Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 30 giugno 2012

Syriza in Italia? Proviamoci ma la strada è lunga

Autore: Marco Bersani*
       
La vicenda greca parla a tutti i popoli d’Europa sotto diversi punti di vista.

Da una parte è la più lampante dimostrazione di come lo “shock” del debito sia stato artatamente costruito per ridisegnare il comando sociale dei grandi capitali finanziari sul mondo del lavoro e sull’intera vita delle persone.

La Grecia è infatti il Paese che più pedissequamente si è sottoposto ai diktat della “Troika” e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: drastica caduta delle condizioni di vita, disoccupazione di massa, precarietà generalizzata, espropriazione di beni comuni e servizi pubblici, sottrazione di democrazia.

Dall’altra è l’altrettanto chiara dimostrazione di come la mobilitazione sociale costante e su contenuti chiari sia pagante e possa far uscire un intero popolo dalla frammentazione e dalla disperazione per iniziare a costruire un’alternativa : da questo punto di vista l’esperienza di Syriza è illuminante e densa di indicazioni.

Lo scontro sociale che la crisi ci consegna è - e sempre più sarà - senza quartiere: da una parte l’ossessione delle politiche liberiste chiede continuamente nuovi “assets” su cui riversare i capitali finanziari, dentro un modello capitalistico in condizioni di cronica sovrapproduzione; dall’altra, i movimenti sociali indicano nell’inversione di rotta e nella definanziarizzazione della società la possibilità di un altro modello sociale.

E’ come se, dopo aver per oltre due decenni affermato “privato è bello”, cercando di convincere le persone, oggi i poteri forti finanziari dicano molto più semplicemente - e ferocemente – “privato è obbligatorio e ineluttabile”.

Da questo punto di vista, il nuovo paradigma dei beni comuni che ha attraversato tutte le lotte e le mobilitazioni sociali, in particolare nel nostro Paese, diviene il luogo principale dello scontro in atto, tra la riappropriazione collettiva di ciò che a tutti appartiene e il definitivo esproprio di diritti e democrazia.

Su questo terreno - la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua dello scorso anno lo dimostra - è possibile costruire un altro linguaggio e un nuovo protagonismo sociale che sappiano uscire dalla pur generosa minorità per parlare all’intera società.

Un terreno che sposti l’asse dell’azione collettiva dall’intervento “a valle” dei processi all’assalto “a monte” degli stessi: che passi dal “consumo critico” alla critica della produzione, dalla lotta contro le privatizzazioni alla riappropriazione partecipativa di beni e servizi, dal terreno de “i soldi non ci sono” alla risocializzazione del credito, dalla democrazia formale alla democrazia reale.

Da questo punto di vista - e conoscendo tanto i drammatici limiti delle forze politiche in Italia quanto le insufficienze dei movimenti sociali - sarei molto cauto nell’immaginare una deterministica riproduzione italiana dell’esperienza di Syriza.

Innanzitutto perché quell’esperienza nasce dalla mobilitazione sociale reale che in quel paese ha assunto livelli di radicalità - più di 15 scioperi generali - attualmente impensabili in Italia; inoltre la crisi della rappresentanza nel nostro Paese - dopo due decenni in cui il modello Berlusconi ha plasmato trasversalmente la società - ha assunto livelli di drammaticità, difficilmente riscontrabili in altri Paesi europei.

L’Italia è un Paese tutt’altro che pacificato, ma l’insufficienza delle mobilitazioni sociali rispetto allo scontro in atto è purtroppo un dato ancora evidente; l’Italia è un Paese denso di rivendicazioni collettive, ma la frammentazione delle stesse è purtroppo sotto gli occhi di tutti.

Prima di affrontare il delicatissimo tema della rappresentanza, occorre a mio avviso dedicare tutte le possibili energie alla costruzione della precondizione della stessa: una forte, radicale, unitaria e inclusiva mobilitazione sociale su alcuni obiettivi chiari e comunicabili, che sappiano tessere la rete delle relazioni sociali e ribaltare l’agenda politica di un Palazzo ormai “autistico”.

Il rischio è che, in mancanza di un livello adeguato di mobilitazione sociale, la scorciatoia della rappresentanza venga ancora una volta dai più percorsa, nell’illusione di costruire dall’alto ciò che è complicato far emergere dal basso.

Ben venga Syryza, dunque, se serve a camminare. Ma con la consapevolezza dei passi da compiere.

*Forum italiano dei movimenti per l’acqua

Germania: Hitler difensore diritti umani !!!


        Germania: Hitler difensore diritti umani (ANSA) - BERLINO, 30 GIU - La meta' dei liceali tedeschi non sa che Hitler era un dittatore, mentre un terzo di loro pensa che sia stato un protettore dei diritti umani. E' il risultato shock di un sondaggio condotto dai ricercatori della Free University di Berlino. In base alla ricerca, realizzata intervistando piu' di 7.500 studenti intorno ai 15 anni, solo la meta' e' capace di affermare che l'ex Germania Occidentale era uno Stato democratico, mentre il 40% si dice incerto in quale tipo governo vive oggi.

Fonte: ansa

Krugman e Layard contro le politche di austerità

il manifesto | Autore: Francesco Bravi
       
«I deficit pubblici che osserviamo oggi sono una conseguenza e non la causa della crisi». Ecco la denuncia dell’errore di fondo, dell’equivoco generato dalle politiche di austerità, che un nutrito gruppo di economisti – su tutti Paul Krugman e Richard Layard – ha affidato alle pagine del Finacial Times. Si tratta di una vera e propria petizione in cui i firmatari si prefiggono di intaccare quelle idee che, avendo ormai messo «radici nella coscienza pubblica», assicurano un consenso «all’eccessivo rigore delle politiche fiscali di molti paesi». I tempi sono maturi, sostengono invece gli autori, perché gli economisti possano parlare direttamente ai cittadini e «offrire un’analisi più saldamente ancorata all’evidenza» dei problemi attuali, attraverso un manifesto.
«In un momento nel quale il settore privato è impegnato in uno sforzo di contenimento della spesa – dicono gli estensori del documento, tutti professori di Princeton e della London School of Economics – le politiche pubbliche dovrebbero agire come una forza stabilizzatrice, a sostegno della spesa». Di fronte alla crisi dei mutui, i privati – continuano – hanno reagito razionalmente tagliando i nuovi finanziamenti per rimborsare quelli vecchi. Tuttavia, se ciò poteva essere logico su scala individuale, si è rivelato controproducente a livello collettivo, dato che non spendendo più nessuno, nessuno nemmeno più guadagna. Precisamente quel tracollo della spesa cui gli autori della petizione sul Ft attribuiscono l’origine del peggioramento dei bilanci pubblici. Che quindi si colloca alla fine del meccanismo a catena della sfiducia e non all’inizio. Un processo che, affermano i partigiani delle riduzioni di bilancio, solo il contenimento della spesa pubblica può riuscire a disinnescare. Layard e Krugman però sostengono che non ci sia niente di più falso. «Dall’esperienza – ricordano – non emerge alcun caso rilevante di questo genere».
Anzi, rincarano la dose, lo stesso «Fondo monetario internazionale ha studiato 173 casi di tagli di bilancio in singoli paesi e in tutti ha riscontrato che hanno avuto un effetto essenzialmente depressivo» sull’economia. Infine, gli economisti anti-austerity demoliscono quello che chiamano l’«argomento strutturale» avanzato dai loro colleghi favorevoli al rigore. Secondo questi teorici della soluzione lacrime e sangue, un’espansione dell’offerta sarebbe impedita dal fatto che la produzione è in sofferenza, per ragioni di squilibrio interne al sistema, sul lato della domanda. Se fosse così però, ribattono Krugman e Layard, «la maggior parte delle nostre economie dovrebbe essere al massimo delle possibilità»: impossibile, con tassi di disoccupazione così alti.
L’intero testo della petizione è disponibile online sul sito del Financial Times.

Le proposte del controvertice contro la crisi

Fonte: il manifesto | Autore: red.
       
I 150 partecipanti al Forum Internazionale «Un’altra strada per l’Europa», tenutosi giovedì 28 al Parlamento europeo a Bruxelles, hanno discusso delle alternative praticabili alla mancanza di azione efficace contro la crisi europea attese dal Consiglio europeo di Bruxelles. Tra le azioni concrete richieste, le seguenti cinque proposte assumono il carattere di estrema urgenza.
1) Per affrontare la drammatica accelerazione della crisi finanziaria europea – segnata dall’interazione tra crisi bancaria e crisi del debito pubblico – la Banca centrale europea deve agire immediatamente in qualità di prestatore di ultima istanza per i titoli di Stato. Il problema del debito pubblico va risolto con una responsabilità comune dell’eurozona, attraverso meccanismi istituzionali che possano essere introdotti immediatamente; il debito va sottoposto a una valutazione e un «audit» pubblico.
2) È necessario un radicale ridimensionamento della finanza, con l’introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie, limiti alla finanza speculativa e ai movimenti di capitali e con un’estensione del controllo sociale, in particolare sulle banche che ricevono salvataggi pubblici. Il sistema finanziario dovrebbe essere trasformato in modo tale da sostenere investimenti produttivi sostenibili da un punto di vista sociale e ambientale.
3) È necessario rovesciare le politiche di austerità in tutti i paesi d’Europa e rivedere i termini dei Memorandum imposti ai paesi che hanno richiesto «aiuti d’emergenza» dall’Unione europea, a cominciare dalla Grecia; i pericolosi vincoli del «Patto fiscale» vanno eliminati in modo che i governi possano tutelare la spesa pubblica, il welfare e i salari, mentre l’Europa deve assumere un ruolo maggiore per stimolare la domanda, promuovere la piena occupazione e avviare uno sviluppo equo e sostenibile. Le politiche europee devono inoltre portare all’armonizzazione fiscale, mettere fine alla concorrenza tra stati e spostare l’imposizione fiscale dal lavoro ai profitti e alla ricchezza. Il lavoro e la contrattazione collettiva devono essere difesi; i diritti del lavoro sono parte essenziale dei diritti democratici in Europa. Occorre impegnarci subito per cambiamenti di lungo termine nelle seguenti direzioni:
4) Un «new deal verde» può rappresentare la via d’uscita dalla recessione in Europa con grandi investimenti per una transizione ecologica verso la sostenibilità, creando nuovi posti di lavoro di qualità, ampliando le capacità produttive in settori innovativi e allargando le possibilità di politiche nuove a livello locale, in modo particolare sui beni pubblici.
5) La democrazia deve essere estesa a tutti i livelli in Europa; l’Unione europea va riformata e la concentrazione di potere nelle mani degli Stati più potenti – così come si è realizzata con la crisi – va rovesciata. L’obiettivo è una maggiore partecipazione dei cittadini, un ruolo più incisivo del Parlamento europeo e un controllo democratico molto più significativo sulle decisioni chiave. Le prossime elezioni europee del 2014 devono rappresentare un’opportunità per compiere scelte tra proposte alternative per l’Europa all’interno e trasversalmente gli Stati membri dell’Unione.
Di fronte al rischio di un collasso dell’Europa, le politiche europee devono cambiare strada e un’alleanza tra società civile, sindacati, movimenti sociali e forze politiche progressiste – in particolare nel Parlamento europeo – è necessaria per portare l’Europa fuori dalla crisi prodotta da neoliberalismo e finanza, e verso una vera democrazia.
THE ‘BIG” OBAMA CARE RIFORM
“A timid attempt to imitate the Castro-care”

