Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 7 dicembre 2013

Le ragioni finanziarie della crisi dell’euro

Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Vincenzo Comito                  
 
Secondo alcune stime le necessità di ricapitalizzazione del sistema bancario europeo possano essere valutate tra 1,0 e 2,6 trilioni di euro, una somma colossale
Per valutare cosa si possa fare in concreto per risolvere la crisi dell’euro e dell’eurozona, bisogna analizzare le vere ragioni delle difficoltà presenti. L’analisi appare complessa ed a noi pare che le motivazioni della crisi debbano essere analizzate ad almeno cinque livelli contemporaneamente.
In sintesi e riferendosi al dibattito che si è svolto sul tema negli ultimi anni ci sembra che si possa dire che:
1) alla lunga è molto difficile che possa reggere una moneta senza il supporto di uno stato sovrano. Ora, a fronte dell’euro, non sta un’entità politica europea;
2) la costruzione dell’euro è messa poi sotto tensione dall’esistenza di grandi differenze di competitività tra i vari paesi, in particolare tra quelli del Nord Europa, con in testa la Germania, e quelli del Sud. Accanto alla differenze tra paesi, vanno sottolineate anche le disuguaglianze economiche crescenti rilevabili all’interno dei singoli stati ;
3) sul piano ideologico si è poi affermata nell’eurozona l’egemonia della versione tedesca del neoliberismo, con il dogma dell’austerità . È un risultato che, come è noto, nasce dalla visione conservatrice dell’équipe al governo nel paese. Ricordiamo anche che, con il pretesto di ridurre l’indebitamento pubblico, si mira anche, a ridimensionare o a pressoché liquidare il ruolo dello stato nell’economia e, in particolare, il sistema del welfare;
4) il processo di costruzione dell’euro e, più in generale, tutto il processo decisionale dell’eurozona, è ancora marcato sin dall’origine dall’esistenza di un potere burocratico, in totale assenza di democrazia e di partecipazione alle decisioni da parte delle istituzioni elettive.
5) infine bisogna considerare il fronte finanziario , tema sul quale concentriamo oggi la nostra analisi.
La situazione finanziaria all’interno dell’eurozona
Il fronte finanziario è messo di solito in molto rilievo nelle analisi della crisi, ma spesso per le ragioni sbagliate. In effetti, è difficile dire che questa è una crisi del debito pubblico o prevalentemente del debito pubblico, come sostengono con accanimento Berlino e Bruxelles; essa è semmai, in generale, il frutto di un alto livello di indebitamento complessivo delle varie economie.
Essa comporta cioè un livello troppo elevato di debiti del sistema bancario, delle famiglie, delle imprese e del settore pubblico messi insieme. L’indebitamento del settore pubblico è diventato un rilevante problema sostanzialmente con la crisi, tranne che nel caso di Italia e Grecia, paesi nei quali la questione preesisteva.
Contemporaneamente, si è sviluppata una rilevante crisi bancaria.
Va segnalato in particolare, tra l’altro, come la tempesta del sub-prime , importata a suo tempo in Europa dagli Stati Uniti attraverso la cessione da parte del sistema finanziario americano alle banche del nostro continente di una fatta consistente dei titoli spazzatura, si è sommata in Europa con le difficoltà già in atto nel sistema bancario locale o in una parte di esso, in particolare in Spagna, Gran Bretagna, Germania, Irlanda, nonché con gli eccessi del debito pubblico presenti in Italia e in Grecia.
Gli Stati sono intervenuti per evitare il tracollo del sistema bancario e con questo essi hanno aumentato in maniera consistente il livello del loro indebitamento, messo in crisi peraltro anche dalla riduzione delle entrate fiscali, altro prodotto delle difficoltà dell’economia.
A loro volta le banche, che avevano ed hanno in portafoglio un livello elevato di titoli pubblici dei loro paesi, si sono ritrovate ancora di più esposte alla speculazione e alle paure dei mercati internazionali. Si è innescata così una spirale perversa tra sistema bancario e bilancio pubblico, che è uno degli aspetti salienti della crisi dell’eurozona. I due attori sono oggi strettamente interconnessi, come due fratelli siamesi (Soros, 2013).
Il debito privato
Le origini del disastro europeo stanno meno nella spesa troppo elevata dei governi che nell’eccessivo indebitamento privato. Le difficoltà di diversi paesi hanno fatto seguito all’elevato e irresponsabile livello dei prestiti privati presente già prima della crisi, in particolare ai debiti ipotecari in Irlanda ed in Spagna e a quelli delle imprese di nuovo in Spagna. In questi tre paesi i debiti dei privati e delle imprese superavano di molto il 200% del Pil già prima della crisi, ma oggi sono ben otto gli Stati dell’eurozona che si trovano in tale situazione. Oggi il problema dei debiti delle aziende è più grave in Portogallo, Spagna e Italia, dove il Fondo Monetario afferma che rispettivamente il 50%, il 40% e il 30% di essi è dovuto da società che hanno molte difficoltà a pagare gli interessi, ciò che impedisce loro, tra l’altro, di investire e di crescere (The Economist, 2013).
Una recente ricerca del Fondo Monetario Internazionale indica che un alto livello di debiti privati influenza più negativamente la crescita dell’economia di un paese rispetto a quanto faccia un elevato livello del debito pubblico (The Economist, 2013).
