Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 13 aprile 2013

La finanza non recede

Fonte: il manifesto | Autore: Andrea Baranes
             
«Alla ricerca di aiuto, le banche spostano i rischi negli angoli più oscuri» (dei mercati finanziari). È il titolo di un articolo apparso in questi giorni sul New York Times. Il buon senso vorrebbe che in un momento di difficoltà si diminuisse l’esposizione al rischio. Al contrario, per non rinunciare a profitti potenzialmente elevati, diverse banche continuano a tenere in piedi operazioni estremamente avventate, poi rivendono e trasferiscono una parte dei rischi su soggetti a vocazione speculativa, quali gli hedge fund. Peccato che spesso anche fondi pensione e di investimento, ovvero lavoratori e piccoli risparmiatori, vadano poi a investire negli stessi hedge fund, alimentando una catena di Sant’Antonio del rischio globale.

Come prima, peggio di prima. Ricordiamo come nel 2007 una crisi del settore immobiliare statunitense e dei mutui subprime in particolare, si è trasformata in pochi mesi in una catastrofe finanziaria mondiale. Anche chi non aveva nessuna garanzia – i clienti subprime, appunto – otteneva un mutuo sul 100% del valore della casa che voleva acquistare perché le banche si disfacevano immediatamente del mutuo trasformandolo in uno strumento finanziario (tramite un’operazione chiamata di cartolarizzazione), impacchettandolo nelle famigerate “salsicce finanziarie” e rivendendolo così mimetizzato sui mercati finanziari di tutto il mondo.
Ancora peggio, nei diversi passaggi i mutui venivano trasferiti nel sistema bancario ombra, un sottobosco di società registrate nei peggiori paradisi fiscali del pianeta, che operano come banche senza dovere però sottostare alle regole e ai controlli previsti per il sistema bancario. Quando alcuni mutuatari hanno iniziato a non pagare più le rate, nessuno sapeva più dove fossero finiti questi mutui subprime . L’intero castello di carte è crollato. In breve tempo è esplosa una crisi finanziaria e ancora prima una crisi di fiducia sui mercati mondiali. Una crisi che ha causato la peggiore recessione degli ultimi decenni ed è costata decine di migliaia di miliardi agli Stati che sono dovuti intervenire per salvare il sistema finanziario che l’aveva provocata. Dal G20 ai diversi capi di Stato e di governo, la posizione però era chiara: mai più una simile follia, ora e subito regole ferree per impedire altri disastri. Parole durissime e che non lasciavano spazio a dubbi. Parole. Perché nei fatti stiamo ancora aspettando. A distanza di sei anni dall’esplosione della bolla dei mutui subprime la pratica delle cartolarizzazioni è immutata, i paradisi fiscali godono di ottima salute, il sistema bancario ombra prospera, più opaco che mai. In questa fase di incertezza, le banche addirittura intensificano simili attività. In questo modo si possono moltiplicare i profitti privati finché le cose vanno bene, socializzando le perdite quando il giocattolo si rompe. Un altro vantaggio è che tali operazioni permetterebbero di superare i paletti che potrebbero essere messi con le regole pensate per diminuire il rischio bancario, oggi in discussione negli Usa e in Europa. La finanza si è già inventata degli stratagemmi per eludere delle regole che non esistono ancora, mentre non si approva nemmeno su una misura di buon senso come una tassa sulle transazioni finanziarie. Le banche possono “giocare” -con i loro bilanci, spostando le attività più rischiose nel sistema bancario ombra, mentre la Troika impone un ferreo controllo sui bilanci pubblici. Le grandi banche continuano a lavorare con leve finanziarie di 50 a 1 o anche superiori – attivi che sono il 5000 per cento del patrimonio – ma Se uno Stato europeo supera il 60% di rapporto tra debito e Pil deve rientrare a tappe forzate dall’eccesso di debito o pagare pesanti sanzioni. E via discorrendo. Non è nemmeno più questione di regole. È una questione politica e culturale. La più gigantesca operazione di marketing della storia, che sentiamo ogni giorno quando ci ripetono che la crisi è legata all’eccessiva spesa pubblica e che dobbiamo ora accettare piani di austerità e misure lacrime e sangue. Non è vero. È un gigantesco casinò che ha preso il posto della finanza, e che bisogna chiudere una volta per tutte. Il motivo è riassunto in uno degli slogan di Occupy Wall Street: questa non è una recessione. È una truffa.

If…


10. New Man 1923 by El Lissitzky 1890-1941Augusto Illuminati
Se qualche commentatore avesse notato gli impercettibili segni di stranezza che qua e là affioravano nella vita politica e sociale italiana, tipo infinite discussioni e poi DL con relativa conversione, decreti applicativi e circolari interpretative – per che cosa? per stabilire che lo Stato e le amministrazioni locali dovevano pagare nel giro di due anni prestazioni private regolarmente fatturate. Roba che se io non saldo una multa mi pignorano la casa e se prendo la merce e scappo il negoziante chiama la polizia o magari mi mena.
Intanto volge al termine il secondo mese di governo assente nell’incessante degrado dell’economia e della società, a dimostrazione che la catastrofe è che tutto continui come prima. Dalla finestra guardiamo il nostro futuro in terra greca.
Se qualche commentatore si fosse preso la briga di capire come mai il principale partito della sinistra italiana, il Pd, avesse fatto una sfrenata campagna elettorale a favore dell’alleanza con Monti e poi, a elezioni svolte con magri risultati per entrambi, avesse corteggiato con altrettanta frenesia e palese masochismo (i colloqui riservati sputtanati in streaming) il M5S, per ripiegare infine sulle larghe intese con Berlusconi, ma soprattutto perché in quest’ultima fase fosse nata una robusta corrente che invocava a nuovo segretario un ministro dell’uscente governo Monti, Fabrizio Barca, neppure iscritto al Pd – altro che primarie! Il quale Barca, benigno, declina l’offerta di segreteria e si dice disposto soltanto a iscriversi come membro del gruppo dirigente. Il bello è che probabilmente è meglio degli altri concorrenti e perfino Sel è entusiasta di lui. Difficile immaginare un Papa straniero ai tempi di Togliatti, devo proprio essere invecchiato.
Invece i grillini si girano i pollici, occupano simbolicamente il parlamento e discettano sulle commissioni ordinarie senza governo e sul costo della vita romana per i deputati. Non sfruttano minimamente la loro forza parlamentare (né per compromessi governativi né per ribellioni di sistema) e neppure la supportano con iniziative fuori dai palazzi. Il Terzo Stato si riunì (non simbolicamente) nella sala della pallacorda. I bolscevichi sgombrarono l’Assemblea costituente. Dissero che il Terzo Stato era tutto e che la guardia era stanca, seguirono determinati fatti. Qualcosa frena invece il M5S. Non si capisce cosa.
A dire il vero, non si capisce neppure perché il Pd non abbia colto l’occasione per fare pressione sul suo progetto “di battaglia”, evidentemente in via di dismissione. I palazzi si sono lentamente svuotati, man mano che gli occupanti uscivano a far pipì. Forse potrebbero imparare dagli occupanti le case di Caltagirone, quelli che fanno gridare all’anarco-terrorismo la stampa padronale e il sindaco Alemanno.
Se qualche commentatore si fosse preso la briga di studiare tale sintomi, avrebbe pure notato la stupefacente somiglianza (a parte i capelli) fra l’arrogante ottusità dell’analista bancario Davide Serra («uno dei migliori al mondo» per autobiografia, sponsor e ideologo economico di Matteo Renzi) e Gianroberto Casaleggio, profeti rispettivi della finanza come servitrice del risparmio e del web come democrazia assoluta, entrambi fautori dell’uno vale uno (le libere decisioni dell’investitore e del cittadino-utente in rete). Anche lo stile delle loro affermazioni apodittiche e di come insultano i contraddittori risulta palese. Questo alla voce “il nuovo che avanza”. Fa quasi rimpiangere la palude dei partiti, l’affidabile routine della corruzione clientelare. Ultimo tentativo di restaurare la rappresentanza lucidando le scarpe sfasciate.

venerdì 12 aprile 2013

"Grecia, una sola speranza: la solidarietà attiva e il resistere tutte insieme!" Intervento di Sonia Mitralia