Syriza non e' sola in Europa.

di Zag in - listasinistra -
Analizzando nel dettaglio il programma del Front de Gauche alcune considerazioni mi vengono da fare.
Intanto la provenienza dei suoi dirigenti. Tutti provengono dalla sinistra del PS. Jean-Luc Mélénchon, Jacques Généreux, Marc Dolez. Per citarne alcuni.
Essi provengono dagli errori e dalla loro autocitica all'appoggio dato al trattato di Maastricht (Mitterand, 1992) e la resa a quello di Amsterdam (Chirac/Jospin, 1997) Si sono schierati per il no al referendum sulla Costituzione Europea .Nel 2008 sono usciti dal PS per fondare il Parti de Gauche (che è una delle componenti del Front de Gauche).
Al pari del programma di Syriza , nel Front de Gauche vi è una analisi economica che difficilmente si può trovare in un partito politico, ma spesso nelle analisi di economisti critici ed eterodossi.
Il programma ha dei punti sicuramente discutibili , ma forse è proprio questo uno dei punti forti. Quello di poter aprire ed essere da stimolo per il dibattito per le forze anticapitaliste . Quello di essere punto di partenza e di riunione per tutte quelle forze sparpagliate , disunite, disgregate , in Europa. Aggregare forze ed intelligenze, intellettuali economisti e non alla preparazione di idee forti da contrapporre alla ideologia dominante.

Prendo pari pari l'esame che ne ha fatto Federica Roà

● aumentare il salario minimo, lo SMIC, del 21% a 1.700 Euro lordi, che dovrebbero diventare netti a fine legislatura (ogni paese europeo dovrebbe adottare uno SMIC non inferiore al 60% del salario medio);
● imporre un rapporto massimo di 1:20 tra la paga più bassa e quella più alta nelle imprese;
● fissare un reddito annuo massimo di 360.000 Euro oltre il quale lo Stato prende tutto;
● porre limiti ai licenziamenti nelle imprese che distribuiscono dividendi; eliminare i contratti di precariato, cominciando da quelli esistenti nel pubblico impiego;
● restituire il diritto di andare in pensione a 60 anni, pensione minima pari allo SMIC,  difendere il sistema retributivo;
● ritornare alle 35 ore;
● istituire una sanità interamente pubblica e universale;
● lanciare la pianificazione ecologica (un vasto programma di reindustrializzazione ecologica, di uscita pianificata dal petrolio e dal nucleare, di investimenti pubblici ecologici e sociali);
● nazionalizzare l’energia (mi limito a questo esempio per indicare una strategia più vasta di difesa da privatizzazioni indiscriminate, ma non necessariamente di nazionalizzazione, di settori come, oltre all’energia, le telecomunicazioni, i trasporti, la ricerca, la sanità, l’educazione, il credito, l’acqua, l’abitazione e, naturalmente, la protezione sociale, la sicurezza, la difesa, la giustizia).

Italia-Germania Euro 2012 Rabbia di Hitler

«Ormai siamo maggioritari. Facciamo Syriza anche qua»

Fonte: il manifesto | Autore: Daniela Preziosi
Intervista al Segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero
«Ha ragione Marco Revelli quando scrive sul manifesto: bisogna collocarsi fuori dalle compatibilità dell’attuale Europa in nome di una rifondazione, di una ricontrattazione dell’Unione. Chi ha fatto l’Europa così e chi ora la sta ridefinendo, popolari e socialisti, sta riconfermando la distruzione della civiltà europea, del welfare, dell’art.18».

Segretario Ferrero, però in Francia il Front de gauche ha sostenuto il socialista Hollande. Lei dice che anche i socialisti distruggono la civiltà europea?
Non dico che socialisti e popolari sono uguali: sono però varianti dello stesso indirizzo politico, quello che non mette in discussione l’impianto neoliberista. Prendiamo il fiscal compact: in campagna elettorale Hollande lo aveva contestato. Oggi già non è più in discussione. Il Front ha fatto bene ad appoggiarlo per sconfiggere Sarkozy, ma non è un caso che poi non è voluto entrare nel governo. Ha ancora ragione Revelli quando dice che serve una Syriza (la coalizione della sinistra greca, ndr) anche da noi: dobbiamo interpretare un sentimento che inizia ad essere maggioritario nella società.
Crede che in Italia una ‘Syriza’ sarebbe maggioritaria?
Sì. Le forze liberiste perdono egemonia perché ormai è chiaro che non funzionano. Se non ci diamo un’alternativa di sinistra, resterà solo il populismo di destra. O qualsiasi tipo di populismo.
Chiamarsi così nettamente fuori dalle compatibilità europee non spaventa l’elettorato, anche quello progressista, e i governi europei, anche di marca socialista, com’è successo a Syriza?
Syriza ha preso il 26 per cento, fino a tre mesi prima stava al 6: un risultato incredibile. Quanto ai governi europei, è vero che tifano per ‘gli amici’. Ma poi, come hanno fatto con la Grecia, non li trattano meglio. Per noi, come per Syriza, il punto non è uscire dall’euro, ma ricontrattare l’Europa. Ma implica uno scontro politico. Non c’è una via tranquilla alla ricontrattazione, si tratta di interessi imponenti. Prendiamo Monti che minaccia di non votare la Tobin tax: sarebbe solo un favore agli speculatori. Dovrebbe invece minacciare di non votare il fiscal compact. Dicendo: cari signori, noi non ci stiamo a farci uccidere. La Grecia è piccola. L’Italia è grande e lo sanno tutti che non può fallire. Loro ti tengono in vita per poterti succhiare il sangue. E Monti e Merkel giocano nella stessa squadra.
Pd e Udc pensano ad un’alleanza. Sel dice no alle alchimie senza programmi e Bersani apprezza. La rottura con Sel non sembra all’orizzonte.
A Nichi dico: il punto dirimente non è che il Pd si allei con l’Udc, ma che il Pd stia facendo le attuali politiche economiche: pensioni, art.18, tasse, e ora fiscal compact, che per l’Italia è un disastro.
Vendola ha già detto che non potrebbe allearsi con un Pd neoliberista, sotto l’eventuale leadership di Renzi.
Renzi o no, il Pd appoggia Monti. Anche nel Pasok non sono tutti liberisti. Ma hanno appoggiato quelle politiche. Finoccchiaro non è Renzi, ma ha elogiato la riforma del lavoro. Insomma, come in Grecia, da noi devono decidere se fare un’alternativa di governo o una forza di complemento.
Perché ce l’avete sempre con Vendola e non chiedete lo stesso rigore di analisi a Di Pietro?
Non è vero, faccio a entrambi lo stesso appello: costruire un polo della sinistra che intrecci Alba, i comitati, le associazioni, la sinistra sindacale, la sinistra oggi in larga parte fuori dai partiti. Con un programma di governo: perché mai i nostri punti – patrimoniale, tetto alle pensioni, abbattere le spese militari – non dovrebbero essere un programma per governare?
Lei e il suo partito, in diverse stagioni politiche avete invocato modelli esteri. ‘Fare come la Linke tedesca’, poi come il ‘Front de gauche’, ora come Syriza. La Linke non gode di ottima tenuta interna, il Front ha deluso alle legislative. Lunga vita a Syriza, ma non è provinciale invocare modelli vincenti ma evidentemente non perfetti?
Ho sempre proposto a casa nostra lo schema federativo, il cui vero modello sono le esperienze latinoamericane. Fronti, alleanze, come lo sono Izquierda unita spagnola, Syriza e il Front. Il discorso sulla Linke è complesso: resta un riferimento, ma oggi sconta l’egemonia di un discorso di Merkel che all’operaio suona circa così: ci salviamo solo con i nostri padroni. Comunque la vogliamo chiamare, il punto è costruire una sinistra antiliberista con modalità di partecipazione e allargamento oltre quelle dei partiti. Nessun partito può pensare di crescere su se stesso. In Italia ci sono milioni di persone di sinistra, ma non c’è una forma politica che riesca a convincerli.
Anche Di Pietro aspetta le scelte di Bersani. Voi aspettate Di Pietro?
Proponiamo un polo della sinistra e di organizzare a metà settembre una manifestazione contro il governo Monti e le politiche europee. Ma in un processo unitario, l’ultima cosa da fare è rivendicare primazie e mettere cappelli. Abbiamo ancora un po’ di tempo davanti. Luglio e agosto saranno i mesi di questa costruzione. Ma se serve una settimana in più per fare un passo avanti, aspetteremo.
Se invece tutto resta come oggi, parteciperete alle primarie?
No, noi siamo per mandare a casa il governo Monti. Se manca questo, mancano i presupposti della nostra partecipazione. Ed è ormai chiaro a tutti che l’alternativa non nascerebbe lì.

