Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 2 febbraio 2013

Shipping globale: Zeus batte Wotan

Sergio Bologna - sinistrainrete -

Il capitale greco che fotte il capitale tedesco. Sembra una barzelletta, invece non lo è e la signor Merkel, così severa, certe volte, con gli stati "birichini" che spendono e spandono mentre la loro economia va a picco e produce milioni di disoccupati, dovrebbe oggi dimostrare la stessa, se non maggiore, severità verso i "birichini" di casa sua.

Stiamo parlando di shipping, di navi. Che c'entra la Germania con la Grecia? Cominciamo da quest'ultima. E' noto che lo shipping è l'unico settore dove la Grecia ha una leadership mondiale. Sono leggendari gli armatori greci, soprattutto per la loro abilità nel non pagare le tasse. Mentre milioni di greci stringono la cinghia, loro a dicembre hanno festeggiato le loro fortune in un ricevimento di mille persone in un grande hotel di Londra. La loro specialità tradizionale sono le petroliere ma ormai da un po' di tempo si sono allargati anche ad altri settori, le «bulk carrier», le container carrier, le Ro Ro. Se la sono vista molto brutta qualche anno fa, con la crisi del 2007/2008 ma, a differenza di altre volte, il Salvatore non ha assunto le modeste vesti del contribuente greco ma quelle ben più ricche della moneta cinese. Scriveva il Telegraph del 13 agosto 2012: «Le società greche stanno facendo squadra con le banche cinesi. Il premier Wen Jiabao ha consentito due anni fa che venissero erogati prestiti per 5 miliardi di dollari all'industria dell'armamento greca».E' questo che sta dietro alla consegna del porto del Pireo in mano ai cinesi, dopo più di un anno di scioperi e di opposizione dei portuali greci.


La Cina è vicina, anzi, mediterranea


Ma che interesse hanno i cinesi a mettere radici nel Mediterraneo e ad avere una posizione di rispetto nell'industria dell'armamento? La Cina ormai è una potenza coloniale, il suo controllo su vasti territori dell'Africa nera è ormai acquisito, la sua industria dell'armamento non è però all'altezza del suo ruolo coloniale, la grande compagnia di navigazione pubblica Coscon, tra le prime cinque-sei al mondo nel traffico container, ha perso un sacco di soldi. L'industria dell'armamento è saldamente in mano agli europei, sia per quanto riguarda la proprietà delle navi che per quanto riguarda la finanza specializzata nello shipping. Norvegia, Germania, Grecia, Danimarca, sono i signori dello shipping, la Norvegia e la Grecia nel settore «oil and gas», «dry bulk» e nell'«off shore», Germania e Danimarca nel container. I cinesi, se vogliono un posto al sole, debbono allargarsi in Europa e la mossa nei confronti dei greci può rivelarsi vincente. Come mai?

La Germania è la prima nazione al mondo per proprietà di navi «full container» ma è anche quella dove si investono più soldi in questo settore, attraverso una serie di banche specializzate, prima tra tutte HSH Nordbank, di proprietà della città-stato di Amburgo e del Land dello Schleswig Holstein, a maggioranza socialdemocratica il primo, rosso-verde il secondo. Le prime 12 banche tedesche alla metà del 2012 risultavano esposte per 129,2 miliardi di dollari nel settore dello shipping.


Un maremoto finanziario


Ma qui sta succedendo qualcosa che potrebbe provocare un cataclisma delle dimensioni di quello del 2008 con i mutui subprime. Le navi portacontainer, si sa, sono la colla della globalizzazione, portano le merci dalla Cina in Europa e negli Usa ed i semilavorati, le auto ed altri prodotti industriali, dall'Europa e dagli Usa in Cina e nel Far East. Controllano questo traffico colossale 20 compagnie marittime, la prima è la Maersk, danese, la seconda la MSC, ginevrina ma in realtà sorrentina (il suo patron Gianluigi Aponte dà da mangiare a migliaia di famiglie della penisola campana), la terza Cma Cgm, franco-libanese-turca e poi i cinesi di Coscon, di Evergreen, i tedeschi di Hapag Lloyd ecc..

Debiti e derivati, la mela marcia sta nella finanza

di Andrea Baranes - sbilanciamoci -


 
La vicenda Monte Paschi di Siena da alcuni giorni riempie le cronache. Si chiamano in causa comportamenti spregiudicati, l'ingerenza della politica, un sistema di potere «occulto»...
Verrebbe da dire magari fosse così. Perché parleremmo di alcune proverbiali mele marce in un sistema sano. Come avviene da diversi anni per ogni singolo scandalo e crisi che investe il mondo bancario e finanziario ci sentiamo ripetere che singole persone in posizione chiave si sono fatte abbagliare dalla cupidigia e hanno violato le regole del gioco.
E invece no. Lo scandalo Monte Paschi nasce dal seguire alla lettera le possibilità attualmente offerte dalla finanza. Ancora peggio. Dall'utilizzo di strumenti, procedure e meccanismi che interessano la gran parte del sistema bancario e finanziario.
Cos'è successo? In attesa di conoscere i dettagli della vicenda (se mai emergeranno), capiamo i meccanismi di funzionamento. Negli scorsi anni Monte Paschi si lancia in una serie di operazioni rischiose. Trading sui mercati finanziari per moltiplicare i profitti, la scalata a banca Antonveneta a un prezzo molto elevato, e via discorrendo. Poco importa la natura di queste operazioni, il fatto è che non vanno come sperato, e la banca accumula delle perdite.
Il problema è che quando si pubblicano i bilanci, gli azionisti non sono per niente contenti di vedere delle perdite. Vogliono dei profitti, anche sostanziali, altrimenti si arrabbiano con i manager e riducono loro gli stipendi e i bonus. E allora cosa si fa? Semplice, si «aggiusta» il bilancio per farlo sembrare migliore di quanto non sia in realtà.
Ho un debito di 100 euro con un mio amico, ma non voglio che si sappia in giro. E allora mi metto d'accordo con questo mio amico. Facciamo una scommessa. Io non gli devo più ridare i 100 euro, ma se entro tre anni il Frosinone non vince scudetto e Champions League dovrò restituirgliene 500. È una follia, mi direte. Le possibilità sono praticamente nulle e invece di dovergli 100 euro avrò un debito di 500. Sì, ma per me l'importante è il breve termine. Oggi posso dire in giro di non avere debiti, posso mostrare un bilancio scintillante. E il mio stipendio è legato a quanto brillano i miei numeri.
Tutto qui. In pratica la banca aveva un debito che grazie a un contratto derivato ha «spostato» su altre banche. Se e quanto questo debito riapparirà sui bilanci di Monte dei Paschi dipende da complicatissimi calcoli finanziari. Rimane il fatto che le grandi banche d'affari che costruiscono e vendono i derivati non sono delle sprovvedute. Nell'immediato hanno tolto dai bilanci di Monte Paschi il debito, ma nel medio periodo le possibilità che sia la banca senese a vincere non sono forse tanto distanti da quelle di vedere il capitano del Frosinone alzare la Champions cup da qui a tre anni (se vi interessa il linguaggio tecnico, Monte dei Paschi ha sottoscritto dei derivati chiamati swap che consentono lo scambio di due flussi di cassa, tipicamente un debito a tasso fisso con uno a tasso variabile).
Se in qualche modo questo meccanismo vi suona familiare, il principio è esattamente lo stesso dei derivati venduti agli enti locali in Italia, che hanno recentemente visto la condanna di quattro grandi banche nel processo contro il Comune di Milano. È esattamente lo stesso usato dalla Grecia per «abbellire» i bilanci pubblici ed entrare in Europa. È esattamente lo stesso usato da una buona parte delle grandi banche per fare sparire sotto il tappeto dei debiti subito prima di dovere pubblicare i bilanci semestrali. In questo modo il top management della banca mostra profitti a due cifre, gli azionisti sono contenti e i bonus si gonfiano.
Non sono poche mele marce, non è un abuso, non è uno scandalo e non è l'ingerenza della politica. È il normale funzionamento di questo sistema finanziario. Per favore, smettiamo di parlare di uno «scandalo Monte dei Paschi». È questa finanza a essere scandalosa. Non bisogna cambiare pochi manager che hanno tradito la fiducia dei risparmiatori. Bisogna cambiare, radicalmente, le regole del gioco dell'intero sistema finanziario. Introducendo una tassa sulle transazioni finanziarie, dei limiti e controlli sui derivati e via discorrendo. Come primo passo, come clienti scegliamo quelle banche che sostengono l'economia reale, e non affidiamo i nostri risparmi a chi se li va a giocare sul Frosinone campione d'Europa da qui a tre anni.

Finanza globale, sta cambiando qualcosa?

di Vincenzo Comito - sbilanciamoci -

 

Fondo monetario internazionale, Ocse e Unione Europea hanno mandato piccoli segnali di cambiamento nell’orientamento delle loro politiche. Che cosa sta succedendo nei bastioni dell’ortodossia neoliberista?
Partiamo da Davos, in Svizzera, dove si è svolta da poco, l’ultima edizione del meeting annuale dell’élite economica. Si è trattato della solita minestra riscaldata e i banali commenti che di solito vi si possono ascoltare fanno poco sperare sui destini del mondo. Sul fronte finanziario, Jamie Dimon, il boss della JPMorgan Chase, sulla scena da molti anni, ha dichiarato, con arroganza, che i banchieri dovranno sopportare ancora per diversi anni di essere segnati a dito, di rappresentare dei capri espiatori di una situazione di cui non sono responsabili, di essere infine collocati al centro di un’operazione di disinformazione per il loro presunto ruolo nella crisi finanziaria. Dimon ne ha anche approfittato per mostrare il disprezzo da lui nutrito per quelli che pensano di aver migliorato il sistema, in particolare per gli estensori negli Stati Uniti del Dodd-Frank Act. Alex Weber, presidente dell’UBS, ha rincarato la dose, criticando le nuove regole di Basilea sulla capitalizzazione e sulla liquidità delle banche (Fournier, 2013).
Christine Lagarde a Davos
Per il resto, il forum avrebbe sostanzialmente ignorato la questione, forse considerandola irrilevante, se non fosse stato per un intervento di Christine Lagarde, attuale direttore generale del Fondo Monetario, che ha avuto parole dure per il settore finanziario. Citiamo qualche brano dal suo discorso (Lagarde, 2013): “…come sappiamo la crisi economica globale… ha per la gran parte avuto origine nel settore finanziario. Esso ha nascosto troppe delle sue attività in angoli bui e fangosi e ha posto i suoi guadagni di breve termine al di sopra del sostegno all’economia reale. … Completare il lavoro della riforma del settore finanziario deve essere una priorità. Rileviamo già troppi segni di una caduta dell’impegno in tale direzione…”. Nella sostanza, l’assemblea ha fatto finta di non capire ed è passata subito all’argomento successivo.
Avevamo assistito lo scorso anno a un primo mutamento di toni e di contenuti nel discorso del Fondo monetario. La prima novità che aveva sorpreso era un rapporto dell’organizzazione il quale, rovesciando almeno in parte un pilastro della sua ideologia ultraliberista, ammetteva che in alcuni casi gli stati potessero limitare i movimenti internazionali dei capitali in entrata. Avevamo pensato allora che tale presa di posizione fosse collegabile alla presenza alla direzione del Fondo di Dominique Strauss-Khan, che era stato un membro autorevole del Partito socialista francese. Ma qualche settimana fa, sotto il governo della Lagarde, designata a suo tempo alla poltrona da Sarkozy e sua fedele collaboratrice, era già arrivata una sostanziale critica alle politiche di austerità europee, con la sottolineatura, fatta in un rapporto del Fondo, che esse possono accelerare la depressione economica. Nel rapporto si calcolava, tra l’altro, che una riduzione di spesa di 1000 euro nel bilancio pubblico di un paese poteva provocare una corrispondente riduzione del Pil sino a 3000 euro. Un bel risultato.
Ora viene la presa di posizione al forum di Davos. C’è da chiedersi se non stia succedendo qualcosa, e se il Fondo non stia cambiando sul serio alcuni dei suoi indirizzi. Dove va a finire a questo punto il Washington consensus?
Una spiegazione di tale apparente mutamento di rotta potrebbe forse essere collegata all’ipotesi che la situazione del mondo occidentale sia più grave di come essa viene rappresentata ufficialmente e il Fondo, essendone consapevole, cerchi di sollecitare i governi e le imprese a cambiare registro.