Autore: sonia mitralia        - controlacrisi -
Sonia Mitralia è componente dell’Iniziativa delle donne contro il debito e le misure d’austerità, Grecia, Comitato greco contro il debito e del ADTM (Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo) internazionale.
In Grecia noi donne stiamo subendo un regresso storico senza precedenti nei nostri diritti e nella nostra vita quotidiana. Ed ecco in cosa si riassume questa vita quotidiana nella Grecia ai tempi della Troika: insicurezza e miseria estreme, repressione e dipendenze, violenze, esclusione dall’accesso alle cure …disperazione! Disperazione perché la Troika e i suoi servitori locali persistono, sadicamente e sempre di più, in questa politica catastrofica e improduttiva che ha già demolito lo stato previdenziale in meno di tre anni, ha fatto andare in pezzi l’economia, ha provocato la recessione, la disoccupazione di massa… (...)Le cifre del debito sono spietate: il debito pubblico era di 299 miliardi di dollari nel 2009, ossia il 129,3 del PIL prima degli accordi con la Troika. Nell’anno 2011, secondo le cifre del governo, hasuperato i 368 miliardi, 169 % del PIL e secondo altre stime potrebbe superare il 200% nel 2020.
Come non disperarsi, quando la maggioranza schiacciante della popolazione, uomini e donne,subisce gli effetti disastrosi di queste politiche, che non risolvono il problema del debito e ci fannosempre di più sprofondare nella crisi umanitaria, nel caos, sempre di più, e tutto ciò… per niente!
La vita delle donne in questa Grecia governata dalla Troika.
Prima di tutto il diritto al lavoro è andato in pezzi. L’arma del debito ha rovesciato la tendenza storica al miglioramento continuo della posizione delle donne sul mercato del lavoro dagli anni ’80 in poi. Siamo ormai al regresso, non passeggero, ma storico. Prima della crisi la disoccupazione femminile arrivava al 12%, ora tocca ufficialmente tassi del 29%-30%. E per le giovani donne dai 15 ai 24 anni arriva al 61%... una vera catastrofe per chi realizza di non vere più futuro! Ormai ci sono più persone inattive (soprattutto donne) che attive. E un terzo di quelle che lavorano non sono pagate. Nei supermercati spesso le commesse sono pagate in prodotti.
Quanto al diritto alla maternità libera o alla libera scelta di decidere se avere figli, è lettera morta: quale ironia della storia! Sono quarant’anni che ci battiamo contro la maternità forzata e oggi ci rifiutano il diritto di avere un figlio …
La povertà, la miseria, l’insicurezza hanno già provocato un calo delle nascite del 15 %. Tre milioni di greci senza copertura sanitaria devono ormai pagare l’accesso alle cure, che sono privatizzate e commercializzate.
Un esempio: il parto non è più gratuito da molto tempo, ma ora costa caro, molto caro: 800 euro e 1600 per il cesareo.
Ecco quel che dice l’ordine dei medici greci – piuttosto conservatore – in un recente comunicato: “Esiste il dramma quotidiano delle donne incinte che
vengono per partorire con il cesareo, ma che non possono farlo, perché non possono pagarlo”. “Queste donne sono dunque costrette a partorire in
strada, con il rischio di morire o di far nascere un bambino infermo a vita”.
Ed inoltre anche quelle che possono pagare “partoriscono in alcuni ospedali senza la presenza di ginecologi perché vi è carenza di personale a causa dei tagli di bilancio”!
La rapina del secolo.
Ma c’è di peggio. Tutto lo stato previdenziale greco è praticamente distrutto. Il risultato è che tutti i servizi pubblici di cui prima si faceva carico lo Stato, dagli asili agli ospizi per anziani e anche le cure mediche sono ora prese in carico … dalle donne in famiglia. E tutto ciò gratis, senza che nemmeno si riconosca questo lavoro non retribuito. Lavoro che ha un valore economico veramentesmisurato, tanto che possiamo a giusto titolo chiamare tutto ciò la più grande rapina del secolo!
L’enorme somma di denaro così risparmiata in questa tipica operazione neoliberista va direttamente al pagamento del debito. Perché? Perché secondo il dogma neoliberista, occorre dare priorità assoluta al soddisfacimento dei creditori e dei banchieri e non già ai bisogni elementari dei cittadini!
Avete mai sentito parlare di tutto ciò? No, nessuno si prende nemmeno la pena di menzionare questa rapina colossale di oltre centinaia di miliardi di euro.

Joseph Stiglitz

Più Europa o meno euro: l’Italia non può restare a metà del guado


Record dei senza futuro

   
Record dei senza futuro

Pubblicato il 12 apr 2013

di Roberto Ciccarelli -
C’è un dettaglio nel bollettino che ieri la Bce ha pubblicato sullo stato dell’occupazione nell’Eurozona. Un dettaglio importante. Poche righe che riguardano l’aumento della disoccupazione strutturale che aumenterà insieme a quello congiunturale nel 2013. Quest’ultima oscilla tra il 9 e l’11%, con punte fino al disastroso 27% in Grecia. A fine 2012 il tasso di disoccupazione aveva già raggiunto un «livello senza precedenti», scrive la Bce, passando dal 7,6% del 2007 all’11,4% di cinque anni dopo. Di questa percentuale, che corrisponde a 25 milioni di persone, la metà (il 3,8%, 6,5 milioni di persone) non riuscirà più a trovare un lavoro. L’uscita dalla crisi, se e quando ci sarà, non produrrà nuova occupazione, e lascerà sul campo persone non «riconvertibili». I loro posti di lavoro non ci saranno più. La Bce si sofferma su un altro dettaglio fino ad oggi poco considerato nelle lamentazioni sulla disoccupazione, ma fondamentale per chi considera la forza-lavoro a partire dal suo «capitale umano». «Quanto più a lungo i disoccupati restano senza lavoro – si legge – più è probabile che le loro competenze diminuiscano e che il loro capitale umano si deprezzi. Gli individui che accumulano periodi di disoccupazione più lunghi possono essere considerati meno favorevolmente dai potenziali datori di lavoro, rendendo più difficile paer loro trovare un nuovo impiego».
Assistiamo ad un doppio processo: da un lato, la recessione brucia posti di lavoro e rende «inoccupabili» 6,5 milioni di persone. Dall’altro lato, per chi aspira a trovare un nuovo impiego, si registra la crescente obsolescenza delle «competenze». Quando tornerà la crescita sarà necessario riqualificare il «capitale umano» di queste persone, altrimenti destinate a perdere la speranza di trovare un lavoro. Tutto sembra far pensare che sarà così. Per la Bce nel 2013 «la situazione è destinata a peggiorare». La ripresa inizialmente prevista nella seconda parte dell’anno, ieri è stata ufficialmente posticipata al 2014 quando si prevede una «graduale ripresa che è soggetta a rischi al ribasso». L’appuntamento mancato con la crescita è dovuto alla frattura tra finanza e economia reale. I miglioramenti osservati sui mercati finanziari dopo l’estate 2012 non sembrano trasmettersi all’economia reale mentre, i tagli al bilancio nel settore pubblico e privato insieme alla stretta sul credito «seguiteranno a gravare sull’attività economica» conferma l’istituto guidato da Mario Draghi.
Ecco come un dettaglio può rivelare la verità sul fallimento delle politiche ispirate al paradosso dell’«austerità espansiva»: il taglio del debito sovrano, e il contenimento del disavanzo pubblico penalizza l’economia reale, e quindi i mercati. Eppure i mercati continuano a chiedere la sostenibilità dei conti, unica condizione per la crescita economica. Servirebbe l’unione bancaria, sospira l’Euro Tower di Francoforte, che però resta in stand by in attesa delle elezioni tedesche di settembre.
Considerata dal punto di vista italiano, questa situazione presenta un aspetto ancora più fosco. Lo rileva l’Istat che ieri ha reso noti gli indicatori complementari sulla disoccupazione aggiornati al 2012. Anche in questo caso, bisogna fare attenzione al lato strutturale della disoccupazione. L’Istat parla infatti di «inattivi» che l’anno scorso hanno superato il record del 2004: sono 2 milioni 975 mila, 78 mila in più (2,7%) rispetto al 2011. Rispetto all’Eurozona questo dato è addirittura il triplo della media (3,6% rispetto alla disoccupazione). Cosa significa? Che in Italia gli inattivi, cioè coloro che non cercano più un lavoro (scoraggiati), i giovani neet, i disoccupati cronici, sono più numerosi dei disoccupati in senso stretto (2 milioni e 700 mila). In Europa accade l’opposto: i disoccupati sono il doppio rispetto agli inattivi (8.800 milioni). Tecnicamente queste persone vengono definite «forza-lavoro potenziale», cioè occupabile. Ma che resterà a lungo in questa condizione perché non troveranno un posto di lavoro, né lo cercheranno. In 5 anni la crisi ha prodotto in Italia 1,2 milioni di disoccupati in più. Cresceranno ancora. Sono i «costi umani» della guerra economica in corso.
Il Manifesto – 12.04.13

GRECIA: Affari d’oro.

 Come le multinazionali (straniere) sfruttano la crisi

Foto Kalkidiki
Nella penisola di Halkidiki*, nella Grecia nord-orientale, le multinazionali straniere stanno per fare, letteralmente, affari d’oro. Attratte dalle ricchezze minerarie della regione e facilitate dall’instabilità economica del paese, le compagnie minerarie si sono accaparrate i diritti di estrazione e intendono cominciare a sfruttare le risorse aurifere della penisola il più presto possibile. Gli abitanti, invece, non intendono trasformare le loro risorse naturali in merce di scambio, e si oppongono strenuamente ai piani di sfruttamento delle loro risorse.
Tutto ebbe inizio nel 2011, quando la compagnia Hellas Gold, filiale della multinazionale canadese Eldorado Gold Corporation, ottenne dallo stato greco i diritti di estrazione sulle miniere della penisola, ad un prezzo ben al di sotto del loro valore di mercato e in assenza di alcuna gara d’appalto. Lo stato greco, infatti, aveva fretta di riparare al fallimento della società canadese TVX Gold, operativa nell’estrazione di oro nella penisola fino al 2003, anno in cui dichiarò bancarotta lasciando senza stipendio i suoi oltre 400 lavoratori. Così, oltre ad offrire condizioni particolarmente vantaggiose, lo stato greco esentò Hellas Gold dalla riparazione del danno ecologico causato dalla società che l’aveva preceduta. Oltre al danno, la beffa: l’inquinamento peggiorerà, dato che il proseguimento dell’attività estrattiva da parte di Hellas Gold prevede l’uso del cianuro, una tecnica considerata ad alto rischio ambientale, ma non ancora bandita in Grecia.
L’altro lato della medaglia
Gli abitanti della penisola, invece, temono le conseguenze devastanti che la riapertura delle miniere comporterà, soprattutto in termini ambientali. Antiche foreste come quelle attorno al villaggio di Skouries saranno rase al suolo, mentre ingenti risorse idriche, abbondanti nella penisola, verranno sprecate nel processo di estrazione e inquinate dai materiali di scarto. Per non parlare dei rifiuti tossici che potrebbero inquinare irrimediabilmente il suolo della penisola. Qualche migliaio di posti di lavoro, affermano gli oppositori del progetto, non giustificano una tale devastazione ambientale. Anche perché le attività lavorative termineranno una volta esaurito l’oro da estrarre (la stima è di circa 27 anni), mentre il danno ambientale sarà permanente.
La comunità locale e la solidarietà internazionale
Gli alleati più stretti delle comunità greche che si oppongono allo sfruttamento aurifero della penisola di Halkidiki sono gli attivisti di Rosia Montana, in Romania. I problemi da affrontare sono simili, così come analoghe sono le compagnie coinvolte. Tra i suoi azionisti, infatti, Hellas Gold conta il famoso Frank Timis, controverso businessman romeno-australiano già fondatore della Gabriel Resources, compagnia attiva nell’estrazione dell’oro a Rosia Montana.
I cittadini greci sono scesi in piazza molte volte In difesa della penisola di Halkidiki e in solidarietà con la sua popolazione, contando sull’appoggio di ambientalisti e attivisti internazionali. La risposta dello stato non si è fatta attendere: la polizia antisommossa è intervenuta più volte per fermare le proteste, fino all’ultimo, clamoroso, intervento a marzo nel villaggio di Ierissos. Di fronte all´ennesima manifestazione della popolazione locale, la polizia ha reagito lanciando gas lacrimogeni all’interno di una scuola, all’interno della quale si trovavano alcuni studenti e professori, giustificando poi l’arresto di alcuni minorenni in quanto potenziali partecipanti ad un’azione di sabotaggio contro la compagnia canadese avvenuta il 17 febbraio nel cantiere di Skouries.
Nonostante la comunità locale si opponga strenuamente al progetto, secondo i piani di Hellas Gold le attività dovrebbero ricominciare nel 2015.
*in italiano penisola Calcidica

