Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 1 giugno 2013

Club Bilderberg ...

... e classe capitalistica transnazionale

di Alexander Höbel - sinistrainrete -

Sul Gruppo Bilderberg e organismi affini è fiorita in questi anni una letteratura di taglio “complottistico” che, per quanto attraente per molti lettori, di fatto non favorisce una reale comprensione del fenomeno. In una direzione diversa va invece il libro di Domenico Moro (Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, Aliberti 2013), che colloca la questione in un quadro più ampio, quello dell’attuale fase della storia del capitalismo e delle dinamiche della lotta di classe; Moro insomma affronta il problema da un punto di vista marxista.

Se il titolo e il cuore del libro riguardano il Club Bilderberg (cui si aggiunge la più giovane Trilateral), sullo sfondo ci sono questioni più complessive, il ruolo delle élite (e del “ritorno delle élite” parla anche l’ultimo libro di Rita di Leo), i caratteri dell’attuale oligarchia capitalistica trans-nazionale, le forze di classe in campo e gli scontri in atto sul piano globale, la questione della democrazia e della sua crisi.

Se partiamo da quest’ultimo punto, non possiamo che partire dalla straordinaria avanzata della “democrazia organizzata”, della partecipazione popolare e dei partiti di massa, che riguardò molti paesi e l’Italia in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta. Fu allora che la domanda sociale crescente trovò sbocchi politici e anche legislativi nella costruzione del Welfare State e in quelle riforme (riforme vere, ben diverse dalle controriforme degli ultimi decenni) che determinarono il progresso sociale e civile, tra gli altri, del nostro paese. La costruzione dello Stato sociale – forma peraltro del salario indiretto – e le conquiste salariali vere e proprie, accanto al generale spostamento nel rapporto di forza tra le classi nella società, nella politica e nelle istituzioni rappresentative (dunque nello Stato stesso), misero dunque in allarme le classi dominanti, che proprio negli anni Settanta (apice della loro difficoltà sul piano mondiale) avviarono la loro micidiale controffensiva, dotandosi di strumenti nuovi, quali appunto la Commissione trilaterale. E non a caso, uno dei primi documenti di questa struttura, fu quel testo sulla “crisi della democrazia” che Domenico Moro cita ampiamente, opera di quel Samuel Huntington che diventato famoso in anni recenti per la sua pseudo-teoria dello “scontro di civiltà”, e di Michel Crozier, il quale individuava il pericolo principale nei partiti comunisti, a partire da quelli europei, “le sole istituzioni rimaste nell’Europa occidentale la cui autorità non venga messa in dubbio” (p. 119).

Da allora, nel dibattito pubblico, la governabilità iniziava a prendere il posto della rappresentanza, fino a sostituirla quasi del tutto, giungendo a quello svuotamento delle istituzioni rappresentative e alla conseguente apatia politica di massa che oggi sono davanti ai nostri occhi.

Il libro di Moro, peraltro, mostra come quella controffensiva fosse iniziata ancora prima, negli anni Cinquanta; gli anni più duri della guerra fredda, quelli della nascita di Gladio e della rete Stay-behind, e appunto del Club Bilderberg, fondato nel 1954 da esponenti del grande capitale come David Rockefeller. E non a caso, l’anticomunismo e la lotta al blocco sovietico sono al centro dei primi incontri del Club. Ma che cosa è dunque il Gruppo Bilderberg? Secondo la definizione che ne dà Domenico Moro, è “il luogo dove il capitale finanziario si incontra con la politica internazionale” (p. 72), e infatti al suo interno troviamo finanzieri, proprietari e dirigenti di corporation, grandi manager privati e pubblici, uomini politici, accademici, giornalisti. Ed è molto interessante il meccanismo descritto nel libro, quello delle “porte girevoli”, per cui un ministro (o, nel caso degli USA, un segretario di Stato) si ritrova poi al vertice di una multinazionale, o magari ne aveva fatto parte prima (tipici i casi di Dick Cheney, Donald Rumsfeld e molti altri esponenti dell’amministrazione Bush), mentre grandi manager pubblici come Romano Prodi dopo aver portato avanti massicce privatizzazioni si ritrovano presidenti del Consiglio o ai vertici dell’Unione europea, o ancora uomini come Mario Draghi passano da presidente del Comitato economico e finanziario del Consiglio della UE a direttore generale del Ministero del Tesoro italiano, per poi diventare vicepresidente della Goldman-Sachs, infine governatore della Banca d’Italia e infine presidente della Banca centrale europea.

Le origini culturali della crisi*

Alessandro Roncaglia - sinistrainrete -

Negli ultimi mesi abbiamo sentito ripetere infinite volte che gli economisti non hanno previsto la crisi finanziaria ed economica che ci ha travolto. Perfino la regina d’Inghilterra se ne è lamentata. Di fronte a queste critiche, la nostra professione deve porsi con urgenza almeno tre domande. Primo, a nostra parziale discolpa: cosa significa, nel nostro caso, prevedere un evento? Secondo, a parziale critica della superficialità dei mezzi di informazione: è vero che gli economisti non hanno previsto la crisi? Terzo, e più importante: se, come vedremo, alcuni l’hanno prevista e altri no, da cosa è dipesa la relativa preveggenza degli uni e la relativa cecità degli altri?
La terza domanda ci porterà a una questione fondamentale, che merita certo una trattazione più approfondita di quella possibile in un breve intervento come il mio: la responsabilità di un orientamento culturale tuttora prevalente tra gli economisti – che può essere indicato, sempre in modo necessariamente vago, mainstream, o Washington consensus, o fondamentalismo liberista – nel favorire il formarsi della situazione di cui la crisi sarebbe divenuta uno sbocco inevitabile.
Innanzitutto, prevedere una crisi non significa indicare in anticipo il giorno in cui scoppierà, o le precise caratteristiche con cui si svilupperà. Come i sismologi sono in grado di indicare le zone in cui i terremoti sono più probabili (tanto che delle loro analisi si tiene conto nel determinare norme più o meno rigide sul modo in cui costruire gli edifici), così gli economisti sono, o dovrebbero essere, in grado di indicare le condizioni in cui le crisi divengono probabili, se non inevitabili.
In questo modo, gli economisti possono anche indicare alle autorità di politica economica cosa fare per ridurre le probabilità della crisi o, oggi, il suo ripetersi in forme ancora più gravi.
Nel senso che ho appena accennato, se è vero che la stragrande maggioranza degli economisti non ha previsto la crisi, è anche vero che vari economisti ne hanno segnalato in anticipo l’approssimarsi. Paolo Sylos Labini, in un articolo pubblicato nel settembre 2003 su Moneta e Credito (ripubblicato 2009), aveva espresso “gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia americana, che condiziona fortemente le economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee” (Sylos Labini, 2009, p. 61). Le preoccupazioni erano motivate da “alcune rassomiglianze fra la situazione che si era determinata in America negli anni Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò nella più grave depressione della storia del capitalismo, e la situazione che si andava delineando oggi in America” (Ibid., p. 61). In particolare, Sylos Labini segnalava “due bolle speculative, una in borsa e l’altra nei mercati immobiliari” (Ibid., p. 63); la sua diagnosi si basava anche sull’aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito e sulla crescita del debito, pubblico e privato. (Questo articolo, mai citato dagli editorialisti economici dei grandi quotidiani, è da tempo disponibile a tutti nell’archivio degli scritti di Sylos Labini su internet, all’indirizzo www.syloslabini.info).
Già in precedenza Charles Kindleberger, il grande storico delle crisi finanziarie, aveva segnalato in questa stessa rivista la formazione di una bolla nei mercati immobiliari (Kindleberger, 1988 e 1995, ripubblicati 2009a e 2009b). Su questa base aveva sostenuto – in contrapposizione alla politica seguita dall’allora presidente della Federal Reserve, Greenspan – che la politica monetaria dovrebbe tenere sotto controllo l’inflazione degli assets, cioè di attività patrimoniali come le azioni e gli immobili. I suoi articoli, assieme a quello di Sylos Labini e ad altri egualmente preveggenti, di Wynne Godley (2009), Mario Sarcinelli (2009), Mario Tonveronachi (2009) e altri, sono raccolti nel numero speciale (2009) che inaugura la nuova serie di Moneta e Credito. Lavori di impostazione analoga sono stati pubblicati altrove; segnalo in particolare le pubblicazioni del Levy Economics Institute (reperibili all’indirizzo www.levy.org), di cui era stato Senior Scholar Hyman Minsky, il grande teorico delle crisi finanziarie scomparso nel 1996, e di cui è ora Senior Scholar Jan Kregel.
Il punto, sul quale torneremo più avanti dopo avere rapidamente richiamato le caratteristiche salienti della crisi, è che gli economisti appena ricordati condividono, in misura maggiore o minore, una impostazione keynesiana, o quanto meno sono pragmaticamente liberi dai paraocchi culturali che hanno impedito agli economisti mainstream di cogliere il formarsi delle precondizioni per una grossa crisi, e quindi di porvi rimedio per tempo, per quanto possibile.