venerdì 1 febbraio 2013

Merito? Eguaglianza!

 

Il ‘merito’ è una truffa. ‘Far progredire i migliori’, proclamano i pasdaran del merito. Ma a chi spetta valutare le capacità altrui, se non a coloro che, spesso tutt’altro che meritevolmente, stazionano in cima alla scala sociale? Eppure, anche dal basso s’invoca il merito, fingendo di non sapere che la valutazione finale spetterà agli inquilini dei piani alti. Cioè ai privi di merito.

di Alessandro Robecchi, da MicroMega 8/12

Noi dobbiamo tutti lavorare per fare in modo che quando voi
tra alcuni anni arriverete al mercato del lavoro questo sia un paese
diverso, che non fa andare avanti per raccomandazioni e
per conoscenze, ma che premia le persone che meritano come voi.
Emma Marcegaglia, 2010

Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi.Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, 1967

Un fantasma si aggira per l’Italia. E non è Angelino Alfano.
È un fantasma che passa di bocca in bocca, che rimbalza dalle cronache ai convegni, che entra ed esce dalle pieghe di ogni discorso, che fa da premessa ad ogni ragionamento, che olia gli ingranaggi di qualsiasi riflessione sul «rinnovamento» italiano.
È il fantasma del «merito».

Se ogni italiano potesse avere un euro per ogni volta che si evoca il merito, avrebbe il merito di diventare ricco senza alcun merito, esattamente come i ricchi che ad ogni passo gli sventolano la parola «merito» sotto il naso.

Se lo stesso italiano avesse un po’ di memoria storica, peraltro, saprebbe che la fregatura aleggia nell’aria, come ogni volta che una parola fa irruzione sulla scena politica e ne prende il controllo, ripetuta ossessivamente, mai spiegata o argomentata. Un dogma: il merito.
Erano gli anni Novanta quando passò a volo radente, bombardando a tappeto la popolazione, la parola «flessibilità». Dal ministro Treu (primo governo Prodi) in poi, quella febbre contagiò tutto e tutti, con il risultato di produrre quaranta diversi tipi contrattuali di paraschiavitù a tempo determinato.
Una volta diventato più moderno e flessibile, il paese ne avrebbe guadagnato in efficienza e ricchezza, e si è visto. Dopotutto anche farsi amputare una gamba è un buon sistema per perdere peso.
Quando si cominciò a pronunciare la parola «privatizzazioni» fu chiaro a tutti che i monopoli sarebbero diventati società per azioni pur restando monopoli.
Dunque, se avessimo un po’ di memoria nel nostro bagaglio, guarderemmo al nuovo mantra sul «merito» con almeno un pizzico di perplessità.
E invece: un tripudio.

Si pensa erroneamente che la satira prenda le parole della politica per stravolgerle e ribaltarle in paradosso. Si tende invece a sottovalutare come la politica rubi materiale alla satira e – con una giravolta ancor più paradossale – lo adatti alle sue esigenze e ai suoi disegni. Così, pochi sanno che la parola meritocrazia deriva da un’opera satirica del 1958, The Rise of Meritocracy 1870-2033, autore Michael Young, che smascherava e derideva, con verve e sarcasmo, la balzana idea di una società basata solo sul merito. La meritocrazia risultava così come la campana a morto della democrazia: non più il governo del popolo, ma il governo dei migliori.
Già, migliori a fare cosa? Allacciate le cinture, partiamo.

Se state decollando o atterrando con un aereo, un caro e accorato pensiero andrà, insieme all’ansia di non rovesciare il prosecco, al «merito». Anche se non ve ne rendete conto, un angolino del vostro cervello sta pensando al pilota, al fatto che è meglio che sia un tipo in gamba e non soltanto, per dire, il fidanzato della figlia dell’amministratore delegato o del capo del personale della compagnia aerea. È la stessa cosa che amiamo pensare del chirurgo che ci opera, dell’autista dello scuolabus dei nostri figli, del macchinista del Frecciarossa o del nostro consulente finanziario.
Il merito inteso come capacità di fare quello che si sta facendo, insomma, è un dato che si dà per acquisito, cui la popolazione tiene parecchio, se non altro per autodifesa.

Monti e il profumo delle brioches di Maria Antonietta


ALESSANDRO ROBECCHI 


Sapesse, signora mia… Quella che segue è una piccola riflessione su chi ci governa (al momento, ma temo anche domani e forse per sempre), su chi sa ridere di loro e sulle differenze antropologiche (nemmeno politiche!) tra loro e noi. Involontaria protagonista, la signora Lidia Rota Vender, esimia professionista, alta società civile (!), candidata al Senato con la Lista Monti alle elezioni del 2013.

Eccola mentre – alla convention di presentazione della lista – racconta due aneddoti sulla vita di Mario Monti. Siamo dalle parti delle brioches di Maria Antonietta, delle riunioni del Rotary, del circolo di canasta travestito da casta tecnocratica che ci governa, tanto elegante e civica, quelli che le “cene eleganti” le fanno davvero, restando vestiti. Quelli che – andandosene Berlusconi tra sberleffi e ghigni proletari – venivano salutati dal Paese come i salvatori della patria, ai tempi (è passato poco più di un anno) in cui si salutava il loden del professor Monti come una rivoluzione culturale. Un anno dopo, le cifre economiche del Paese sono decisamente peggiori (dal potere d’acquisto alla disoccupazione, dagli investimenti all’erogazione dei crediti alle imprese e ai lavoratori, dai consumi ai redditi), ma i famosi mercati sembrano meno turbolenti. Ecco. Ma questo non basta. O non serve. O non è quello che qui si vuol dire. Ciò che strabilia sentendo gli “aneddoti” della dottoressa Rota Vender è altro. E’ un’aria di culto della personalità di tipo sovietico applicata al tecnocrate bancario. E’ una specie di “realismo capitalista”. E’ la retorica dell’imprenditore. E’ il circolo ristretto che se le canta e se le suona, che non vede né il mondo né la società intorno, che pensa e crede di essere il mondo e – peggio – il mondo giusto.

Non c’è niente di violento o di deplorevole nelle parole della signora dal palco in cui presenta il suo candidato premier. Eppure c’è un universo di differenze, di distanze abissali. C’è il mondo parallelo di una borghesia che basta a se stessa e vede solo sé, che scambia i suoi valori da privilegiati per valori universali. Non c’è il lavoro, non c’è la vita, non c’è la società. C’è solo lei, la razza padrona. Una faccenda che fa il paio con la signora Elsa Fornero che a chi le chiede della sua riforma del lavoro risponde (ieri a Firenze) con una frase francamente strabiliante: “Questa riforma del lavoro è una scommessa, non ho elementi per dire se funzionerà”. L’indifferente leggerezza di chi parla delle vite degli altri – delle nostre, tra l’altro – come se parlasse della salute delle sue begonie e del circolo del bridge. Anche qui, come nella deliziosa performance della signora Rota Vender, sentirete chiaro e forte il profumo delle brioches di Maria Antonietta.

La satira, poi, fa il suo mestiere. Maurizio Crozza, nel suo spettacolo, ha saputo cogliere l’essenza di questa razza padrona. Non le sue leggi, i suoi decreti, i suoi voti di fiducia, le sue (contro)riforme, ma la sua vera essenza. L’anima nuda. Il presidente che incoraggia il ragazzino a diventare imprenditore (già, quale missione sarebbe più nobile!). Il presidente che indovina tutte le risposte a Trivial. E via così, il Duce che ara dieci ettari, la luce dell’ufficio di piazza Venezia accesa anche di notte perché Lui lavora sempre. E’ il caro, vecchio, immortale sogno della borghesia italiana: i migliori tra noi ci pensano e risolveranno tutto. Ma è anche – nell’apoteosi di involontario ridicolo – una meravigliosa rivelazione: quella razza padrona c’è, è qui, in mezzo a noi, ancora (e sempre) comanda, governa, decide, incurante (eppure potrebbe averne i mezzi culturali!) della sua gloriosa inadeguatezza. Un tempo lontano, quando eravamo piccoli (e stupidi) la chiamavamo “borghesia assassina”. Ora che non siamo più piccoli (ma stupidi chissà), abbiamo imparato a misurare le parole, ma non per questo siamo diventati ciechi e sordi.

Come diceva Crozza, “E’ gente che conosce il mondo attraverso i suoi maggiordomi. E’ gente che si chiede: ma tutti questi italiani che non riescono ad arrivare alla fine del mese, e non riescono ad arrivare alla fine del mese, non riescono ad arrivare alla fine del mese… ma santo cielo… ma perché non partono prima?”.
A stretto giro, il presidente del consiglio Mario Monti ha accusato il colpo. Venendo meno al rituale aplomb (quello del loden e, si direbbe, delle risposte a Trivial) ha bollato Crozza come “patetico disinformato” (a Zeta, il nuovo programma di Gad Lerner). Ma siccome il diavolo è nei dettagli, ha aggiunto: “Abbiamo in lista anche dei terremotati poveri!”. Ecco, di nuovo quel profumo di brioches di Maria Antonietta.