Draghi, chi è “proprietario” dell’euro?

- rinascita -

Non avendo ottenuto una risposta esauriente dal Commissario Europeo Olli Rehn, nonostante due interrogazioni, il parlamentare europeo Marco Scurria ha deciso di scrivere direttamente al governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, per cercare di sciogliere definitivamente il problema della proprietà dell’euro all’atto dell’emissione.
Sulla questione-principe che determina il servaggio dei popoli europei, non soltanto Scurria (Fratelli d’Italia), ma anche Mario Borghezio (Lega Nord) da tempo sono protagonisti di questa battaglia per restituire ai cittadini la sovranità sulla moneta.
Non si tratta, nella fattispecie della richiesta rivolta da Marco Scurria, di una battaglia di “verità sostanziale” ma dell’esigere una risposta a prescindere dell’esistenza o meno di “teoremi monetari” o di dichiararne l’essenza “complottistica”. Qui si tratta di avere risposte certe, di “diritto”: è una “questione giuridica” che va risolta definitivamente. “Perché – come scrive su “rapporto aureo” Francesco Filini - tutto ciò che non è codificato dalle leggi è per definizione fuori legge”.
Non bisogna lasciare soli quei rari rappresentanti del popolo che con perseveranza e coraggio insistono su questo tema.
Riprendiamo qui la lettera inviata al Governatore della BCE.

Egregio Governatore,
sono costretto a rivolgermi a Lei per trovare una risposta definitiva ad una domanda che centinaia di persone, singolarmente o attraverso associazioni, in Italia e in Europa mi stanno ponendo. Purtroppo il commissario europeo per gli affari economici e monetari, Olli Illmari Rehn, non ha saputo dare una risposta efficace alle interrogazioni parlamentari poste dal sottoscritto, che le allego, sulla natura giuridica della nostra moneta unica. Infatti non è ancora chiaro il motivo per cui la Banca Centrale Europea risulta, di fatto, proprietaria dell’Euro all’atto della sua emissione, nonostante nessun trattato internazionale attribuisca la proprietà giuridica del mezzo monetario all’Istituto da Lei presieduto.
Sappiamo benissimo che la moneta, come ogni bene mobile, deve necessariamente avere un suo proprietario sin dal momento in cui viene creata. Non risulta chiaro il motivo per il quale la Banca Centrale Europea, a cui spetta, secondo quanto stabilito dall’articolo 128 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, il diritto esclusivo di emettere moneta, ovvero autorizzare le Banche Centrali Nazionali ad emettere il mezzo di scambio, si appropri di quest’ultimo senza alcuna copertura legislativa. Non a caso le banconote a corso legale che circolano nell’Unione riportano la sigla della BCE e, quelle di recente emissione, la Sua firma come Governatore.
Sappiamo bene che i valori monetari creati, anche di recente con la manovra da Lei voluta per dare una risposta alla crisi che va sotto il nome di Long Term Refinancing Operation (LTRO), acquisiscono valore soltanto nella fase della circolazione o meglio nel momento in cui avviene l’addebito al nuovo proprietario. Sono quindi gli accettatori a dare valore al mezzo di scambio e la logica vorrebbe che questi ultimi fossero i legittimi proprietari. Ma non intendo con questa missiva entrare in questioni che attengono alla politica, così come non intendo mettere in discussione in questa sede l’indipendenza delle Banche Centrali.

Reddito minimo garantito, la campagna va in Parlamento


Lunedì 15 aprile verranno portate a Montecitorio le 50mila firme raccolte in calce al testo di legge d'iniziativa popolare per istituire una misura che abbia la finalità di contrastare la marginalità e favorire la cittadinanza
Il reddito minimo garantito "ha lo scopo di contrastare la marginalità, garantire la dignità della persona e favorire la cittadinanza, attraverso l’inclusione sociale per gli inoccupati, i disoccupati e i lavoratori precariamente occupati" spiegano i promotori della legge d'iniziativa popolare per un Reddito minimo garantito, che lunedì 15 aprile hanno dato appuntamento a Montecitorio per consegnare al Parlamento le oltre 50mila firme raccolte in calce al testo.
La campagna, iniziata a giugno 2012, è andata avanit per sei mesi, solo che -lamentano i promotori- "dal dicembre 2012 questo Paese non ha ancora un governo politico a cui riferire una istanza come questa".

E, aggiungono, "ora non possiamo più aspettare, non possiamo aspettare i dieci saggi, l’elezione di un nuovo Capo dello Stato, un eventuale altro scioglimento delle camere, altre consultazioni, forse altre elezioni e poi chissà cosa altro ancora", perché serve -con urgenza- l'approvazione di una "misura di contrasto alla disuguaglianza e all’esclusione sociale nonché quale strumento di rafforzamento delle politiche finalizzate al sostegno economico, all’inserimento sociale dei soggetti maggiormente esposti al rischio di marginalità nella società e nel mercato del lavoro".

Continua il comunicato stampa: "Siamo stanchi di aspettare e per il rispetto dovuto agli oltre 50mila cittadini e cittadine che hanno firmato, alle 170 associazioni che hanno partecipato, ai milioni di precari e disoccupati che non hanno la garanzia di un reddito minimo, abbiamo deciso che una delegazione rappresentativa della pluralità dei promotori della proposta di legge di iniziativa popolare consegnerà le 50mila firme per l’istituzione del reddito minimo garantito.
Chiediamo sin da ora che la Presidenza della Camera faccia tutto il possibile affinché si avvii un percorso urgente cosi che la proposta di legge sia presa al più presto in considerazione, favorendo la dove possibile una commissione di lavoro ad hoc che studi e approvi questa proposta, aprendo la strada anche a una nuova prassi per cui le proposte di iniziativa popolare siano discusse e valorizzate.
Chiediamo inoltre ai parlamentari di accogliere ed incontrare la delegazione che porterà le 50mila firme il 15 aprile 2013 a Roma dalle ore 12.00 sotto Montecitorio.