Assange: 'Io, la politica e Grillo'

di Stefania Maurizi - l'espresso -

Dalla sua stanza nell'ambasciata ecuadoriana a Londra, in cui vive segregato da più di un anno, il fondatore di Wikileaks parla della candidatura al senato australiano e commenta il ruolo della Rete. Dicendoci scettico sulla 'democrazia digitale', anche nella versione M5S. Perché la gente vuole poter delegare. E potersi fidare di chi elegge
(31 maggio 2013)
Julian Assange nella sua stanza dell ambasciata dell Ecuador a LondraJulian Assange nella sua stanza dell'ambasciata dell'Ecuador a Londra
Il palazzo in mattoncini rossi a dieci passi dai celebri magazzini Harrods è ancora quello. E gli agenti di Scotland Yard che lo sorvegliano giorno e notte sono ancora lì con i loro furgoni e le loro occhiute telecamere. E' passato un anno, ma Julian Assange è ancora rinchiuso nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, senza la possibilità di mettere un solo piede fuori senza essere arrestato da Scotland Yard, che mantiene l'edificio sotto un totale e continuo controllo, costato al contribuente inglese 4 milioni di sterline negli ultimi 12 mesi. E' in questa ambasciata che "l'Espresso" è entrato per la seconda volta da quando il fondatore di WikiLeaks ha ottenuto asilo politico dall'Ecuador.

L'Espresso lavora con Assange e la sua organizzazione da oltre tre anni. L'ha incontrato a Berlino poche settimane dopo il caso svedese, con il suo bagaglio e i suoi computer stranamente spariti durante il viaggio aereo per Berlino e lui costretto a presentarsi all'appuntamento con una busta di plastica con spazzolino e sapone. L'ha visto accerchiato durante il rilascio dei cablo della diplomazia Usa, lasciato solo nella battaglia contro le carte di credito, messo agli arresti domiciliari per diciotto mesi con un braccialetto elettronico intorno alla caviglia e infine sepolto in una stanza dell'ambasciata di circa 20 metri quadri piena finoa scoppiare di libri, computer, tapis roulant, tavolo, libreria, letto. Mai Julian Assange si è dato per vinto. E oggi che lo ritroviamo nella stessa stanza, Assange non solo regge, ma è in grande forma fisica e mentale.

Il viso è tornato quello di un tempo e il corpo non appare segnato dai dodici mesi di segregazione. Anche la stanza in cui vive e lavora è più vivibile. Il letto è sparito, la libreria ingombrante è stata spostata. Ma l'assenza di aria fresca e di luce naturale continua a essere impressionante. E la lavagnetta lucida su cui è abbozzato a pennarello un protocollo medico rimane lì a ribadire l'eccezionalità della sua situazione.
 Ci accoglie a cena, l'unico momento in cui si distoglie dal computer che è praticamente parte della sua identità. La routine di Julian è rimasta la stessa: lavora fino a tarda notte. "E' lo scontro con gli Stati Uniti che ha creato un'enorme pressione su di noi a tutti i livelli: di Stato, di intelligence, di politica. E a livello legale, finanziario e mediatico", ci aveva detto l'ultima volta. Sei mesi dopo, questi problemi rimangono tutti e nessuno sa come si concluderà questa storia incredibile.

La prossima settimana negli Stati Uniti inizierà il processo a Bradley Manning, il giovane soldato americano che ha ammesso di aver passato i documenti segreti del governo Usa a WikiLeaks. "Voglio che l'opinione pubblica sappia la verità [...], perché, senza informazione, non può prendere decisioni consapevoli", ha confessato in una chat online che gli è stata attribuita e in cui ha spiegato le motivazioni dietro la sua decisione di passare un enorme numero di file segreti a WikiLeaks.

Subito dopo quella chat, nel maggio del 2010, Manning è stato arrestato. E' stato tenuto per 11 mesi in condizioni inumane e poi, in seguito a una campagna internazionale, le sue condizioni di detenzione sono migliorate. E' in prigione senza processo da tre anni. Il prossimo 3 giugno dovrà presentarsi di fronte alla corte marziale per un dibattimento in cui la segretezza regnerà sovrana: 24 testimoni dell'accusa testimonieranno in segreto. Mentre WikiLeaks si prepara alle udienze sfidando la riservatezza del processo con un ricorso legale, Julian Assange parla a "l'Espresso" della sua decisione di candidarsi per il senato australiano.

Lei è pronto a correre per le elezioni australiane e ha scritto il libro "Cypherpunks" in cui vede internet come un grande strumento per l'emancipazione, ma allo stesso tempo anche come uno strumento per il totalitarismo. Come vede il rapporto tra democrazia e internet?
«Negli ultimi vent'anni la società si è completamente fusa con la Rete, che ne è diventata il sistema nervoso sia a livello nazionale che internazionale. Le relazioni con gli amici, la famiglia, i rapporti tra le grandi e piccole aziende, tra gli individui e lo stato e anche tra gli stati sono ormai mediati da internet a un livello di cui la gente neppure si rende conto. In risposta al potenziale democratico della Rete, gli stati hanno fatto una contromanovra: scoprire cosa fanno esattamente i cittadini in ogni minuto del loro tempo, ovvero la sorveglianza di massa su scala così massiccia che neanche la Stasi avrebbe potuto immaginarla. Sembra fantascienza ma non lo è. E' qualcosa che è accaduto per ragioni molto pratiche: i costi della sorveglianza di massa si dimezzano ogni anno. E questo ha portato al più grande furto nella storia dell'umanità: il furto della mappa delle relazioni sociali in intere nazioni. E' possibile scoprire l'intera rete di relazioni usando la mappatura delle comunicazioni, che permettono di capire chi parla con chi e quando. Se lei ha le registrazioni delle comunicazioni di un intero Paese, usando i computer può automaticamente fotografare l'intera rete delle relazioni sociali: questo è esattamente quello che ha fatto la National Security Agency negli Stati Uniti».

venerdì 31 maggio 2013

“Lo Stupro”, il monologo di Franca Rame sulla violenza alle donne

Fonte: micromega        
Franca Rame ha sempre dato voce alle donne. Qui, nel giorno della sua morte, vogliamo ricordarla per "Lo Stupro", il monologo che scrisse nel 1975 e poi portò coraggiosamente in teatro (e negli anni ’80 anche in Rai di fronte a milioni di persone). All’epoca di violenza sessuale si parlava molto poco: Processo per stupro, il documentario che aprì il dibattito sulla criminalizzazione delle vittime nei tribunali, è del 1979. Franca Rame disse di aver preso il racconto da una testimonianza che aveva letto su Quotidiano Donna . In realtà aveva subito uno stupro in prima persona: la sera del sera del 9 marzo del 1973, a Milano, fu caricata su un furgone, torturata e violentata a turno da cinque uomini. Proprio come racconta il monologo. Fu uno stupro punitivo: i violentatori erano neofascisti, volevano farla pagare per le sue idee politiche, ma scelsero di punirla in quanto donna. Non furono mai arrestati, nonostante molti anni dopo un pentito abbia fatto i loro nomi, perché il reato era ormai prescritto. Ma Franca Rame ha sconfitto la loro violenza con la parola. Invece di accettare l’obbligo al silenzio esistenziale e politico, ha dimostrato con la sua arte che era più forte dei suoi violentatori.

Di seguito la trascrizione del monologo.

LO STUPRO

Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore…

Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.

Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.

Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?

Non lo so.

È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.

Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena… s’è seduto comodo… e mi tiene tra le sue gambe… fortemente… dal di dietro… come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.

L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.

Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce… né gran spazio… forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.

Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?

Sta per succedere qualche cosa, lo sento… Respiro a fondo… due, tre volte. Non, non mi snebbio… Ho solo paura…

Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.

Sono vicinissimi.

Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento.

Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.

Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!

Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo… un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.

Una punta di bruciore. Le sigarette… sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.

Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere… Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.

Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.

Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…

Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.

Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.

Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.

Devo stare calma, calma.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.

“Muoviti puttana fammi godere”.