Chiudo qui questa piccola riflessione. Con la notazione – mica tanto in margine – che la satira questa volta ha colpito nel segno. Ha fatto male. Non una caricatura, non una parodia. Ma una traduzione, una dimostrazione pratica, una fotografia svelata. Come ha scritto la mia amica Roberta Carlini, economista insigne, attenta osservatrice di quel mondo finanziario-padronale che ci governa: “Quella di Crozza è la foto più vera e crudele fatta a Monti e alla sua Alta Società Civile da quando è salito in campo”. Ecco. Per questo il piccolo spezzone di spettacolo qui sotto non è solo satira, né solo politica, né solo capacità artistica e genio comico. E’ – esattamente, perfettamente – ciò di cui parliamo quando parliamo di razza padrona, dell’elegante circolo di canasta che ci governa, e di noi che sappiamo vederlo. Buona visione.

Lidia Rota Vender presenta Monti con due aneddoti. Crozza la prende in giro!

LO SPETTACOLO DELLA SINISTRA

Fonte: il manifesto | Autore: Norma Rangeri       
     
Quotidiano, rovente, distruttivo, soprattutto disarmante. È lo spettacolo delle nostre divisioni a sinistra, ogni giorno più acute e plateali. Una cartina al tornasole della irresponsabile sottovalutazione della posta in gioco nel voto del 24 febbraio. Che ormai rasenta l'assenza di una seria presa di responsabilità verso quella parte del paese che spera (ancora), che crede (da troppo tempo), nella possibilità di andare a votare per una vera svolta politica . Lo scontro tra Vendola e Ingroia, tra Sel e la Lista capeggiata dal magistrato, il continuo rinfacciarsi l'un l'altro il «tradimento» della comune causa, ne è la clamorosa, deprimente testimonianza.
Una diaspora che ieri ha toccato il livello più basso con la reciproca accusa di scomparire il giorno dopo il voto. Da una parte si dice che l'alleanza di Sel con il Pd si sfascerà quando sarà chiaro che il partito di Bersani andrà al governo con Monti. Dall'altra si prevede che le forze riunite sotto l'insegna di Ingroia torneranno a dividersi nei mille pezzi che la compongono.
Non si tratta di lanciare appelli all'unità di facciata, né resuscitare ramoscelli d'ulivo o arcobaleni radiosi. Le divisioni ci sono, sono importanti, coinvolgono giudizi sullo stato delle forze in campo e vanno guardate senza veli. La scelta di coalizzarsi con il Pd per affrontare la sfida del governo del paese, o quella di dare forza elettorale a un movimento-partito per condizionare dall'esterno il Pd sono non solo due opzioni legittime, ma anche il frutto di una sconfitta storica della sinistra. Quel che non persuade e anzi semina un disorientamento crescente, è assistere a uno scontro sterile, persino fittizio, utile solo a prosciugare consensi a entrambi gli schieramenti.
Se lasciamo da parte le modalità (pure importanti) con cui si è giunti a queste tattiche di «coalizione», e guardiamo ai contenuti, non si potrà negare la prossimità dei due campi e le ragioni di un'affinità politico-culturale che li unisce. Sull'antiliberismo e sulla pace, sul neoambientalismo e sul modello di sviluppo c'è una stretta parentela tra Vendola e la lista Ingroia, più di quanta non se ne riesca a vedere tra Vendola e Bersani, o, per converso, tra Ferrero e Di Pietro. Così come su «la rotta d'Europa» si scontrano, invece, in questa parte della sinistra, due orientamenti, e forse due culture politiche diverse.
E' troppo chiedere di mantenere alto il livello del confronto? E' possibile evitare di ferirsi con le armi spuntate del «tradimento» da scagliare contro i rispettivi eserciti? L'elettorato di sinistra non si convince con le sceneggiate televisive, troppe e brucianti le delusioni accumulate negli ultimi anni per sopportare ancora le schermaglie mediatiche. Utili solo a seminare la voglia di restarsene a casa.

La rimozione della crisi

 
La rimozione della crisi

 

di Alberto Burgio - rifondazione -
I lettori del manifesto dovrebbero rileggere attentamente e meditare le conclusioni dell’articolo di Felice Roberto Pizzuti apparso su queste pagine martedì scorso. Dopo avere descritto la miscela esplosiva che sta devastando l’economia del paese e le condizioni di vita delle classi subalterne (attacco ai redditi da lavoro; deindustrializzazione e caduta del Pil; crisi della fiducia; crescita della disoccupazione, dell’inflazione e dell’ineguaglianza), Pizzuti notava come nessuna delle cause strutturali della crisi esplosa cinque anni fa sia stata rimossa. Al contrario, tutto va come se non fosse accaduto nulla. La finanza insegue indisturbata rendimenti sempre più elevati degli investimenti speculativi, gonfiando bolle destinate a provocare effetti ancora più dirompenti di quella dei mutui americani. Le banche e gli enti locali sono sempre più coinvolti nel business dei derivati (Mps docet, e c’è solo da sperare che non scoppi la bomba atomica delle banche tedesche). L’economia reale è in blocco e la politica economica è polarizzata dall’ossessione dei bilanci pubblici, letti con le lenti del più miope e gretto monetarismo. Fingendo di ignorare che le politiche di austerità non possono non aggravare, insieme alle sperequazioni sociali, la situazione debitoria dei paesi che hanno difficoltà ad attrarre investimenti dall’estero.
È uno scenario da incubo, che la dice lunga sull’irresponsabilità delle classi dirigenti europee. O sulla loro responsabilità al cospetto di interessi e poteri diversi da quelli degli Stati democratici che dovrebbero servire. Ma c’è di peggio, come se ancora non bastasse. Pizzuti lamenta, a ragione, l’egemonia dell’agenda Monti, che «costituzionalizza» il neoliberismo. E denuncia il silenzio della campagna elettorale sulle scelte economiche dei prossimi anni. Un silenzio che di quell’egemonia è l’effetto naturale e il più preciso criterio di misura. Un silenzio che lascia facilmente presagire che dopo il 25 febbraio non cambierà nulla, se non qualche nome proprio di chi ci governerà. Conosceremo altra povertà e altra disoccupazione. Moriranno a migliaia altre piccole e medie imprese. Vivremo in una società sempre più iniqua e disuguale. E ascolteremo quotidianamente, come ormai da anni, sermoni inutili e ipocrite promesse.
Qualcuno dei nostri lettori ricorderà che alcuni mesi fa (lo scorso luglio) il manifesto denunciò con forza il «furto d’informazione» che sui temi della crisi i media commettono ogni giorno a spese della cittadinanza. Osservavamo che la crisi che sta distruggendo la nostra società è politicamente pericolosa almeno quanto quella degli anni Venti del ’900, che spinse la Germania tra le braccia di Hitler a seguito di politiche deflazionistiche analoghe a quelle dettate oggi dalla Commissione europea. E denunciavamo il fatto che tutti i giornali (tranne il manifesto) e tutte le radio-televisioni (nessuna esclusa) presentano le politiche del rigore come se non vi fossero alternative. Come se non esistesse al mondo la possibilità di praticare politiche espansive che, privilegiando occupazione e crescita, ci porterebbero fuori dalla crisi riducendo disuguaglianza e iniquità. Come se ad alimentare la crisi non fossero proprio le scelte dei governi e delle istituzioni comunitarie, che persino il Fmi e gli Stati Uniti giudicano dissennate e insostenibili.
Questo denunciavamo. Argomentando che la cattura cognitiva operata dai media a danno dei cittadini imprigiona questi ultimi nella gabbia di un pensiero unico che impedisce loro di comprendere che cosa sta accadendo e quanta violenza subiscono da parte dei governi con l’alibi della crisi e nel nome del «risanamento». Abbiamo lanciato quelle accuse per l’intollerabilità della situazione, ma anche in previsione delle elezioni politiche di questa primavera. Nella consapevolezza che, se il furto di informazione fosse continuato anche nella campagna elettorale, ne sarebbero sortiti effetti dirompenti sia sul terreno economico-sociale, sia sul piano della legittimità democratica.
Purtroppo non solo nulla è cambiato in meglio, ma le cose sono peggiorate. E oggi, a meno di un mese dal voto, la nostra denuncia non può che essere ripetuta, con voce ancor più alta. Almeno nelle settimane che precedono il voto, in un paese democratico la scena mediatica dovrebbe essere aperta a un confronto realmente plurale.
Dovrebbe dare visibilità alle diverse letture dei problemi più seri e alle diverse idee di come affrontarli. Al contrario, avviene quanto osserva Pizzuti. Parlano di fatto solo gli zelanti esegeti dell’agenda Monti, a cominciare dal suo illustre autore. Pare esistano soltanto gli alfieri del rigore, persuasi che il pareggio di bilancio e il rientro dal debito siano obiettivi scolpiti nelle Tavole della legge. Ne viene fuori un quadro indegno di una democrazia, che il vecchio Brecht non esiterebbe a porre sotto l’insegna del fascismo democratico. Di tutto si parla fuorché dell’essenziale: delle cause reali della disperazione di tanta povera gente; di chi grazie a questa crisi sta accumulando enormi profitti; e del fatto che nessuno dei tre contendenti «compatibili» (centrosinistra, centrodestra e montiani) intende cambiare strada, colpendo patrimoni e rendite, esigendo che la Bce assuma le funzioni di una vera Banca centrale e varando politiche espansive per la piena occupazione.
Di recente Reporters sans frontières – certo non imputabile di simpatie comuniste – ha pubblicato un rapporto sulla libertà d’informazione dal quale risulta che in Italia c’è meno pluralismo e libertà nella diffusione delle notizie che in Namibia, Bulgaria e Corea del Sud. Come sempre, la spiegazione è il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, ma questa ormai è una foglia di fico. Che i giornali e le televisioni del Cavaliere facciano il loro sporco lavoro è ovvio, ed è indecente che i suoi presunti avversari non abbiano fatto mai nulla per impedirlo. Ma quanto a parzialità e conflitti d’interesse la cosiddetta stampa indipendente e il sedicente servizio pubblico non sono da meno. E non hanno nulla da invidiare alla grancassa del padrone di Arcore.
Il Manifesto – 31.01.13