giovedì 11 aprile 2013

Gli dei delle privatizzazioni

- comuneinfo - |

Pubblichiamo l’introduzione del nuovo libro di Marco Bersani «Catastroika. Le privatizzazioni che hanno ucciso la società» (Edizioni Alegre), un’indagine sui diversi e sciagurati effetti, prodotti a livello globale, dalle politiche di finanziarizzazione e privatizzazione dell’economia.
All’alba del terzo millennio, la crisi ci ha improvvisamente trasportati, senza che ce ne accorgessimo, agli albori della civiltà occidentale, nell’antica Grecia. Una società dominata dagli Dei, i quali, pur non vivendo a contatto diretto con gli uomini e le donne del tempo, ne influenzavano profondamente l’esistenza. Analogamente, nella realtà odierna nuove divinità governano il mondo e determinano i comportamenti individuali e collettivi delle persone : non hanno nomi densi di storia, nè di simbologia, si chiamano semplicemente “mercati”.
Come gli Dei dell’antica Grecia, vivono separati dalle nostre vite quotidiane, ma provano costantemente sentimenti ed emozioni, immediatamente amplificati dalla comunicazione di massa. Perché i “mercati” si entusiasmano e si incolleriscono, vanno in fibrillazione e si calmano, ed ognuno di questi stati d’animo chiama tutti noi ad una risposta adeguata. E cosa dobbiamo fare noi, donne e uomini, nei loro confronti? Sacrifici, oggi come allora, per chiederne la benevolenza o per mitigarne la collera.
Con rinnovata rassegnazione, siamo chiamati a portare all’altare di questi Dei, oscuri e inconoscibili, i diritti del lavoro, i beni comuni e le conquiste sociali; la qualità della vita e la nostra dignità. Persino la natura e il futuro. Da oltre quarant’anni ci raccontano che il mercato deve essere l’unico regolatore sociale, che la sua mano invisibile è l’unica in grado di vedere l’adeguata redistribuzione del lavoro e della ricchezza, che il suo pensiero è l’unico possibile.
Dizionario alla mano, privato è voce del verbo privare, ovvero sottrarre, impedire l’accesso o la fruizione. Eppure ci raccontano che la privatizzazione è la massima espressione della modernità, perché è libertà di scelta, opportunità di autodeterminazione.
Sono talmente sicuri della bontà della loro soluzione che non hanno esitato ad usare la violenza per poterla applicare : quella manifesta delle dittature militari o quella indiretta della manipolazione massmediatica. Soprattutto, hanno impiantato una vera e propria ‘religione’, ampiamente secolarizzata negli obiettivi concreti, ma decisamente impregnata di elementi mistici ogni qualvolta debba affrontare una contraddizione. Per oltre quarant’anni il fondamentalismo neoliberista ha potuto scorazzare per il pianeta, riuscendo a produrre il massimo della diseguaglianza sociale proprio nel momento in cui la ricchezza prodotta poteva consentire il massimo delle possibilità individuali e collettive.
Ed oggi, di fronte ai nodi sistemici di una crisi profonda del capitalismo, che è al contempo economica e finanziaria, sociale e ambientale, le soluzioni che ci vengono imposte sono le stesse che la crisi l’hanno provocata, approfondita, portata ad un punto di difficile reversibilità. Quarant’anni di esperienza rendono possibile uno studio approfondito, una verifica circostanziata, un giudizio intellettualmente scevro da sovrastrutture ideologizzate.
E’ questo il compito a cui, con umiltà e intelligenza, le pagine di questo libro tentano di contribuire, ripercorrendo i molteplici atterraggi compiuti nei diversi angoli del pianeta da parte delle grandi lobby dei capitali finanziari e delle multinazionali, ed indagando sugli effetti prodotti nell’economia e nella società.Per aiutare la comprensione di ciò che è avvenuto, per favorire la consapevolezza del momento che stiamo attraversando, per suggerire nuovi percorsi verso un futuro all’insegna della dignità.
I poteri dominanti ripetono ossessivamente che siamo alla fine della storia e che questo è l’unico mondo possibile. Noi sappiamo che si tratta semplicemente di riappropriarci di tutto ciò che ci appartiene.

Rimettere in circolo la speranza

  
Rimettere in circolo la speranza

 

di Salvatore Settis, da Repubblica -
Non di soli slogan vive l’uomo. Il “patto di stabilità” che ci viene martellato nelle coscienze come fosse una legge di natura elude il solo punto essenziale: quale stabilità ci preme di più, quella dei conti pubblici o quella della società?
Per sanare il bilancio dobbiamo comprimere la spesa sociale, esiliare la cultura, mortificare la sanità, emarginare i più giovani e i più vecchi? Davvero non ci sono alternative? “Stabilità” non descrive forse un Paese immobile, incapace di crescere? Assediati dallo spread e dai suoi capricci, abbiamo perduto la libertà (e la lucidità) di vedere quel che accade.
Tristi primati soffocano l’Italia, ne determinano l’immagine nel mondo, erodono la nostra credibilità. Nella mappa sulla libertà di stampa del Newseum di Washington (il più importante museo al mondo sui media) l’Italia è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo come “parzialmente libero” (Press Freedom Map: www.newseum.org). Secondo Transparency International, l’Italia è uno dei tre Paesi più corrotti d’Europa (con Grecia e Bulgaria), peggio di Ghana, Namibia, Ruanda. Secondo dati Ocse, l’Italia è al terzo posto al mondo per evasione fiscale, preceduto solo da Turchia e Messico (lo ha ricordato Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, in audizione al Senato lo scorso ottobre).
Trattiamo questi ed altri problemi come fossero lontani dalla nostra vita di ogni giorno, come non avessero niente a che fare con la crisi, con l’instabilità sociale, la disoccupazione, l’impoverimento delle classi medie, la drammatica crescita delle disuguaglianze. Eppure queste ed altre infelicità private sono innescate o aggravate dalla recessione, che si compie all’insegna di una spietata concentrazione della ricchezza, intrecciata allo smontaggio dello Stato, alla privatizzazione dei beni pubblici, ai continui tagli della spesa sociale.
Accecati dalle retoriche neoliberiste dello Stato “leggero” (tanto leggero da sparire), siamo prontissimi ad abolire le province (risparmio annuo previsto: 500 milioni di euro), senza accorgerci che si risparmierebbe molto di più acquistando un aereo militare in meno o evitando qualche chilometro di inutili Tav. Determinati a non affrontare i problemi alla radice, ci accontentiamo di palliativi (qualche riduzione di stipendio, qualche parlamentare in meno…), attribuendo implicitamente i danni e la crisi alla stessa esistenza delle istituzioni pubbliche, e non alle loro disfunzioni, non alla lottizzazione politica, non all’insediarsi di incompetenti nei posti di comando, non al saccheggio dei beni pubblici.

Dandong, la città fantasma. Tra grattacieli incompiuti e fango

Fonte: il manifesto | Autore: Simone Pieranni  
Nel 2010 Pechino e Pyongyang decisero di creare una zona economica speciale. L'hanno chiamata «la pianura dell'oro», due isole sul fiume Yalu alla frontiera Ma Cina, Corea del Sud e Giappone organizzano già una nuova zona di libero scambio
DANDONG. Per non lesinare in grandeur, l'hanno chiamata «la pianura dell'oro» (huangjinping in cinese). È una distesa di terra, due isole che galleggiano sul fiume Yalu, tra la Cina e la Corea del Nord. È il luogo dove nel 2010 Pechino e Pyongyang decisero di creare la propria zona economica speciale. Un ambito economico nel quale rinverdire la storica alleanza, gli antichi legami, le nuove amicizie attraverso lo sviluppo di turismo, industria manifatturiera e servizi. La Cina che da oltre trent'anni ha ormai collaudato i meccanismi del capitale, stendeva una mano ai suoi alleati coreani, per coronare una vicinanza non solo militare e di antica «politica», ma anche economica. Tutti concordi sia i compagni coreani sia quelli cinesi, tutto stabilito e riconfermato nel 2011. All'epoca Pyongyang aveva approvato un contratto di locazione di 50 anni da parte della Cina sulle due isole sul fiume Yalu. Il vice sindaco di Dandong, aveva raccontato alla stampa che funzionari nordcoreani si erano incontrati con i responsabili politici cinesi per consigli circa una nuova legge sugli investimenti per le zone economiche.
Poi succede qualcosa che non cambia solo il corso della «pianura dell'oro»: muore Kim Jong il, il Caro Leader. Una morte improvvisa che catapulta al potere Kim Jong un e scaraventa la Corea del Nord in una ridda di voci circa giochi di potere e che finisce per rallentare tutto. Il giovane Kim, così simile al nonno - e forse anche per questo scelto dal padre - si ritrova improvvisamente alla guida di una nazione. Lui non conosce i meccanismi del potere, stenta a ritrovarsi tra consiglieri e vecchi falchi che ritornano con prepotenza a bussare alla porte di chi comanda. Il suo paese non conosce lui. Non è l'unico problema, però. Ce n'è un'altro.
Mentre i coreani - e il mondo - cercavano di capire se il giovane Kim era pronto a raccogliere un'eredità così rapida e inaspettata, i cinesi avevano costruito una nuova città a Dandong, appunto, la new town. Ovvero il supporto urbano all'attività economica della pianura d'oro. Tutto in realtà già previsto perché la nuova parola d'ordine in Cina è urbanizzazione e con essa lo sviluppo del mercato interno. Urbanizzazione, va precisato, delle medie città, da non confondere con quella delle città di prima fascia già ampiamente avvenuta. A essere nel mirino del progresso cinese oggi, sono proprio le città come Dandong, un paio di milioni di abitanti e un luogo a misura delle tante persone, un tempo rurali che ora diventano cittadini. Insieme a questa spinta, la sotterranea richiesta di modificare i meccanismi di accesso ai servizi sociali dei nuovi abitanti. La Cina, quindi, era già pronta al passaggio: unire il proprio sviluppo a una zona di scambio commerciale con la Corea del Nord.