venerdì 29 giugno 2012

Vertice europeo: Monti vince, il popolo italiano perde, le stangate e la recessione continuano


2RECESSIONE
di Paolo Ferrero
L’esito del vertice europeo è molto rilevante, ma non è positivo.
In primo luogo i cittadini pagheranno i debiti delle banche private di tutta Europa. Si tratta di una gigantesca socializzazione delle perdite che non ha precedenti. Gli speculatori non dovranno così pagare il conto dei propri azzardi perché il conto lo pagherà il Fondo Salva Stati cioè i cittadini di tutta Europa con le loro tasse. Si tratta di un salasso enorme ai danni dei cittadini se pensiamo che solo per le banche private spagnole sono stati stanziati 100 miliardi di euro .
In secondo luogo il Fiscal Compact non è stato modificato e questo determinerà un salasso per lo stato italiano di 45 miliardi all’anno per i prossimi vent’anni: la recessione è assicurata perché le misure per la crescita sono per quanto riguarda l’Italia molto inferiori e perché si taglia sul welfare e si investe su grandi opere sovente inutili e dannose (come la TAV).
In terzo luogo, invece di permettere alla BCE di comprare direttamente i titoli di stato o di fare gli eurobond o di trasformare il Fondo “Salva stati” in una banca che possa accedere alla liquidità illimitata della BCE, si costruisce un meccanismo in cui il Fondo “Salva stati” - con pochissime risorse - può intervenire a sostegno dei paesi che abbiano già demolito il welfare e che si impegnino a continuare a farlo. Questo sotto stretto controllo della troica (BCE, FMI e UE) e firmando un memorandum in cui il paese viene nella sostanza commissariato. Si tratta di una misura - quantitativamente non diversa da quanto fatto dalla BCE fino ad ora - del tutto insufficiente per evitare la speculazione sull’Euro, ma efficacissima per continuare il ricatto sui singoli paesi, costringendoli a politiche di rigore che demoliscono il welfare e i diritti dei lavoratori.
Il tecnocrate liberista Monti esce vincente dal vertice, il popolo italiano perde e le stangate e la recessione continuano.

Giacché: "Ai tedeschi va detto chiaro. Pronti a far saltare il banco"

Autore: fabio sebastiani
Al di là di quello che accadrà nella due giorni di supervertice e dell'andamento dei mercati finanziari, sembra che l'unico punto fermo sia l'attacco al lavoro.       
L'attacco al lavoro è una costante ovunque, non soltanto nella zona euro. Le politiche di austerity nel Regno Unito hanno lo stesso segno. C'è il tentativo evidente di recuperare profitti giocando sull'abbassamento del costo del lavoro. Non si tratta di una novità: sono gli stessi trattati europei a far sì che la competitività si giochi sulla riduzione delle tasse alle imprese e abbassando la protezione dei lavoratori. Questo non avviene soltanto nella periferia dell'Europa ma nel centro. Per esempio, la Germania è il paese dell’eurozona in cui il costo del lavoro è maggiormente diminuito in termini reali dal '99 in poi. Adesso però c'è l'attacco definitivo con la scusa del debito pubblico. All’attacco ai salari diretti, direttamente provocato dalla crisi (che riduce il potere negoziale dei lavoratori), si aggiunge l’attacco a servizi sociali e pensioni, ossia ai salari indiretti e differiti. Infine, c'è l'attacco alla regolamentazione del lavoro nella forma delle cosiddette “riforme strutturali per far ripartire la crescita”. È un attacco organico e a 360 gradi.
Tutto questo con quali prospettive?
Anche assumendo il punto di vista di chi teorizza e mette in pratica tutto questo, è evidente che la cosa potrebbe funzionare solo se l'Europa si trasformasse in una grande Germania cioè decidesse di puntare tutte le proprie carte sull'esportazione tralasciando la domanda interna. Ma è assolutamente irrealistico che questo avvenga. Quello che è successo sinora è qualcosa di diverso: i tagli al welfare hanno dato un colpo poderoso alla domanda interna. Con effetti di gravità inaudita: basti pensare al -6% nei consumi di generi alimentari. Assistiamo allo smantellamento del sistema sociale che è stato messo in piedi dalla seconda guerra mondiale. E le conseguenze sono queste.
In tutto questo non sembrano emergere contraddizioni nella borghesia italiana e tra i vari settori economici.
Io credo che le contraddizioni ci siano. C'è un forte disagio in una parte della borghesia italiana, quella che non ha bisogno di terrorizzare i lavoratori abolendo l'articolo 18: altrimenti non si capirebbe la freddezza del presidente di Confindustria Squinzi a questo proposito. C'è molta preoccupazione in giro anche sulla possibile spoliazione del nostro apparato economico e produttivo a causa di quel che sta accadendo. Uno degli atti d'accusa che si possono muovere a questo governo è quello di aver messo in pratica una lettura ideologica della crisi e dei rimedi ad essa: puntando a una risposta basata su meno Stato e più mercato, meno regolamentazione e meno diritti per chi lavora. Questa formula ha due difetti, di essere iniqua e di non funzionare economicamente. Qui però bisogna tener conto che in questa crisi entrano in gioco sia il conflitto tra capitale e lavoro, sia la guerra tra capitali.

Vladimiro Giacchè. Il punto economico-politico su eurozona


5uebandiera
di Daniele Cardetta
Professor Giacchè, il voto greco sembra aver fatto tirare un sospiro di sollievo all’establishment europeo. Pensa che la vittoria di Nuova Democrazia possa traghettare la Grecia verso acque più tranquille? E se avesse vinto Syriza crede che la Merkel e la troika avrebbero accettato di rivedere il memorandum?
“La mia risposta a entrambe le domande e’ negativa. La vittoria di Nuova Democrazia e’ la vittoria del partito che aveva truccato i conti in Grecia. Si continuerà col massacro sociale e con la conseguente depressione economica. I ricchi e gli evasori potranno dormire sonni tranquilli. A proposito, faccio sommessamente notare che l’ “europeista” Nuova Democrazia, appoggiata anche dalla Merkel (del resto al Parlamento europeo sono nello stesso raggruppamento, quello dei popolari), si guarda ben dal rimuovere dalla Costituzione ellenica la norma che prevede che gli armatori non paghino tasse sui profitti maturati all’estero (praticamente tutti: l’anno scorso ammontavano a 15,4 miliardi di euro…), mentre gli “antieuropeisti” di Syriza l’avevano messa nel loro programma. Chi e’ più rigoroso? E in ogni caso il memorandum non vedrà alcuna modifica sostanziale e le cose continueranno ad andare come sono andate sinora: cioè male. Per la Grecia e per l’Europa”.
Il Premio Nobel Krugman sostiene che Atene uscirà comunque dall’Euro. Lei è d’accordo o si sente di concedere maggiori speranze per il futuro?
“Penso che Krugman abbia ragione, e che purtroppo questo avverrà dopo ulteriori sofferenze inflitte al popolo greco. L’unica speranza e’ che l’opposizione a questo governo porti ad assetti politici diversi. E’ proprio l’appeasement ai diktat euro-tedeschi oggi la minaccia più grande. Per la Grecia e non solo. La verità e’ che nessuno in Europa fa niente per scoprire il bluff della Merkel, che guida lo Stato che più ha beneficiato dell’euro e più di tutti perderebbe se l’euro saltasse. Oggi i Tedeschi lucrano sulla crisi dell‘Eurozona (i loro titoli di Stato decennali sono all’1,5% – negativi in termini reali, visto che l’inflazione tedesca e’ al 2,1% – contro il nostro 5,8%: pensate al vantaggio per lo Stato e per le imprese tedesche in termini di costi di raccolta del capitale!), e scaricano tutto il costo dell’aggiustamento sugli Stati più deboli. Per fortuna il loro export verso i Paesi dell’Eurozona si sta inceppando proprio a causa delle misure di austerity che hanno imposto, e questo potrebbe indurre il governo tedesco a più miti consigli”.
Secondo molti osservatori, è stata sorprendente l’affermazione di Syriza. Qua da noi, molti leader politici della sinistra si sono complimentati con Tsipras. Addirittura Ferrero ha lanciato un appello affinchè si “faccia come in Grecia”. Cosa la sinistra italiana secondo lei dovrebbe imparare da quell’esperienza e quanto i contesti sono invece incomparabili?

Le balle che la Germania racconta ai tedeschi. E a noi

di Matteo Zola - eastjournal -

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La disoccupazione tedesca non è mai stata così bassa, al 6,7%, mentre l’economia tiene botta alla crisi continuando a crescere. I diritti dei lavoratori sono garantiti, il welfare tedesco è più efficiente che mai, il bilancio mantiene segno positivo, la società è ricca, forte e unita. Deutschland Deutschland über alles!
Balle.
La Germania non sta bene, la ricchezza è apparente, i dati sull’occupazione sono gonfiati, e il rigore economico tedesco è un’invenzione. Partiamo dal debito pubblico che, nonostante la congiuntura economica nazionale positiva, è arrivato alla fine del primo trimestre 2012 al record storico di 2.042 miliardi di euro, per la prima volta sopra i duemila miliardi. Lo ha reso noto l’Ufficio federale di statistica Destatis. Già la Primavera scorsa Eurostat quantificò il debito pubblico esplicito della Germania in 2080 miliardi di euro (pari all’82% del Pil): il primo debito dell’eurozona a sfondare la soglia dei duemila miliardi. Il debito esplicito è quello determinato dalle emissioni di buoni del tesoro, autentici contratti con i quali lo Stato si impegna, alla scadenza, a pagare il capitale ricevuto in prestito con l’aggiunta di interessi. C’è anche il debito pubblico “implicito” che consiste in una proiezione della spesa, attualizzata, per assistenza sociale, pensioni, sanità (il welfare, insomma) cui un Paese dovrà far fronte negli anni a venire.
I dati di debito esplicito e implicito non si possono sommare (come invece fece Libero ingannando il lettore), poiché solo i primi sono suscettibili agli umori del mercato, i secondi sono piuttosto una stima presente e futura di spesa. Ciò detto, resta il fatto che il debito pubblico tedesco “esplicito” è ai record storici.
Veniamo ora al tasso di disoccupazione, ufficialmente al 6,7%. Peccato che gran parte dei lavoratori, specie i più giovani, siano assunti con mini-job. Si tratta di lavori scarsamente retribuiti (circa 400 euro mensili) che occupano ormai circa sette milioni di tedeschi (su 39 milioni di occupati rappresentano il 18% circa della forza lavoro). Questi lavoratori non pagano tasse e hanno sussidi pubblici a integrare il magro stipendio. Erano nati come “lavoretti” integrativi per giovani, nel settore turistico o nella ristorazione, ma sono diventati una regola del mercato del lavoro tedesco. Al 6,7% di disoccupati occorre quindi aggiungere il 18% di sottoccupati. E la musica cambia. Anche per chi un lavoro ce l’ha le cose non vanno benissimo: gli abituali aumenti degli stipendi, la redistribuzione dei dividendi, sono per molti un ricordo del passato. Non è un caso che nell’industrializzato nord Reno-Vestfalia il partito di governo sia stato clamorosamente battuto. I tedeschi, crisi o non crisi, non vogliono rinunciare a nulla.

