si possa definire corrente vicino al movimento dei lavoratori, per i lavoratori , per la democrazia e la partecipazione al governo e alla cosa pubblica dei "cittadini" credo che la sua manovra politica non certo possa definirsi una vittoria!
L'obbiezione a questa mia considerazione la prevedo e può essere sintetizzata nell'affermazione che il grillismo ha messo in luce e determinato la crisi dei partiti e di quella che si definiva seconda repubblica.
Anche qui analizziamo i fatti.
La crisi delle istituzioni e delle sue articolazioni, i partiti, si è evidenziata ben prima che il grillismo potesse prendere piede. Siamo alla crisi del partito del berlusconismo, all'uscita di Casini dall'alleanza, alla nascita del PDl, alla cacciata dei finiani e della loro miserevole fine politica. Del PD è difficile datare la sua crisi e delle sue contraddizioni, in quanto già in fieri fin dalla nascita già dall'ipotesi di mettere insieme il diavolo e l'acqua santa Quel che era rimasta della sinistra democristiana con quel che era rimasto del vecchio PCI , il cattolicesimo con un laicismo confuso e timido e che il supposto sistema bipartitismo e maggioritario , proprio della seconda repubblica, teneva a malapena in piedi. Poi c'è stata la salita in fretta e furia di Berlusconi al Quirinale, la nascita del governo Monti , la palesa sconfitta della politica politicamente infingarda. Il grillismo da questo punto di vista non ha determinato un bel nulla!. E' solo l'effetto non la causa, il lampo ma non certo il temporale, e i suoi strali contro la casta partitica, contro il malaffare , la corruzione , l'eliminazione dei finanziamento alla politica è solo la sostituzione del fusibile che salta , non certo la riparazione del guasto elettrico! Certo questo va sostituito, ma prima va ricercato il vero guasto del circuito, trovati i componenti guasti e sostituiti. Il costo di questa politica costa circa 500 milioni di euro. Solo il taglio alle pensione ha portato 4 miliardi ( utilizzati tra l'altro il primo anno a pagare derivati in scadenza alla Goldmen e Sachs).

Potevano i grillini fare meglio e di più visto il contesto? Hanno essi al loro interno, per la composizione di ceti sociali che lo compongono , per gli interessi veri, reali di cui sono portatori , la forza, la capacità, l'energia e le prospettive intellettuali e politiche per essere una speranza per il reale cambiamento? O solo solo l'effimero e la parolaia protesta appunto il fusibile che salta a cui il potere ha loro riservato un piccolo recinto quello "dell'opposizione, democratica e consapevole" all'interno delle istituzioni, dove poter pascolare, scorazzare e lasciar lavorare chi deve lavorare e dare credibilità democratica a istituzioni che ormai di democratico hanno ben poco?
La mia risposta è pleonastica, come evidente per me la possibile alternativa che il grillismo aveva a disposizione e che gli era stata offerta in un piatto non d'argento , ma d'oro e che non hanno voluto/saputo/creduto/potuto percorrerla

I poteri forti che hanno fermato Rodota'.