L’esercito marxiano

    
L’esercito marxiano

Pubblicato il 10 apr 2013

Geraldina Colotti da Caracas -
«La forza principale della rivoluzione è nella unità civico-militare che la sostiene – dice al manifesto il professor Ramon Moreno – Un cemento che viene da lontano». Moreno insegna il marxismo ai futuri colonnelli e ufficiali superiori della Scuola Superiore di Guerra Congiunta della capitale venezuelana, a Forte Tiuna. Le sue materie – formazione socialista rivoluzionaria, gestione pubblica socialista e pensiero socialista – sono rivolte agli alti gradi delle distinte forze armate: Esercito, Guardia nazionale, Aviazione, Milizia popolare.
Ex viceministro dell’educazione, direttore di pianificazione e risorse nei primi 18 mesi del governo Chávez, Moreno per anni è stato a capo della sala situazioni del presidente, scomparso il 5 marzo. E’ stato anche un dirigente della guerriglia che ha combattuto i governi nati dal patto di alternanza tra centrodestra e centrosinistra: le coalizioni che hanno governato durante la IV repubblica, dalla cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez, nel 1958, fino alla vittoria di Chávez, nel ’98. Il professore, che allora esercitava nell’Università delle Ande (Ula), nello stato Merida, ha fatto parte del Partito rivoluzionario venezuelano- Forza armata di liberazione nazionale (Prv-Faln), con le sue diramazioni politiche, Ruptura e Tercer camino. Un partito nato il 23 aprile del 1966 a sinistra del Partito comunista venezuelano, allora impastoiato nei dibattiti tra Cina e Unione sovietica. Lo dirigevano uomini come Douglas Bravo e Francisco Ojeda, ne facevano parte contadini, operai, artisti, intellettuali e anche militari rivoluzionari.
Come può un ex guerrigliero formare i massimi vertici militari? E non si sente a disagio?
Prima del governo Chávez sarebbe stato impossibile. E quel disagio lo abbiamo dovuto risolvere nella pratica, quando abbiamo costruito la ribellione civico-militare del 4 febbraio ’92, diretta dal comandante-presidente purtroppo prematuramente scomparso. Hugo lo abbiamo conosciuto tramite suo fratello Adan, che insegnava nella mia stessa università, militavamo entrambi nel Prv-Faln. La figura di Adan, un marxista rivoluzionario, è stata decisiva nella iniziale formazione del fratello minore. Nell’85, Hugo Chávez insegnava ai giovani dell’accademia militare. Ha svolto fin da allora un importante ruolo pedagogico nelle Forze armate. Ricordo un suo articolo sulla rivista interna in cui rilevava l’inesistenza del concetto di patria in un paese asservito agli interessi dei grandi potentati internazionali, e sosteneva che le Forze armate dovessero essere formate a partire dai principi di Simon Bolivar, il liberatore dei popoli. All’inizio non era socialista, anche perché il socialismo era parecchio ostracizzato, ci è arrivato dopo, subendo l’influenza delle correnti marxiste e rivoluzionarie. In quegli anni, tra civili e militari ci guardavamo con diffidenza, l’apporto delle organizzazioni popolari alla rivolta non è stato grande. Quando Chávez è stato arrestato, abbiamo però fornito il supporto organizzativo dentro e fuori il carcere. Tenevamo i contatti con i militari che non erano insorti per motivi logistici, ma erano controllati dall’intelligence militare. Dal carcere, Chávez tagliava i biglietti da 5 bolivar in due, ne inviava una parte ai suoi sodali attraverso militari amici, un’altra la dava a noi civili, visto che potevamo muoverci con più facilità. Sono restato un’ora in una caserma prima che l’ufficiale si decidesse a mostrare il suo mezzo biglietto, non ci fidavamo. L’unità si è andata formando nella lotta e poi nella pratica di governo. Ora parlo di marxismo e rivoluzione a compagni ufficiali che prima non sapevano niente di questo e adesso sono avidi di formazione ideologica, studiano come costruire un governo socialista e rivoluzionario, studiano economia marxista, imparano come si costruisce una nuova relazione tra popolo e Forza armata nazionale bolivariana, e si definiscono popolo in armi. Insegno a militari argentini, colombiani, brasiliani, nel rinnovato disegno della Patria grande, di un esercito di uguali.

Portogallo. Governo, fine settimana da moribondo

  
Portogallo. Governo, fine settimana da moribondo

Pubblicato il 9 apr 2013

Goffredo Adinolfi -
La giornata di venerdì 5 aprile sarà ricordata come la caporetto del governo di «centro»-destra portoghese: alle 21, ora locale, il tribunale costituzionale (Tc) rende pubblica la sua sentenza sulla legge finanziaria: dei circa sei miliardi di bilancio, più di uno resta fuori a causa dell’incongruenza delle norme con la legge fondamentale.
La decisione, un segreto di pulcinella che tutti negavano di conoscere ma di cui erano stati tutti informati, ha trasformato il fine settimana lisboeta in un’autentica pièce di teatro.
Nessuno sapeva niente ma casualmente per il sabato 6, cioè all’indomani della sentenza, era già stata convocata una riunione straordinaria del consiglio dei ministri, una farsa tanto per ribadire che il governo non aveva nessuna intenzione di dimettersi. Coincidenza ancora più sospetta, il presidente della Repubblica Anibal Cavaco Silva non aveva impegni istituzionali e ha potuto quindi incontrare il primo ministro e riconfermargli la sua fiducia gelando così le aspettative di chi auspicava lo scioglimento dell’Assembleia da Republica e, dunque, la convocazione di elezioni anticipate.
Sia come sia, la crisi politica è arrivata anche qui, estremo occidente di un continente sempre più moribondo. Anche l’alunno modello, tanto importante per la Germania, ormai mostra sempre più evidenti i segni di una devastazione probabilmente irreversibile.
Domenica 7, dopo la seconda riunione straordinaria del consiglio dei ministri il primo ministro José Passos Coelho si è limitato ad annunciare che per coprire il buco di bilancio non avrebbe aumentato ulteriormente il carico fiscale. E visto che la matematica non è un’opinione, le sue parole possono essere tradotte in un solo modo: la copertura della nuova falla verrà trovata in pesanti tagli alla spesa. Perché c’è un punto in tutta questa storia che non va mai dimenticato: gli obiettivi di bilancio non sono discutibili. Al massimo, dicono gli ottimisti, si possono rinegoziare tempi e saggi di interesse, ma la sostanza no, quella mai.
Nuovo giro di vite in arrivo
I partiti dell’opposizione hanno certo gioito per la bocciatura di gran parte della legge finanziaria ma, purtroppo, la realtà è ben più drammatica e la vittoria in una battaglia non significa la vittoria della guerra, anzi, fino ad adesso ad ogni vittoria è seguito un inasprimento e un giro di vite nelle condizioni di vita delle persone. Come nel processo di Kafka, la macchina dell’austerità una volta avviata non può essere arrestata. Se il sussidio di ferie, la tredicesima, non potrà essere tagliato, allora vuol dire che si affronterà con più decisione la questione dei costi strutturali o, per usare un termine più burocratico, quello della Riforma dello Stato: licenziamenti in massa nel pubblico impiego e ridimensionamento del sistema nazionale di salute e del welfare state.
È probabile che i progetti per la ristrutturazione dello stato portoghese – nato dalla più epica delle rivoluzioni, quella dei garofani – siano già stati concordati da governo, opposizione socialista (?) e Troika ed è possibile anche che si stia drammatizzando il momento per poi obbligare ad accettare l’inaccettabile. Chissà?
Resta il fatto che Passos Coelho ora si trova nella difficile condizione di dovere racimolare quasi 6 miliardi di euro (quelli tagliati dal Tc più 4, 5 ancora da mettere a bilancio), di essere assediato per questo dal partito socialista, di essere sotto stretta osservazione del presidente della Repubblica e, infine, di dovere affrontare un mal contento ormai dilagante. Insomma: è l’uomo giusto per portare avanti fino in fondo il lavoro sporco, poi lo si mollerà, e si dirà che tutte le colpe sono le sue.
Paradossalmente, le sinistre del Bloco de Esquerda e del Partido Comunista, uniche vere antagoniste delle politiche di austerità, restano al palo non riuscendo a porsi come autentici punti di riferimento per una possibile alternativa.
La crisi sovverte gli equilibri
Uno degli ultimi sondaggi (divulgato il 15 marzo e realizzato da Cesop Università Cattolica) rivela che il 63% dei portoghesi, in caso di elezioni, non saprebbe per chi votare. La crisi economica sovverte ogni equilibrio e sul banco degli imputati potrebbe essere chiamato il sistema politico nel suo insieme. Quella che si schiude all’orizzonte è una perdita completa di legittimità della democrazia rappresentativa in sé e per sé e non più semplicemente quella dei partiti che nel corso degli anni si sono alternati al governo.
Così a gestire il malcontento è il movimento Que se lixe a troika (Qslt, «Che si fotta la troika») che lo scorso 2 marzo è stato in grado di mobilitare circa 1 milione e mezzo di persone, questo senza peraltro avere altro programma se non quello di rasgar, stracciare il memorandum, e di mandare o governo para rua, il governo in strada. La cosa dovrebbe preoccupare, perché il Qlst è un tipico movimento dai caratteri populisti nel quale alla “tradizionale” dicotomia destra/sinistra è preferita quella tra il cittadino comune che si oppone alle vessazioni della casta.
Potrà apparire cinico, ma occorre una certa dose di realismo se ci si vuole capire qualche cosa. Le opzioni endogene, cioè quelle a disposizione della “libera” scelta dei portoghesi, sono due, entrambe drammatiche: o il Portogallo resta nell’Euro, e rispetta il memorandum, o esce e allora fa quel che vuole, ma sapendo che un ritorno allo Scudo, se non ben pianificato, potrebbe avere conseguenze ben più drammatiche di quelle che stanno producendo le politiche di austerità.
Va detto che i portoghesi si stanno caricando sulle spalle responsabilità non loro, visto che il rapporto debito/pil era, prima della crisi, abbondantemente sotto il 100%. Sarebbe quindi il caso che in Europa qualcuno cominciasse a parlare e dicesse cosa si vuol davvero fare con la moneta unica. Questo almeno ci si aspetterebbe da quella che nel bene o nel male, più nel male a dire la verità, è la nostra classe dirigente. Dopo 5 anni di crisi di cui non si vede via di uscita forse è il caso di aprire un dibattito serio sul futuro dell’Euro.
Il Manifesto – 09.04.13

mercoledì 10 aprile 2013

AVANGUARDIA DI “CIARLATANI E PIFFERAI MAGICI”

CONDIVIDI !!PER IL DIBATTITO Appunti sul moderno proletariato e sulla “nuova” questione operaia L’Italia è da sempre il regno della retorica e dell’ipocrisia dei ciarlatani, degli impostori e dei pifferai...


Appunti sul moderno proletariato e sulla “nuova” questione operaia.
 