Molti paesi dell’eurozona non sono riusciti negli ultimi anni a ridurre in maniera significativa tali debiti a causa dell’austerità che ha approfondito la recessione, mentre le banche sono state riluttanti a riconoscere nei loro bilanci tutti i bad loans in cui erano incappate.
Ormai il sistema bancario europeo, tra l’altro, fa fatica a continuare a finanziare in particolare le piccole e medie imprese, specialmente nei paesi del Sud, ciò che aggrava la crisi; e questo dal momento, in particolare, che le istituzioni finanziarie risultano largamente e drammaticamente sottocapitalizzate, mentre esse temono anche di prestare soldi ad un sistema delle imprese chiaramente in difficoltà.
Secondo un’analisi della PwC (Fleming, 2013), i crediti dubbi del sistema bancario europeo avevano raggiunto alla fine del 2012 il livello di 1,2 trilioni di euro, contro i 514 miliardi di euro della fine del 2008. La previsione era per un ulteriore aumento nei prossimi anni.
Inoltre, è noto come le aziende italiane e spagnole, pur quando esse riescono ad ottenere degli affidamenti bancari, pagano per tali prestiti tassi di interesse ben più elevati di quelli delle concorrenti imprese tedesche o francesi, per l’esistenza di uno spread molto rilevante.
Oggi si stima che le necessità di ricapitalizzazione del sistema bancario europeo possano essere molto sommariamente valutate, secondo alcuni esperti, tra 1,0 e 2,6 trilioni di euro, una somma colossale.
Alla fine e sommariamente, si può dire che i responsabili politici cercano di risolvere la crisi del debito pubblico, mentre si trovano di fronte in realtà soprattutto ad una crisi bancaria. Ricordiamo incidentalmente che il sistema bancario europeo è tre volte più grande come dimensioni e due volte più indebitato di quello statunitense (Blyth, 2013).
Per altro verso, senza interventi adeguati ci ritroveremo con delle banche zombie, incapaci o non desiderose di fornire il credito necessario all’economia, frenando così ogni possibile ripresa (Das, 2013).
Verso uno scenario depresso e deflazionistico come in Giappone?
Lo scenario delle difficoltà bancarie appare simile a quello a suo tempo consolidatosi in Giappone, dove la ristrutturazione del sistema bancario è stata a suo tempo rimandata per l’assenza di consenso politico, ma anche per la mancanza delle grandi risorse necessarie alla bisogna, cosa che ha prodotto un ambiente stabilmente deflazionistico (Bini Smaghi, 2013), da cui non si riesce ad uscire.
Il confronto con il Giappone è ripreso da numerosi studiosi ed operatori. Così Mansoor Mohl-uddin, dirigente dell’Ubs (Mohl-uddin, 2013), sottolinea con forza le similarità delle due situazioni, quella cioè tra le banche dei due paesi. Una prolungata debolezza del settore finanziario in Giappone, con una molto lenta ricapitalizzazione delle banche e una ridotta espansione del credito, ha portato a suo tempo e alla fine ad una prolungata deflazione, al blocco dello sviluppo, ad importazioni limitate e rilevanti surplus commerciali. Questo ha comportato una sopravalutazione dello yen importante e di lunga durata.
Bisogna peraltro aggiungere che a suo tempo il Giappone, pur con tutte le difficoltà, era riuscito a mantenere uno stato di virtuale piena occupazione e una società civile abbastanza forte. Nell’eurozona assistiamo invece ad un approfondirsi dei livelli di disoccupazione, con il rischio ormai evidente della perdita di un’intera generazione e ad uno sfaldamento progressivo della società civile.
Conclusioni
C’è il rischio che qualcosa di simile alla situazione giapponese possa andare avanti nei paesi dell’euro. Bisogna che la Bce segua con convinzione una politica monetaria espansiva e bisogna anche che i governi dell’eurozona rafforzino le banche dell’area, ciò che richiede il varo effettivo di un’unione bancaria, varo cui si oppone peraltro nella sostanza la Germania, che non vuole, tra l’altro, alcuna mutualizzazione dei rischi e delle perdite bancarie.
Più in generale, sarebbe necessario affrontare a livello di eurozona e di unione europea il grande problema dell’indebitamento complessivo del nostro continente, di quello pubblico e di quello privato; ma appare difficile trovare delle soluzioni sino a quando non si sarà stabilito chi dovrà sostenere i costi della necessaria e, prima o poi, inevitabile ristrutturazione dello stesso.
Un quadro non molto brillante.
Naturalmente sarebbe interessante ricordare le ragioni per cui si è creato nel tempo questo grande indebitamento dei privati, delle imprese e delle banche. Ma ci vorrebbe un altro articolo.
Testi citati nell’articolo
-Bini Smaghi L., Bank capital is Europe big problem, www.ft.com , 31 maggio 2013
-Blith M., La reprise est une illusion, Le Monde , 24 agosto 2013
-Das S., Europe is heading for a relapse back into crisis, www.ft.com , 28 agosto 2013
-Fleming S., Troubled loans at Europe’a banks double in value, The Financial Times , 29 ottobre 2013
-Mohl-uddin M., ECB must act to prevent euro aping strong yen, www.ft.com , 11 novembre 2013
-Soros G., How to save the EU from the euro-crisis, www.guardian.co.uk , 9 aprile 2013
- The Economist , Debtor’s prison, 26 ottobre 2013