Venerdì 1 Febbraio a Roma, la rivoluzione civile anche per l’Europa

    
Venerdì 1 Febbraio a Roma, la rivoluzione civile anche per l’Europa

Venerdì 1 Febbraio a Roma, la rivoluzione civile anche per l’Europa

di Fabio Amato -
Al teatro Capranica, il 1 Febbraio, Antonio Ingroia interverrà alla manifestazione del Partito della Sinistra Europea, insieme a Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista , che di Sinistra Europea è fondatrice, e a Jean Luc Melenchon, candidato alle presidenziali del Front de Gauche francese che alle scorse elezioni raggiunse oltre l’11% dei voti, e che , felice coincidenza, aveva come slogan proprio quello della Révolucion citoyenne.
Una manifestazione contro il Fiscal compact e l’austerità, ovvero le politiche economiche di tagli e sacrifici che l’Unione Europea sta imponendo in tutta Europa, mentre regala allo stesso tempo migliaia di miliardi alle banche.
Una politica che ha aggravato la crisi, invece di risolverla, una politica il cui unico obiettivo è quello di rassicurare la finanza speculativa , che infatti continua a lucrare e a fare profitti, mentre chiudono aziende e la disoccupazione in Europa ha raggiunto cifre spaventose, oltre 20 milioni di cittadine e cittadini senza lavoro. Il nostro paese è fra quelli che sta pagando queste scelte, con le misure portate avanti da Monti e sostenute da Pd, Pdl, e Udc in Parlamento. Misure come l’adesione al Fiscal compact, un trattato che obbligherà l’Italia a continuare nella folle politica di tagli indiscriminati per i prossimi venti anni. Tagli di oltre 40 miliardi di euro ogni anno che avranno l’unico effetto di aggravare la recessione e la crisi economica, che colpiranno ancora la sanità, le pensioni, la scuola e i servizi. Per questo siamo contrari al Fiscal compact. Un trattato sul quale non vi è stata alcuna discussione pubblica, che è dannoso per L’Italia e per tutto il continente.
Senza rimettere in discussione questo trattato e le forme ademocratiche dell’Unione Europea, i suoi trattati neoliberisti, non si esce da questa crisi. Monti e con lui il PD non intendono mettere in discussione questo vero e proprio commissariamento sulla futura politica economica. Ne sono stati al contrario sostenitori, ed Infatti il loro programma economico, come scrive anche Scalfari su Repubblica, è sostanzialmente equivalente. Anzi, Bersani si dice addirittura favorevole ad ulteriori vincoli, come quello proposto dal Ministro tedesco Schauble di un supercommissario europeo che abbia potere di veto sui bilanci degli stati. Ovvero la fine della democrazia. In tutta Europa, le forze della sinistra europea, sostengono questa lotta contro il Fiscal compact e le scelte della BCE e della Commissione Europea, e stanno crescendo. E’ il caso di Syriza in Grecia o di Izquierda Unida in Spagna. Sono forze che si oppongono a quelle grandi coalizioni che vedono governare insieme centrosinistra e centro destra, o portare avanti e votare le stesse politiche, come accaduto in Grecia e come si apprestano a fare anche in Italia dopo le elezioni.
Le politiche di Monti sostenute dalla grande coalizione PD-PDL- UDC, stanno portando l’Italia nello stesso vortice della Grecia. Tagli, recessione, ulteriori tagli, disoccupazione , povertà. Il debito aumenta e i soldi pubblici vanno solo alle banche e vengono tolti ai servizi pubblici e sociali.
Con l’austerità stanno usando la crisi per distruggere lo stato sociale e i diritti. Favoriscono i più potenti e fanno pagare la crisi ai più deboli. Senza stato sociale e senza democrazia non esiste Europa. C’è solo quella delle oligarchie e della banche. Anche per questo ci vuole una rivoluzione civile, per rompere le grandi coalizioni delle banche e per costruire l’Europa della giustizia sociale e dei popoli.

Falconi e avvoltoi

Pubblicato il 31 gen 2013

di Marco Travaglio -
Conosco Antonio Ingroia da 15 anni e non l’ho mai sentito paragonarsi a Falcone o a Borsellino. Semplicemente gli ho sentito ricordare due dati storici: nel 1988, neomagistrato, fu “uditore” di Falcone; poi nell’89 andò a lavorare alla Procura di Marsala guidata da Borsellino, di cui fu uno degli allievi prediletti. Nemmeno l’altro giorno Ingroia s’è paragonato a Falcone. S’è limitato a ricordare un altro fatto storico: appena Falcone si avvicinò alla politica (e di parecchio), andando a lavorare al ministero della Giustizia retto da Martelli nel governo Andreotti, fu bersagliato da feroci attacchi, anche da parte di colleghi, molto simili a quelli hanno investito l’Ingroia politico. Dunque non si comprende (se non con l’emozione di un lutto mai rimarginato per la scomparsa di una persona molto cara) l’uscita di Ilda Boccassini che intima addirittura a Ingroia di “vergognarsi” perché avrebbe “paragonato la sua piccola figura di magistrato a quella di Falcone” distante da lui “milioni di anni luce”. Siccome Ingroia non s’è mai paragonato a Falcone, la Boccassini dovrebbe scusarsi con lui per gl’insulti che, oltre a interferire pesantemente nella campagna elettorale, si fondano su un dato falso. Ciascuno è libero di ritenere un magistrato migliore o peggiore di un altro, ma non di raccontare bugie. Specie se indossa la toga. E soprattutto se si rivolge a uno dei tre o quattro magistrati che in questi 20 anni più si sono battuti per scoprire chi uccise Falcone e Borsellino. Roberto Saviano tiene a ricordare che “Falcone non fece mai politica”: ma neppure questo è vero. Roberto è troppo giovane per sapere ciò che, in un’intervista per MicroMega , Maria Falcone mi confermò qualche anno fa: nel ’91 suo fratello decise di usare il dissidio fra Craxi e Martelli per imprimere una svolta alla lotta alla mafia dall’interno del governo Andreotti, pur sapendo benissimo di quale sistema facevano o avevano fatto parte quei politici. Difficile immaginare una scelta più politica di quella. Ora però sarebbe il caso che tutti – politici, magistrati e giornalisti – siglassero una moratoria su Falcone e Borsellino, per evitare di tirarli ancora in ballo in campagna elettorale. Tutti, però: non solo qualcuno. Anche chi, l’estate scorsa, usò i due giudici morti per contrapporli ai vivi: cioè a Ingroia e Di Matteo, rei di avere partecipato alla festa del Fatto , mentre “Falcone e Borsellino parlavano solo con le sentenze”. Plateale menzogna, visto che entrambi furono protagonisti di centinaia di dibattiti pubblici, feste del Msi e dell’Unità, programmi tv, libri, articoli. Queste assurde polemiche dividono e disorientano il fronte della legalità, regalando munizioni a chi non chiede di meglio per sporchi interessi di bottega. Ma vien da domandarsi perché né la Boccassini né la Falcone aprirono bocca due anni fa, quando Alfano, ministro della Giustizia di Berlusconi, si appropriò di Falcone per attribuirgli financo la paternità della controriforma della giustizia. Né mai fiatarono ogni volta che politici collusi o ignavi sfilarono in passerella a Palermo negli anniversari delle stragi, salvo poi tradire la memoria dei due martiri trattando con la mafia, o tacendo sulle trattative, o depistando le indagini sulle trattative. Chissà poi dov’erano le alte e basse toghe che ora si stracciano le vesti per la candidatura di Ingroia quando entrarono in politica Violante, Ayala, Casson, Maritati, Mantovano, Nitto Palma, Cirami, Carrara, Finocchiaro, Carofiglio, Della Monica, Tenaglia, Ferranti, Caliendo, Centaro, Papa, Lo Moro, su su fino a Scalfaro. E dove spariscono quando si tratta di dedicare a Grasso le critiche riservate a Ingroia. Se poi Ingroia deve espiare la colpa di aver indagato su mafia e politica, di aver fatto condannare Contrada, Dell’Utri, Inzerillo, Gorgone e di aver mandato alla sbarra chi trattò con i boss che avevano appena assassinato Falcone e Borsellino, lo dicano. Così almeno è tutto più chiaro.
Il Fatto Quotidiano 31 gennaio 2013

giovedì 31 gennaio 2013

Finanza libera da interessi

JAK Italia, il modello di banca senza interessi

Jak Italia è il primo progetto italiano di finanza libera da interessi. L'obiettivo è quello di promuovere il risparmio e la creazione di una economia solidale. Per saperne di più sulla creazione di questo nuovo modello bancario, ne abbiamo parlato con Enrico Longo, presidente del comitato promotore della Banca Popolare Jak Italia.

di Dario Lo Scalzo

euro
Il progetto JAK nasce dalla volontà del comitato promotore di cambiare il modo di fare banca ed erogare prestiti nel nostro Paese, con un’idea di business sociale 'no profit'
Nonostante quello che vogliono farci credere, il Paese non è spento. Esiste un‘Italia che si muove per cambiare, che ha deciso di mettersi in gioco in prima persona per provare a modificare i comportamenti individuali e collettivi, per abbattere i pilastri perdenti del sistema esistente e che prova a creare un nuovo benessere; quello che mira a porre al centro la cultura del valore, quello che tende al vero progresso dell’umanità che risiede nella centralità della persona, nell’esaltazione della sua dignità, della sua diversità e nel suo rispetto.

Spesso il cambiamento nasce dalla semplicità e giunge anche riproducendo le esperienze di successo di altri luoghi che, ahimè, molto spesso non vengono veicolate né raccontate alle masse, probabilmente perché attraenti, scomode e rivoluzionarie. Nell’Italia che cambia abbiamo incontrato Enrico Longo, presidente del comitato promotore della Banca Popolare Jak Italia per saperne di più sulla loro idea di creazione di un nuovo modello bancario.

Chi siete e cosa proponete?

Attualmente esistono l’Associazione culturale Jak Bank Italia ed il comitato promotore per la costituzione della Banca Popolare Jak Italia. La prima si occupa di fare sensibilizzazione e formazione sul tema dell’economia interest-free, organizzazione di eventi promozionali ed aggregare quante più persone possibili attorno al progetto. Il secondo è, invece, lo 'strumento tecnico' che sta portando avanti l’iter di costituzione del soggetto bancario.