2 GOALS TO GERMANY
2 GOALS TO ALL WORLD'S RACISTS

giovedì 28 giugno 2012

Europa colonia di Germania.

di Giulietto Chiesa - www.lavocedellevoci.it
Devo fare un'autocritica. Fino a qualche giorno fa ero convinto che la Germania fosse in pieno dibattito politico interno, lacerata dal dilemma se aiutare il resto dell'Europa a uscire dalla crisi, o farsi i fatti propri. Adesso so che non è così. Non c'è alcun dilemma. La Germania è unita nella sua ferma determinazione di essere la guida dell'Europa. Non un primus inter pares, ma un primus punto e basta. E questo consente di vedere molte cose sotto un'altra prospettiva.

Ma prima di tutto devo spiegare che la mia conversione è avvenuta non sulla via di Damasco ma su quella di Lussemburgo, dopo aver ascoltato in rapida successione tedeschi e lussemburghesi (che è come dire tedeschi e tedeschi al quadrato) ribadire che l'Europa che abbiamo è questa; che di altre Europe non c'è bisogno, e che altre Europe non sono all'orizzonte e non ci saranno. Il tutto è avvenuto nella sede dell'Unione Europea di Lussemburgo, in un convegno che è stato aperto da due prolusioni - per la verità di tutt'altro tenore - i cui autori erano Mikhail Gorbaciov e Michel Rocard. I due anziani oratori hanno portato duplici valutazioni critiche dell'assetto mondiale ed europeo.
Ma è stato un prologo che non ha avuto seguito. Dopo di loro è arrivata la commissaria della nuova internazionale brussellese, Viviane Reding, che ha messo tutti i puntini sulle "i", rispondendo, fredda come il diamante, a Gorbaciov (che aveva osato parlare di coinvolgere la Russia) che l'Europa va dall'Atlantico (inclusa la sponda occidentale, s'intende), fino alla frontiera ucraina. Non un centimetro più in là.
A Rocard - che aveva osato invitare a smettere di pensare che il mercato sia in grado di autoregolarsi e che gli equilibri che esso raggiunge siano automaticamente quelli giusti - la Reding ha risposto ribadendo che la costruzione europea non prevede l'uscita dai dogmi della nuova internazionale del denaro. Al più - ha detto - si potrà concedere qualche ritocco della costruzione istituzionale europea, del tipo che il Presidente della Commissione dovrebbe essere anche, simultaneamente, il Presidente del Consiglio; del tipo che sarà il Parlamento Europeo a eleggere la Commissione Europea; del tipo che il Parlamento Europeo dovrà essere il detentore dell'iniziativa legislativa.
Ma poi è cominciata l'offensiva tedesca. A tutto campo. Nel senso che destra conservatrice e socialdemocrazia sono apparse davvero le due ali destre della attuale Germania. E i calibri che hanno parlato non erano quelli dei fucili a pallini.
Per Theo Weigel, ex ministro delle finanze, non c'è nessuna crisi dell'euro. Semmai c'è una crisi del debito, ma l'euro è sano come un pesce. Per Karsten Voigt (altro socialdemocratico) la Germania ha il compito di rieducare l'Europa alla stabilità, perchè erogare denaro in attesa di modifiche strutturali nei comportamenti degli europei indisciplinati significa attendere per sempre modifiche strutturali che non arriveranno mai. Per Lothar Ruehl (ex segretario di Stato e professore all'Università di Colonia) la Germania non potrà mai accettare, a termini di Costituzione, una riduzione della propria sovranità nazionale su questioni di bilancio e di gestione della propria politica economica e sociale. Che è come affermare che noi dobbiamo modificare la nostra Costituzione (per esempio introducendo il pareggio in bilancio, cosa che abbiamo fatto), mentre loro hanno una Costituzione che vale di più della nostra.
Ed è toccato sempre a Lothar Ruehl il compito - che ha svolto con grande entusiasmo - di spiegare al folto uditorio che gremiva il palazzo che la Germania già soffre di una sotto - rappresentazione in Europa e che chiederle di riformare radicalmente le istituzioni europee in un senso più prossimo ai criteri della proporzionalità (una testa un voto) sarebbe considerato inaccettabile per i paesi maggiori (Germania, Francia, Inghilterra) e dunque è una idea che deve rimanere fuori dalla discussione.
Gli altri oratori tedeschi si sono divisi i compiti di dichiarare - confesso la mia ulteriore sorpresa - che il ruolo della Nato non sarà ridimensionato in alcun caso; che è inutile crearsi fastidi nei confronti della riva sud del Mediterraneo, visto che - come ha spiegato il banchiere Horst Mahr - "nessun privato investirà un solo centesimo là dove si fanno le rivoluzioni". E altrettanto sciocco sarebbe pensare di gettare in quei gorghi denaro pubblico, "perche' sarebbero comunque i contribuenti già oberati dai debiti a dover pagare le perdite".
Dunque, tirando le somme, la Germania pensa all'Europa come a una sua colonia. Quanto al resto del mondo l'atteggiamento, paradossalmente, sembra quello di una specie di impossibile, austera autarchia, a base di esportazione di Mercedes, Volkswagen, Bmw. C'è da chiedersi in che mondo viva questa Germania, che non si sa se sia quella dei tedeschi, come popolazione, o quella di una classe politica e imprenditoriale che non è più capace di "leggere" nemmeno il proprio paese, non parliamo dell'Europa e caliamo una coltre di silenziosa pietà sul resto del mondo. Perchè basterebbe porre alla signora Merkel una domanda: si è chiesta, Angela, come la Germania, e l'Europa, potrà reggere di fronte a una Cina che presto avrà, da sola, il 20% della produzione industriale mondiale?
Ecco forse perchè arrivano i Piraten a sconvolgere il quadro, come è arrivata Syriza in Grecia, come Marine Le Pen e Melenchon in Francia, come Beppe Grillo in Italia. E come è già accaduto in Finlandia, in Olanda, in Irlanda. Il patto sociale europeo viene bombardato ogni giorno dalle portaerei della finanza mondiale; i ceti medi affondano in una inattesa proletarizzazione, i partiti tradizionali che si erano assunti il ruolo di garantire l'equilibrio, si rivelano invisibili o si arrendono al più forte, che li ha già comprati.
Il terremoto è già cominciato e i proprietari universali sembrano ignorarlo. Poichè' non possono non averlo sentito, anche loro, non resta che una conclusione: che si preparano a gestire uno scontro violento e prolungato, a colpi di bastone. Si preparano a fare scorrere del sangue.
5 giugno 2012
Fonte: http://www.lavocedellevoci.it/grandifirme1.php?id=217

Cesaratto, Brancaccio, Stirati, Gnesutta.


7euro sotto acqua
Quattro economisti italiani smontano i quattro più importanti “luoghi comuni” che riempiono le pagine dei giornali, nei giorni che precedono il vertice di Bruxelles del 28 e 29 giugno, nel quale si deciderà il futuro dell’Europa. Tesi economiche ripetute come un mantra, eppure false sul piano teorico ed empirico. Quattro economisti “critici” ci spiegano perché le tesi fondamentali dell’economia neoliberista non sono la soluzione, ma il problema.