In momenti come questi, il più grande servizio che un intellettuale e un giurista possono rendere al loro Paese è spiegare cosa sta succedendo. L’altra sera ero a cena con Stefano Rodotà, il candidato e l’uomo limpido che mi onora della sua amicizia.
Eravamo entrambi relatori al Festival della laicità di Reggio Emilia, con la differenza che lui, ovviamente, teneva la relazione di apertura, e neppure in questa occasione ha voluto venir meno ai suoi impegni. Tutto quello che dirò lo penso io, non lui; questo non è uno scoop giornalistico: con tutto il rispetto che lui e io portiamo per il giornalismo, noi facciamo un altro mestiere.
A un certo punto della serata, quando erano ormai arrivate le notizie della sconfitta di Prodi, impallinato dai franchi tiratori del Pd, e circolavano le voci delle dimissioni di Bersani e della Bindi, nel silenzio generale gli ho chiesto, alla presenza di molti amici, quanto segue. «Stefano, a questo punto la situazione è chiara, il Pd è imploso e non è più in grado di esprimere alcuna candidatura, può soltanto scegliere fra candidature altrui. O vota il candidato di Berlusconi, o vota il candidato di Grillo, cioè te: altrimenti di qui non si esce. Ora, la domanda è: perché non scelgono te, come farei ovviamente io? Perché sceglieranno chiunque altro, ma non te? Perché non ti hanno scelto sin dall’inizio, nonostante tutti gli amici che hai nel Pd?».
Qui, ripeto, non riporterò quello che lui mi ha risposto. La mia opinione, però, ricavata da quello che lui mi ha detto, è che contro la candidatura Rodotà, che rischiava di essere condivisa anche da molti democratici, siano scesi in campo poteri forti, anzi fortissimi. Anche questa è una formula mia, naturalmente: Stefano si esprimerebbe in modo molto meno rozzo.
Ma la sostanza è questa. Contro di lui, relatore al Festival della laicità ma soprattutto inflessibile difensore dei diritti delle minoranze, non ha pesato tanto l’ostilità del primo potere forte, la Chiesa: oltretevere gli equilibri sono molto cambiati, dopo l’elezione di papa Francesco, d’ora in poi la Chiesa guarderà meno all’Italia e più al mondo, e poi se si fosse trattato solo di questo sarebbe stato eletto il cattolico adulto Prodi, a favore del quale Rodotà era dispostissimo a rinunciare alla propria candidatura.
Un secondo potere forte che è stato decisivo contro Rodotà è stato il potere economico e finanziario, che ha bisogno non di riforme ma di stabilità, dei vecchi equilibri di potere per continuare a fare i propri affari, e che non sarebbe stato garantito da un giurista di sinistra, difensore dei diritti dei consumatori, ostile alle privatizzazioni e teorico dei beni pubblici, ma soprattutto indisponibile a prestarsi ai vecchi giochetti. Queste sono ancora parole mie, ma non credo che l’amico Stefano possa mai smentirmi su questo, neppure diplomaticamente.
Infine, c’è un terzo potere forte, che ipotizzo io sulla base di tutto quello che so, prendendomene tutte le responsabilità.
Non ho mai creduto ai complotti, eppure l’impazzimento del nostro sistema politico registratosi in questi giorni, la decisione di Napolitano di candidarsi dopo aver sempre detto che non lo avrebbe mai fatto, la stessa ipotesi Amato per palazzo Chigi hanno una spiegazione ulteriore e molto semplice, abbastanza nota agli addetti ai lavori. Il terzo potere forte ostile a Rodotà è la massoneria: non quella deviata, le varie P2 e P3, ma quella “buona”, cui aderiscono molti insospettabili di tutti i partiti, anche di sinistra o pretesa tale.
Aggiungo un’ultima cosa per chiarire la mia posizione. Rosy Bindi aveva detto che se Marini era il Presidente del governissimo con Berlusconi, non era il suo Presidente. Lo ripeto anch’io per il Presidente Napolitano, che sino a oggi avevo sempre difeso. Se è il Presidente dei poteri forti, allora non è il mio Presidente.