Il progetto JAK nasce dalla volontà del comitato promotore di cambiare il modo di fare banca ed erogare prestiti nel nostro Paese, con un’idea di business sociale 'no profit' in cui l’obiettivo sia la sostenibilità economico-finanziaria, non la massimizzazione del profitto. La peculiarità della futura Banca Popolare Jak Italia sarà, infatti, l’assenza di applicazione di interessi sui prestiti e sulla giacenza. Sarà, inoltre, un modello di reciprocità, in cui i soci, e non i clienti come nel tradizionale sistema bancario, potranno condividere i loro risparmi con gli altri soci, a basso costo.

jak italia
La peculiarità della futura Banca Popolare Jak Italia sarà l’assenza di applicazione di interessi sui prestiti e sulla giacenza
Alla base dei valori del progetto c’è, dunque, l’esigenza, fortemente sentita oggi dalle aziende come dai privati, di modificare radicalmente l’attuale sistema economico-finanziario, giungendo ad un nuovo paradigma in cui i valori, la cultura e gli individui occupino un ruolo di primo piano: una banca che dia credito esclusivamente all’economia reale e locale consentendo lo sviluppo di una nuova sostenibilità e coscienza ambientale anche in campo economico e finanziario.

mercoledì 30 gennaio 2013

L’austerity ipoteca il nostro futuro

- lavorincorsoasinistra -

AusterityValdimiro Giacchè
– Il ruolo dell’Italia in Europa va ripensato. Per ottenere ciò che ci spetta non servono né le barzellette di Berlusconi, né l’atteggiamento dello scolaretto diligente Monti. L’Italia deve poter far valere i propri diritti senza prendere ordini da nessuno. Vanno rinegoziate le regole di bilancio contenute nel Fiscal Compact(approvate dai governi Berlusconi e Monti), che sono estremamente e irragionevolmente punitive per il nostro Paese (si pensi alla necessità di ridurre del 5% annuo la parte del debito pubblico eccedente il 60% del Pil, che comporterà l’obbligo di manovre correttive di 45-47 miliardi di euro l’anno per molti anni). Il Fiscal Compact è un’ipoteca gravissima sulla nostra crescita economica per anni e anni, e deve assolutamente essere rinegoziato. Non ammettere che tale rinegoziazione è necessaria significa, non soltanto riproporre una politica fallimentare, ma ingannare gli elettori. Bisogna porre fine alle politiche di austerity fatte di aumenti delle tasse e di tagli ai servizi sociali e alle pensioni. Anche il Fondo Monetario Internazionale e la Banca d’Italia ne hanno evidenziato gli effetti recessivi sull’economia. E, in effetti, proprio a causa della recessione causata da queste manovre, il rapporto debito/Prodotto interno lordo è cresciuto dal 120% del 2011 al 126,6 del 2012. Questo significa una cosa sola: le politiche di austerity non sono soltanto ingiuste, ma fallimentari: hanno aggravato il problema che dovevano risolvere. Questo problema è oggi eluso da tutti i maggiori partiti che sono direttamente responsabili di queste politiche. E chi, tra di loro, tenta di agitare strumentalmente questo tema, critica oggi le misure che ieri ha votato in Aula. Rivoluzione Civile è composta da movimenti e organizzazioni politiche che, dentro e fuori il Parlamento, si sono coerentemente battuti contro queste politiche, denunciandone per tempo gli effetti negativi poi puntualmente concretizzatisi. Per questo è oggi l’unica forza politica dotata della credibilità necessaria per porre questo obiettivo al centro della propria proposta.
Vladimiro Giacché
Candidato alla Camera dei deputati per Rivoluzione Civile

DOPPIO SCANDALO SOTTO IL MONTE

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- lavorincorsoasinistra -        
Andrea Baranes- Quello che sta emergendo dalla vicenda Monte dei Paschi è un intreccio di interessi tra finanza, politica e mondo degli affari, operazioni speculative sempre più azzardate e incomprensibili, bonifici miliardari, e altro ancora. Ma c’è di più, molto di più.
Solo poche settimane fa una delle più grandi banche del mondo ha patteggiato con la giustizia statunitense per uscire da un’accusa di riciclaggio del denaro dei narcos messicani. Una mezza dozzina di gruppi bancari è coinvolta nelle indagini per la manipolazione del Libor, un tasso di interesse su cui si basano migliaia di miliardi di euro di mutui e titoli finanziari. Le stesse tecniche e gli stessi strumenti utilizzati dal Monte Paschi per abbellire i bilanci e mascherare le perdite sono quelli che hanno portato alla condanna di quattro banche per la vendita di un derivato al comune di Milano. Sono decine, se non centinaia, gli enti locali che hanno sottoscritto derivati negli scorsi anni, con perdite che potrebbero ammontare a decine di miliardi di euro.
E questi sono alcuni casi tra gli innumerevoli emersi solo negli ultimi mesi. Viene da domandarsi quale settore merceologico è con tanta frequenza e regolarità al centro di scandali, truffe e crimini come quello bancario e finanziario.
In questa vicenda occorre tenere separati due piani. Da un lato il comportamento del Monte Paschi e dei suoi dirigenti, l’ingerenza della politica, il ruolo della fondazione. Situazioni di estrema gravità, sulle quali occorrerà fare piena chiarezza. Il problema è che, complice la campagna elettorale, il dibattito di questi giorni non va oltre. Ed è un peccato, perché poteva e doveva essere l’occasione per rilanciare la questione della necessità di regole e controlli per l’intero sistema bancario e finanziario.
Nella sua relazione di ieri in commissione parlamentare, il ministro dell’economia Grilli ha dichiarato che è «indispensabile non insinuare dubbi sulla solidità del sistema bancario italiano». Ha ribadito che i controlli ci sono e la vigilanza funziona. Saremmo lieti se fosse così, ma più di qualche dubbio rimane.
Recentemente le istituzioni europee hanno intrapreso una serie di stress test sugli istituti di maggiore dimensione, per verificarne la solidità e la capacità di superare eventuali nuove crisi. Su 91 banche sottoposte ai test, unicamente 8 non hanno superato la prova. Tutto bene, quindi. Effettivamente il sistema bancario europeo è solido. Peccato si tratti di apparenza, peccato che ai primi posti, tra le banche più solide d’Europa e sia risultata la Dexia, la stessa che, dopo l’esito degli stress test, è stata salvata tre volte e da due diversi governi, Francia e Belgio. CONTINUA|PAGINA5
Qual è il problema, allora? Il problema è che le banche devono pubblicare un bilancio, ma se hanno delle perdite possono nasconderle sotto il tappeto grazie ai derivati, come nel caso Monte Paschi. Che nel bilancio devono riportare i loro attivi e limitare l’erogazione di crediti rischiosi in base alle regole internazionali dell’accordo di Basilea. Ma grazie alle cartolarizzazioni questi limiti possono essere elusi, e gli attivi portati fuori bilancio, spostandoli in un qualche paradiso fiscale. Viene da chiedersi a cosa serve pubblicare un bilancio, se tanto gli attivi quanto le perdite, solo per fare un paio di esempi macroscopici, possono essere “interpretati” per mostrare numeri scintillanti. Rimandando i problemi, spesso ingigantendoli con operazioni spregiudicate per salvare la faccia nel breve.
Occorre chiudere questo gigantesco casinò. Introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie che sia davvero efficace nel frenare la speculazione, chiudere i paradisi fiscali, limitare o bloccare i derivati più rischiosi e gli altri titoli tossici, separare le banche commerciali da quelle di investimento e via discorrendo. Sono in massima parte le proposte contenute nell’appello “Cambiamo la finanza per cambiare l’Italia” che Banca Etica ha lanciato nei giorni scorsi per chiedere al prossimo governo di riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia e della società, non un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Per chiarire che c’è una parte del sistema bancario che lavora erogando credito all’economia reale, con la massima trasparenza, valutando le ricadute sociali e ambientali di ogni prestito effettuato. Per ricordare che tutti noi risparmiatori, quando depositiamo i nostri soldi in banca piuttosto che in un’altra, stiamo facendo una scelta. Dobbiamo scegliere se vogliamo una finanza che sia parte della soluzione o che continui ad essere uno, se non il principale, problema.

Marx, Keynes, Friedman e Fritz Schumacher a Davos

  
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Larry Elliot, capo redattore economico del Guardian, ha scritto un interessante dibattito immaginario tra Marx, Keynes, Friedman e Fritz Schumacher, intervistati dal capo del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde al World Economic Forum di Davos. Lo abbiamo tradotto per voi.

Christine Lagarde: Karl, tu come vedi la situazione?
Karl-Marx-300x300Karl Marx: La classe capitalista riunita a Davos ha trascorso gli ultimi giorni grattandosi la testa per la disoccupazione e la mancanza di domanda dei propri prodotti. Non sembra però capace riconoscere che ciò è inevitabile in un’economia globalizzata. C’è una tendenza verso il sovrainvestimento, la sovraproduzione e la caduta del saggio di profitto, che, come sempre, i datori di lavoro hanno cercato di contrastare con il taglio dei salari e la creazione di un esercito di riserva del lavoro [disoccupazione, ndt]. Ecco perché ci sono più di 200 milioni di disoccupati in tutto il mondo e vi è stata una tendenza verso una maggiore disuguaglianza. E’ possibile che il 2013 sia migliore del 2012, ma sarà un sollievo di breve durata.
Lagarde: Questa è una analisi cupa, Karl. I salari stanno crescendo abbastanza velocemente in alcune parti del mondo, come la Cina, ma sarei d’accordo sul fatto che la disuguaglianza è una minaccia. Le ricerche del FMI mostrano che la disuguaglianza è correlata all’instabilità economica…
Marx: E’ vero che le economie emergenti sono in rapida crescita, ma col tempo anche loro saranno colpite dalle stesse forze.
Lagarde: Maynard, pensi che le cose siano così tetre come dice Karl?
jmk300John Maynard Keynes: No, non lo penso Christine. Penso che il problema sia grave, ma risolvibile. L’ultima volta che abbiamo dovuto affrontare una crisi di questa portata abbiamo risposto con un aggressivo allentamento della politica monetaria – riducendo i tassi di interesse sia a breve termine che a lungo termine – e con l’uso dei lavori pubblici per stimolare la domanda aggregata. Negli Stati Uniti, il mio amico di Franklin Roosevelt ha sostenuto normative che hanno permesso ai lavoratori di organizzarsi[1]. Dopo la seconda guerra mondiale, la comunità internazionale ha creato il Fondo Monetario Internazionale al fine di appianare gli squilibri della bilancia dei pagamenti, prevenire guerre valutarie mutualmente distruttive e controllare i movimenti di capitali. Tutte queste lezioni sono stati dimenticate. L’equilibrio tra politica fiscale e monetaria è sbagliato, le guerre valutarie stanno crescendo, il settore finanziario rimane in gran parte non riformato e la domanda aggregata è debole perché i lavoratori non stanno ricevendo una congrua parte dei guadagni di produttività. La teoria economica è bloccata nel passato, è come se la fisica non fosse andata avanti dai tempi di Keplero.
Lagarde: Mi sembra di capire da quello che stai dicendo, Maynard, che non approvi il modo in cui George Osborne sta conducendo l’economia del Regno Unito.
Keynes: Il suo senno ha preso una vacanza. La Gran Bretagna ha un problema di crescita, non un problema di deficit.
Lagarde: Oserei dire Milton che non sei d’accordo con tutto quello che ha detto Maynard. Potresti sostenere, presumo, di lasciare che la malattia faccia il suo corso.
friedmanMilton Friedman: Alcuni dei miei amici della scuola austriaca di teoria economica sarebbero senz’altro favorevoli a non fare nulla nella speranza di una riequilibrio del sistema, ma non io. A differenza di Maynard, non sosterrei misure che aumentino il potere contrattuale dei sindacati e non sono mai stato appassionato di opere pubbliche quale risposta ad una crisi. Ma certamente supporterei ciò che Ben Bernanke ha fatto con la sua politica monetaria negli Stati Uniti e sosterrei azioni ancora più drastiche se si rendessero necessarie.
Lagarde: Ad esempio?
Friedman: Be’, penso che la politica monetaria deve essere impostata in modo da avere come obiettivo il PIL nominale, vale a dire l’aumento delle dimensioni dell’economia non aggiustato all’inflazione. Se la sua crescita è troppo alta, le banche centrali dovrebbero attuare politiche restrittive. Se è troppo bassa, la tendenza che vediamo dopo l’irruzione della crisi, dovrebbero allentarle. In casi estremi, mi piacerebbe favorire politiche che confondono i confini tra politica monetaria e fiscale. Ecco cosa intendo quando parlo di lanciare denaro dall’elicottero nell’economia.
Lagarde: Fritz, sei stato seduto lì ad ascoltare pazientemente Karl, Maynard e Milton. Come valuti lo stato del mondo?
fritz schumacherFritz Schumacher: Mi disturba fortemente il modo in cui il dibattito è stato impostato. Vi è un ossessione per la crescita a tutti i costi, indipendentemente dai costi ambientali. Il cambiamento climatico è stato raramente menzionato a Davos e ciò dopo un anno di eventi meteorologici estremi. E’ spaventoso che così poca attenzione sia stata dedicata al riscaldamento globale, ed è quasi criminale la negligenza dei governi nel non approfittare di tassi di interesse estremamente bassi per investire nelle tecnologie verdi.
Come è avvenuto in passato, le recessioni hanno spinto le questioni ambientali fuori dall’agenda politica. Quando le cose vanno bene, i politici dicono di essere a favore dello sviluppo sostenibile, ma gli impegni sono stati dimenticati non appena la disoccupazione è iniziata a salire. Quindi si è tornati ad agire come al solito: più strade, ingrandimento degli aeroporti, tagli fiscali per incoraggiare il consumo. Gli scienziati avvertono che le temperature globali saliranno di parecchi gradi sopra i livelli del periodo preindustriale, se non cambieranno le politiche. Questa è economia da manicomio.
Lagarde: Maynard, qual è la tua risposta?
Keynes: Sono d’accordo con Fritz. Se dovessi consigliare Roosevelt oggi, spingerei per un New Deal verde. Mi è difficile immaginare un mondo senza crescita, qualcosa che è politicamente inaccettabile dei paesi in via di sviluppo, in ogni caso. Ma Fritz ha ragione, abbiamo bisogno di una crescita più intelligente e più pulita. Come tu stessa hai detto la scorsa settimana, Christine, se continuiamo così la prossima generazione sarà “arrostita, tostata, fritta e grigliata”.
Schumacher: Non avrei potuto dirlo meglio io stesso.
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[1] In realtà Keynes non sostenne le riforme pro-sindacati (e pro-monopoli) di Roosevelt, consigliando al presidente americano di rimandarne l’attuazione dopo la depressione, nota nostra