Nelson Mandela: umano troppo, umano.

La scomparsa di Tata Madiba, come lo chiamava la sua gente, è una occasione,dirò così, cinica per ripensare in filigrana la parabola degli intellettuali comunisti nel continente africano. Mandela aveva aderito al partito comunista sudafricano - una organizzazione composta prevalentemente da intellettuali bianchi--già all'epoca dei suoi studi universitari, quando s'era impadronito,attraverso i libri,della tradizione social-comunista europea. E questo accadeva,nei primi anni quaranta del secolo appena trascorso, all'università per neri di Fort Hare, retta da missionari scozzesi. Poi, una volta laureato, divenuto avvocato per neri, aveva messo su uno studio legale frequentato da neri -- che tentavano di far valere i loro rari diritti garantiti dalla legge dei bianchi. Negli anni cinquanta Mandela, su suggerimento del partito comunista, aderisce all'African National Congress (ANC) l'organizzazione politica di massa in lotta contro il sistema dell'Apartheid; ovvero la separazione fisica e formale delle tre "razze",dirò così autorizzate: bianca, nera e "colored". Sul finire degli anni cinquanta Mandela diviene presidente dei giovani ANC; e dopo che nel 1960 a Sharperville la polizia boera spara sulla folla facendo una strage, ecco che Tata Madiba riesce ad imporre all'ANC una svolta strategica radicale, fondando "La Lancia della Nazione", l'ala militare che pratica la lotta armata : attentati,sabotaggi, azioni di guerriglia urbana. Entrato lui stesso in clandestinità, verrà arrestato nel 1963 e condannato alla prigione a vita.

Diecimila lunghi giorni trascorrerà ai lavori forzati, restando a schiena dritta, rifiutando le occasioni di pentimento furbescamente offerte dai suoi carcerieri, incapace di svendere le idee per ottenere la libertà personale; diecimila giorni,lunghi, troppo lunghi,durante i quali tanto le cancellerie quanto i media occidentali descriveranno sistematicamente Mandela e l'ANC come appartenenti all'universo del terrore,foraggiato dall'Unione Sovietica, volto a distruggere il mondo libero. Poi,sul finire degli anni ottanta, avvengono alcuni mutamenti geopolitici decisivi -- il crollo del Muro di Berlino, l'unificazione del mercato mondiale-- ed ecco emergere un altro Mandela, non più terrorista comunista ma Angelo riconciliatore; intendendo per riconciliazione il garantire ai bianchi che il fuoco della prevedibile vendetta nera e colored -- quei torti secolari subiti- non li avvolgerà in un gigantesco rogo.

Ha inizio così la seconda vita di Tata Madiba; viene liberato, procede nella politica della riconciliazione portandola fino in fondo, fino ad assicurare al paese una economia di mercato; e quindi garantire, aldilà delle stesse intenzioni, la supremazia culturale e sociale dei bianchi a scapito della " Kultur",degli usi ed abitudini delle moltitudini sia nere che colored.

Così, nel 1993 viene insignito, in tandem con il politico boero de Klerk suo carceriere, del premio Nobel della pace-- un comunista ed un liberale hanno trovato l'accordo perché entrambi partecipano della stessa ideologia fattasi senso comune; insomma spartiscono la mentalità occidentale -- in effetti,cosa c'è di più caricaturalmente occidentale che un ricco liberale ed un militante comunista in Sud Africa?


E' il secondo Tata Madiba che in questi giorni celebrano all'unisono i potenti della Terra e i mezzi di comunicazione occidentali. Il presidente Obama, anche lui, giustamente, premio Nobel della pace che verrà,si è spinto al punto di affermare pubblicamente, non senza una furtiva lacrima, che con Mandela siamo in presenza di un autentico eroe,qualcosa di mitico, di sovrumano.


Ha scritto, nel 2010, la moglie Winnie, una che lo conosceva bene : Nelson è stato gettato in prigione perché era un rivoluzionario; ma il carcere lo ha cambiato; tornato libero,ha accettato un compromesso con i bianchi che costringe i neri a vivere in condizioni inaccettabili.


A proposito di Obama e degli eroi, torna in mente la frase icastica che Brecht attribuisce a Galileo : sventurato il paese che abbisogna d'eroi.


Franco Piperno

Possedere o condividere?

lemondeDiplomatique -
UN mucchio DI OGGETTI COSTOSI E INUTILIZZATI -
E se l’«utilizzo» non fosse più necessariamente sinonimo di «proprietà»? Desiderosi di farla finita con l’iperconsumo di oggetti che servono solo raramente, di fronte a un potere di acquisto in calo, numerose persone si organizzano per condividere e barattare. Un movimento in piena espansione che gruppi di privati hanno presto dirottato per allargare la cerchia… degli acquirenti.