I massacri sociali? E’ colpa di Excel

Di ilsimplicissimus

o.164949Austerità suona bene. E’ qualcosa di credibile e di spendile dai media, fa leva su candori sopiti, ricorda i nonni parsimoniosi delle nostre campagne, i sacrifici delle madri, i ritratti confusi di una mitica borghesia del rigore e tutto un maelstrom di confusi ricordi che mischia insieme detti popolari e Berlinguer, le mille lire di paghetta e il Prigioniero della quinta strada, i retti discorsi sul consumismo e la saggezza bottegaia. Certo elude la speranza, se ne fa un baffo dell’equità, non conosce l’idea di diritto, ma sa di buono, odora di lavanda. Tuttavia è un inganno, un tranello che riesce nel suo intento basandosi su un bias, un tunnel della mente di origine smithiana, ma che viene usato ormai da quarant’anni in maniera massiccia come una droga: quello di far credere che l’insieme della società funzioni con gli stessi criteri e modalità valide per i singoli.
Naturalmente non è così, l’insieme non funziona affatto come le singole entità che lo compongono. E come le diverse parti di una nave affonderebbero immediatamente da sole, mentre solo l’insieme è in grado di galleggiare e navigare, così uno stato non può funzionare come un privato o un’azienda, secondo la favola che ci sovrasta da più vent’anni. Perciò non è affatto una sorpresa scoprire che l’austerità applicati agli stati non funziona. Funziona così poco che le economie che hanno una sovranità monetaria stampano soldi come fossero quelli del monopoli, senza temere l’inflazione perché con una crisi epocale della domanda questo è proprio l’ultimo pensiero. Solo in Europa -dove esiste una moneta unica, ma tessuta su interessi molto divergenti – l’unica ricetta sembra essere l’impoverimento dettato dai Paesi forti ai più deboli.
Tuttavia sappiamo che non giocano solo interessi nazionali, ma anche ideologie e posizioni politiche: da un punto di vista, diciamo così, “scientifico” la teoria del risanamento del debito come motore e presupposto della crescita è stato abbondantemente sbugiardato, senza che però né i governi nazionali né la governance europea, né l’Fmi intendano recedere dai loro diktat. E’ ovvio che lo fanno per proteggere le banche e la finanza, sacrificando i popoli, ma la cosa che ha un suo spaventoso fascino è la schizofrenia con la quale è possibile asserire qualcosa e fare l’esatto opposto senza incontrare resistenze, di come insomma la conoscenza sia inutile e di come invece la menzogna vinca, se la prima viene solo citata e la seconda viene invece ribadita come in un campo di Pol Pot.
Per esempio alcuni mesi fa, alla fine dello scorso anno, il capo economista del fondo monetario internazionale, Olivier Balnchard ha detto esplicitamente che c’era stato un grave errore concettuale nella dottrina dell’austerità: si era calcolato che per ogni euro di taglio al bilancio, si sarebbe avuta una diminuzione del pil di soli 50 centesimi, cosa che avrebbe compensato vantaggi e svantaggi. In realtà si è visto che la diminuzione del Pil non è di 50 centesimi, ma di un euro e mezzo, tre volte maggiore: dunque tutti i calcoli e i diktat erano drammaticamente sbagliati. L’Fmiprende atto, pubblica, ma continua imperterrito nella sua politica.
Più di recente uno scandalo accademico ha coinvolto Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff due celebri economisti di Harvard che in un saggio del 2010 avevano posto le basi della dottrina del rigore, sposata in pieno dall’Europa. Un gruppo di economisti è andato a mettere il naso dentro le cifre e ha scoperto che la teoria secondo la quale se il rapporto debito/ Pil supera il 90% si entra in recessione non soltanto non corrisponde alla realtà, anzi la ribalta, ma è stata costruita a tavolino scegliendo i dati che potevano confermarla ed eliminando quelli che la contraddicevano. Ora di due celebri economisti hanno detto che è stato un errore nell’ utilizzo di Excel (il più noto foglio di calcolo) a creare il pasticcio. Certo sapere che questi guru dell’economia (i famosi competenti) costruiscono a tavolino le teorie che supportano tesi e visioni politiche senza nemmeno avere la patente del computer, non riempie i cuori di gioia. Ma voi pensate che da Bruxelles siano venuti segni di ripensamento? Pensate che qualche politico, tra un pianto e l’altro, si sia preso la briga di leggere la notizia e di desumerne qualche azione? Nemmeno per idea: il saggio era stato quello che loro volevano per poter avere una copertura scientifica che giustificasse il cieco sadismo sadismo o l’alibi per le cattive coscienze.
Parrebbe quasi che l’economia rappresenti dentro il capitalismo finanziario la coscienza infelice di Hegel: una lacerazione tra la mutevole consapevolezza della realtà e la trascendenza di principi, opzioni politiche e leggi ritagliate risibilmente dalla fisica, che si traduce, come nel rapporto che il filosofo tedesco vedeva tra la singola coscienza e Dio, in semplice, rozza devozione. Ma con vescovi, sacerdoti e chierici interessati solo alla questua.

Napolitano l’europeo e la democrazia svuotata

Napolitano l’europeo e la democrazia svuotata

di Francesco Bogliacino -
La rielezione di Giorgio Napolitano non è solo il segno delle “larghe intese” tra Pd e Pdl. È il risultato di un progetto europeo che cambia la Costituzione e restringe la democrazia
È difficile provare a ragionare sulla recente rielezione di Napolitano: qualsiasi tentativo di spiegare gli eventi finisce schiacciato sotto le immagini profondamente evocative dei personaggi coinvolti, così caricaturalmente marcati da far trionfare gli aspetti contingenti, legati all’improvvisazione degli attori, sulle cause di fondo, con la loro logica ferrea.