L’Italia è da sempre il regno della retorica e dell’ipocrisia dei ciarlatani, degli impostori e dei pifferai magici. Ma il degrado etico e culturale in cui è sprofondato il Paese è tale da non permettere più di discernere la verità dalla menzogna, l’equità dall’ingiustizia.
L’attuale recessione non è un episodio accidentale, ma una crisi strutturale causata dall’eccessivo sviluppo delle forze produttive, una crisi accelerata dalla saturazione dei mercati internazionali: finora si è prodotto in eccesso sfruttando troppo i lavoratori, che si sono impoveriti e sono destinati ad impoverirsi ulteriormente. E’ una crisi che si spiega in virtù dell’enorme divario tra la crescente produttività del lavoro e la declinante capacità di consumo dei lavoratori. In altri termini, gli operai producono troppo, a tal punto che non si riesce a vendere quanto essi producono. E’ questa la radice delle contraddizioni del capitalismo, che è riconducibile alla sua tendenza intrinseca (e cioè innata) alla sovrapproduzione di merci. In questo quadro complessivo l’azione dei governi (qualsiasi governo) asseconda gli interessi del capitalismo di finanza.
Infatti, le politiche di liberalizzazione selvaggia attuate dai governi negli ultimi decenni procedono senza sosta, malgrado aumenti la consapevolezza che esse favoriscono il predominio dei grandi potentati economici, delle banche e delle società finanziarie, a netto discapito dei lavoratori. Impresa, mercato, produttività, profitto, non sono mai stati termini asettici o neutrali, ma hanno sempre definito affari e poteri concreti, persone in carne ed ossa. Eppure, tali interessi privati sono esibiti come il bene comune.
La contraddizione centrale è tuttora quella che contrappone l’impresa capitalista al mondo del lavoro sociale. I lavoratori devono prendere coscienza che il vero problema risiede nel costo del capitale, nell’inasprimento delle condizioni di sfruttamento e nell’aumento degli straordinari, nella crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita degli operai, insomma nel sistema dell’alienazione capitalista del lavoro.
Di fronte alla crisi internazionale la risposta della FIAT è stata un disegno strategico che punta alla “terzomondizzazione” del lavoro in Italia, un’intensificazione dei ritmi e dei tempi di lavoro, alla piena precarizzazione dei diritti e delle tutele sindacali, dei salari, delle condizioni di sicurezza degli operai. Dopo aver dissanguato i lavoratori polacchi, la FIAT pianifica il rientro in Italia di una produzione trasferita all’estero negli anni scorsi, malgrado le generose sovvenzioni elargite dallo Stato italiano, ovvero dai contribuenti.

Solidarity with Greek People


 Solidarity with the people in Greece!

For a revision of austerity policies
Europe must prevent the situation in Greece from becoming a humanitarian catastrophe and make sure that the same remedy is not applied to other weak economies.
We ask you, members of the Troika and the Greek government, to revise the austerity plan and put humans and their needs at the centre of your decisions.
Sign the petition! The results will be sent to the Troika and Greek government on the 9th of May.

Solidarietà con il popolo greco!
Per una revisione delle politiche di austerità
L’Europa deve impedire che la situazione della Grecia diventi una catastrofe umanitaria al di là dell’immaginabile e deve assicurare che le stesse misure non vengano applicate alle altre economie deboli.
Noi chiediamo a voi, membri della Troika e del governo greco, di rivedere il piano di austerità e di mettere gli esseri umani e i loro bisogni al centro delle vostre decisioni.
Firma la petizione! Il risultato verrà sottoposto alla Troika e al governo greco il giorno 9 maggio 2013.

http://www.avantieurope.eu/?i=avanti.it
La Grecia è al primo posto nella crisi economica europea. Sta vivendo un livello di austerità senza precedenti il cui peso si abbatte ingiustamente su coloro che non sono responsabili del debito e che ne sono maggiormente colpiti. Sono cittadini greci, nonché migliaia di migranti e richiedenti asilo.
Dal 2009 la Grecia ha subito un aumento del 37% dei suicidi, mentre l’indice di disoccupazione è salito alle stelle: dall’8% al 27% (57% per i giovani) lasciando 1 milione e 290mila persone senza lavoro. Oggi in Grecia 3,4 milioni di persone sono oltre la soglia di povertà, vale a dire il 31% della popolazione. Il fallimento della classe politica nella gestione dei problemi del Paese, ha consentito al partito neo-nazista Alba Dorata di diventare il terzo maggior partito del Paese assestandosi al 12%-15%. In molti sono ormai così furiosi e disperati da essere disposti a sacrificare la democrazia per poter far sentire la propria voce.
Il problema non riguarda solo la Grecia; riguarda anche l’Europa. La Grecia ha commesso degli errori, ma le politiche vigenti incentrate unicamente sull’austerità non rappresentano una soluzione alla crisi. Al contrario, impediscono la crescita economica e hanno un impatto devastante sul popolo.
La Grecia ha il dovere di ristrutturare la propria economia e di rimettere a posto le proprie finanze. Tuttavia, la ripresa di un’economia sostenibile non è fatta solo di bilanci e scadenze fiscali.
Il prezzo dell’austerità non deve essere la sofferenza degli esseri umani. Le misure di consolidamento dovrebbero essere centrate sulla ristrutturazione del settore pubblico, su politiche di sostegno a una crescita economica sostenibile e sull’unione sociale basata sul principio di solidarietà dove le spalle più larghe portano il peso maggiore.
L’Europa deve impedire che la situazione della Grecia diventi una catastrofe umanitaria al di là dell’immaginabile e deve assicurare che le stesse misure non vengano applicate alle altre economie deboli.
Noi chiediamo a voi, membri della Troika e del governo greco, di rivedere il piano di austerità e di mettere gli esseri umani e i loro bisogni al centro delle vostre decisioni.
Il 9 maggio 2013 (Giornata Europea), i risultati di questa petizione saranno sottoposti alla Troika e al governo greco.

Privatiziamo il suo funerale!!

La morte di Margaret Thatcher: i commenti di Gennaro Carotenuto, Ken Loach e degli operai inglesi
 
Margaret Thatcher è stata una rivoluzionaria. Una rivoluzionaria che ha segnato la storia del suo paese, dell’Europa, del mondo. È stata la “Pasionaria del privilegio”, come la definì il primo ministro laburista Harold Wilson, ha smantellato pezzo per pezzo i fondamenti della democrazia, consegnandola nelle mani della parte più perversa dell’economia capitalistica, quella finanza deregolata sulla quale si è illusa di costruire le fortune di un paese che ha voluto post-industriale. Ha trionfato, ha spezzato le reni a una classe operaia che non si è più risollevata e, nonostante nell’ultimo decennio sia stato chiaro a chiunque fosse intellettualmente onesto quanto fossero d’argilla i piedi della sua rivoluzione conservatrice, muore nel suo letto come il suo amico Augusto Pinochet.