1. Per salvare l’euro serve un’Europa politica basata sull’austerity? NO.
Assolutamente no se per Europa politica si intende ciò che ha più volte ripetuto Angela Merkel. L’Europa che ella prefigura è assai inquietante: una definitiva espropriazione della libertà democratica dei cittadini sulle decisioni in materia di bilancio, accentrate a Bruxelles. In cambio la Germania propone un “fondo di redenzione” in cui i Paesi metterebbero in comune il debito eccedente il fatidico 60 per cento del Pil, impegnandosi a restituirlo in una ventina d’anni. Null’altro che un rafforzamento del cosiddetto fiscal compact già imposto da Berlino: due decenni di austerità assicurata in una Europa divisa fra ricchi e poveri. È questa una prospettiva inaccettabile e disastrosa. Più Europa servirebbe, invece, se l’obiettivo fosse quello di assicurare la crescita delle aree più svantaggiate. Qualsiasi soluzione deve rispondere al problema alla base della crisi: la moneta unica ha aggravato i differenziali di competitività fra le economie europee deboli e forti. Questo ha prodotto una decade di stagnazione e poi la crisi per l’Italia, mentre la Spagna ha mascherato il problema dietro una crescita di carta, anzi di mattone, finanziata da afflussi di capitali tedeschi e si ritrova oggi indebitata sino al collo. In genere coloro che credono nei poteri salvifici dell’Europa politica tralasciano tali problemi e ne trascurano i relativi costi e ostacoli politici, provenienti soprattutto dai tedeschi. Una Europa politica genuina e sostenibile implica infatti principi di riequilibrio economico fra Paesi e di perequazione sociale fra i propri cittadini che possono essere realizzati in due modi. Il primo è una vera svolta europea volta a: mettere assieme i debiti pubblici (eurobond) stabilizzando i debiti pubblici nazionali, invece di ridurli; creare un bilancio federale degno di questo nome per sostenere domanda, occupazione e ambiente; riformare la Bce nella direzione del sostegno alla politica fiscale e sviluppo; fissare un target di inflazione almeno al 4 per cento, con l’impegno tedesco ad attenersi a tale obiettivo, dando spazio al recupero di competitività dei Paesi periferici. In alternativa si potrebbe procedere verso una “transfer union” che mantiene lo status quo nelle competitività relative, mentre i Paesi forti redistribuiscono alla periferia i proventi dei surplus commerciali sotto forma di congrui trasferimenti monetari, in modo da realizzare una perequazione negli standard di vita. Mentre la seconda strada è chiaramente inattuabile, la prima potrebbe essere tempestivamente perseguita. Ciò senza richiedere premature ed eccessive cessioni di sovranità nazionale. Ma l’opposizione della Germania a quelle ragionevoli misure è formidabile, non volendo quel Paese abbandonare il proprio modello neomercantilista basato sulle esportazioni. In verità c’è al momento un bailamme di proposte volte ad aprire un varco al muro dei nein tedeschi. La confusione è dunque grande e non promette nulla di buono e di tempestivo, mentre i mercati non perdoneranno le mezze misure. Appena i tassi sui buoni decennali italiani supereranno il 7 per cento preparatevi al peggio. di Sergio Cesaratto. Ordinario di economia politica all’università di Siena. Scrive sul blog politicaeconomiablog.blogspot.com
2. L’aumento dello spread dipende dal debito pubblico degli Stati? NO.

2013, un nuovo inizio – Marco Revelli (Il Manifesto)

- soggettopoliticonuovo -

Non dimentichiamola troppo in fretta, la lezione greca. Ancora la scorsa domenica mattina il mondo – non solo l’Europa – sembrava appeso al voto di quella decina di milioni di elettori greci chiamati a scegliere tra la vita e la morte. Con i nostri quotidiani “indipendenti”"a spiegarci, senza pudore – producendosi in un falso plateale – che ad Atene si sceglieva tra l’Euro splendente e la miserabile dracma. E la stampa finanziaria a disquisire di computer dei broker globali puntati sul fatidico “sell” che, in caso di vittoria dei “nemici dell’Europa”, avrebbero scatenato l’opzione fine del mondo dando inizio a una tempesta di vendite sui titoli di Stato dei paesi deboli (come il nostro), mentre in caso contrario il “buy” avrebbe polverizzato lo spread… e salvato il mondo! Abbiamo visto persino i virtuosissimi governanti di Berlino tifare scompostamente – alla faccia dell’intransigente etica protestante germanica – per quegli stessi politici di “Nuova democrazia” che appena qualche settimana fa accusavano (a ragione) di aver truccato i conti sul debito greco.

Così fino, grosso modo, alle 23 del 17 giugno. Poi, dalla mezzanotte, tutto è cambiato. Archiviata la vittoria degli amici dell’Europa, l’Europa ha voltato pagina (e spalle), come se nulla fosse stato: lo spread ha continuato a ballare sul filo dell’insostenibilità; la retorica dei compiti a casa è tornata a dominare a Berlino; i rischi per la zona euro hanno continuato a caratterizzare le esternazioni degli eurocrati di Bruxelles, i favori alla Grecia virtuosa sono passati in cavalleria.
Mentre i mercati, semplicemente, con un colpo di pinna e un nuovo arrotar di denti, spostavano un po’ più a ovest il tiro, mettendo nel mirino le banche di Madrid e, di rimbalzo, i conti di Roma… Non gli basta mai, verrebbe da dire… La distruzione distruttrice dei mercati (Schumpeter è lontano, quasi quanto Keynes), unita al default della politica su scala globale, procede su un piano inclinato in cui non sono previsti punti di rimbalzo. Non c’è decisione di popoli o di governi che tenga: indifferente a tutto, la trasformazione per via finanziaria di tutto ciò che è solido in materia gassosa (in ricchezza astratta) procede, inarrestabile, lasciando dietro di sé – come l’angelus novus di Benjamin – un panorama di macerie. I greci, alla fine, col loro voto ossequiente, si sono guadagnati un altro anno di vita da spendere al lavoro (e a svenarsi) per pagare ai propri creditori internazionali – in primis alle banche globali che hanno rischiato sul loro debito – interessi a due cifre, esattamente come le pecore di Trasimaco, allevate dai propri pastori per esser tosate ad ogni stagione, prima di farne carne per i banchetti rituali.

LET'S BLOCK THEM ON THE WEB!

mercoledì 27 giugno 2012

Grecia: intervista a Katerina Tsapopoulou della rete per i diritti politici e sociali


8medea
Il 16 e il 17 Giugno la popolazione Greca ha eletto Nea Dimokratia, partito che proseguirà e porterà a termine le misure di austerità imposte da Ue, Bce e Fmi. Intervistiamo Katerina, avvocato e membro della rete per i diritti politici e sociali di Atene, per capire l’entità e l’impatto che le riforme, attuate fino ad oggi e che hanno dato vita a forti proteste di piazza nell’ultimo anno e mezzo, hanno avuto sulla società greca. Innanzitutto, come valuti i recenti risultati elettorali in Grecia?
Con la vittoria di Nea Dimokratia alle recenti elezioni, quello che ci aspetta sono misure di austerità ancora più gravi per noi. In questo momento la grande scommessa per la Grecia non è, al contrario di quello che si pensa in Europa, se restare nell’euro o ritornare alla dracma, ma una scommessa che ha a che fare con la democrazia, cioè riuscire a mantenere e a garantire i minimi diritti politici e civili.
Se non costruiamo la possibilità di recuperare terreno sul piano dei diritti, passeremo presto ad uno stato di assoluta oppressione e repressione. La percezione è che la vittoria di Nea Dimokratia favorirà l’accelerazione di questo processo. Ci aspettiamo di tutto ma si pensa che anche questo governo non durerà a lungo.
In Grecia lo stato sociale è praticamente crollato e a mio avviso non si può fare più un discorso puramente politico in Grecia. La crisi è molto profonda e percepiamo che, giorno dopo giorno, ci stiamo dirigendo verso una vera e propria crisi umanitaria. Le riforme attuate dai governi precedenti hanno avuto un effetto devastante sulla popolazione.
Puoi dirci quali sono i provvedimenti legislativi e le riforme che hanno inciso più fortemente sulla vita della popolazione greca in questi ultimi mesi?
Le riforme attuate fino ad oggi per quanto riguarda il lavoro sono state molto sentite, in particolare da luglio scorso, con le misure imposte dal governo del Pasok. Per recuperare denaro attraverso le tasse è stato imposto un taglio del 40% sugli stipendi dei dipendenti pubblici e il denaro veniva prelevato direttamente dalla busta paga dei lavoratori. Questa misura è stata davvero la più grave anche a fronte del fatto che la gente ha continuato a vivere come prima, a pagare cioè gli stessi affitti, gli stessi prezzi per le spese. La gente non ha cominciato a vivere azzerando i contatori dopo l’imposizione delle nuove misure, i mutui continuavano ad esistere, alti come prima.
Il 12 febbraio 2012 il parlamento greco ha approvato il nuovo memorandum, ovvero una maxi-legge attuativa delle misure di austerità previste, legge che tra l’altro, ha avuto anche un effetto retroattivo. E’ stato approvato un nuovo taglio del 22% sui minimi salariali e del 32% sui salari dei giovani fino a 25anni. Ciò significa che un giovane non guadagna più di 440 € netti al mese e che lo stipendio minimo per un qualsiasi lavoro non specializzato equivale a 360 € mensili. In pratica, i tagli equivalgono ad oltre 3 salari/anno. Inoltre tutte le forme di sussidio sono state ormai annullate per tantissime categorie di lavoratori e i pochi che usufruiscono di qualche tutela sono quelli che fanno lavori pesanti e pericolosi. In meno di due anni sono stati praticamente aboliti di tutti i contratti collettivi di lavoro e ormai i contratti di lavoro sono solo individuali o aziendali.
Sono state registrate le prime pressioni fatte sui lavoratori, specie da grandi catene di negozi, che impongono la firma su contratti con retribuzioni inferiori al nuovo minimo e orari di lavoro massacranti. Dai dati recentemente pubblicati, risulta che la maggior parte delle denunce effettuate finora da parte dei lavoratori colpiti (dall’attuazione dei memorandum in poi) riguardano il mancato versamento degli stipendi e del rimborso in caso di licenziamento, lavoro fuori orario, in giorni festivi o anche di riposo. Sui lavoratori viene fatta pressione anche per firmare ricevute che attestano il pagamento di salari mai erogati.