Sono di pietra.

Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.

“Muoviti puttana fammi godere”.

La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”.

Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.

È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.

“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.

Ci credono, non ci credono, si litigano.

“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.

Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere… e se ne va.

Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.

Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.

Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…

Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani.

(29 maggio 2013)

Appello per un vertice alternativo

- fonte -

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Oggi stiamo assistendo ad un importante momento di cambiamenti storici in seno all’Unione europea. I leader europei, in particolare quelli della Commissione, dell’Ecofin e della Banca centrale europea, approfittano della crisi per imporre un ordine neoliberista opposto a ciò che dovrebbe essere l’ideale europeo.
Il volto dell’Europa sta cambiando con conseguenze estremamente pesanti per i cittadini e per il futuro del progetto europeo. Questa "rivoluzione silenziosa" - come lo stesso Barroso sostiene - avviene attraverso l’attivismo senza precedenti sul piano giuridico-istituzionale: la proliferazione di interventi su fisco e salari, nuove imposizioni di rigidita’ dei bilanci, pene più severe e automatismi nella loro attuazione, riscrizione della legislazione europea e nazionale (trattati, costituzioni). Ciò significa rafforzare il potere della Commissione e del Consiglio europeo, riducendo il Parlamento europeo - come riconosciuto dal suo nuovo Presidente - ad un semplice certificatore delle decisioni dei capi di Stato.
Il recente trattato fiscale europeo radicalizza la scelta di austerità, nel contesto di una crisi paragonabile a quella del 1930, oltre a una crisi ambientale senza precedenti, che richiedono, al contrario, interventi per preservare i posti di lavoro e aumentare gli investimenti pubblici. La Commissione puo’ quindi obbligare gli Stati a allinearsi alle sue visioni, imponendo scelte e vincoli che ledono le prerogative fondamentali della vita democratica.
Con l’adozione di questo trattato, i leader dell’UE negano la realtà. I tanti summit dell’Unione europea che hanno avuto l’obiettivo di "ripristinare la fiducia del mercato" e risolvere la crisi nella zona euro, sono in realtà di fronte ad una crisi finanziaria e sociale che si sta aggravando. Ad iniziare dai Paesi della periferia della zona euro seconda comincia in Europa, e la situazione sociale ed economica si sta deteriorando in tutti i paesi europei, a cominciare ovviamente da parte dei paesi della periferia della zona euro.
I cittadini si chiedono se gli obiettivi dichiarati non nascondano una diversa strategia: usare l’occasione della crisi per passare a un diverso sistema sociale e democratico («mai sprecare una buona crisi").
Gli sviluppi odierni della crisi sono la negazione più grave della democrazia che l’Europa ha vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale. I cittadini europei sono sottoposti a politiche punitive quando tutti sanno che questa crisi deriva principalmente dal delirio dei banchieri, dalla incompetenza dei politici che avrebbero dovuto controllarli e da due decenni di smantellamento di salari e tassazione. Un neoliberismo punitivo che mette doppiamente la democrazia in pericolo. Con la tendenza autoritaria (quando Jean-Claude Trichet, ex governatore della BCE, ha inviato una lettera alle autorità italiane per accelerare i tagli e suggerire di abbandonare la contrattazione collettiva a favore del livello aziendale, o quando, con l’approvazione della troika, sono stati formati “governi tecnici” in nome della crisi in Grecia e in Italia), ma anche favorendo la nascita di nazionalismi, anti-europeismi e dando spazio al sorgere di autoritarismi (Francia, Ungheria, Finlandia, ecc.)
Noi diciamo "Basta"! Non possiamo più accettare queste politiche che hanno già gettato l’Europa nel caos economico e che risvegliano i demoni nazionalisti che la creazione dell’ Europa è destinata a sradicare. Occorre una difesa dell’Europa e del suo modello sociale, che non è quello dettato dalle grandi aziende e delle banche.
Questo richiede altre politiche, ed anche un altro ruolo delle istituzioni e dei trattati: non serve un indurimento del neoliberismo punitivo, ma occorre estendere la democrazia. Esistono alternative. Ciò che manca oggi è un equilibrio di potere per attuare queste alternative e sviluppare processi politici per implementare il progetto europeo sulla strada della democrazia e del progresso sociale. Il vertice alternativo puo’ essere il primo passo verso il raggiungimento di questi obiettivi.
Contacts : info@altersummit.eu

Berlino, Roma e i dolori del giovane euro*

da Keynes blog - sinistrainrete -

di Marcello De Cecco e Fabrizio Maronta

I guai dell’Eurozona originano da una grave anomalia: l’essere imperniata su un paese esportatore, che drena valuta invece di crearla. Il ritorno della Mitteleuropa. Il bluff delle ‘triple A’. Se la moneta comune salta, un’Italia senza timoniere rischia la deriva
1. La zona euro detiene un invidiabile primato storico: è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla. Tale funzione viene normalmente assolta mediante il commercio: importando beni e servizi altrui e stampando moneta per pagare le importazioni, il paese economicamente egemone alimenta la massa monetaria della sua zona d’influenza, fornendo così il carburante degli scambi e degli investimenti. Ciò presuppone, però, un deficit commerciale quasi permanente e una certa tolleranza, da parte del paese in questione, per l’inflazione e le oscillazioni del tasso di cambio.
Questa è stata la condotta dell’Inghilterra, specialmente tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando Londra reinvestiva sistematicamente i proventi delle colonie alimentando il commercio mondiale e tamponando i guasti provocati dall’aggressivo mercantilismo statunitense, in una fase in cui Washington era impegnata ad affermarsi sui mercati internazionali. Questa è stata la posizione degli Stati Uniti a partire dal secondo dopoguerra, una volta rilevato il testimone dal Regno Unito: prima con il Piano Marshall, che schiuse l’enorme mercato nordamericano all’esangue industria europea; poi, dopo l’abbandono unilaterale del sistema di parità aurea – reso insostenibile proprio dalla crescita degli scambi transatlantici – con la creazione di moneta.
Non è questo il caso della Germania: paese che ad oggi mantiene una percentuale di esportazioni sul pil (50%) superiore persino a quella della Cina, ma che in virtù della sua statura economica si è sempre trovato al centro delle dinamiche europee d’integrazione commerciale (prima) e monetaria (poi).
Un ruolo, tuttavia, svolto senza mai abdicare alla propria natura di Stato esportatore. Questa anomalia è esplosa con la creazione dell’euro, che ha determinato un paradossale rovesciamento dei ruoli: la Germania, fulcro dell’area valutaria comune, non crea liquidità, ma la assorbe costantemente, esportando beni e servizi altamente competitivi che vengono pagati dagli importatori più o meno «periferici» dell’Eurozona emettendo debito. Ovvero, sobbarcandosi quella funzione di zecca monetaria che spetterebbe a Berlino.
Quest’ultima, in realtà, per qualche tempo dopo la riunificazione fu costretta a stampare moneta, per assorbire l’immane fardello economico e fiscale dell’Est. In quel periodo (siamo a metà degli anni Novanta), i benefici dell’abbondanza di marchi si fecero sentire in tutta Europa, ma la festa è durata poco. Bundesbank, governo e parti sociali reagirono con un doloroso programma di contenimento della spesa pubblica; con una ferrea politica di moderazione salariale, negoziata con i sindacati; e con una profonda razionalizzazione del mercato del lavoro, che ha infranto il tabù post-bellico del posto fisso e ha creato un’ampia area di lavoro flessibile, essenziale alla competitività del made in Germany. La risultante precarietà lavorativa è stata tamponata da uno Stato sociale la cui leggendaria generosità è uscita ridimensionata dalla cura dimagrante dell’èra Schröder. Ma che resta pur sempre un welfare vero, dove lo Stato fornisce servizi efficienti a valere sulla fiscalità generale e in regime di bassa evasione. Una realtà assai lontana da quella italiana, dove l’evasione fiscale vale circa il 20% del pil, le pensioni finanziano i consumi e le reti della solidarietà (soprattutto) cattolica suppliscono alla mancanza di servizi, in un arcaico baratto tra diritti e carità.
Da parte sua, il mondo produttivo tedesco – specialmente la grande industria – ha puntato con decisione su ricerca e innovazione, onde mantenere alto il valore aggiunto dei suoi prodotti e contribuire all’aumento della competitività. Questa, a sua volta, ha consentito all’industria tedesca – metodicamente sostenuta da governi e sistema bancario – di insediarsi stabilmente nei mercati emergenti (soprattutto in Cina), di cui ha agganciato il ciclo economico espansivo. Certamente, una grossa mano è venuta dall’Europa. Specie da Francia e Inghilterra, che all’indomani del 1989 accettarono di trattare la riunificazione tedesca alla stregua di un allargamento comunitario e la Germania Est come nuovo Stato membro, per consentirle di aggiudicarsi ingenti aiuti economici. Così suggellando il patto storico che voleva la riunificazione tedesca cofinanziata dai partner europei e la Germania (ri)unita ancorata saldamente all’Europa per tramite dell’euro.