di Martin Denoun e Geoffroy Valadon *

«A casa di ciascuno di noi, c’è un problema ecologico e un potenziale economico. Abbiamo nelle nostre dimore numerosi beni che non utilizziamo: il trapano che dorme in un armadio e mediamente verrà usato solo tredici minuti in tutta la sua vita, i dvd visti una volta o due che si ammassano, la macchina fotografica che cattura la polvere più che la luce, ma anche l’automobile che utilizziamo da soli meno di un’ora al giorno o l’appartamento vuoto per tutta l’estate. La lista è lunga. E rappresenta una somma impressionante di denaro e di rifiuti futuri.» Questo è, in sostanza, l’approccio dei teorici del consumo collaborativo. Perché, dichiara con un grande sorriso Rachel Botsman (1) una dei loro capiscuola, «avete bisogno di un foro, non del trapano; di una proiezione, non di un dvd; di spostarvi, non di un’automobile!»…È stato Jeremy Rifkin a diagnosticare questa transizione da un’epoca della proprietà verso una «epoca dell’accesso (2)», in cui la dimensione simbolica degli oggetti decresce a vantaggio della loro dimensione funzionale: se un tempo la vettura era un elemento di status sociale che ne giustificava l’acquisto aldilà del suo utilizzo, ora i consumatori hanno incominciato ad affittare i loro veicoli. Oggi, i giovani propongono l’affitto della loro automobile e delle loro case. Sono la disperazione di numerosi industriali dell’automobile e del settore alberghiero, ma altri vi vedono un distacco nei confronti degli oggetti di consumo che fa ben sperare. Le piattaforme di scambio permettono una migliore assegnazione delle risorse; atomizzano l’offerta; eliminano gli intermediari e facilitano il riciclaggio. Così facendo, esse erodono i monopoli, fanno abbassare i prezzi e apportano nuove risorse ai consumatori. Questi sarebbero così indotti ad acquistare beni di qualità, più durevoli, sollecitando gli industriali a rinunciare all’obsolescenza programmata. Sedotti dai prezzi ridotti e dalla comodità delle relazioni «peer to peer» (P2P), essi contribuirebbero alla riduzione dei rifiuti. La stampa internazionale, dal New York Times a Le Monde passando per The Economist, dedica una prima pagina a questa «rivoluzione dei consumi».I sostenitori del consumo collaborativo sono spesso delusi dallo «sviluppo sostenibile». Ma, se ne criticano la superficialità, non lo fanno generalmente attraverso un’analisi approfondita. Richiamandosi soprattutto a Rifkin, non menzionano mai l’ecologia politica. Citano volentieri Mohandas Gandhi: «Su questa terra ci sono abbastanza risorse per rispondere ai bisogni di tutti, ma non ce ne saranno mai abbastanza per soddisfare i desideri di possesso di qualcuno (3).» Ciò non impedisce loro di manifestare una sorta di disprezzo verso i sostenitori della decrescita e i militanti ecologisti in generale, visti come utopisti marginali e «politicizzati».Bostman, durante una conferenza tenuta al Technology, Entertainment and Design (Ted) (4), ha affermato che «nel 2008 abbiamo sbattuto contro un muro. Insieme, madre natura e il mercato hanno detto “stop”! Sappiamo bene che un’economia basata sull’iperconsumo è una piramide di Ponzi (5), un castello di carte». A suo avviso, la crisi, costringendo le persone ad arrangiarsi, avrebbe provocato un sussulto di creatività e di fiducia reciproca che ha fatto esplodere il fenomeno del consumo collaborativo (6). Sempre più siti internet propongono di barattare o affittare beni «dormienti» e costosi: lavatrice, vestiti di marca, oggetti high tech, materiale per camping, ma anche mezzi di trasporto (auto, bicicletta, barca) o spazi fisici (cantine, parcheggi, camere, ecc.). Questo fenomeno arriva fino al risparmio: piuttosto che lasciarlo dormire su un conto, alcuni privati se lo prestano evitando le banche (7). Nell’ambito dei trasporti, il car pooling consiste nel condividere il costo di un tragitto; una sorta di autostop organizzato e contributivo, che permette per esempio di viaggiare da Lione a Parigi con 30 euro, contro i 60 euro del treno, e di fare conoscenza con nuove persone durante il percorso. Negli anni 2000 in Francia sono apparsi diversi siti per proporre questo servizio. Poi, si è realizzata l’evoluzione tipica degli start-up del web: ci si batte per imporsi come lo standard obbligatorio gratuito, e, una volta conquistata questa posizione, si impone agli utenti una fatturazione attraverso il sito «per una maggiore sicurezza» prelevando una commissione del 12%. Mentre il numero uno francese, Covoiturage.fr, è diventato BlablaCar per lanciarsi alla conquista del mercato europeo, e il suo equivalente tedesco, Carpooling, arriva in Francia, alcuni car pooler, contrariati dalla svolta mercantile del sito francese hanno lanciato la piattaforma associativa e gratuita Covoiturage-libre.fr. Anche il car sharing è un progresso culturale ed ecologico. Piattaforme come Drivy permettono l’affitto di veicoli tra privati. Tuttavia, gli attori dominanti nel mercato sono di fatto dei noleggiatori flessibilizzati (noleggi al momento e in self service) che hanno una loro flotta privata. La riduzione annunciata del numero di veicoli è quindi relativa. Anche la flotta Autolib’ creata dal comune di Parigi con il gruppo Bolloré sul modello di Vélib’ che permettere la riduzione del numero di macchine si sostituisce ai trasporti collettivi (8). In tema di alloggi, internet ha anche favorito il decollo degli scambi tra privati. Molti siti (9) permettono di contattare una moltitudine di ospiti disposta a ricevervi gratuitamente in casa propria per qualche notte, e questo in quasi tutti i paesi. Ma il fenomeno del momento è il «bed & breakfast» informale e cittadino e il suo leader incontestato, Airbnb. Questo start-up propone di passare la notte presso alcuni ateniesi o marsigliesi che improvviseranno una generosa colazione «opzionale» per un prezzo inferiore a quello di un hotel. Una stanza vuota, o il vostro intero appartamento quando andate in vacanza, possono così diventare una fonte di reddito. In una parola: «Airbnb: travel like human» («Con Airbnb viaggiate come esseri umani»). Nella stampa economica, tuttavia, lo start-up mostra un altro volto. Si vanta di prelevare oltre il 10% della somma pagata dagli ospiti, e di vedere la sua cifra di affari di 180 milioni di dollari nel 2012 crescere tanto rapidamente quanto la sua capitalizzazione in Borsa, di circa 2 miliardi di dollari. L’azienda di car sharing City car club ricorda che «La ricchezza risiede ben più nell’uso che nel possesso – Aristotele». Ma, osservando più da vicino, il distacco rispetto alla proprietà diagnosticato da Rifkin non sembra implicare un fenomeno simile rispetto al consumo: il sogno di un tempo era quello di possedere una Ferrari; oggi, consiste semplicemente nel guidarne una. E se le vendite diminuiscono, i noleggi aumentano. Questa «era dell’accesso» rivela un cambiamento delle forme del consumo legato a un mutamento logistico: la messa in circolazione dei beni e delle competenze di ciascuno attraverso interfacce web performanti. Lungi dall’esserne spaventate, le aziende vedono in questa fluidificazione un potenziale di nuove transazioni di cui esse sarebbero le intermediarie remunerate. Da una parte, ciò permette di allargare la base dei consumatori: coloro che non avevano i mezzi per acquistare un oggetto costoso possono noleggiarlo da loro pari. D’altra parte, la mercificazione si estende alla sfera domestica e ai servizi tra privati; una stanza per gli ospiti o un posto in auto possono essere proposti al noleggio, così come un aiuto in lavori di idraulica o in inglese. Si può anche anticipare lo stesso effetto rebound registrato in ambito energetico, dove le riduzioni di spesa determinate dal progresso tecnico conducono ad aumenti dei consumi (10): le risorse che una persona guadagna dal noleggio del proprio videoproiettore lo indurranno a consumare di più. Nuove forme di greenwashing Tuttavia, esistono molte nuove pratiche che vanno in controtendenza rispetto al consumismo. Sono molto varie: i couchsurfers (letteralmente, «surfers del divano») permettono gratuitamente a sconosciuti di dormire a casa loro, dove beneficiano dell’ospitalità. Gli utenti di Recupe.net e di Freecycle.org preferiscono offrire oggetti di cui non hanno più bisogno piuttosto che buttarli via. Nei sistemi di scambio locali (Sel), i membri offrono le loro competenze su una base egualitaria: un’ora di giardinaggio vale un’ora di lavoro idraulico o di web design. Nelle associazioni per il mantenimento di un’agricoltura contadina (Amap), ciascuno si impegna ad approvvigionarsi per circa un anno dallo stesso agricoltore locale con cui può sviluppare dei legami, e partecipa volontariamente alle distribuzioni periodiche delle verdure. Questo impegno relativamente vincolante delinea un percorso che supera il semplice «consumo critico» che consiste nel «votare con il portafoglio».Qual è il punto in comune tra questi progetti associativi e gli start-up della distribuzione C2C – consumer to consumer, «dal consumatore al consumatore»?