Partiti. Non Movimenti ...



di Alessandro Mortarino. -
altritasti -

Questa ve la racconto. Nelle ultime settimane ho ricevuto diverse telefonate da parte di persone di tutta Italia con le quali condivido, da anni, battaglie in difesa dei beni comuni e dei diritti primari. Ogni telefonata era all'insegna della domanda epocale: «con chi ti candidi ?». Lo ammetto, alla prima telefonata devo avere reagito come il bimbo colto un attimo prima di allungare le mani sul barattolo di marmellata (ma tutti sanno che la marmellata al bimbo non piace affatto). Alla seconda ero già navigato. Alla ennesima, devo essere apparso come il tarantolato in pieno plenilunio. Così vorrei provare a ricordare cos'è un "Movimento" ed eliminare qualche confusione di troppo ...

Perchè, ovviamente, non mi è passato per l'anticamera del cervello un minimo afflato a candidarmi. Come sempre. Non per preservare una virginea purezza e neppure per noblesse ostentata.
Semplicemente: faccio parte di quel mondo ("società civile", termine che ormai devo imparare ad eliminare dal mio lessico mentale) che crede che occorre "cambiare il mondo senza prendere il potere", come gli zapatisti ci insegnano e come i forum sociali mondiali da anni cercano di proporci come metodo di politica costruttiva e "dal basso".

"Cambiare il mondo senza prendere il potere" significa interiorizzare un fatto che dovrebbe essere ormai da tutti acquisito: anche se qualcuno "di noi" entra nella stanza dei bottoni del potere (politico) nazionale, il sistema non si modifica; al massimo puoi migliorarne qualche aspetto, puoi avere accesso a informazioni di prima mano, puoi provare a correggere la linea del treno in corsa verso lo sfacelo. Ma il sistema non lo cambi, nè da solo nè in minima compagnia.
La prova sta, restando in Italia, nei disastri registrati negli ultimi lustri dalla presenza di parlamentari (e ministri) vicini alle nostre istanze di base: non hanno cambiato il sistema. Anzi, ne sono stati stritolati.
E il riflusso ci ha stritolati tutti.

"Cambiare il mondo senza prendere il potere" significa avere il coraggio, la forza, l'ostinazione di stare nella polvere quotidiana e ascoltare e immaginare scenari nuovi, raccontarli, dare voce a chi non ce l'ha, catturare l'adesione di elite sempre più ampie e sempre meno elitarie. Se le masse condividono, allora sì che il salto verso il potere può avere un senso. Ma non prima.
E c'è un enorme lavoro ancora da fare. E in molti lo stiamo facendo.
E' molto faticoso, sembra sempre di non farcela.
Eppure qualche timido risultato lo vedi, lo senti, lo tocchi.

Poi arrivano le elezioni e ogni "nuovo che avanza" spara sulle caste e professa la vittoria della gente, del Movimento. Quale Movimento ?
Il Movimento. E basta.
Sufficiente la parola stessa perchè Lazzaro si alzi e torni a camminare.
Così tutti credono che il Movimento sia in lizza.
E le urne sentenzieranno: il Movimento ha perso.

Anche questa volta finirà così.

Ma noi sappiamo che non esiste un Movimento. Esistono i Movimenti. Che lavorano ogni giorno non per vincere le elezioni ma per stimolare il cambiamento. Sociale.
Culturale.

Ad ogni elezione i Movimenti li trovate pronti a dialogare con tutti (tranne i razzisti e i fascisti), a formulare proposte, a criticare posizioni inaccettabili, a delineare un orizzonte possibile.

Non li troverete mai disponibili a sostenere questo o quello.
Li troverete impegnati a far entrare le loro visioni, ovunque.

Questi sono i Movimenti.
Alla lista o al partito che vi dirà "potere al Movimento", rispondete che voi non ci cascherete più.

Immagino che queste riflessioni non piaceranno a tutti, ma le sento doverose per allontanare nebbie dense che confonderanno le nostre prossime strade.
Nebbie che già vedo rialzarsi: toh, ecco il barattolo della marmellata.
Laggiù, all'orizzonte ...

L'uomo dai voti tutti uguali

 
di Alessandra Daniele - carmilaonline -
MariMonti.jpgQuest'anno decidere come votare sarà particolarmente facile.
Infatti, per chiunque voteremo, comunque voteremo per Monti.

- Votare PD è votare Monti.
L'intenzione di Bersani di allearsi con il cosiddetto centro moderato era già stata dichiarata, e ufficialmente ratificata nero su bianco fin dalle primarie, insieme all'impegno a restare sulla rotta segnata dall'Agenda Monti. Anche se otterrà la maggioranza al Senato (il che è difficile) il PD si accorderà comunque col centro, in un governo che vedrà il successore di Berlinguer, il delfino di Almirante, e quello di Forlani prendere tutti insieme ordini da Monti.
- Votare SEL è votare Monti.
Vendola è un'appendice del PD. Gli servirà a raccattare qualche voto in più a sinistra, per raggiungere la percentuale necessaria ad allearsi con Monti. Poi sarà espulso.
- Votare PDL e i suoi spin-off (Fratelli D'Italia, La Destra) è votare Monti.
Berlusconi è come sempre a caccia di voti fascisti. Se riuscirà nella sua improbabile rimonta, sarà lui ad aver bisogno di Monti per andare al governo. Entrambi sapranno mettere da parte le incompatibilità, perlopiù inventate dalla loro propaganda, per concentrarsi sugli interessi della comune classe socio-economica di riferimento, come hanno fatto per un anno. Berlusconi dichiarerà ''Monti è una sanguisuga, una grande risorsa per il paese, l'ha portato alla rovina, solo lui può salvarlo. Monti è un comunista, il garante delle riforme liberali, l'abbiamo combattuto con tutti i mezzi, è il nostro alleato naturale''. Nessun berlusconiano obietterà.
In caso di sostanziale pareggio PD - PDL, Monti potrà scegliere il miglior offerente.
- Votare Lega è votare Monti.
La Lega è più che mai un'appendice di Berlusconi, ed è come sempre disposta a tutto pur di stare al governo, anche allearsi con chi ha insultato fino a un'ora prima. Con Berlusconi lo fa da decenni.
- Votare M5S è votare Monti.
Grillo rifiuta programmaticamente ogni alleanza. Quanto più sarà ingombrante e rumorosa la sua pattuglia di Sturmtruppen in Parlamento, tanto più Monti potrà chiedere e ottenere un governo d'unità nazionale contro la minaccia dell'ingovernabilità, dell'antipolitica e della deriva populista.
- Votare Rivoluzione Civile è votare Monti.
Il Senato è irraggiungibile per l'eterogenea lista-scialuppa di Ingroia. Se otterrà il quorum almeno alla Camera, ci manderà al massimo Ingroia, Di Pietro, e un paio di profughi rifondaroli tristemente mescolati a celerini, scilipoidi dipietristi, e avanzi grillieschi, che discorderanno su tutto, non conteranno niente, e serviranno solo al PD per proclamare ''l'inaffidabilità della sinistra'' e l'ineludibile necessità dell'alleanza esclusiva con Monti.
- Votare una qualsiasi delle liste minori è votare Monti.
Non raggiungeranno il quorum per entrare in Parlamento. Riusciranno solo a sottrarre qualche manciata di voti ai partiti maggiori, che saranno un po' più deboli nelle loro trattative con Monti.
- Astenersi è votare Monti.
Le elezioni saranno valide comunque. E se il tasso di astensionismo e schede bianche/nulle sarà particolarmente alto, Monti potrà chiedere e ottenere un altro governo tecnico per il dimostrato fallimento della politica.

Il sobrio professore, il tecnico disinteressato, il servitore dello Stato.
C'era da aspettarselo.

martedì 29 gennaio 2013

Rivoluzione civile per salvare la Sanità pubblica!

 
Rivoluzione civile per salvare la Sanità pubblica!