Lafontaine e la trappola dell’euro

di Enrico Grazzini - sinistrainrete -

Il leader della Linke tedesca Oscar Lafontaine ha dichiarato recentemente che è necessario abbandonare l'euro, tornare in maniera ordinata alle monete nazionali e realizzare un sistema flessibile e concordato di cambi in Europa. È una via percorribile? Perché questo dibattito è completamente assente in Italia?

L'Europa vive una crisi drammatica sia sul piano economico che politico e va incontro a una frattura storica: l'euro però non fa parte della soluzione ma del problema. L'euro sta spaccando l'Europa e occorre trovare rapidamente una soluzione alla crisi dell'euro per tentare di ricostruire la cooperazione europea. La critica radicale proviene niente di meno che da Oskar Lafontaine, il dirigente socialista tedesco che, come ministro delle finanze e presidente della SPD, negli anni '90 ha dato un contributo sostanziale alla nascita dell'euro, e che però nel 2005, in rotta con la SPD, ha lasciato il partito socialista di Gerhard Schröder per fondare la Linke, la formazione politica della sinistra alternativa. Nel suo blog Lafontaine ha scritto recentemente che è necessario abbandonare l'euro, tornare in maniera ordinata alle monete nazionali e realizzare un sistema flessibile e concordato di cambi in Europa [1]. Lafontaine vorrebbe che i paesi più deboli possano svalutare per riguadagnare competitività di fronte alla potenza dominante tedesca, e tornare a crescere. Una soluzione semplice ma originale, finora non prevista né dalla Linke né da Syriza, il partito della sinistra radicale greca.

Ma la soluzione proposta da Lafontaine è valida e praticabile? Per tentare di rispondere occorre partire da una constatazione. L'euro si è rivelato il fattore più problematico e negativo per l'Europa unita. Ormai è chiaro che, come hanno deciso per esempio la Svezia e la Danimarca e la Gran Bretagna, i paesi dell'eurozona e l'Italia avrebbero fatto meglio a non rinunciare alla sovranità monetaria per darla in mano alla Germania e, attualmente, al governo di centrodestra della Merkel.

La realtà è che i paesi europei fuori dall'euro continuano a crescere mentre l'eurozona è in crisi; e che la crisi economica può comportare, come vediamo in Italia, la rinascita dei nazionalismi, la crisi delle democrazie, e il rinvigorimento dei tentativi autoritari. Anche per Amartya Sen, premio Nobel dell'economia, l'euro sta rovinando l'Europa: “Sono stato contrario all’euro per motivi di tempistica. L’unione monetaria avrebbe dovuto essere adottata dopo l’unione fiscale e politica e non prima di questa. Saltando lo scalino, invece, gli stati ancora “nazionali” hanno perso il controllo sulla propria politica monetaria” [2].

Occorre che la sinistra europea e italiana discutano apertamente e senza pregiudizi ideologici e politici su come uscire da questa camicia di forza prima che la rottura dell'euro porti alla rotta dell'Europa. Nessuno ha in tasca la soluzione perfetta: ritornare alla lira o al marco, come propone lo statista tedesco, potrebbe non essere facile o possibile (e per alcuni neppure desiderabile). Ma la via d'uscita indicata qualche giorno fa dal presidente francese Francois Hollande, cioè di accelerare i tempi di un accordo politico per il governo europeo dell'economia, pur essendo positiva, appare meno concreta, richiede molto tempo, e comunque non è in contraddizione con la proposta di Lafontaine. E' necessario allora che la sinistra elabori delle alternative senza scartare nessuna ipotesi prima che l'euro fallisca e ci trascini alla rovina completa, come ci preannunciano non solo Lafontaine, ma il Financial Times, il Wall Street Journal e personaggi eccellenti come Joseph Stiglitz, Paul Krugman e George Soros.

Occorre una svolta, anche culturale: infatti sembra che in Italia anche gli economisti di sinistra apparentemente più “sbilanciati” contro le politiche economiche del governo si illudano di potere ottenere miglioramenti graduali all'interno di questa architettura dell'euro che invece garantisce la supremazia tedesca, schiaccia il lavoro, aumenta la disoccupazione e rovina le aziende [3]. Il continuismo non funziona, e di fronte alla dura realtà dei fatti occorre approfondire soluzioni non conformiste ma nuove e originali, e occorrono delle svolte.

Suicidio con raccomandazione !

- controlacrisi -
E' un argomento purtroppo riccorente in questi tempi quello del suicidio. Ne abbiamo anche noi scritto in numerose circostanze battendo soprattutto la dura realtà della disperazione della crisi che spinge i più fragili a non trovare altra via di uscita, se non quella del suicidio, appunto.
Ma a tanto ancora non eravamo arrivai ancora.
“Silvio Berlusconi, pensa tu alla mia famiglia”, ed e' questo il messaggio di un ingegnere di 44 anni padre di una bambina di 5 anni e con la moglie incinta che con queste parole ha deciso di raccomandare la sua famiglia all’ex premier Silvio Berlusconi prima di togliersi la vita, poi si e' impiccano nella sua abitazione in via Sant’Antonio, a Castro, in Salento.Nel biglietto ha chieto scusa ai suoi cari "per non essere stato un bravo ingegnere e non aver saputo progettare bene la nuova casa nella quale sarebbero dovuti andare a vivere tutti insieme".
Alla fine del messaggio precisa di essere "tra coloro che parlano bene dell’ex premier e lo invita a prendersi cura di moglie e figli dato che lui non si fida delle istituzioni. Il professionista era molto conosciuto a Castro, ma non risulta fosse un attivista politico".