Ue: Grecia e Italia al top per rischio povertà

Fonte: rassegna
                   
L' Italia è tra i Paesi della zona euro dove il rischio di povertà ed esclusione sociale è più alto dopo la Grecia. Secondo gli ultimi dati Eurostat relativi al 2012, il 29,9% della popolazione rischia di finire nell'indigenza contro il 34,6% della Grecia. Nel dettaglio, In Italia il 19,4% della popolazione era a rischio povertà, il 14,5% seriamente privata dei beni materiali, e il 10,3% viveva in una famiglia dove c'era poco lavoro. A rischio di esclusione sociale figurano in totale 18,2 milioni di persone.

In Spagna , dove la disoccupazione è altissima, rischia il 28,2% della popolazione, in Portogallo il 25,3%, a Cipro il 27,1%, in Estonia il 23,4%. Scende parecchio la difficoltà in Francia , dove il rischio povertà si concretizza per il 19,1% dei cittadini, in Germania (19,6%), Finlandia (17,2%), Olanda (15%). Per trovare dati peggiori dell'Italia e della Grecia, bisogna andare ai Paesi fuori della zona euro: al top Bulgaria (49,3%), Romania (41,7%), Lettonia (36,5%), Croazia (32,3%).

Non si fermano, intanto, in Grecia , le proteste contro le misure di austerità. I dipendenti del ministero della Cultura e dello Sport hanno cominciato oggi uno sciopero di 48 ore dopo la messa in mobilità di 187 dipendenti del dicastero. E la Federazione nazionale Insegnanti delle Scuole medie e superiori (Olme) ha indetto per oggi un'astensione di tre ore dal lavoro con la consueta manifestazione di protesta davanti al ministero della Pubblica Istruzione. "Il ministero della Pubblica Istruzione e il governo - si legge in un comunicato dell'Olme - attuando una politica antipopolare per la scuola pubblica, contribuiscono ulteriormente al degrado della conoscenza colpendo i diritti all'istruzione della nuova generazione".

giovedì 5 dicembre 2013

"Salta finalmente la camicia di forza del bipolarismo". Intervento di Domenico Gallo