Così in questi giorni, tra l’omologazione culturale della stampa nazionale e il manicheismo del web, il lettore cerca di dare un senso al filo logico che lega tra loro figure lontanissime. Come nemmeno nella Commedia dell’Arte, qui si trova una galassia quanto più variegata possibile. Su di tutti c’è il vecchio comunista, che iniziò la carriera benedicendo carri armati, la continuò al Viminale introducendo i campi di concentramento per immigrati e la concluse salvando ripetutamente e inspiegabilmente Berlusconi.
Naturalmente c’è quest’ultimo: il Cavaliere è un personaggio che faticosamente si cerca di spiegare al cittadino di un altro Paese, una scheggia impazzita che mischia le pagine più ridicole e quelle più tragiche della moderna storia italiana. Tuttavia, è lunga la serie di comparsate che a modo loro hanno saputo interpretare con eccellenza il proprio ruolo nel teatro dell’assurdo: da Fassina che spiega con il suo piglio riflessivo e semitriste che Marini avrebbe stretto un legame sentimentale con il Paese (senza nemmeno una risata), all’eroico Bersani, capace di distruggere in pochi mesi – come nemmeno Veltroni – il patrimonio di struttura, organizzazione e consenso dell’ultimo superstite dei partiti di massa.
L’incapacità è innegabile, tuttavia spiega ben poco. Innanzitutto i fatti. Quanto accaduto, dagli eventi che precedono le dimissioni di Berlusconi in poi, è la più potente riforma costituzionale avvenuta in Italia. De facto, senza la benché minima legittimazione politica, si è imposta all’Italia un’agenda politica che nessuno vuole, difesa con una ridicola e sfacciata propaganda politica mascherata da consenso accademico [1]. Successivamente di fronte alla contingente sovrapposizione tra semestre bianco ed elezioni e quindi all’inevitabile necessità di scegliere una figura istituzionale capace di benedire dall’alto il governo futuro – piaccia o no, mai nella storia della Repubblica l’elezione dell’inquilino del Colle è stata così politica – si è andati chiaramente contro le indicazioni del voto recente e contro l’opinione largamente maggioritaria della propria base (nel caso del PD), in nome dell’agenda europea. I commentatori indignati di questi giorni ignorano sostanzialmente quest’ultimo punto, sottolineando l’inciucio, che è strumentale ma non fondante della manovra politica.
Se l’esigenza fondamentale fosse stata l’accordo con Berlusconi non si spiegherebbe la proposta di eleggere al Quirinale Prodi, che aveva fatto saltare i nervi al PDL, ma che invece sarebbe stato perfettamente accettato là dove si prendono le decisioni, visto il pedigree del personaggio (introduzione dell’euro, capo della Commissione). Come si scriveva in tempi precedenti [2], il progetto egemonico del capitale del centro d’Europa è fallito e questo spiega il nervosismo di Berlino e Bruxelles e l’esigenza di passare per meccanismi che non richiedano il sigillo elettorale. La classe dirigente del centro sinistra a quel progetto è legata e ne riflette gli umori, e su quello ha deciso di immolarsi. La versione “Napolitano” (o l’idea iniziale di Marini) di questo progetto riflette semplicemente la necessità di trovare una qualche forma di equilibrio politico. I personaggi in questione sono capaci di garantirlo perché disposti a offrire soluzioni che offrano mediazioni sui vari problemi giudiziari aperti, e perché offrono garanzie alle agenzie di consenso tradizionali, come la Chiesa, contro l’estensione dei diritti civili.
L’agenda politica del nuovo governo sarà ovviamente l’agenda Monti, il cui striminzito risultato elettorale indica il livello massimo del suo effettivo consenso, gonfiato dai pacchetti di voti che i partiti della sua alleanza portavano in grembo.
Chi ancora crede al progetto europeo sa benissimo che il limite al di là del quale questo modello d’integrazione diventerà indifendibile è ormai prossimo a essere raggiunto. Tacere di questo oramai diventa impossibile. Le conseguenze politiche includeranno pagine ben più oscure di qualche eccesso verbale su twitter.
[1] http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/03/13/night-of-the-living-alesina/, http://www.nytimes.com/2013/04/19/opinion/krugman-the-excel-depression.html?_r=0 La tesi del vincolo dello spread si è rivelata essere una sciocchezza: i differenziali si sono ridotti quando Draghi ha preso l’iniziativa, a fronte di elezioni in Italia, lo avrebbe fatto prima, con significativi risparmi per i bilanci pubblici.
[2] http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Egemonia-al-centro-declino-in-periferia-16356
da Sbilanciamoci.info

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