L'euro, specchio fragile di una non-federazione


1 halevidi Joseph Halevi da Il Manifesto, Mercoledì 27 giugno 2012
Quello che stiamo vivendo in Europa, in questi giorni, in questi mesi e nei prossimi, è una crisi che deriva dagli scontri tra pezzi e segmenti di capitale europeo. Secondo me è necessario che la sinistra italiana - quanti ancora pensano in termini di «sinistra di classe» - cerchi di individuare e capire la dimensione intercapitalistica e intracapitalistica della crisi che si sta vivendo in Europa. Quindi non è questione che riguardi un «progetto ideale» europeo, un'unificazione fallita.
La questione è come la ricostituzione del capitale in Europa, partita praticamente dal piano Marshall in poi, si è sviluppata ed evoluta fino ad arrivare alla situazione odierna. Questo è il nostro problema principale da capire analiticamente; ma non viene affrontato da nessuna parte, perché le forze della sinistra (moderata o di estrema sinistra, non ha importanza) che operano nell'insieme dell'Europa stanno accettando tutti i pregiudizi e le ideologie che hanno accompagnato la cosiddetta costruzione europea. Questo è, secondo me, il punto nodale.
Ne consegue che, come ha di recente osservato Emiliano Brancaccio, molto giustamente, «la sinistra non è preparata all'eventualità di un crollo dell'euro»; come fatto obiettivo, non come frutto di un desiderio. Se l'euro si sgancia e si decompone, che cosa succede? Qual è la prospettiva che si apre? Che tipo di analisi si deve fare? Non c'è assolutamente nulla.
Vorrei fare due osservazioni: la prima riguarda il fatto che la scissione tra un'Europa del nord (che accumula surplus nella bilancia dei pagamenti) e un'Europa meridionale che invece accumula deficit complementari, è un processo che va avanti da parecchio tempo. Italia e Francia vi sono stati coinvolte grosso modo da una decina d'anni. L'Europa meridionale - Spagna, Portogallo e Grecia - è sempre stata in questa situazione. Sono sempre stati paesi «deficitari», che dovevano, quindi, colmare il deficit delle proprie bilance di pagamenti attraverso importazioni di capitale di vario tipo.
È un aspetto che non è mai stato preso in considerazione. Le asimmetrie che si sono create in Europa esistono da tempo, anzi precedono per molti aspetti la formazione dell'euro. E che, certamente, l'euro non ha minimamente mitigato.
La seconda osservazione - e qui vorrei spezzare una lancia a favore della Merkel, sebbene io l'abbia criticata spessissimo - è che il governo tedesco ha assolutamente ragione nel dire che i bond europei sarebbero in conflitto con la costituzione tedesca. Non c'è nessun elemento nei trattati firmati e promulgati in Europa, fino all'ultimo Trattato di Lisbona, che possa condurre alla formazione di uno Stato federale. Quindi non c'è nessun vincolo che possa facilitare la trasformazione dei singoli stati europei in una direzione di tipo federale. Anzi, la prospettiva federale è stata bloccata già dalla commissione Giscard d'Estaing, che doveva promulgare la Costituzione europea, poi diventata il Trattato di Lisbona: Poi respinta nei referendum francese e olandese, ma reintrodotta dalla finestra come Trattato di Lisbona, con dei cambiamenti molto secondari. Quindi il governo tedesco ha una certa ragione, ma questo significa che non c'è assolutamente alcuna soluzione interna e nel frattempo, quindi, i segmenti di capitale europeo si stanno scontrando come processi geologici o tettonici.
Secondo me il movimento operaio, se c'è, non deve farsi carico di questo problema; deve farsi carico soltanto degli interessi delle forze lavoratrici, dei lavoratori, dei pensionati, di queste persone qui. In questo momento, infatti, stiamo addirittura trascendendo la situazione specifica del debito. La problematica sta andando molto al di là: nello scontro tettonico tra spezzoni di capitale, all'interno dell'Europa, la parte più «coerente» è quella del capitale tedesco, che comprende anche le multinazionali straniere che operano in Germania. È un insieme coerente di paesi - Olanda, Austria, scandinavi (perfino quelli che non sono nell'euro, come la Svezia) - che sono in alleanza con la Germania e hanno una posizione internazionale eccedentaria. Cosa che invece non succede per Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia.
Non c'è soluzione all'interno dello schema istituzionale attuale e non c'è meccanismo di trasformazione dello schema attuale in uno schema diverso; non c'è quel qualcosa che possa permettere una trasformazione in un orientamento più federale. Che sarebbe quello logico, ma non c'è. Ed è, come si dice, una chimera pensare che si possa fare rapidamente.

Bruxelles 28 giugno, ultima fermata.

"Un'altra strada per l'Europa" è il forum internazionale che si terrà al Parlamento europeo il 28 giugno, in parallelo al Consiglio d'Europa: reti di movimenti, esperti e associazioni presenteranno proposte concrete per cambiare rotta ed evitare il collasso dell'Europa
Domenica il voto in Grecia, lunedì il G20 in Messico, poi il vertice europeo del 28 giugno a Bruxelles. In questi dieci giorni di fuoco si gioca il futuro dell’Europa e dei rapporti tra economia e politica: il potere della Germania, lo strapotere della finanza, il significato della democrazia. Iniziamo da dove questa è stata inventata, Atene. Dopo quattro anni di crisi devastante, c’è l’occasione per un voto democratico che spezzi la logica dell’austerità, mantenendo la Grecia nell’euro e nell’Europa. È la scommessa della sinistra di Syriza, che chiede a Bruxelles di rispettare la sovranità popolare e adattare le regole dell’economia ai valori della democrazia. Il ricatto dei potenti d’Europa è la minaccia di cacciata non solo dall’euro, ma anche dall’Unione europea.
Al G20, la Germania di Angela Merkel ha annunciato che non si smuoverà di un passo, chiedendo più rigore e un’Unione fiscale con i tratti di un protettorato tedesco sul continente. Gli altri europei vanno in ordine sparso, senza coraggio e con troppo affanno. Intanto ogni giorno la finanza alza il livello della speculazione: ora ha iniziato a chiedere rendimenti più alti sui titoli di stato tedeschi, non si fida neanche più di Berlino. Ma al G20 non ci sono intenzioni di andare a uno scontro con la finanza – imponendo tasse e restrizioni, banche private da lasciar fallire e controlli sui movimenti di capitali – che potrebbe arginare la crisi e ridare fiato a tutti i paesi.
Eppure si potrebbe fare: ridimensionare la finanza, e poi rilanciare l’economia, difendere il lavoro, ridurre le disuguaglianze, proteggere l’ambiente e la pace, praticare la democrazia. Sono questi i punti chiave di un’altra strada per l’Europa che sta emergendo nel mezzo della crisi. Sbilanciamoci! e il manifesto e hanno lanciato un anno fa la discussione sulla “rotta d’Europa” aperta da Rossana Rossanda (ora in due e-book scaricabili gratis), hanno riunito 800 persone a Firenze il 9 dicembre all’incontro su La via d’uscita, dove è partito un appello europeo che disegna un’alternativa concreta.
Le reti europee di movimenti, esperti e associazioni si sono intrecciate e tutto questo è diventato ora un Forum internazionale, “Un’altra strada per l’Europa”, che si terrà il 28 giugno al Parlamento europeo (il programma è qui sotto). Con noi ci saranno Attac e gli “economisti sgomenti” francesi, verdi tedeschi e radical inglesi, movimenti greci e spagnoli, la Fiom e i sindacati europei. Insieme presenteremo le proposte per cambiare rotta a parlamentari e politici democratici, verdi e della sinistra. Quasi un controvertice, il giorno di apertura del Consiglio europeo in cui si prenderanno decisioni chiave. L’ultima occasione, forse, per evitare il collasso dell’Europa. Bisognerà farsi sentire, tutti insieme.
Le informazioni in cinque lingue sono su www.anotherroadforeurope.org.

Fanno saltare il banco e si prendono tutto

ERF FSF Giuseppe Vegas- byoblu -

Non bastava l'EFSF, il fondo salva stati europeo. Non bastava il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità. Non bastava l'ERF, il Fondo di Redenzione (ripianamento) Europeo: ora Giuseppe Vegas, il presidente della Consob, vuole l'FSF: il Fondo di Stabilità Finanziaria, o Financial Stability Fund italiano. Cos'ha in comune quest'ultimo con l'Erf, il fondo europeo proposto da Monti che mira ad abbattere al 60% del Pil il debito dei paesi "virtuosi", pignorando le loro entrate fiscali fino al 2035? Ma la garanzia naturalmente, perché se chiedo soldi, qualcuno ce li dovrà pur mettere, e di questi tempi nessuno versa un centesimo se non ha una qualche forma di assicurazione. E dunque qual è questa assicurazione proposta da Monti per l'ERF? L'oro, il nostro oro. E quale sarebbe la garanzia proposta da Vegas per il FSF? I migliori beni dello Stato: gli immobili, le grandi società, le riserve valutarie ed auree.
Insomma, l'ideona è questa: siccome l'Italia ha ancora qualcosina da parte, rappresentato da Eni, Enel, Finmeccanica (che fatturano bene e hanno come azionista di controllo il Ministero dell'Economia), immobili prestigiosi e una riserva aurea tra le più cospicue al mondo, diamo questi 150 miliardi in garanzia e chiediamo soldi, emettendo obbligazioni del Tesoro per un massimo di 120 miliardi. A chi? Già: a chi? E' un fondo, qualcuno dovrà pur metterceli questi soldi. E ce li metteranno, perché siccome stiamo impegnando i gioielli di famiglia (che non sono fuffa, ma beni reali), il fondo avrà la tripla A. E potrà essere usato (udite udite) anche dalle banche come collaterale per le loro ricapitalizzazioni. Che significa: soldi buoni in cambio dell'assicurazione che se qualcosa va male, i creditori (grandi banche d'affari, come nel caso Monte dei Paschi di Siena, tra cui JP Morgan e Goldman Sachs) potranno rivalersi su Eni, Enel, Finmeccanica e affini. Nonchè sul nostro oro. Lo stesso oro che sarà messo a garanzia dell'ERF, se tale meccanismo dovesse entrare in funzione.

E cosa farci, con i capitali attratti da queste obbligazioni del Tesoro, che già sta sborsando 4 miliardi per salvare Monte dei Paschi e 20 miliardi per salvare le banche spagnole? Semplice: ci si comprano i nostri titoli di Stato sul mercato secondario, che è quello che determina lo spread, per abbassarlo. All'occasione, ci si comprano anche i titoli rimasti invenduti sul mercato primario (cioè le emissioni dirette), che funzionano con il meccanismo dell'asta marginale, in modo da abbassare il rendimento alla fine della giornata. Insomma, il solito giro: ci si indebita per potersi permettere il lusso di indebitarsi meglio. Vegas calcola (nella previsione più ottimistica) un risparmio di 2,5 miliardi all'anno fino al 2025 e un risparmio sui maggiori interessi dei titoli di Stato di circa 8,7 miliardi. Tra i 35 e o 40 miliardi, indebitandosi per 120 e mettendo a garanzia tutto quello che abbiamo. Così se salta qualcosa, perdiamo tutto.