Autore: domenico gallo - controlacrisi
 
La decisione della Corte Costituzionale che, accogliendo i rilievi sollevati dalla Corte di Cassazione, ha dichiarato incostituzionale il porcellum cancellando i due istituti salienti del premio di maggioranza e della lista bloccata si può commentare con un’espressione molto semplice: ha vinto la Costituzione. Ha vinto la lungimiranza dei padri costituenti che ci hanno armato la fragile democrazia riconquistata con robuste istituzioni di garanzia, la magistratura indipendente e la Corte Costituzionale che sono riuscite ad intervenire e a sanare la ferita più grave che un sistema politico impazzito aveva inferto alla democrazia costituzionale.
Non c’è dubbio che le leggi elettorali abbiano un influsso immediato e diretto su quel principio supremo della Costituzione che attribuisce la sovranità al popolo determinando la qualità della democrazia rappresentativa ed i suoi limiti. Le leggi elettorali danno contenuto al sistema politico e realizzano la Costituzione vivente con riferimento alla forma di governo, alla forma ed alla natura dei partiti politici ed alla possibilità dei cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.). Lo Statuto albertino è stato distrutto dalla legge Acerbo, che ha consentito a Mussolini di prevaricare sull’opposizione ed assicurarsi la fedeltà di un Parlamento ridotto ad un bivacco di manipoli. La legge Calderoli, che assomiglia alla legge Acerbo come si somigliano due gocce d’acqua, è stato lo snodo attraverso il quale è stato fatto un ulteriore passo, dopo l’introduzione del maggioritario nel 1993, per una svolta in senso oligarchico del sistema politico, comprimendo il pluralismo attraverso la tagliola delle soglie di sbarramento e del premio di maggioranza, e consentendo ad una ristrettissima cerchia di oligarchi di determinare per intero la composizione delle Camere, nominando i rappresentanti del popolo, senza che il corpo elettorale potesse mettervi becco. Il porcellum ha favorito una evoluzione in senso “castale” del sistema politico rappresentativo, tanto che nel senso comune coloro che dovrebbero essere i rappresentanti dei cittadini vengono percepito come una “casta”, cioè un corpo estraneo, portatore di interessi suoi propri, contrapposti al corpo elettorale di cui dovrebbero essere espressione.
La sentenza della Corte Costituzionale ha una portata epocale perchè per la prima volta sancisce con autorità di giudicato un principio di cui il sistema politico si è fatto beffa da oltre vent’anni. Che i sistemi elettorali, anche se sono dominio riservato della politica, devono essere coerenti con l’impianto costituzionale, che prevede che il voto deve essere libero (il che significa possibilità di scegliere più proposte politiche) ed uguale (il che significa che non ci deve essere un quoziente di maggioranza ed uno di minoranza, come prevede il porcellum) e conseguentemente il ceto dei rappresentanti deve essere rappresentativo della pluralità di interessi, bisogni e domande presenti nel corpo elettorale e nella società italiana poiché tutti i cittadini hanno diritto di concorrere a determinare la politica nazionale.
Ciò costituisce una delegittimazione insuperabile di tutte quelle teorie che pretendono di assegnare al sistema elettorale scopi non coerenti con la Costituzione, come la funzione di comprimere il pluralismo nella camicia di forza di un bipolarismo obbligatorio ovvero di scegliere un Governo o un Capo di Governo che non può essere cambiato sino alle elezioni successive, attribuendo un vincolo di mandato agli eletti, incompatibile con l’opposto principio sancito da tutte le costituzioni liberali. Adesso nella discussione in atto per la ricerca di un nuovo sistema elettorale, la Corte costituzionale con questa storica decisione ha gettato sul piatto della bilancia il peso della Costituzione. Spetterà a tutti noi cittadini elettori vigilare perchè il ceto politico non tradisca nuovamente la Costituzione e con essa la dignità del popolo italiano e la sua storia.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il debito porta scompiglio nei fan di Monti e Letta