giovedì 30 maggio 2013

Dario per Franca

di Dario Fo - beppegrilloblog -
"Franca ed io abbiamo scritto quasi sempre i testi del nostro teatro insieme. Io mi prendevo l’onere di mettere giù la trama quindi gliela illustravo e lei proponeva le varianti, spesso li recitavamo a soggetto, all’improvvisa, come si dice... Questo era il metodo preferito ma non sempre funzionava. Si discuteva anche ferocemente, si buttava tutto all’aria e si ricominciava da capo. In verità mi trovavo a dover riscrivere di nuovo il testo da solo. Poi lo si discuteva con più calma e si giungeva ad una versione che funzionasse e che andasse bene a tutt’e due.
Anche Franca è stata l’autrice unica di alcuni testi. Ci sono opere, come per esempio “Parliamo di donne”, che furono stese da lei completamente a mia insaputa. Quando mi ha dato da leggere questa commedia già ultimata sono rimasto un po’ perplesso... e seccato! Ma come ti permetti?!? No, scherzavo...
Io ho proposto qualche variante ma di fatto si trattava di un’opera del tutto personale.
Pochi lo sanno ma la gran parte degli spettacoli che trattavano di questioni prettamente femminili è stata Franca ad averli scritti, elaborati e poi li ha recitati al completo spesso anche da sola. E io mi sono trovato a collaborare solo per la messa in scena.
Vi dirò di più: testi quali Mistero Buffo e Morte Accidentale di un Anarchico - che io avevo realizzato come autore unico - hanno avuto grande successo anche all’estero con centinaia di allestimenti dall’America all’Oriente, per non parlare dell’Europa.
Ma dei nostri lavori quello che ha battuto tutti i record di messa in scena è Coppia Aperta, Quasi Spalancata che è stato replicato con diverse regie per più di 700 edizioni nel mondo. Ebbene l’autrice unica di questo testo è Franca. L’ho sempre tenuto nascosto!
C’è in particolare un lavoro o meglio, un monologo, che Franca ha recitato solo qualche volta quest’anno, e di cui bisogna che io vi parli perché è fortemente pertinente alla situazione a dir poco drammatica che io sto in questi giorni vivendo.
Da tempo Franca aveva scoperto l’esistenza di alcuni testi apocrifi dell’Antico Testamento nei quali la Genesi è raccontata in termini e linguaggio molto diversi da quelli cosiddetti canonici.
Attenti, non sto parlando dei Vangeli apocrifi, ma dell’Antico Testamento... Apocrifo!
Ebbene da uno di questi testi Franca ha tratto un racconto che vi voglio far conoscere, quasi in anteprima. Eccovelo!
Siamo nel Paradiso terrestre. Dio ha creato alberi, fiumi, foreste animali e anche l’uomo. O meglio il primo essere umano ad essere forgiato non è Adamo ma Eva, la femmina! Che viene al mondo non tratta dalla costola d’Adamo ma modellata dal Creatore in un’argilla fine e delicata. Un pezzo unico, poi le dà la vita e la parola. Il tutto “prima” di creare Adamo; tant’è che girando qua e là nel paradiso Eva si lamenta che... della sua razza si ritrovi ad essere l’unica, mentre tutti gli altri animali si trovano già accoppiati e addirittura in branco. Ma poi eccola incontrare finalmente il suo “maschio”, Adamo, che la guarda preoccupato e sospettoso. Eva vuol provocarlo e inizia intorno a lui una strana danza fatta di salti, capriole e grida da selvatica... quasi un gioco che Adamo non apprezza, anzi prova timore per come agisce quella creatura... al punto che fugge nella foresta a nascondersi e sparisce; ma viene il momento in cui il Creatore vuole parlare ad entrambe le sue creature, umane. Manda un Arcangelo a cercarli. Quello li trova e poi li accompagna dinnanzi a Dio in persona.
L’Eterno li osserva e poi si compiace: “Mica male! mi siete riusciti... E dire che non ero neanche in giornata... ! Voi non lo sapete perché ancora non ve l’ho detto ma entrambi siete i proprietari assoluti di questo Eden! E sta a voi decidere cosa farne e come viverci. Ecco la chiave. E gliela getta. Vedete, qui ci sono due alberi magnifici (e li indica), uno – quello di sinistra – dà frutti copiosi e dal sapore cangiante. Questi frutti, se li mangiate, faranno di voi due esseri eterni. Sì, mi rendo conto che ho pronunciato una parola che per voi non ha significato: eternità... Significa che avrete la stessa proprietà che hanno gli angeli e gli arcangeli, vivrete per sempre, appunto in eterno! A differenza degli altri animali non avrete prole, perché, essendo eterni, che interesse avreste di riprodurvi e generare uomini e donne come voi, della vostra razza? L’altro albero invece produce semplici mele, nutrienti e di buon sapore. Ma attenti a voi, non vi consiglio di cibarvene! E sapete perché? Perché non creano l’eternità... ma in compenso, devo essere sincero, grazie a loro scoprirete la conoscenza, la sapienza e anche il dubbio.
Ancora vi indurranno a creare a vostra volta strumenti di lavoro e perfino macchine come la ruota e il mulino a vento e ad acqua. No, non ho tempo di spiegarvi come si faccia, arrangiatevi da voi. ... tutto quello che scoprirete; e ancora queste mele, mangiandole, vi produrranno il desiderio di abbracciarvi l’un l’altro e di amarvi... non solo, ma grazie a quell’amplesso, vi riuscirà di far nascere nuove creature come voi e popolare questo mondo. Però attenti, alla fine ognuno di voi morirà e tornerà ad essere polvere e fango. Gli stessi da cui siete nati.
Pensateci con calma, mi darete la risposta fra qualche giorno. Addio.

No. Non c’è bisogno di attendere, Padre Nostro! – grida subito Eva – Per quanto mi riguarda io ho già deciso, personalmente scelgo il secondo albero, quello delle mele. S devo essere sincera, Dio non offenderti, a me dell’eternità non interessa più di tanto, invece l’idea di conoscere, sapere, aver dubbi, mi gusta assai! Non parliamo poi del fatto di potermi abbracciare a questo maschio che mi hai regalato. Mi piace!!! Da subito ho sentito il suo richiamo e mi è venuto un gran desiderio di cingermi, oh che bella parola ho scoperto cingermi!, cingermi con lui e farci... come si dice?! Ah, farci l’amore! So già che questo amplesso sarà la fine del mondo! E ti dirò che, appresso, il fatto che mi toccherà morire davanti a tutto quello che ci offri in cambio: la possibilità di scoprire e conoscere vivendo... mi va bene anche quello. Pur di avere conoscenza, coscienza, dubbi e provare amore... ben venga anche la morte!
Il Padreterno è deluso e irato quindi si rivolge ad Adamo e gli chiede con durezza: “E tu? ...che decisione avresti preso? Parlo con te, Adamo sveglia! Preferisci l’eterno o l’amore col principio e la fine?” E Adamo quasi sottovoce risponde: “ Ho qualche dubbio ma sono molto curioso di scoprire questo mistero dell’amore anche se poi c’è la fine"." Dario Fo

mercoledì 29 maggio 2013

Contano i voti, non solo le percentuali

     
Contano i voti, non solo le percentuali

- rifondazione -

di Alfonso Gianni -
È passato diverso tempo da quando mi iscrissi al Partito comunista italiano. Per la verità dovrei dire alla Federazione giovanile, ma allora non vi era molta differenza, essendo il grado di autonomia di quest’ultima dal partito praticamente inesistente. Era l’ottobre del 1964. Il segretario del Pci era venuto meno nell’agosto di quell’anno, quindi quel tesseramento prese il nome di “leva Togliatti”.
Tra le prime cose che in sezione mi insegnarono ne ricordo in particolare tre: attacchinare i manifesti, possibilmente senza farsi beccare dalla volante (allora la polizia aveva tempo da perdere), cosa che naturalmente mi successe alla seconda uscita con il secchio di colla in mano; leggere i testi “minori” di Marx (ad esempio “Salario, prezzo e profitto”) per poterli poi spiegare in apposite riunioni a chi non poteva essere avvezzo agli studi; a contare i voti di ogni tipo e grado di elezione, non limitandosi alle percentuali, per percepire esattamente pensieri e umori dell’elettorato e relative linee di tendenza.
Nessuno insegna e fa più queste cose. E si vede. Una piccola parte della crisi della politica, dei partiti e della sinistra in particolare deriva anche da questo, oltre che da fenomeni epocali. Ed è proprio sulla terza questione che conviene soffermarsi all’indomani di un’importante tornata elettorale amministrativa.
Già le elezioni politiche si erano concluse con un sorpasso in discesa e di esigua misura del centrosinistra sul centrodestra, cioè con il contemporaneo arretramento di entrambi e con un bel 25% di elettorato risucchiato dall’astensione. Sono passati pochi mesi e la cosa si ripete ancora peggiorata. Eppure non sembrerebbe, stando alle dichiarazioni trionfanti in particolare degli esponenti del centrosinistra. Il pericolo grillino appare momentaneamente ridimensionato, ma la disaffezione alle urne sale alle stelle.
Prendiamo il test più significativo, quello di Roma, dove almeno si è manifestato un largo distacco tra Marino e Alemanno e dove purtroppo Sandro Medici, schierato alla sinistra di Marino, non ha raggiunto il quorum per entrare in consiglio comunale. Dunque parrebbe un tripudio per il centrosinistra. Ma non lo è se i voti si contano per davvero.
In un quadro generale in cui l’astensione ha toccato vette inimmaginabili fino a poco tempo fa, il Partito democratico prende 267.605 voti, perdendone ben 253.118, quasi la metà. Nel 2008, infatti, aveva raggiunto 520.723 voti, pur perdendo poi nel ballottaggio. Se si guarda ai voti di lista si vede che la somma dei voti ottenuti da tutte le organizzazioni che hanno sostenuto Marino non raggiunge la cifra dei voti del solo Partito democratico nel 2008: infatti si ferma a 433.714, quasi 90 mila voti in meno.
Il confronto viene fatto ovviamente fra elezioni tra loro omogenee. Ma anche se si volesse mischiare carote con patate, considerando nello stesso arco di tempo, elezioni di diverso livello, la linea discendente del centrosinistra risulterebbe confermata.
Come si faccia, quindi, a trarre da queste elezioni amministrative (anche gli altri capoluoghi confermano tendenze analoghe) la conferma di uno stato di salute vigoroso del centrosinistra e per di più sposarlo con il contemporaneo rafforzamento del governo delle larghe intese rimane un mistero politico e aritmetico. Ma più semplicemente si tratta di un’ulteriore perdita di senso della realtà da parte delle elite dirigenti.
L’unica cosa che sembra contare sono le percentuali. Tranne che nel caso del referendum bolognese sui finanziamenti alle scuole private, dove invece i perdenti, con in testa il Pd, si lamentano della scarsa partecipazione al voto, peraltro da loro stessi promossa. La ragione è semplice. Sono le percentuali a determinare comunque l’elezione dei candidati, mentre delle tendenze di lungo corso – riscontrabili solo nell’andamento dei voti effettivi – che mostrano il distacco crescente della popolazione dall’attuale offerta politica e la crisi di credibilità delle formazioni in campo, sembra non curarsi nessuno. Dio acceca chi vuole perdere.
da Huffingtonpost.it