Sembra il giochetto di colui che siccome ha un debito con un usuraio che non riesce più a saldare, fa un secondo debito più grande con un secondo usuraio per saldare le rate del primo, e poi ne fa un terzo per saldare le rate del secondo e così via. Finchè perde tutto, lui e tutti gli usurai che gli hanno prestato i soldi. Tutti tranne il primo. Già, ma in questo caso chi è il primo? Perchè vuoi vedere che il primo è quello che si è comprato il nostro debito, e con i soldi degli interessi ora si compra anche le obbligazioni di Vegas, per poi far saltare il banco e prendersi tutto?

Marinella Correggia, giornalista e pacifista sotto tiro

  
 - altritasti -
Crediamo che tutti gli astigiani conoscano Marinella Correggia, collaboratrice del Manifesto, autrice di saggi importanti su come vivere su questa terra senza distruggerla e sul consumo critico.
Marinella è di origini di Rocca d'Arazzo e molte volte è stata al nostro fianco in iniziative di analisi dedicate a riflettere sulla pace nel mondo e sul ruolo dell'Italia negli scenari di guerra degli ultimi decenni.
Oggi è duramente attaccata per avere scritto liberamente di quanto sta accadendo in Siria ...

Proponiamo questa sua lettera di denuncia, perchè crediamo che tutti debbano conoscere la situazione. A Marinella tutta la nostra solidarietà !

LETTERA DI DENUNCIA DEL DANNO MORALE E MATERIALE INFLITTOMI PUBBLICAMENTE DA ALCUNE PERSONE PER IL MIO IMPEGNO CONTRO LA GUERRA IN SIRIA CON LA RICHIESTA CHE RITIRINO PUBBLICAMENTE LE ACCUSE.
di Marinella Correggia (Torri in Sabina, Rieti)


Mi ritengo gravemente danneggiata sul piano umano e materiale da reiterati “articoli” o interventi su facebook e su blog (un parziale elenco si trova più oltre) contro il mio impegno assolutamente gratuito e a mie spese benché quasi a tempo pieno, un impegno contro le guerre e i loro devastanti effetti, impegno iniziato nel 1990-91, e ultimamente volto a scongiurare la guerra Nato in Libia prima e in Siria ora, grazie a una intossicazione mediatica senza pari, alla quale gli autori delle ingiurie nei miei confronti collaborano (nel loro piccolo) e che io da molto tempo cerco di contrastare (nel mio piccolissimo).

Ecco alcuni degli articoli e interventi ai quali mi riferisco (ringrazio chi me li ha segnalati poiché non sono su facebook e la mia navigazione internet non si riferisce a siti di opinione). La libertà di giudizio non deve però arrivare a una disinformazione infamante. Invito le persone e i siti o blog o gruppi facebook nominati a ritirare al più presto le accuse e a scusarsi:

- Scritto apparso sul sito Vicino Oriente a firma Monti Germano che mi accusa di essere al servizio del regime di Assad e mi affianca a gruppi di estrema destra (accuse entrambe ridicole per chiunque mi conosca; ma non è il caso dell’autore). L’articolo è stato ripreso dal sito di Amedeo Ricucci.

- L’intervento della signora Aya Homsi nel gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” che fiancheggia il CNs (Consiglio nazionale siriano) e l’Esercito sirano libero; la signora afferma che se io scrivo quel che scrivo è perché “ne traggo un profitto”.

- Le accuse di essere “embedded” rivoltemi pubblicamente dal signor Enrico De Angelis che lavora al Cairo per un centro di ricerca francese.

1. Gli attacchi ingiuriosi si riferiscono alla ricerca e divulgazione che compio e che in parte viene pubblicata sul sito http://www.sibialiria.org. Come chiunque può vedere il sito non dice nemmeno una parola a favore del governo siriano. Ma analizza in tanti episodi i cortocircuiti della disinformazione attuata sin dai massimi livelli (settori dell’Onu che attingono a fonti di parte), la quale sta portando Occidente e petromonarchie a un altro intervento con pretesti “umanitari”, reso possibile dalla creazione del consenso che manipola una realtà di scontri settari con interferenze esterne pesanti fomentati e la fa diventare “un intero popolo massacrato da un dittatore”. Riporto anche testimonianze dirette con nomi e cognomi di vittime alle quali nessuno presta attenzione. Il mio attivismo consiste non tanto nello scrivere articoli (questo non prenderebbe tanto tempo) quanto soprattutto nel networking nazionale e internazionale (rispetto a militanti, siti, gruppi politici, media alternativi) al quale dedico molte ore al giorno; per non dire delle numerose manifestazioni, sit in eccetera nei quali mi attivo da oltre un anno. Ma questo è sconosciuto a chi mi attacca.

2. E’ un grande dolore essere accusati – per la prima volta da quando ho iniziato l’attivismo pacifista nel 1991 - di “pacifismo nero” da parte di persone (vedi oltre) che sostenevano indirettamente i cosiddetti “ribelli” libici, le cui gesta razziste, violente, repressive dei diritti umani, e che ora sostengono il Consiglio nazionale siriano (Cns), il quale è finanziato da stati come Qatar e Arabia Saudita, oltre alle potenze occidentali (“dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei”) e per questo invece di muoversi su una vera strada negoziale chiede ufficialmente interventi armati esterni da parte dei suoi alleati stati capitalisti e sostiene il cosiddetto Esercito siriano libero, delle cui gesta riferiscono ormai gli stessi media mainstream. E’ sorprendente che al tempo stesso i suoi “attivisti” siano presi come fonte di notizie …

3. E’ vergognoso che mi si accusi sul gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” di trarre profitto dai miei scritti. E’ l’esatto contrario, come sa chiunque mi conosca. E’ infatti notevole e ormai quasi insostenibile il danno materiale che traggo dall’impegno per la pace, a causa di mancati introiti dalle mie attività lavorative, pressoché abbandonate da un anno per mancanza di tempo dovendo/volendo dedicarmi solo a questo impegno antiguerra, oltre a spese di viaggi in loco (Libia e Siria), e di telefono.
A questo si aggiungerà ora il pregiudizio a mie attività future nel campo dell’ecologia di giustizia, a causa di questa diffamazione nei miei confronti. Di pagato in relazione alla Siria ho scritto solo un reportage con foto, per un totale di circa 300 euro. Il resto è stato gratuito e, ripeto, con spese a mio carico. E con una perdita di tempo che mi rallenta diversi progetti anche editoriali. La mia ostinazione è giustificata solo dal non voler vedere più il mio paese partire a bombardare altrui popoli (con effetti che ho verificato in loco più volte) con pretesti umanitari veicolati da menzogne assordanti. Mi muove il desiderio che quella alla Libia sia stata L’ultima delle (nostre) guerre di bombardamenti e massacri. Ma grazie a tanta gente non sarà così.

4. Per me questo è il naturale seguito di un impegno contro le guerre occidentali iniziato nel 1991 e sempre gratuito e autofinanziato (dalle mie attività di autrice di libri e articoli in materia di ecologia, rapporti Nord-Sud, rispetto dei viventi). L’indignazione per il ruolo bellico del paese nel quale purtroppo vivo mi ha portata a essere presente sia in Iraq che in Jugoslavia che in Libia durante i bombardamenti e non certo come inviata di guerra (!) ma come militante. Dal 1991 (prima guerra del Golfo) la propaganda mediatica e la disinformazione creano consenso a interventi bellici. Ora, accertare la verità è cosa difficile, ma cogliere le menzogne e la disinformazione lo è meno. Prende solo molto tempo

5. Con l’occasione denuncio l’opera di demonizzazione contro chiunque esca dal coro assordante e faccia notare esempi lapalissiani di propaganda pro-bellica a tutti i livelli. E’ additato e oltraggiato anche l’impegno di diversi attivisti della Rete NoWar di cui faccio parte.

VIOLENCE AGAINST WOMEN

martedì 26 giugno 2012

CHIAMATELI BOND, EUROBOND


CHIAMATELI BOND, EUROBOND



Intervista a Giorgio Meletti - 26 Giugno 2012 - cadoinpiedi -

 Cosa sono gli Eurobond? A cosa servono? E perché la Germania non li vuole?Gli Eurobond sono dei titoli di Stato europei. Bond è la parola inglese che indica quelli che in Italia sono buoni del tesoro, in Spagna si chiamano Bonos, in Germania si chiamano Bund . Sono le obbligazioni che uno Stato emette quando si indebita, Eurobond, sarebbero dei titoli di Stato che anziché essere emessi da un singolo stato membro dell'Unione Europea, vengono emessi da tutta l'Unione Europea. Sostanzialmente, dunque, sono dei titoli di Stato in cui chi presta soldi ha la garanzia che questo debito risponde non a quel singolo Stato che magari è uno stato poco solvente (come la Grecia, il Portogallo, magari la stessa Italia in futuro), ma riceve la garanzia che quel debito sarà comunque onorato da tutti i paesi membri dell'Unione Europea in solido. Come dire: qualcuno comunque paga.

E' molto probabile che gli Eurobond riuscirebbero a risolvere molti problemi ai paesi che hanno difficoltà con il debito, i cosiddetti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna e con l'Italia che ci sta con un piede dentro e un piede fuori da questo gruppo). Mentre i paesi più forti, in primo luogo la Germania, sono quelli che sostanzialmente si accollerebbero la garanzia di far fronte a debiti degli altri. E' sicuramente una cosa che ha molte ragioni di buonsenso per essere fatta, guardando agli interessi generali dell'Europa, ma è difficilmente spiegabile da Angela Merkel all'elettore tedesco, al quale sostanzialmente bisognerebbe dire che si deve prepagare a pagare i debiti dei greci.