Se siete precari, se vi è stata negata una scuola pubblica adeguata, se siete malati e non avete diritto a un’assistenza sanitaria pubblica degna e non vi potete permettere quella privata, se pensate che la pensione non sarà mai affar vostro, allora potete ringraziare la Baronessa. Figlia di un droghiere costruì il proprio fisico bestiale nel farsi accettare da quella classe dirigente della quale bramava essere membro. Quante ne deve aver passate per arrivare dov’è arrivata, circondata com’era da decine di persone meglio nate di lei per sesso e condizione sociale. Resterà celebre il suo sostenere che la società non esistesse e che solo gli individui meritassero la sua attenzione, in un’orgia retorica di libertà e meritocrazia che in soldoni garantiva solo chi era già libero dal bisogno e meritevole per censo, per meglio affondare e sfruttare tutto il resto del paese e del mondo. Doveva farsi più realista del re, più dura di tutti loro. E lo è diventata. Come iniziazione, già da ministro dell’istruzione, nel 1970, cominciò col rubare il latte ai bambini. La “milk snatcher” privò i bambini proletari di quell’apporto calorico fino ad allora garantito dallo stato. Tre anni dopo anche il suo intimo Pinochet cominciò così, appena si sollevò il fumo del bombardamento della Moneda a Santiago del Cile dopo l’11 settembre. Quel latte pubblico, quel latte popolare risultava così odioso ai leader di quella nuova stagione politica che per sconfiggere i lavoratori organizzati decisero di cominciare dall’affamarne i figli.
Sul comodino teneva Friedrich von Hayek e Milton Friedman e quell’Inghilterra keynesiana, che il suo stesso partito aveva contribuito a costruire come lenimento allo scontro sociale, divenne spazzatura. Almeno lei, laureata a Oxford, aveva qualcosa sul comodino, il suo amico Ronald Reagan nulla. Voleva lo scontro, lo cercò, lo trovò, lo vinse. Contro tutti, contro i sindacati, contro l’IRA irlandese, indifferente allo sciopero della fame di Bobby Sands e dei suoi, morti come mosche, contro l’Unione Sovietica. La storia continuerà a interrogarsi se lei e Reagan la sconfissero davvero o quanto questa crollò su se stessa, avvizzita e improponibile. Con l’URSS alla sua crisi finale però tutto fu più facile per la rivoluzione conservatrice che non ebbe più bisogno di pattare con nessuno. Furono liberi di vedere un mondo semplificato dove i loro interessi coincidevano con quelli della società. I corpi intermedi, le rappresentanze di classe, l’equilibrio della trattativa, tutto perdeva di senso. Avevano vinto loro.
Margaret Thatcher fu la grande costruttrice del mondo unipolare e del pensiero unico, di una globalizzazione neoliberale proposta come la mondializzazione dei valori della libertà e della democrazia e che si è rivelata un’illusione occidentalista che ne ha invece marcato il declino e segnato in peggio le esistenze di chiunque sia nato dagli anni ’60 in avanti. Ai nostri genitori è toccato il miglior slot della storia, hanno goduto di buone scuole pubbliche, servizi sociali, salute, e sono andati in pensione –per la prima e forse unica volta della storia- con assegni dignitosi. A noi e ai nostri figli –thanks to Mrs. Thatcher- è toccato il baratro.
Grande statista chi butta a mare due terzi della società per dimostrare quanto è brava a far star meglio la parte più privilegiata. Se Silvio Berlusconi consigliò la giovane precaria di trovarsi un fidanzato ricco, sintesi perfetta della conservazione maschilista, Margaret Thatcher ha fatto di meglio: si è fidanzata con tutti i ricchi del paese. È nell’etica immorale dell’aiutare solo chi è già forte a essere ancora più forte, nella balla scientifica del merito che ha affondato milioni di diseredati, nella pretesa di una tassazione uguale per tutti -ricchi e poveri- e proprio per questo più iniqua, è nell’odio senza quartiere contro ogni valore di solidarietà e comunità in collaborazione con un sistema mediatico che imponeva consumi, consumi e consumi, come gli unici valori meritevoli il segno del suo trionfo e della desolazione attuale. Il suo sovranismo antieuropeo fu proverbiale e forse piacerebbe molto oggi a chi non vede nell’Europa l’unica costruzione meritevole di essere difesa. Ma è lei, come ha detto autorevolmente Romano Prodi, la madre della crisi attuale, disegnando un mondo affidato solo al mercato che oggi segna il declino dell’Europa stessa e dell’Occidente.
È lei che ruppe l’egemonia culturale della sinistra socialdemocratica che aveva dominato il dopoguerra e l’ha sostituita con un’egemonia oppressiva, quella del neoliberismo e dell’individualismo più duro, darwinista più che calvinista. Amica per la pelle di dittatori sanguinari come Augusto Pinochet (per la liberazione del paziente inglese si spese come per nessuno dopo l’uscita da Downing Street), nemica giurata di eroi positivi come Nelson Mandela, che per lei era solo un “terrorista”, non aveva tabù. Neanche quello di lanciare la bomba atomica su di una città di 12 milioni di abitanti come Buenos Aires. Se lo portò dietro, il gingillo atomico, pronto all’uso alla bisogna. Il gioco delle parti con quell’ubriacone di Massera, il dittatore argentino succeduto a Videla, fu magistrale. O lui o lei: entrambi i regimi erano in crisi di consenso. Nel momento di massima difficoltà per Margaret Thatcher, che si avviava senza gloria a perdere le elezioni dell’83, dopo quattro anni di governo fallimentare per gli stessi tories e con la disoccupazione alle stelle (vinse comunque solo per la divisione dell’opposizione), l’avventurismo dei generali argentini alle Malvinas/Falkland fu il più gradito dei regali: quel consenso che non poteva avere in politica economica e che solo i monopoli mediatici facendole da grancassa le magnificavano, lo ottenne facendo capo al decrepito nazionalismo imperialista dell’Union Jack e delle cannoniere.
Modernissima nell’intuire nel neoliberismo la nuova frontiera del conservatorismo, seppe guardare indietro, all’imperialismo classico delle cannoniere e della regina Vittoria per stringere a coorte il popolo britannico e costruire nella bandiera quel consenso che non poteva avere spingendo senza pietà milioni di persone fuori del mercato del lavoro. Come sempre la nazione vince sulla classe, la comunità militarizzata vince su quella solidale. Trionfò, nel remoto sud dell’Atlantico e quindi nelle urne, e andò avanti a smantellare la base industriale del paese che l’industria aveva inventato due secoli prima. Per lei avere più disoccupazione non significava niente, non era lei a pagare e indusse il “nemico”, perché nemico erano per lei i lavoratori organizzati, alla disperazione.
Con lei il conservatorismo smise di essere il partito dello status quo per presentarsi come quello della trasformazione. Erano i sindacati, perfino quelli britannici prudenti e responsabili, a essere di colpo vecchi, a essere un freno al “riformismo”, una parola con un secolo di passato progressista e sequestrata con lei dall’altro campo. Fu così, sulle macerie di una sconfitta totale della classe lavoratrice, che il suo principale emulatore si rivelò essere quel giovane arrivista di Tony Blair. Privatizzazioni come quella delle ferrovie, un monopolio naturale, sono un monumento all’inefficienza del neoliberismo: più care, più scadenti, più pericolose, più costose per lo stato costretto a sovvenzionarle per tenerle sul mercato. Oggi in Gran Bretagna ci sono più disoccupati, meno studenti universitari, meno riserve auree, più debito. Solo la finanza ha distribuito un po‘ di ricchezza, ma dal 2008 in avanti anche questa, col sistema bancario, ha avuto bisogno di quasi mille miliardi di soldi pubblici per restare in piedi. Lo Stato glieli ha dati. Per le banche ce ne sono sempre.
Chi scrive viveva a Londra in quella fine di novembre del 1990 quando Margaret Thatcher fu messa in minoranza da John Major e dovette abbandonare dopo undici anni e mezzo il numero 10 di Downing Street. Conservai a lungo la copia dell’Economist che ne tesseva le lodi in un lungo speciale. Aveva creato tanta ricchezza, è vero. Compiacere i ricchi era la sua ossessione. Ma a che prezzo questa ricchezza era stata creata si poteva leggere in quello stesso speciale. Durante il suo governo per ogni cittadino britannico che aveva passato verso l’alto l’assicella delle 50.000 sterline di reddito annuo, ben dieci lavoratori avevano dovuto scendere verso il basso al di sotto della linea delle 5.000. Per fare un ricco le fu necessario spingere dieci persone verso la povertà. È questo il prezzo del neoliberismo. I media monopolisti mostrano incessantemente chi ce l’ha fatta. Ma da Brixton a Civitanova Marche, l’eredità di Margaret Thatcher è pianto e stridore di denti.

lunedì 8 aprile 2013

Siria: comincia l’ultimo atto

di Giulietto Chiesa - megachip -

Un fittissimo intrecciarsi di voli militari è in corso mentre il lettore sta scorrendo queste righe. Si tratta di aerei di varia nazionalità, con sigle diverse dipinte sulle loro carlinghe, con equipaggi internazionali, in partenza da aeroporti che spaziano dalla Croazia, alla Turchia, dal Qatar, all’Arabia Saudita, dalla Giordania e da diversi altre basi della Nato. Il New York Times dello scorso 24 marzo parlava di voli che “fanno pensare ad un’operazione militare clandestina ben pianificata e coordinata”.
È in atto la preparazione di quella che è l’ultima fase, che potrebbe precedere l’attacco militare della Nato contro la Siria e produrre la caduta, con relativa uccisione, del “sanguinario dittatore” di turno.
Si tratta di un’operazione che comporta grosse spese, per migliaia di tonnellate di armamenti e munizioni, i cui destinatari sono i ribelli del cosiddetto Esercito Libero Siriano.
L’organizzatore fu l’«ex» David Petraeus, il che ci dice che Barack Obama non ce la raccontava giusta quando voleva far credere all’opinione pubblica occidentale che gli Stati Uniti non erano poi davvero molto interessati alla caduta di Bashar al-Assad.
Anzi, quando affermava di essere preoccupato dell’eventualità che il crollo del regime di Damasco avrebbe potuto provocare l’inizio della frantumazione della Siria in una piccola galassia di faide sanguinose tra etnie, religioni, nazionalità già in ebollizione e pronte a vendicare i torti subiti negli ultimi quarant’anni.
Ma, a Washington, si ritiene ormai che sia meglio avere dei sunniti al governo di Damasco, piuttosto che degli sciiti alauiti. Ci sarà qualche sgozzamento di troppo, è vero, ma poiché l’obiettivo è quello di creare disordine e non di portare ordine, probabilmente sarà più funzionale questa soluzione. La quale creerà problemi anche per Israele, che si troverà ai confini un altro stato guidato da fanatici jihadisti. Ma Israele può essere accontentata in altro modo: con il via libera contro l’Iran. Anche i turchi potranno avere qualche problema dai curdi siriani, che vorranno unirsi ai curdi iracheni. Ma Recep Tayyip Erdoğan saprà come metterli a posto come meritano, gli uni e gli altri. Insomma la faccenda è stata infiocchettata a dovere. Resta solo da consegnarla al destinatario, che è il popolo siriano.
Siamo stati, negli ultimi mesi, spettatori di una commedia, il cui copione era di far credere che Washington fosse il moderatore dello scontro. Un po’ come accadde alla Libia di Gheddafi: martirizzata da Francia e Gran Bretagna, con – certo – il supporto logistico della flotta e dell’aviazione degli Stati Uniti, ma di malavoglia, con ritrosia, solo per ossequio verso alleati fin troppo aggressivi.
Ora è tutto chiaro. E’ in corso l’inizio dell’ultima fase. Che prevede una tattica lenta, non un blitzkrieg a breve scadenza. I comandi americani e Nato, in piena sintonia, hanno già calcolato che Bashar non è in condizione di resistere indefinitamente. Lo lasciano cuocere nel suo brodo, sempre più bollente. Circondato da ogni lato, con il solo afflusso (ma difficoltoso) di armi e uomini dall’Iran, sotto un embargo asfissiante. Con Israele anch’essa in posizione di apparente basso profilo, ma incaricato di controllare ogni movimento di mezzi e di uomini dal territorio libanese. La Giordania punto logistico cruciale assieme alla Turchia; l’Arabia Saudita e il Qatar in veste di emissari e finanziatori locali; basi Nato di transito e di stoccaggio nei diversi aeroporti turchi, ultima tappa prima della distribuzione alle formazioni armate che agiscono in territorio siriano.
E tutto questo mentre, in parallelo, i servizi segreti americani, britannici, francesi, turchi, sauditi, israeliani già agiscono con squadre di commandos, con specialisti in azioni terroristiche, nelle città siriane non ancora raggiunte dall’esercito di mercenari jihadisti.
False erano anche le notizie che lasciavano intendere la riluttanza americana a concedere armamenti più sofisticati e potenti. Adesso – riferisce esplicitamente il citato New York Times– si sta passando alla distribuzione di armi che permetteranno un corso “più letale” alla guerra civile.
Senza fretta, naturalmente. Poiché bisogna costruire, nel frattempo, le tappe politiche che serviranno ai giornalisti embedded di tutto l’Occidente a descrivere l’aggressione militare in termini di restaurazione della democrazia in Siria.
Nei giorni scorsi è stato insediato a Istanbul un governo siriano in esilio, composto di emigrati siriani in America e in Occidente. Immediatamente proclamato come “unico governo legittimo”, in attesa di essere trasferito nei nuovi uffici di Gaziantep, nelle immediate vicinanze della frontiera turco-siriana. Vi resterà fino a che le squadre armate della Nato avranno ricavato qualche nicchia relativamente sicura in territorio siriano, affinché i Quisling possano trasferirvisi e, da lì, cominciare a lanciare i proclami di vittoria.
A quanto si sa, questo progetto è stato illustrato recentemente a Roma in una conferenza per specialisti intitolata “United States, Europe, and the case of Syria”. Il luogo è stato il Centro di Studi Americani, il presidente del panel era Giuliano Amato, l’oratore principale era Frederic Hof, ambasciatore statunitense e fino a pochi mesi fa capo del team del Dipartimento di Stato impegnato sul “caso Siriano”.
Se Bashar al-Assad dovesse interporsi – ha spiegato Hof – il fatto stesso sarebbe considerato occasione per intervenire in difesa del “legittimo governo siriano”. Se non vorrà o potrà intervenire, allora si estenderà gradualmente la sua area fino ad arrivare a Damasco. A quel punto o Bashar scappa (sempre che riesca a farlo tra un attentato e l’altro; sempre che riesca a sfuggire ai generali felloni che, nel frattempo, saranno stati comprati a peso d’oro, o impauriti a morte per la sorte dei loro figli e parenti) e il governo degli occidentali viene installato a Damasco, oppure ci sarà la carneficina finale, operata dai tagliagole jihadisti dopo che i missili Cruise e i droni della Nato avranno raso al suolo le ultime infrastrutture difensive, i comandi militari e i sistemi di comunicazione.
Mosca, Pechino e Teheran, ciascuna per conto proprio, non potranno che prendere atto. Putin sta facendo i suoi conti e Xi Jinping non sarà da meno. Ma entrambi non potranno fare molto di più che protestare al Consiglio di Sicurezza per la violazione delle norme della Carta dell’Onu. E’ una questione di tattica, poiché strategicamente la battaglia è stata perduta. Teheran ha qualche preoccupazione in più. La sparizione di Bashar da Damasco sarà un altro segnale che la pressione sull’Iran è in crescendo. Il viaggio di Obama a Gerusalemme ha lasciato Netanyahu piuttosto soddisfatto. Conoscendo i suoi piani non c’è da stare tranquilli. L’ayatollah Khamenei, la Guida Suprema, nel suo ultimo discorso ha fatto l’elenco dei peggiori nemici dell’Iran, stabilendo un ordine molto chiaro e preciso: al primo posto gli Stati Uniti, poi la Gran Bretagna e la Francia. Israele è finito solo al quarto posto. Un downgrading che indica come a Teheran Barack Obama non sia tenuto in grande conto come premio Nobel per la Pace.
Quanto tempo ci vorrà per cancellare l’ultimo “stato canaglia” del Mediterraneo? Frederic Hof non lo ha rivelato. Forse non lo sa ancora nemmeno lui. Queste cose richiedono pazienza. Nel frattempo continua quella che un alto ufficiale Usa, che ha mantenuto l’anonimato, ha definito una “cascata di armamenti”. Un vero e proprio ponte aereo di preparazione alla guerra.