Elezioni: quell'antipolitico populista di Enrico Berlinguer

"I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero."

enrico-berlinguer81.jpgNon mi interessa innescare polemiche su piddini o 5 stelle. Mi interessano invece, e molto, 2 cose:
- La scoperta -dell'acqua calda- che ciò che oggi viene definito "antipolitica" è in realtà espressione della concezione più alta della politica, come dimostrato da questa intervista di cui qui riporto stralci;
- La memoria politica nulla che hanno gli italiani, e la memoria accuratamente cancellata della storia del Partito Comunista, poi PDS, poi DS e poi diluito in dosi omeopatiche nell'attuale PD. L'intervista in oggetto lanciò la cosiddetta "questione morale", che ha letteralmente dominato il dibattito politico italiano per anni. Argomento del tutto dimenticato, così come opportunamente dimenticato è stato il suo portatore, l'onorevole Enrico Berlinguer.
Eccovi la questione morale, in un'intervista a Repubblica del Luglio 1981.
I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss".
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali.
Molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran
parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di
riceverne, o temono di non riceverne più.
Noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando
le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni.
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione,
bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. Quel che deve
interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi;
rischia di soffocare in una palude.
Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili
privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.
Ecco, ricordate oggi queste: le parole di un populista antipolitico. E una questione morale che dopo trent'anni è non solo ancora presente, ma probabilmente ha vinto. Berlinguer, d'altronde, è morto.

Cuba, 4 vaccini contro il cancro. E' il silenzio dei media!

Fonte: http://www.sos2012.it/ | Autore: daniele cardetta
                               
 
Cuba ha sviluppato quattro vicini contro altrettanti differenti tipologie di tumori. Peccato che la notizia sia stata deliberatamente ignorata dai media di tutto il mondo. La censura contro gli avversari politici è dunque più importante della salute degli esseri umani?Cuba ha sviluppato ben quattro vaccini contro altrettanti differenti tipologie di tumori, una notizia straordinaria, ma che i media di tutto il mondo hanno pensato bene di oscurare forse perchè il governo cubano non è propriamente “allineato” al vento del tempo.
A Cuba ci sono i “cattivi”, i comunisti, e quindi non può uscire nulla di buono. Questo è quello che raccontano da anni ad esempio negli Stati Uniti, dove i cittadini americani ancora non possono recarsi nell’isola. Ogni anno secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità muoiono a causa di tumori circa 8 milioni di persone, per questo motivo la scoperta dei medici dell’isola meritava ben altro prestigio e visibilità. Nel 2012 Cuba ha infatti testato il primo vaccino terapeutico contro il cancro al polmone, e nel gennaio 2013 è stato annunciato il secondo, la cosiddetta Racotumomab. Le sperimentazioni cliniche che sono state realizzate in oltre 86 paesi hanno inoltre dimostrato in modo chiaro che questi vaccini ottengono la riduzione dei tumori e sono in grado di permettere una tappa stabile dell’infermità, aumentando così la speranza di vita dei pazienti. Il centro dove sono stati realizzati questi vaccini è il Centro Immunologico Molecolare di L’Avana, a gestione statale, che nel 1985 era stato in grado di sviluppare il vaccino della meningite B, unico al mondo, e poi quelli contro il dengue e l’epatite B. Sempre nel centro cubano ricercatori lavorano da anni anche per sviluppare un vaccino contro l’Hiv-Sida, mentre nel laboratorio Labiofam, sempre a Cuba, si sviluppano da anni medicamenti omeopatici contro il cancro, vedi il Vidatox, ottenuto grazie al veleno dello scorpione azzurro. L’Avana esporta questi farmaci in ben 26 paesi, e forse è proprio per questo che i media hanno silenziato il tutto. Se infatti si sapesse tutto ciò, verrebbe completamente meno lo schema secondo cui la ricerca medico-farmaceutica venga prodotta solamente nei paesi cosiddetti “sviluppati.

Se globale è la finanza e non la legge

      
Se globale è la finanza e non la legge

Pubblicato in micromega

di Guido Rossi, da Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2013 -
Lo scorso martedì una Commissione del Senato americano ha ascoltato Tim Cook, amministratore delegato della Apple, accusata di evasione fiscale per mancato pagamento delle imposte sugli enormi profitti realizzati, attraverso una pianificazione fiscale di una rete di società controllate irlandesi. Il senatore Levin, presidente della Commissione, ha sottolineato durante il dibattito che trenta delle maggiori multinazionali americane, con più di 160 miliardi di dollari di profitti negli ultimi tre anni, non hanno pagato nessuna imposta federale. Il commento significativo di Tim Cook è stato: «Sfortunatamente il sistema fiscale americano (Tax Code) non si è adeguato all’era digitale».
Siamo di fronte all’inquietante ossimoro “evasione fiscale legale”? Paradossalmente, l’Unione Europea, con l’Irlanda, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Austria, è diventata essa stessa paradiso fiscale. Le varie legislazioni interne, in mancanza di una legge comunitaria adeguata, fanno perdere al bilancio dell’Unione un gettito di mille miliardi, cioè una somma cento volte superiore ai dieci miliardi mobilizzati per venire in soccorso a Cipro.
È pur vero che a Bruxelles si vanno preparando proposte di direttive per imporre trasparenza alle multinazionali e scambi di informazioni fra Paesi, ma purtroppo finora queste iniziative e le concordanti autorevoli dichiarazioni appaiono tutte asseverare la pesante definizione apparsa sulla copertina dell’ultimo numero dell’Economist: “i sonnambuli” (The sleepwalkers), a proposito dei maggiori responsabili della politica europea. Infatti, il rischio che alcuni importanti Paesi dell’Unione Europea blocchino o limitino tali riforme rimane assai elevato, mentre per il degrado istituzionale e politico la stessa frode e l’evasione fiscale palesemente “illegali” rimangono perseguite in modi assai discutibili dai vari poteri del singolo Stato, sovente in conflitto fra loro.
Da questo complesso e confuso quadro risultano definitivamente crollate tutte le tesi sbandierate sulla verità e l’efficienza dei mercati, sulla necessità delle politiche di austerità e di tagli alla spesa pubblica, e soprattutto sui rimedi solo economici prospettati per la soluzione di una crisi che la civiltà occidentale sta attraversando a livello non solo economico, ma ormai soprattutto politico e sociale.
L’estrema gravità del problema è dovuta al fatto – come più volte ho sottolineato – che la globalizzazione economica del capitalismo finanziario dell’era digitale non è stata accompagnata da un’adeguata globalizzazione giuridica. Le grandi multinazionali si sono dotate di un loro privato ordinamento interno che, proprio in assenza di un diritto globale, tende a favorire la legalità della frode e dell’evasione fiscale.
A questo fenomeno, non si può non collegare una povertà sempre più diffusa, la concentrazione di enormi ricchezze in pochissimi, quell’uno per cento, oggi indicato come privilegiato da Manuel Castells (Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di internet, Milano, 2012), rispetto a quel 99 per cento degli esclusi, vittime di ineguaglianze che mettono a repentaglio le stesse istituzioni politiche che, con la democrazia e il diritto, avevano finora accompagnato le varie fasi dello sviluppo del capitalismo.
Il “conflitto di interessi” che sembrava alla fine del secolo scorso costituire il vero malanno epidemico del sistema economico, si è oggi decisamente trasformato in un “conflitto di poteri” fra le grandi corporations e gli Stati, i quali vanno via via palesando in vari modi la loro sconfitta rispetto ai grandi gruppi societari multinazionali che li hanno superati, persino nella classifica delle maggiori economie mondiali. La sovranità degli Stati si è di fatto trasferita altrove e l’impotenza della politica ne è a sua volta sia la causa sia la conseguenza, quasi a confermare che ormai lo Stato – nazione, per conservare la propria sovranità come comunità politica, si deve chiudere al libero commercio con qualsivoglia altra comunità vicina. Così la descrisse già nel 1800 l’insigne filosofo J.G. Fichte (Die Geschlossene Handelstaadt), che pur forse aveva, come rilevò Benedetto Croce, «lo statalismo nelle ossa». Insomma, la globalizzazione equivarrebbe necessariamente alla perdita della sovranità statale. E questa perdita ha peraltro prodotto già in molti Paesi, come l’Italia, un esasperato conflitto di potere fra i vari organi dello Stato, dove o l’indifferenza o una sorta di dominio direttamente o indirettamente repressivo, ha stroncato attività imprenditoriali aumentando disoccupazione e disagio sociale.