    
Il debito porta scompiglio nei fan di Monti e Letta

Pubblicato il 3 dic 2013 - fonte -

di Guido Viale – il manifesto – «Abbiamo il debito pubblico più pesante d’Europa. E’ la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza. I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna , semmai dovessero verificarsi…sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall’Europa. Un default dell’Italia no, sconquasserebbe l’Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa: il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato…è questa la spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell’Unione a cominciare dalla Germania».
Queste parole di Eugenio Scalfari (Repubblica, 1-12) segnano, se prese sul serio, una svolta radicale nella linea politica di questo giornale che dal giorno della “salita” al governo prima di Monti e poi di Letta è stato, al livello delle opinioni che contano, il principale puntello di quei due governi e dei relativi presidenti del consiglio, che hanno fatto dell’accettazione incondizionata dei diktat economico-finanziari di Germania, Bce e Unione europea la ragione della loro esistenza e legittimazione. Massacrando la popolazione che avrebbero dovuto guidare fuori dalla crisi, rivelandosi tanto ridicoli quanto inetti (con il dramma degli esodati il primo, la farsa dell’Imu il secondo…).
Ora Scalfari ci spiega una cosa che già sa uno studente del primo anno di economia o un bancario a inizio carriera: quando il debito è consistente, il coltello dalla parte del manico (la «spada di Brenno») ce l’ha il debitore e non il creditore. A condizione di saperlo/a e volerlo/a usare. Con l’Europa la posta in gioco è alta: si tratta di rinegoziare radicalmente i trattati dell’Unione e gli accordi della zona euro per riformare la Bce (e farne un prestatore di ultima istanza), azzerare il fiscal compact (eliminando l’obbligo di far rientrare il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni), il pareggio di bilancio (e qui la spada di Brenno andrebbe rivolta contro i parlamentari italiani che l’hanno votato), la mano libera alla finanza (vietando il traffico di derivati di ogni genere non sostenuti da adeguati sottostanti), la “libera” circolazione dei capitali (con una vera tassa sulle transazioni finanziarie), rivedere l’unione bancaria (introducendo il vincolo della separazione tra banca commerciale e banca d’affari) e sostituire alla moneta “unica” una moneta “comune” (con flessibilità interna tra i vari Stati); e molte altre cose ancora. Altrimenti, kaputt.
Una minaccia che all’Italia costerebbe ben poco, perché è comunque il destino a cui le politiche, in successione, di Tremonti, di Monti e di Letta – cioè della Bce e, per suo tramite, dell’alta finanza internazionale – l’hanno condannata da tempo; come hanno fatto con la Grecia e con gli altri nostri compagni di sventura: Spagna, Portogallo, Bulgaria, oggi; e domani Francia, Ungheria e via andando.
Se la “svolta” di Scalfari segnala che alla fine anche un elementare buon senso si vede ormai costretto a prospettare soluzioni radicali, fino a oggi esecrate come la più irresponsabile delle ipotesi – «pericoloso anche solo nominarla»: così, per esempio, Felice Roberto Pizzuti – è però altamente improbabile che qualcuno dia seguito a quel suo consiglio: Letta non ha la tempra né la cultura per farlo; non ha una forza politica che lo sorregga in un passo di questa portata, avendo abbracciato – su indicazione di Napolitano – la strada del galleggiamento giorno per giorno; ma soprattutto non ha a disposizione un “piano B”: un’ipotesi per affrontare i problemi nel caso che le controparti rispondano picche al suo ricatto (perché di ricatto si tratta, anche se sarebbe una mossa sacrosanta).
Sulla tempra e la cultura di Letta (come su quelle di Monti, un “tecnico” portato in palma di mano da mezza Europa – la sua – e da tutto l’establishment italiano, e rivelatosi poi, insieme al cagnolino Empy, una mezza calzetta), sorvoliamo. Sulla sua forza politica, anche: i partiti delle larghe intese – ora ridotte a intese molto strette – non sanno nemmeno come si chiameranno domani, né se esisteranno ancora. Quanto al “piano B”, non si tratta di bazzecole, o di misure che possano essere affidate a un consulente esterno qualsiasi, come un Bondi o un Cottarelli sulla spending review; o a ministri che non sono stati nemmeno capaci di calcolare il reddito medio dei deputati europei, avendo alle spalle tutto il personale tecnico dell’Istat, come Giovannini; o l’impatto dell’abolizione dell’Imu, come Saccomanni, che pure ha diretto per anni, chissà come, la Banca d’Italia.
Il “piano B” è una strategia che richiede studi, confronti, verifiche e soprattutto consenso: tutte cose che l’attuale compagine di governo non ha la minima idea di che cosa siano. Ma che mancano anche a chi ricorre alla formula semplicistica e demagogica di “uscire dall’euro”, quasi che si potesse tornare alle cose di una volta: quando bastava svalutare la moneta per recuperare competitività e mercati di esportazione. Quella convinzione rappresenta in realtà la quintessenza del liberismo: l’idea che sia il mercato a regolare l’economia e che una variazione dei prezzi internazionali basti per rilanciare lo sviluppo. Un “piano B” invece non può che essere una strategia. Una strategia che deve poter funzionare tanto nel caso, assai improbabile, che l’Italia venga esclusa o si autoescluda dall’euro, o in quello, assai più verosimile, che l’euro si dissolva – nel caos di una serie di default incontrollati – per le sue contraddizioni, quanto nel caso che tutte o le principali richieste su una rinegoziazione dei trattati venissero accolte: perché il riordino del sistema finanziario che detta legge in Europa e nel mondo è sì necessario, ma di sicuro non sufficiente.
Al suo fianco ci vuole un programma per rimettere in piedi l’economia reale, cioè reddito, occupazione e servizi sociali; che non vuol dire rilanciare l’araba fenice della “crescita”, ma valorizzare le competenze umane e il patrimonio di impianti, di know-how e di risorse materiali e ambientali che il trend economico sta mandando in malora a livello locale, nazionale, europeo e mondiale.
Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Si dia il caso, però, che quello a cui né Letta, né Monti, né Tremonti, né Scalfari non hanno mai pensato, sia invece da anni – anzi, da decenni – al centro della riflessione, delle buone pratiche, e dei dibattiti che coinvolgono milioni di donne e di uomini riuniti in comitati, movimenti, associazioni, forum e reti di varia natura e impegnati, anche se nessuno ne parla, in lotte, anche durissime e a volte mortali, in tutti gli angoli del pianeta, Italia compresa.
E’ un programma di radicale conversione ecologica dell’apparato economico e degli stili di vita (ovvero dei modelli di consumo) teso a salvare il pianeta dalla catastrofe ambientale e dai mutamenti climatici in corso (ciò di cui, ancora una volta, si è fatto beffe il vertice Cop19, riunito a Varsavia dal 23 al 29 novembre con i delegati di tutti i “governi Letta” del mondo) e, al tempo stesso, teso a valorizzare al massimo le risorse umane, materiali, ambientali e tecnologiche di cui l’umanità può disporre per rendere meno iniqua la distribuzione del potere e della ricchezza e più accettabile la condizione umana per tutti.
Non si tratta di utopie astratte, ma di progetti concreti, alla portata di tutti, perché imperniati su una partecipazione attiva (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni) e sulla ri-terrritorializzazione dei processi economici: cioè sul riavvicinamento sia fisico che organizzativo tra produzione e consumo; tutto l’opposto dell’accentramento politico e finanziario in corso e della globalizzazione dei mercati che mette in concorrenza miliardi di individui, di cui si sono nutriti tanto lo “sviluppo” degli ultimi decenni, quanto le politiche di risanamento che hanno ridotto, oggi la Grecia e domani l’Italia, a una condizione peggiore di quella di un paese devastato dalla guerra.E’ un programma che non può essere perseguito a livello nazionale, perché è al tempo stesso locale – le cose vanno fatte innanzitutto là dove tutti possono partecipare alla loro realizzazione – e sovranazionale: i problemi di fondo sono quasi ovunque gli stessi, come uguali per tutti sono i poteri da abbattere o da riformare.
Per questo la partita fondamentale per tutti noi si giocherà nel prossimo futuro a livello europeo: proprio come dice Scalfari. Ma a giocarla dobbiamo essere noi tutti, trovando la strada per far sentire la nostra voce; e non Letta e i suoi pari, che non ne saranno mai capaci.