Con ogni probabilità toccherà al prossimo ministro degli Esteri il compito di portare in guerra anche l’Italia in questa ultima avventura “democratizzatrice”.

Crisi dell'eurozona

La fine dell'euro in quattro passi - tempestaperfetta -

Piero Valerio

Mentre in Italia il peggiore presidente della storia della nostra Repubblica, Giorgio Napolitano, sta facendo i salti mortali per mantenere lo status quo e preservare la fallimentare classe dirigente eurista, fuori dai palazzi il processo di frantumazione dell’area euro procede a grandi passi. Il recente caso di Cipro ha fatto finalmente emergere a livello mondiale tutti i difetti di costruzione dell’unione monetaria più disastrata del pianeta ed ormai sarà impossibile per la tecnocrazia agire soltanto con la mistificazione e la propaganda mediatica per coprire e nascondere le magagne. In particolare il collasso di Cipro ha evidenziato due aspetti su cui si fondava il tentativo disperato dei menestrelli di regime di cambiare la realtà dei fatti: la crisi dell’eurozona non è una crisi di debito pubblico ma privato (bancario nella fattispecie, visto che in Europa i rapporti di debito-credito, risparmio-investimento sono intermediati principalmente dalle banche) e la liberalizzazione selvaggia e deregolamentata della circolazione dei capitali alla lunga crea insostenibili squilibri fra i paesi coinvolti. Adesso, soltanto i cialtroni patentati o gli analisti finanziari da bar dello sport potranno sostenere sfacciatamente in pubblico il contrario, senza essere zittiti con una sola parola: Cipro.

Ad ogni modo, chiunque voglia informarsi e capire cosa sta accadendo oggi in Europa e in Italia non può di certo affidarsi alla stampa e televisione nostrana, che si tiene ancora ben alla larga dalla tentazione di spiegare onestamente e criticamente agli italiani gli eventi che si succedono dentro e fuori i nostri confini, prefigurando dei possibili scenari futuri. A parte i blog e i siti di controinformazione, in Italia il regime di Repubblica, Corriere, Stampa, Santoro, Floris, Gabanelli (e derivati) fa ancora la voce grossa e la sordina messa da anni alla verità dei fatti funziona abbastanza bene, senza troppi affanni. Per fare ordine e capire qualcosa, bisogna armarsi di santa pazienza e rovistare fra la stampa estera, che ha sicuramente una visione molto più obiettiva e lucida degli eventi. A titolo di esempio, vi propongo questo articolo dell’analista Matthew O’Brien pubblicato sul giornale on line statunitense The Atlantic, che in modo semplice ed immediato chiarisce i quattro motivi principali per cui l’unione monetaria europea finirà per frantumarsi. Sperando magari che un giorno anche sui nostri giornali, piegati supinamente alle direttive e agli interessi delle grandi corporation e banche che detengono la loro proprietà, si possano rintracciare simili descrizioni.

All'inizio, come sappiamo, la crisi dell’eurozona era stata frettolosamente etichettata come una semplice "crisi del debito sovrano greco". Nel giro di pochi mesi fu abbastanza chiaro a tutti (tranne agli europei e agli italiani in particolare) che anche Irlanda e Portogallo, per motivi molto diversi da quelli greci, erano crollate. Poi venne il momento della capitolazione per Spagna e Italia, che finirono nel mirino dei mercati una per eccesso di debito privato e l’altra per l’enorme debito pubblico pluridecennale, che prima dell’ingresso nell’area euro non aveva mai destato particolari patemi né agli investitori né agli stessi debitori istituzionali sovrani. Oggi è arrivato il momento di Cipro, Malta e Slovenia di entrare nel tritacarne dei piani di salvataggio e delle rigide misure di austerità da applicare per meritarsi la solidarietà e la cooperazione poco disinteressata dei presunti alleati europei. Domani toccherà forse all’Estonia, mentre la Francia vacilla e la Germania stenta a far digerire all’opinione pubblica tedesca l’opportunità di rimanere alla guida di questo pastrocchio istituzionale per ricavarne vantaggi commerciali e finanziari. Vantaggi che come sappiamo favoriscono principalmente banche e grandi imprese focalizzati sulle esportazioni, facendo gravare tutto il peso degli squilibri e degli aggiustamenti su cittadini e lavoratori tedeschi.

A colpi di diktat imposti dall’alto e accordi sovranazionali che hanno avuto percorsi di ratifica a dir poco accidentati e controversi (vedi Fiscal Compact, six pack, MES, two pack), la crisi dell'euro sta entrando ufficialmente nel suo quinto anno consecutivo senza che all’orizzonte si veda qualche spiraglio di luce e di speranza per uscirne fuori. Anzi, questa continua cessione di sovranità nazionale e lo squilibrio crescente fra i beneficiari e le vittime dell’euro, hanno addensato ancora più nubi e incertezze sull’evoluzione del prossimo futuro. Tuttavia, da quando nell’estate scorsa il governatore della BCE Mario Draghi ha pronunciato le fatidiche parole: “whatever it takes” (“faremo qualunque cosa per salvare l’euro”), sia i mercati che i cittadini più avveduti hanno compreso che la tecnocrazia oligarchica europea non avrebbe mai mollato la presa tanto facilmente e abbandonato a cuor leggero il suo ambizioso progetto di annientamento della democrazia e delle costituzioni repubblicane nazionali. A costo di usare le maniere forti, l’esercito, la repressione violenta tipica dei regimi dittatoriali se necessario. Dopo più di trent’anni di propaganda, manovre di palazzo, pazienti privazioni di diritti e iniezioni di stupidità collettiva, gli oligarchi sono ora disposti a giocarsi il tutto per tutto, abbandonando le usuali maschere dei filantropi pacifisti e indossando quelle più consone dei plutocrati guerrafondai e imperialisti. E facendo i debiti scongiuri, non mi stupirei se da ora in avanti anche in Europa possano cominciare pure le scomparse sospette e le esecuzioni sommarie dei contestatori del regime, come accadeva nell’Argentina di Videla o nel Cile di Pinochet.

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