- rifondazione -

di Roberto Gramiccia -
“La sostenibilità futura dei sistemi sanitari, compreso il nostro, potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni”. E’ una vera e propria minaccia quella lanciata da Mario Monti poche settimane or sono che, per lo meno, ha il pregio della chiarezza. Se nel futuro governo sarà presente Mario Monti, ancorché a sostegno di una maggioranza di centrosinistra, finiranno per essere spalancate, con buona pace di Vendola, le porte al privato, alla sanità integrativa e alle assicurazioni. Si chiuderà il capitolo, che ci ha fatto guadagnare la stima del mondo, della Sanità equa universalistica e solidale. Finiranno per esserci sanità di serie A B e C e si imporranno livelli d assistenza diversi a seconda della condizione sociale e lavorativa degli assistiti.
Del resto, si tratta solo di un aspetto del tutto. Una parte di quel lavoro sporco che Monti ha effettuato in nome e per conto delle centrali del capitalismo finanziario globalizzato: compressione dei salari, controriforma delle pensioni, cancellazione dell’art. 18, precarizzazione esasperata, smantellamento del welfare state, oggettiva limitazione degli ambiti dei diritti e della democrazia. Quello che stiamo correndo è veramente un pericolo mortale, non c’è dubbio infatti che la salute pubblica sia un bene primario, anzi forse il bene dal quale tutti gli altri discendono.
Monti sostiene che la Sanità così com’è costa troppo e non ce la possiamo permettere. Lo dice con brutalità, anche se Balduzzi ha poi cercato di “buttarla in caciara”, così come ha fatto del resto col suo stravagante decreto. E dunque, prima di tutto si tratta di smascherare le balle di Monti. Senza negare che esiste un problema di razionalizzazione delle spese e di uniformazione degli standard qualitativi e dei costi nelle varie regioni, cominciamo col dire ad alta voce che la nostra spesa sanitaria in rapporto al Pil è fra le più basse d’Europa: 7,1 %, quando quella europea sfiora il 9%. Iniziamo quindi a stabilire, un principio di verità: noi non spendiamo di più ma di meno degli altri! Dopo di che non è dubbio che clientelismo, infiltrazioni mafiose, corruzione e casinismo amministrativo, associati all’incremento del fenomeno della cronicità e della non autosufficienza non contribuiscano a far decrescere i costi.
Ma allora noi chiediamo: perché non si parla mai della possibilità di intervenire su questi costi, evitando l’accetta dei tagli lineari? Perché non si dice che l’Eurispes ha calcolato che la riduzione di un solo 10% degli incidenti sul lavoro comporterebbe un risparmio di 4,4 miliardi? E che un omologo risparmio potrebbe essere ottenuto tutelando l’ambiente e la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini (Ilva docet), attraverso la diminuzione delle spese derivanti dalle cure necessarie alle malattie da inquinanti atmosferici (spese che ci vedono classificati fra i primi in Europa). Perché non si riconosce che questo risultato potrebbe essere ottenuto semplicemente incrementando il numero di ispettori a disposizione dei Dipartimenti di prevenzione.

Nazionalizzare per Fermare il Declino

Posted by keynesblog
lenin-giannino
Oscar Giannino nei panni di Lenin, tratto dalla pagina Facebook “Comunisti per Giannino”
Convertire in azioni le obbligazioni del Monte Paschi acquistate dallo Stato, che acquisirebbe così il controllo della banca; risanarla in 2-4 anni; venderla sul mercato, addirittura guadagnandoci.
No, non è la proposta di qualche impenitente statalista. E’ invece il contenuto di un articolo di Oscar Giannino e Michele Boldrin pubblicato sul sito della lista “Fare per Fermare il Declino”.

Chiariamo che l’ipotesi avanzata dai due esponenti di “FiD” è tutt’altro che insensata. Sicuramente è preferibile alla situazione attuale, nella quale il MPS si trova pesantemente indebitata con lo Stato a tassi di interesse insopportabili (Mario Monti in proposito ha spiegato che altrimenti sarebbe considerato un aiuto di Stato, non compatibile con le ormai bizzarre regole europee sulla concorrenza).
Il problema, va da sé, è che una proposta del genere appare smaccatamente in contraddizione con la filosofia di fondo che anima “FiD”, per la quale il mercato è sempre la soluzione, al punto che va introdotto anche nel cuore dello Stato, attraverso la concorrenza e la “selezione darwiniana” delle amministrazioni pubbliche.
Qualche domanda sorge spontanea e ci si perdoni se per una volta, con fini per così dire maieutici, prenderemo le parti dei difensori delle virtù taumaturgiche del mercato:
  • Se, come dice Boldrin [link] il problema di MPS deriva dalla politica, come è possibile che la nazionalizzazione (e quindi maggiore potere alla politica) sia la soluzione?
  • Se, a detta di Giannino-Boldrin, i danni ad MPS sono stati procurati dal PD senese (e nazionale) attraverso la Fondazione, cosa ci assicura che danni maggiori non siano possibili (e anzi probabili) grazie al PD nazionale attraverso la statalizzazione della Banca?
  • Cosa induce Giannino e Boldrin a ritenere che lo Stato abbia la capacità di risanare MPS? Lo Stato possiede qualche capacità speciale, qualche dote previsionale, qualche talento pianificatore che i manager nominati dalla Fondazione, a sua volta controllata dai poteri pubblici locali, non posseggono? E’ forse portatore di un’intelligenza collettiva di cui i due esponenti di “FiD” non si erano precedentemente accorti e che invece, per qualche ragione ancora da indagare, manca agli Enti locali?
  • Se, come ama ripetere Giannino, lo Stato italiano è “ladro”, perché affidargli il compito di risanare una Banca? Non è probabile che, facendo così, lo Stato conquisti una scusa in più per “mettere le mani in tasca agli italiani”?
  • Si rendono conto Giannino e Boldrin del doppio azzardo morale che una proposta del genere implica? Da un lato lo Stato – così bravo ed efficiente nel risanare MPS – una volta scoperto che da esso può trarne significativo profitto potrebbe decidere di rimanerne proprietario e così distorcere la concorrenza. Ma, anche se ciò non accadesse, il rischio è che da ora in avanti qualunque azionista di una banca (compresi gli stessi manager che possiedono azioni dell’istituto che dirigono) saprà che in caso di malinvestimenti in qualche “bolla”, ci sarà sempre lo Stato (quindi i contribuenti) disposto a pagare, prima della bancarotta, un prezzo probabilmente molto superiore a quello che verrebbe offerto dal mercato dopo un fallimento o comunque dopo che le leggi del mercato abbiano fatto il loro lavoro nel determinare il giusto prezzo della società.
  • Cosa ci assicura che, una volta che i capaci manager scelti dal Ministero del Tesoro avranno reso MPS efficiente e profittevole, la politica non decida di venderla a qualche “amico degli amici”?
  • Se, per ipotesi, l’operazione di salvataggio/ripulitura di MPS dovesse fallire, chi ne pagherebbe le conseguenze? Chi restituirebbe i soldi malspesi ai cittadini? Sono gli autori della proposta disposti a far correre ai contribuenti questo rischio?

lunedì 28 gennaio 2013

Credere, distruggere

    
Credere, distruggere

Pubblicato il 28 gen 2013 - rifondazione -

di Alberto Burgio -
Un problema con il quale parte della storiografia sul nazismo si cimenta da anni è la partecipazione di vasti settori di popolazione alla violenza criminale scatenata dal regime. Come spiegarsi che milioni di donne e di uomini «civili» non soltanto acconsentirono alla persecuzione in massa di inermi, ma la sostennero e contribuirono a metterla in atto? Come comprendere la stabile coesistenza di forme di vita criminali con codici culturali e morali tradizionali? In un certo senso, a ordinare il discorso storiografico è dunque ancora l’intuizione che Hannah Arendt ebbe, giusto mezzo secolo addietro, durante il processo ad Adolf Eichmann: i carnefici non erano mostri, destinati per natura all’orrore, bensì, almeno in origine, persone del tutto normali. Il che, lungi dal fornire loro attenuanti (come temevano i critici di Arendt), apre il campo a interrogativi assillanti.
Perché «uomini comuni» possono trasformarsi in spietati assassini? Che cosa deve avvenire nella mente di un individuo perché egli possa rendersi disponibile a compiere consapevolmente e sistematicamente violenze efferate, senza nemmeno riconoscere la mostruosità dei propri atti? Questo insieme di questioni – intorno alle quali viene da tempo costituendosi un complesso paradigma storiografico – è alla base dell’ultima ricerca di Christian Ingrao, direttore dell’Institut d’Histoire du Temps Présent di Parigi, già autore (nel 2006) di uno studio sulla «brigata Dirlewanger» (Les chasseurs noirs), una tra le più famigerate divisioni delle SS attive nella repressione della resistenza sul fronte orientale.
Il libro offre un ritratto dell’intellettualità tedesca che scelse di entrare nel Servizio di sicurezza delle SS. L’analisi prende in esame la vicenda di ottanta intellettuali «umanisti» (filosofi, economisti, storici, geografi e giuristi) che contribuirono alla fondazione ideologica del regime, alla nazificazione dei saperi fino ai parossismi della guerra genocidiaria. Muove dalla loro infanzia (durante la Grande guerra) per poi accompagnarli nella fase di piena adesione al Terzo Reich, scandita tra produzione teorica e (dopo il ’41) partecipazione attiva alla guerra. La narrazione ricostruisce anche la reazione alla disfatta, fino al momento postbellico con la transizione giudiziaria alla democrazia (e nello specifico ci si sofferma sulle strategie di negazione, depistaggio, giustificazione poste in essere al processo di Norimberga).
Si tratta, in una parola, della biografia di un importante settore della generazione che si incaricò di dare esecuzione al progetto hitleriano. Ma l’idea di scandagliare la genesi di personalità criminali non si traduce in una interpretazione deterministica. Il prima aiuta a spiegare il dopo, non lo determina: nel mezzo, si verificano salti di qualità (nella fattispecie, la costruzione dell’ideologia razzista, alla quale proprio gli intellettuali delle SS diedero un importante contributo) e si compiono scelte (tanto più consapevoli nel caso di personale altamente qualificato).
Cruciale è, a giudizio di Ingrao, la condizione della Germania durante la Grande guerra, che costò al paese oltre due milioni di morti e regalò a tanti tedeschi una visione funerea dell’esistenza, mista a una inestinguibile sete di vendetta. Finita la prima guerra se ne attese una seconda, come ordalia e transizione a una nuova era. Su questo sfondo di senso si avviò anche la mobilitazione dei bambini (e, tra questi, di quanti erano destinati a divenire i futuri intellettuali SS). «Il nazismo offriva a quanti vi aderivano il sentimento che il corso delle cose fosse quello della salvezza collettiva attraverso l’avvento dell’impero»: una fede come promessa, come sentimento «che attinge insieme all’ineffabile e alla certezza, mobilitando anime e corpi nell’attesa di un’utopia di fusione razziale».
Da qui l’idea di partecipare a una «comunità di destino», cementata dall’unità genetica e biologica e, perciò stesso, dalla distruzione del nemico e dell’estraneo, che gli intellettuali delle SS contribuirono a individuare e a perseguitare. Dapprima fornendo argomenti al discorso nazista (attraverso sondaggi, agenzie, bollettini di informazione, misurazione e valutazione delle reazioni della società tedesca alle politiche del regime), in un secondo momento «scendendo in campo» nelle file delle Einsatzgruppen incaricate della mattanza di quei «parassiti» che già avevano, in piena «scienza e coscienza», provveduto a definire.
Christian Ingrao
Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS
Einaudi (2012), pp. 405
€ 34