Depressione, e non recessione

di Roberto Romano - sbilanciamoci -
I dati Eurostat mostrano che parlare di recessione è ormai un eufemismo a buon mercato. Nel periodo 2008-2012 l'Italia ha strutturalmente imboccato la strada della depressione
La crisi economica internazionale ha colpito tutti i paesi a capitalismo avanzato. A partire dal 2008 tutti i principali indicatori economici europei, Pil, occupazione, investimenti, produzione industriale, hanno il segno meno davanti ad ogni indicatore da almeno 4 anni, ma l’Italia ha manifestato una caduta di reddito, occupazione, produzione e investimenti molto peggiore della media dei paesi europei. Per l’Italia, infatti, più che di recessione è più corretto parlare di depressione. La crisi ha costretto un po’ tutti i Paesi a misurarsi con una situazione inedita e senza precedenti, se non per alcuni tratti simile alla grande crisi del ’29, ma l’Italia ha indicatori economici (Eurostat) che travalicano la recessione economica: il nostro paese consuma (brucia) il presente e, aspetto ben più grave, rinuncia al futuro.
Utilizzando i dati Eurostat (2008-2013) relativi a Pil, investimenti, produzione industriale e al tasso di occupazione, indicatore molto più rappresentativo della crisi occupazionale, l’Italia è un paese in piena depressione. I tassi di crescita del Pil (cumulati) tra il 2008 e il 2013, prendendo per buone le previsioni per 2013 di Eurostat e Def, sono negative per 8,3 punti percentuali, contro una crescita del 4,3% della Germania. Nel periodo considerato nessun paese di area euro è riuscito a fare peggio. Solo la Spagna si avvicina un po’ all’Italia con una crescita negativa di 5,6 punti percentuali. Quindi l’Italia ha maturato un gap di crescita molto prossimo a quello di un paese sull’orlo di un precipizio. Non bisogna mai dimenticare che un punto di Pil è pari a quasi 15 mld di euro.
Ma come spesso accade, dietro il Pil si celano fattori e oggetti che meglio di altri fotografano la crisi di struttura. Infatti, tra il 2008 e il 2012 i tassi di variazione della produzione industriale cumulata è pari a meno 21%. Tutti i paesi hanno eroso una parte della propria struttura produttiva, ma il meno 21 per cento dell’Italia non regge il confronto con nessun paese europeo. L’area euro tra il 2008 e il 2012 ha contratto la propria produzione di 10 punti percentuali, mentre la Francia, altro grande ammalato dell’Europa, ha perso il 16%. Quindi, solo l’Italia ha compromesso così in profondità la sua struttura produttiva.
Gli effetti sociali potevano anche essere peggiori se non ci fosse lo stato sociale, al quale, però, non si possono chiedere miracoli.
Le ricadute occupazionali, più precisamente il tasso di occupazione, sono senza precedenti storici. Se consideriamo che il tasso di occupazione dell’Italia, già mediamente più basso di 7 punti percentuali di quello medio europeo, l’ulteriore contrazione di 2 punti percentuali intervenuta tra il 2008 e il 2012, la maggiore tra i paesi di area euro, è lecito sostenere che l’Italia non è più un Paese europeo. La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, fanno dell’Italia un malato particolare. Parlare di recessione è un eufemismo a buon mercato. L’Italia ha strutturalmente imboccato la strada della depressione.
Ma la situazione economica e industriale è ancora più grave se guardiamo al futuro, cioè alla volontà del sistema industriale nazionale di uscire dalla crisi attraverso nuovi investimenti. L’Italia è sempre stato un paese che ha investito più della media dei paesi europei, ma il crollo intervenuto tra il 2008 e il 2012 ha un significato economico storico e senza precedenti. Infatti, l’industria italiana ha sempre investito per inseguire i paesi che generavano innovazione, cioè gli investimenti, pur non giocando il ruolo strategico che meritavano, hanno concorso a tenere agganciato il paese all’Europa; nell’attuale situazione, invece, le imprese italiane de-industrializzano. Utilizzando sempre i dati Eurostat, il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17 per cento tra il 2008 e il 2013, contro una media europea del meno 10 per cento. Non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo. Per esempio, nello stesso periodo, la Germania ha investito il 5,5 per cento in più, la Finlandia l’1 per cento e gli Stati Uniti il 6,5 per cento. In qualche modo l’industria italiana produce beni di consumo immediati, e non si preoccupa più della produzione futura.
Il governo Letta punta su un riordino della pressione fiscale e qualche altro intervento di tutela del lavoro, ma l’impressione è quella di un governo, ma forse anche di un Paese, che ha deciso di rimuovere dalla discussione politica dai problemi veri del paese. Prima iniziamo a discutere di questi problemi, cioè di depressione, de-industrializzazione, assenza di investimenti, meglio sarà per tutti.
Solo in questo modo sarà possibile discutere dell’abissale distanza dell’Italia dai paesi che formano l’euro, e impostare una discussione seria su industria, bilancio, occupazione e giovani.

martedì 28 maggio 2013

SERBIA: Ritmi infernali alla Fiat di Kragujevac. E l’operaio sfregia le auto

- eastjournal -

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Un operaio dello stabilimento Fiat di Kragujevac, in Serbia, ha danneggiato trentuno automobili 500L, il nuovo modello del Lingotto in produzione da marzo nell’impianto serbo. Il motivo? Era scontento del salario e delle condizioni di lavoro. La notizia è riportata oggi, 28 maggio, dai giornali di Belgrado secondo cui l’episodio di protesta sarebbe avvenuto durante il turno di notte fra venerdì e sabato scorsi. Il danno complessivo alle macchine non sarebbe indifferente: ben 50mila euro.
E adesso toglietevi quel sorrisetto dalla faccia. Perché son sicuro che la maggior parte di voi, leggendo questa notizia, ha provato un minimo di soddisfazione. È normale, non sentitevi troppo in colpa: fa parte dell’innata voglia di parteggiare per i più deboli contro i più forti, di stare con i lavoratori e contro i “padroni”. Ma bisognerebbe invece cercare di capire.
Zoran Mihajlovic, vicepresidente dell’Unione dei sindacati indipendenti della Serbia, ha commentato all’Ansa: “Condanniamo l’episodio, ma al tempo stesso va detto che la situazione in fabbrica non è affatto piacevole. Ci sono un gran numero di lavoratori sottoposti a forte pressione fisica e psicologica. Si lavora a ritmi infernali e sotto forte stress”. Il sindacato, pur condannando l’episodio, ha comunque sottolineato l’atmosfera di crescente insofferenza nei confronti del management che si respira in fabbrica.
Mentre i 2.400 operai infatti sono tutti serbi (o quasi), i “capi” sono tutti italiani. E questo non aiuta nella comprensione reciproca. Tanto più se si obbliga una persona a lavorare dodici ore al giorno per 306 euro al mese. Questo è infatti quanto mediamente prendono gli operai Fiat a Kragujevac. Solo recentemente il turno è stato ridotto a otto ore lavorative, ma questo non ha raffreddato gli animi.
Il danneggiatore (che in realtà potrebbe essere anche più di uno) ha tracciato sulle carrozzerie delle macchine scritte ingiuriose nei confronti degli italiani: “Mangiatori di rane andate via dalla Serbia”. Una richiesta quanto meno inusuale in un Paese dove la disoccupazione è al 25% e pur di lavorare si accettano paghe da fame. Come quelle che offre la Fiat: 34mila dinari al mese, appunto poco più di 300 euro, quando perfino il salario medio in Serbia è più alto, all’incirca 46mila dinari (414 euro).
È ovvio che c’è qualcosa che non quadra nella gestione dell’azienda, nelle regole del mercato, nei governi serbo e italiano che rendono possibile questa situazione, nelle persone che sono costrette ad accettare umiliazioni lavorative pur di portare a casa uno stipendio.
Ma a tutto c’è un limite e la situazione resterà tale solo finché qualcosa non cambierà. Perché se il gesto dell’anonimo danneggiatore facesse scuola sarebbero gravi problemi per Marchionne e gli “Elkagnelli”. La Fiat ha infatti puntato tantissimo sulla nuova 500L e sul mercato statunitense cui è destinata. Già nella scorsa settimana è partita una nave con le prime 3.200 vetture Fiat con destinazione Baltimora (Usa) e certamente la Fabbrica Italiana Automobili Torino (sic) non si può permettere un’interruzione della produzione proprio adesso.
Chissà che i serbi con le loro proteste non riescano a ottenere in pochi mesi quello che sindacati e operai italiani ormai si sognano da decenni: un miglioramento delle condizioni lavorative.