Ovviamente, anche in questo caso l'Europa si differenzia dagli Stati Uniti d'America, dove i titoli di Stato sono unici...La differenza tra gli Stati Uniti e l'Europa è che gli Stati Uniti sono una nazione nata come federazione di stati più di 200 anni fa e che hanno comunque un'integrazione politica completa, basti pensare al semplice fatto che il Presidente degli Stati Uniti è eletto direttamente dal popolo americano tutto insieme. Il problema dell'Europa è evidentemente lo stesso. E' un fatto di integrazione, non più solo finanziaria. E' evidente che quando 27 paesi (15 se si parla della zona Euro), fanno cassa comune l'integrazione deve andare oltre e ci vuole anche un'integrazione politica. Se i tedeschi devono pagare il debito dei greci è legittimo che i tedeschi abbiano voce in capitolo anche su come in Grecia viene speso il denaro pubblico.

Ma alla fine quella degli Eurobond sembra l'unica strada per salvare l'Euro. O non è così?

La discussione sugli Eurobond ovviamente è una discussione anche tecnicamente molto complessa, nel senso che ci sono molte maniere di farli. Credo comunque che siano inevitabili e che in qualche modo si vada verso questa strada. Qualcosa del genere dovrà essere fatto perché se invece prevale una linea del "ognuno per sé, Dio per tutti" è evidente che nei prossimi mesi assisteremo allo sfaldamento di tutto il sistema dell'Euro zona, dell'Euro e l'Europa andrà in pezzi.

Per costruire l’altra Europa c’è bisogno di costruire l’altra sinistra.

   




FABIO AMATO*
Il vertice del 28 e 29 Giugno dell’Ue è destinato ad essere ricordato come l’ennesimo in cui la montagna partorì il topolino. Le aspettative dell’adozione di misure efficaci per contrastare la crisi verranno con molta probabilità deluse. Così come verranno delusi coloro che si illudono di una Francia e di un Hollande alfieri della messa in discussione della politica di austerità e rigore dominante in Europa.
E’ una visione questa eccessivamente ottimista e che non fa i conti con il retroterra storico e politico del socialismo e delle socialdemocrazie europee. La posizione di Hollande è sicuramente migliore di quella di Sarkozy, ed il suo programma interno ha elementi progressivi, ma sull’Europa la sua posizione è moderatamente emendativa, punta ad ottenere una modifica parziale che consenta alla Francia di poter meglio affrontare le regole capestro del fiscal compact, lasciando inalterata la natura e gli effetti recessivi e distruttivi del nuovo patto europeo. Come spesso accade, si confondono i desideri con la realtà. Non si vede o si fa finta di non vedere e sapere che i socialisti europei, e fra questi quelli francesi facenti capo proprio al’area di Francois Hollande, non sono stati spettatori della controrivoluzione liberista e monetarista, e neanche critici moderati della globalizzazione. Sono stati protagonisti e fautori della costruzione del primato dei mercati sulla società e sulla politica. Non è un caso che illustri esponenti proprio del PS sono stati alla guida delle istituzioni sovranazionali a-democratiche che hanno dettato l’agenda della controrivoluzione liberista degli ultimi venti anni. Ne ricordo due su tutti: Dominique Strauss Khan, a capo del Fondo Monetario Internazionale e mancato candidato presidenziale , Pascal Lamy, presidente del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, e prima ancora commissario europeo. Il problema politico che c’è in Europa, ed anche in Italia, è la totale e pressoché incondizionata subordinazione delle socialdemocrazie alla costruzione neoliberista dell’Europa. Non solo oggi, nel mezzo della crisi, ma dal 1992 in poi, da Maastricht in poi. Esiste una grande coalizione formata da liberali, conservatori popolari e socialdemocratici europei che è la base politica della costruzione neoliberista e a democratica dell’UE, con a sostegno, in modo più o meno costante, altri gruppi minori.
Non è un caso se con l’approfondirsi della crisi sono grandi coalizioni quelle che hanno governato o stanno governando i paesi europei. O se il Psoe spagnolo di Zapatero ha avuto sulla crisi lo stesso comportamento del Pasok greco. E in Italia , la maggioranza Berlusconi , Bersani, Casini che sostiene Monti, non è forse una grande coalizione fra partiti del PPE e dei socialisti e democratici ? Così come non è un caso che i verdi e la Spd in Germania votino senza colpo ferire il Fiscal compact insieme alla Merkel. Non sono eccezioni, ne coincidenze o semplici scelte nazionali. E’ il manifestarsi del patto politico che governa l’Europa in nome del neoliberismo. E’ l’evidenziarsi della falsità dei bipolarismi coatti che dominano in Europa, della loro insignificanza strutturale. Quando Casini propone il patto moderati progressisti, richiamando all’unità fra i referenti italiani del PPE e PSE, fa una proposta che è nell’ordine naturale degli assetti di potere in Europa, ed è benedetto da Bersani.

«La lira? Un'ipotesi irrealistica»


Intervista a Guido Viale di Tonino Bucci
L'euro è a un passo dal precipizio. Ormai lo riconoscono anche i più convinti europeisti. I segnali di cedimento dell'unione monetaria, i soliti, si ripetono. Ieri la Borsa di Milano ha chiuso a meno quattro e sono calati tutti i mercati azionari in Europa. Lo spread è arrivato a 455 punti dopo aver aperto a 421. Quello tra i titoli di stato spagnoli e i bund tedeschi, invece, ha toccato quota 517. Il rendimento dei bund tedeschi a 10 anni è poco al di sotto dell'1,5 per cento, quello dei Btp italiani è al 5,986 per cento, mentre nel caso dei bons spagnoli al 6,559 per cento. L'impressione è che il treno dell'euro zona sia lanciato a folle velocità verso il precipizio senza che nessuno azioni lo scambio che potrebbe deviarne la corsa. Una dopo l'altra, i governi hanno applicato tutti le misure di austerità sponsorizzate dai vertici europei. Alle elezioni in Grecia ha vinto il partito disposto ad accettare il memorandum imposto dalla Troika. Eppure, la crisi rimane. E più si insiste con le strategie del rigore, più le contraddizioni all'interno del sistema si riproducono. Lo scenario di una deflagrazione dell'euro non è più un'ipotesi da fantascienza. Non a caso, in questi giorni si discute animatamente di ritorno alla lira. A cavalcare l'antieuropeismo ci prova la destra berlusconiana. L'uscita dall'euro, accompagnata da una manovra di svalutazione, trova un certo consenso anche in una parte del mondo imprenditoriale, speranzoso per questa via di recuperare una maggiore competitività nelle esportazioni. Anche la sinistra ragiona sullo scenario del ritorno alla moneta nazionale, ma in questo caso la questione è molto più complessa. Una lira svalutata comporterebbe quasi immediatamente inflazione ed erosione dei redditi medio-bassi. Per questo l'opzione principale a sinistra sembra ancora essere quella di rimanere nell'euro, cambiandone le regole. Ma se si fosse costretti ad uscirne dal precipitare dei fatti? Ne parliamo con l'economista Guido Viale.

E' verosimile, nonostante tutto, un ritorno alla lira?
E' impossibile. Innanzitutto, non esistono procedure per uscire dall'euro. Secondo, se uno Stato davvero uscisse, in maniera incontrollata e non concordata – e ci riuscisse – questo avrebbe effetti immediati su tutto il sistema monetario europeo, causandone la deflagrazione. Ma anche nel caso di un tracollo dell'euro a breve, secondo me, non ci sono le condizioni per introdurre le monete nazionali, né in un singolo stato che facesse default, né nell'insieme degli Stati. Quindi andremo avanti con l'euro e se anche l'euro dovesse fallire, questo sarebbe un problema che gestirebbero le autorità monetarie europee e gli Stati nazionali tutti assieme. Ma a quel punto il problema si sposterebbe nella dimensione planetaria.

Dopo il risultato del voto greco si è discusso se, col senno di poi, la scelta di Syriza di puntare alla rinegoziazione del debito ma di non uscire dall'euro, sia stata o meno una buona scelta. Sarebbe potuta andare diversamente?
Tutta la campagna contro Syriza è stata impostata su una menzogna plateale e non si è riusciti a smentirla nonostante il suo leader Tsipras abbia ripetuto in tutte le interviste che nel programma non c'era né l'uscita dall'euro, né l'uscita dall'Unione Europea. La campagna d'opinione è stata impostata sul tentativo di utilizzare la paura del fallimento e dell'uscita dall'euro. Il fine era di ottenere dai futuri governanti che avrebbero vinto le elezioni, l'accettazione di quelle condizioni iugulatorie che la Troika ha imposto alla Grecia e sta imponendo via via a tutti i paesi, cioè l'abbattimento dei livelli salariali, delle pensioni, dell'occupazione e la privatizzazione di tutte le risorse comuni.

Se avesse vinto le elezioni Syriza, l'establishment europeo avrebbe acconsentito alla rinegoziazione? C'erano margini di trattativa?
I margini ci sono. Basta che qualcuno si impunti. Il governo Monti avrebbe molta più forza della Grecia perché il fallimento dell'Italia avrebbe conseguenze più drammatiche su tutto il sistema europeo. Se poi si formasse un fronte dei paesi che oggi sono sotto scacco – Portogallo, Spagna, Italia e Grecia – con una piattaforma unitaria per la rinegoziazione dei loro debiti, imponendo la moratoria sul pagamento degli interessi e sulla restituzione del debito, senza annullarlo, ma semplicemente procrastinandolo e congelandolo, la voce di questo gruppo di paesi verrebbe ascoltata per forza. Non ci sarebbero alternative. Se, invece, questi stati vanno avanti in forma sparsa o, addirittura, facendosi la concorrenza, la loro posizione è molto più debole. E infatti questi paesi oggi sono l'uno contro l'altro. Monti si è più volte compiaciuto del fatto che il nostro paese non è nelle stesse condizioni della Grecia e che siamo anzi messi molto meglio della Spagna. Io credo che sia una politica suicida che rafforza le posizioni di chi vuole usare questa congiuntura per ottenere quelle misure antipopolari che oggi vengono chieste dai mercati, cioè dal capitale finanziario.

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