Le elezioni e i movimenti della politica

Bruno Giorgini - sinistrainrete -

La democrazia. Dice Spinoza: una società che esercita collegialmente il potere in modo tale che tutti siano tenuti a obbedire a sè stessi, senza che nessuno sia costretto a obbedire a un proprio simile.
I partiti. Fin quando gli esseri umani saranno animali politici esisteranno i partiti, ovvero libere associazioni di cittadini/e che sulla base di programmi e progetti si contendono il potere e/o il governo della città, della polis. Ovviamente le forme concrete e i poteri dei partiti cambiano a seconda delle fasi storiche. In Italia negli ultimi decenni i partiti sono degenerati diventando vieppiù macchine per il potere di persone e gruppi di pressione fondate quasi sempre sull’interesse personale, il malaffare, la corruzione, la rapina e lo sperpero del pubblico denaro, l’occupazione indebita di istituzioni della società. Si pensi al disastro della spartizione partitica dei posti nella sanità pubblica, la collusione con organizzazioni criminali, nonchè con costi per il loro funzionamento al di là di qualunque giustificazione. Questo dilagante malaffare ha contaminato anche le istituzioni rappresentative, talchè i nostri onorevoli, si fa per dire, guadagnano molto di più dei loro colleghi europei che non sono certo poveri, lo stesso vale per il Presidente della Repubblica e da lì in giù per tutti, fino a uscieri e impiegati. Senza alcun dubbio due sono i motori di questa corruzione dei partiti italici, chi più chi meno tutti coinvolti: il finanziamento pubblico, giustificato col fatto che altrimenti la politica se la potrebbero permettere solo i ricchi, a conferma del fatto che le vie dell’inferno sono spesso lastricate dalle migliori intenzioni, e la collusione tra politica e affari, fino agli appalti dedicati alle organizzazioni criminali, fino alla trattativa tra stato e mafia, dopo gli attentati contro Falcone e Borsellino.
Certamente quindi sono legittimi i sentimenti di rabbia e di diffidenza verso i partiti, verso questo sistema dei partiti, e anche la voglia di ribaltarli scacciando i mercanti dal tempio, a pedate se necessario. E’ il cosidetto sentimento dell’antipolitica che in realtà esprime una giusta indignazione per questa politica e l’esigenza di un‘altra politica, di cui è in parte incarnazione il movimento cinque stelle, ma largamente diffuso ben oltre. Significativa a questo proposito la recente iniziativa in Sicilia dei quindici consiglieri regionali cinque stelle che hanno restituito il 70% degli emolumenti (un consigliere regionale siciliano guadagna circa 15.000 euro al mese, uno scandalo). Lo farà qualcun altro? Difficile, direi impossibile, vuoi mai che sia demagogia!!! La ciliegina sulla torta è la legge lettorale, la porcata o porcellum come tutti la chiamano, e che nessuno ha voluto modificare, troppo ghiotto il potere che affida ai partiti, e soprattutto ai loro segretari, di scelta sugli onorevoli deputati e senatori, nonchè quindi sull’intera nomenclatura. Capolavoro di ambiguità e ipocrisia sono state le primarie del PD per le candidature al Parlamento, col listino, anzi il listone del segretario Bersani, la lista dei fedelissimi e fedeli, garantiti con buona pace di chi alle primarie parlamentari ha creduto. Intanto nascono nuovi partiti, nessuno dei quali però vuol chiamarsi partito, ma movimento, nuovo soggetto politico, lista civica e quant’altro. Alcuni sono stati generati per gemmazione dal PDL, che non a caso si chiama popolo delle libertà, e non partito, per costruire una costellazone di centrodestra più forte sul piano elettorale, mentre altri amerebbero distinguersi dai partiti tradizionali introducendo innovazioni radicali, per esempio nella costituzione delle liste. Ma, a parte il movimento 5 stelle, nessuno pare esserci riuscito. Il tronfio Monti ha dovuto incassare più liste alla Camera, con i catorci dell’UDC e gli ex giovani leoni di FLI intoccabili, così perdendo Corrado Passera, scusate se è poco, per non dire delle acrobazie per la lista senatoriale a tenere insieme consumati, anche nel senso dell’usura, professionisti dell’establishment e delle clientele (quando non peggio) con qualche nome un poco più presentabile, i famosi candidati della società civile, poveretti. Ma se i conservator/reazionari liberisti montiani che proclamano di voler riformare la politica non ridono, ecco che piangono i nuovi , o che si vorrebbero tali, “a sinistra” del centrosinistra, la lista di “rivoluzione civile” guidata da Ingroia, con Di Pietro tra gli alfieri. Di Pietro l’uomo che sposò la TAV e la repressione al G8 di Genova, per non dire dei suoi affarucci privati, e, già più dignitosi, i segretari del PRC e del PDCI, nonchè dei verdi a costituirne l’ossatura militante e di lista. E non manca il mercato delle vacche col primo acquisto, l’ex cinque stelle consigliere regionale Giovanni Favia, fino a ieri secondo il dettato grillino nè di destra nè di sinistra, da oggi rivoluzionario civile. Quando si dice la transumanza, un tempo trasformismo. Acquisto cui Ingroia ha dedicato molte ore negli ultimi giorni, in uno spaccato della politica abbastanza indecente. Ma d’altra parte suvvia non siamo moralisti, se la politica è un mestiere come un altro senza alcuna idealità, una volta licenziato da una company cosa può impedirmi di essere assunto in un’altra, dipende semplicemente dal profitto che mi viene proposto, stock options o privilegi e poteri della politica che siano. In quest’ottica forse come per gli ordini professionali si dovrebbe introdurre un albo dei “politici” con regole di deontologia sia per l’accesso che per i comportamenti, ma anche questo a tutt’oggi pare essere troppo. Infine la neonata ALBA, alleanza per il lavoro i beni comuni e l’ambiente. Un piccolo partito, scusatemi: nuovo soggetto politico, antiliberista e che pretenderebbe anch’egli di riformare la politica in senso democratico e partecipativo, a partire dal suo stesso funzionamento interno. Un partito che nascendo da un gruppo di intellettuali, molti torinesi, ha tentato di promuovere una ipotesi di lista elettorale “cambiare si può” per un radicale rinnovamento, lista uscita di strada alla prima curva. E oggi “cambiare si può”, ammesso e non concesso che continui a esistere, o piuttosto la parte che vuole continuare a esistere (o finge di), più o meno obtorto collo è obbligata a riferirsi per le elezioni a Ingroia, secondo il detto “o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra”.

La lotta ai tempi dell’Ikea

Potere, organizzazione e solidarietà

Clash city workers

Un’analisi a partire dalla lotta all’Ikea che, lungi dall’essere terminata, ha però il merito di averci già fornito un bagaglio enorme e indispensabile di esperienze e spunti di riflessione. Nei paragrafi che seguono, non ci soffermeremo sulle fasi della lotta che è ancora aperta e in aggiornamento (qui potete trovare una ricostruzione tappa per tappa): proveremo a dare un contributo che metta in risalto quelle che consideriamo alcune tendenze dello sviluppo del capitalismo in Italia e gli elementi della lotta interessanti e potenzialmente riproducili nel tempo e nello spazio.

Se vai con la bandiera a fare uno sciopero tradizionale o sali sul tetto puoi stare lì anche tutta la vita, non cambierà niente.
Basta con lo sciopero della fame o cose del genere, perché la fame la deve fare il padrone!
A noi basta già la sofferenza che viviamo tutti i giorni sul posto di lavoro.

Mohamed, operaio alla TNT di Piacenza
Oggi, per molti, guardare ai movimenti sociali e politici in Italia significa andare incontro allo sconforto. Tranne qualche eccezione, sebbene importante, sembra proprio che non siamo all’altezza dello scontro in atto. 
Malgrado ciò, le lotte sui posti di lavoro non sono finite. Anzi, in apparenza paradossalmente, si moltiplicano. Con casi molto rilevanti, almeno in astratto, perché molto dipende da cosa siamo capaci di leggere noi all’interno di quei processi.


Prendiamo la mobilitazione degli operai delle cooperative in appalto presso il deposito IKEA di Piacenza: la si può considerare come una ‘semplice’ vertenza sindacale.
Oppure no.
 Noi vogliamo interpretarla in tutt’altro modo e partire da lì per riflettere sulla nostra prassi politica quotidiana. Perché non bisogna mai esser stanchi di andare alla “scuola della lotta di classe”. E, da questo punto di vista, ciò che è accaduto e accade tuttora all'IKEA e nel settore della logistica, è una vera e propria lectio magistralis.



“Il luogo fisico non conta più”


Negli ultimi vent'anni si è discusso molto della fine – o quanto meno del ridimensionamento – del potere dei lavoratori. L'attacco sferrato dal capitale è stato durissimo, e i lavoratori l'hanno pagato e continuano a pagarlo nei termini di un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, soprattutto in Europa e Stati Uniti. Ma l'attacco ha poggiato non solo sulla volontà e/o necessità dei padroni di abbattere il costo del lavoro: aveva e ha delle basi strutturali.



“È interessante notare come la teoria economica che va per la maggiore sostenga che il luogo fisico non conta più, che le società possono spostarsi ovunque grazie alle telecomunicazioni, che le maggiori imprese oggi sono fondate sull'informatica e quindi indipendenti dalla loro collocazione.”
Sassen S., Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 2004
La possibilità di un capitalista di trasferire le attività produttive in un altro angolo del pianeta alla ricerca di migliori condizioni per fare profitti – che significa manodopera a basso costo, assenza di sindacati, regimi fiscali favorevoli, infrastrutture moderne ed efficienti – in tempi di crisi diventa una minaccia fortissima. Eppure la mobilità del capitale non è assoluta. Ci sono settori in cui non è così facile fare armi e bagagli e spostarsi altrove. La geografia non è diventata d'improvviso completamente inutile. Nel settore della logistica, in cui il 'posizionamento' è centrale, ha una rilevanza ancora maggiore. La lotta all'IKEA ci dà un bel po' di materiale da indagare in proposito.


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