Finanza: masters of Universe, ovvero una banda di ladri

di Giulietto Chiesa - ilfattoquotidiano -

Il crollo della Borsa di Tokyo (-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui. Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi: la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo? Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley) hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa. Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare?
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE, e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni.

lunedì 27 maggio 2013

Bologna: risultato positivo e per nulla scontato

    
Bologna: risultato positivo e per nulla scontato

Bologna: risultato positivo e per nulla scontato

di Paolo Ferrero -
A Bologna il 60% dei votanti nel referendum ha detto di NO al finanziamento della scuola privata. Si tratta di un risultato positivo e per nulla scontato visto lo schieramento di forze a favore del finanziamento alle private. Adesso molti diranno che il risultato non è rilevante perché ha votato solo il 28% degli aventi diritto. Posto che a Roma chi vincerà le elezioni sarà sindaco anche se votato da pochi cittadini, non bisogna farsi confondere da questo ragionamento: basta pensare a cosa direbbero se il 60% l’avessero preso loro! Abbiamo vinto e adesso il Comune di Bologna tenga fede alla decisione dei cittadini bolognesi abolendo il finanziamento alle scuole private.

Il discreto collasso dell’economia italiana

di Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science (LSE)
- beppegrillo -
"Mentre l’attenzione sulla crisi dell’euro è focalizzata principalmente su Grecia e Cipro, non è un mistero che l’Italia - con la Spagna - sia la vera sfida per il futuro della moneta comunitaria. Nel silenzio della stampa internazionale, la condizione della macroeconomia italiana non mostra alcun segno di miglioramento: anzi, numerosi indici ritraggono un’economia nazionale in depressione piuttosto che in severa recessione. Non è esagerato affermare che l’economia italiana sta crollando. L’Italia è la terza economia dell’eurozona, dopo la Germania e la Francia, ed ha contratto il più grande debito pubblico (più di duemila miliardi di euro) che è andato crescendo ad un ritmo sorprendente, persino in tempi recentissimi ed in particolare in rapporto con il PIL (130%), visto che quest’ultimo sta rapidamente contraendosi. Come è possibile che un tale debito sia sostenibile? Infatti non lo è! Per il momento, grazie alla BCE (che ha acquistato 102,8 miliardi di euro di debito italiano tra il 2011 e il 2012) e specialmente al meccanismo LTRO, le finanze italiane hanno potuto essere tenute a galla. Le banche italiane hanno potuto assorbire 268 miliardi di euro di liquidità emessa dalla BCE grazie al programma LTRO, il cui meccanismo è il seguente: "Dato che la BCE non può prestare liquidità agli Stati, eccetto in caso di emergenza estrema e per ragioni di stabilizzazione dei mercati finanziari a breve termine, la presta alle banche che acquistano titoli di credito governativi". E’ interessante notare che LTRO funziona come strumento per permettere il ritiro in buon ordine degli investitori internazionali dall’Italia, specialmente francesi e tedeschi, la cui quota detenuta di debito italiano è passata dal 51% al 35%, facendo sembrare che fossero le banche italiane a ricomprare il debito nazionale. Questo è un segnale importante, che va in senso contrario alla interdipendenza che ci si aspetterebbe nel quadro di un’unione monetaria e di una prossima unione politica dell’eurozona. E’ realistico pensare che molti investitori stiano riducendo sistematicamente la loro esposizione in Europa del Sud, nella speranza che una prossima uscita dall’euro avrà per loro conseguenze meno gravi. Per gli euroscettici significa che, una volta che gli investitori stranieri si saranno ritirati, l’Italia verrà abbandonata al suo destino.
La verità è che lo Stato Italiano è fallito nell’estate del 2011, quando gli interessi del debito nazionale andarono fuori controllo e, come risultato, l’Italia perse l’accesso ai mercati finanziari. Ma, a causa dell’importanza dell’Italia come realtà economica e come DEBITRICE, la BCE e le autorità politiche europee hanno acconsentito alla creazione artificiosa di una parvenza di mercato attorno alla finanza pubblica italiana. L’Italia avrebbe dovrebbe rimanere sotto questa tutela fino a quando la situazione economica interna non fosse migliorata migliori insieme alla fiducia dei mercati per tornare ad accedere al mercato del credito. Ma questo purtroppo non avviene e non ci sono segni che lascino sperare che ciò accada nei prossimi anni. La situazione dell’economia italiana è semplicemente drammatica.
Recentemente è apparso un rapporto che rivela come la crisi attuale (2007-2013) sia molto peggiore di quella del 1929-1934. Nella presente crisi gli investimenti sono crollati del 27.6% in cinque anni, contro il 12.8% della recessione tra le due guerre. Il PIL è sceso del 6.9% contro il 5.1%. L’Italia, il cui comparto manufatturiero è secondo in Europa dietro la Germania, ha perso il 24% della sua produzione industriale, tornando ai livelli del 1980. Nessun dato mostra segni di ripresa. Dal’inizio dell’anno, il Paese ha perso più di 31.000 aziende ed ogni giorno chiudono 167 punti vendita al dettaglio, un’autentica disintegrazione del settore della distribuzione. Il settore dell’auto, uno dei più importanti, non fa che contrarsi: dai 2,5 milioni di vetture vendute nel 2007 siamo giunti ai 1,4 milioni di oggi, come nel 1979 e continuano a scendere. L’edilizia, altro pilastro dell’economia nazionale, è alla rovina: la caduta del 14% nel 2012 è l’ultima di una lunga serie. Le vendite di alloggi sono scese del 29% nel 2012 rispetto al 2011 che fu una catastrofe, fino al livello del 1985 di 440.000, la metà del 2006. L'impatto di questa tendenza sull’impiego è drammatico: la disoccupazione e’ giunta al 12% e sale rapidamente. Mezzo milione di lavoratori sono in cassa integrazione, e appare certo che a breve termine perderanno il loro impiego invece di essere reintegrati nel ciclo produttivo. Lo Stato Italiano si è finora arrabattato per difendere la propria posizione finanziaria per mezzo di ulteriori tassazioni, piccole riduzioni di spesa e altri prestiti. Come illustrato prima, lo schema di questi nuovi prestiti è stato architettato con la BCE e il settore bancario. La tassazione ha raggiunto livelli record, e con la stretta creditizia sta asfissiando l’economia interna. I tagli di spesa sono stati applicati fino ad un certo punto ma, come l’aumento delle tasse, hanno un effetto deprimente sull’economia per non parlare della loro difficile applicazione in un sistema clientelistico per non dire apertamente cleptocratico come quello Italiano.
Sotto la pressione della UE l’Italia si è impegnata a misure rigorose di controllo della spesa pubblica, fino ad introdurre un emendamento costituzionale per farle rispettare. Sembra assurdo ma il bilancio dello Stato appare in attivo se non si considerano gli interessi passivi sul debito, ma questo è dovuto al fatto che lo Stato spesso “dimentica” di pagare i suoi fornitori: lo scoperto nei confronti delle aziende fornitrici ammonta a una cifra oscillante fra 90 e i 130 miliardi di euro. Non è difficile immaginare che, in pochi mesi e malgrado le nuove tasse, il collasso di interi settori dell’economia interna causerà un rapido abbassamento degli incassi di imposte. Visto che non sembra possibile contrarre nuovi prestiti e che in Italia parlare di misure di austerità è una barzelletta, lo Stato italiano si troverà senza vie di uscita possibili e saranno necessarie nuove misure della BCE.
Essenzialmente, una forma di fallimento assistito e controllato. Ma, dati gli ordini di grandezza dell’economia e del debito pubblico italiani, ciò è semplicemente impossibile. In assenza di qualsiasi consenso politico riguardo ad una politica monetaria radicalmente diversa della BCE, il solo scenario realistico sarà quello di una rinegoziazione o di una ristrutturazione del debito, come suggerito da Nouriel Roubini in una precisa analisi pubblicata circa 18 mesi fa. Il collasso della finanza pubblica italiana sta avvicinandosi rapidamente ed avrà un enorme impatto sull’Eurozona e sulla UE."
Versione originale in lingua inglese

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