Oltre il neoliberismo

- sbilanciamoci -

03/12/2013
Roma mercoledì 11 dicembre 2013 Aula Tesi, Facoltà di Economia Roma Tre via Silvio D’Amico 77, ore 16. Oltre il neoliberismo. Teorie e pratiche per ripensare la democrazia. A partire dalla Costituzione. Incontro promosso da left. Introduce Stefano Sylos Labini. Intervengono Bruno Amoroso Economista, presidente Centro studi Caffè; Vincenzo Bavaro giuslavorista, Università di Bari; Emiliano Brancaccio economista, Università del Sannio; Gianni Ferrara costituzionalista, Università La Sapienza di Roma; Maurizio Landini segretario generale Fiom-Cgil. Modera Manuele Bonaccorsi left.
La Costituzione come antitesi essenziale ai princìpi del neoliberismo economico, che ci hanno condotto dentro la crisi e che continuano ad aggravarla giorno dopo giorno, smantellando progressivamente i fondamenti della vita democratica. È dedicato a questo tema il convegno annuale dell’Associazione Paolo Sylos Labini, in questa occasione organizzato insieme al settimanale left. Costituzionalisti, esperti di diritto, economisti, si confronteranno sui diritti fondamentali della Costituzione, a partire dai princìpi di uguaglianza (sostanziale) e di esistenza libera e dignitosa, sui quali si fonda il diritto al lavoro; sulle caratteristiche del paradigma liberista che negano l’esistenza di tali diritti; sulla crisi della rappresentanza politica come effetto delle ricadute del paradigma neoliberista sulla sovranità degli Stati e conseguentemente sul sistema democratico; infine sul ruolo dell’attore pubblico informato nei princìpi base della Costituzione, a partire dalla definizione degli obiettivi ultimi di politica economica: piena e buona occupazione per una società giusta e democratica. La crisi economica dimostra la necessità di una nuova programmazione in alternativa alle politiche neoliberiste, in attuazione dei principi fondamentali della Costituzione, capace al tempo stesso di farsi interprete delle domande più urgenti che il presente ci pone.

martedì 3 dicembre 2013

Il garante dello stato delle cose: Matteo Renzi

di Tomaso Montanari

Pubblichiamo il discorso tenuto da Tomaso Montanari all’assemblea pubblica su «Firenze non è una merce. Renzi, il governo della città e la Costituzione» tenutasi a Firenze il 25 novembre. (Fonte immagine: ANSA/Maurizio Degl’Innocenti)
Tra meno di due settimane il Partito Democratico affiderà se stesso, quel che resta della Sinistra e soprattutto del Paese a Matteo Renzi.
Lo farà senza convinzione: per mancanza di meglio. Ed è forse per questo motivo che nessuno si chiede veramente chi sia e che cosa rappresenti Matteo Renzi. Come uno struzzo, l’Italia mette la testa sotto la sabbia: preferisce non sapere.
Si parla del clan di Renzi, dei poteri fortissimi che lo sostengono e ne tirano i fili, perfino dei suoi abiti firmati: ma non delle sue idee, del suo programma, dell’Italia che vuole.
Ma noi fiorentini sappiamo chi è Matteo Renzi. E non possiamo, non dobbiamo tacere.
Con il suo quinquennale non-governo Firenze si è trovata in una posizione del tutto singolare: da una parte è stata abbandonata a se stessa da un’amministrazione rinunciataria, latitante e ben decisa a non sostituire, ma semmai ad affiancare, i preesistenti centri di potere; dall’altra si è vista trasformare in un laboratorio politico in cui è stato possibile conoscere in anteprima i connotati dell’Italia del prossimo futuro.
Se i frutti della inettitudine amministrativa di Renzi sono sotto gli occhi di tutti i fiorentini, i rischi insiti nella sua visione politica ultraliberista e programmaticamente anticostituzionale non appaiono chiari né alla base del Partito Democratico né all’opinione pubblica nazionale.
Ma a noi sì: a noi fiorentini quei rischi appaiono ben chiari.
Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, ha descritto nel suo ultimo libro (Il prezzo della disuguaglianza, 2013), un mondo in cui «i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito». Matteo Renzi questo mondo spaccato lo ha voluto rappresentare, legittimare, celebrare la sera che ha noleggiato Ponte Vecchio alla Ferrari, facendo letteralmente carte false e lasciando i cittadini comuni ad assediare il banchetto dei ricchi.
Usando il patrimonio artistico di Firenze non per includere, integrare, rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza (come vuole la Costituzione), ma per escludere, separare, incrementare la disuguaglianza, Renzi non ha inventato nulla di nuovo.
In questa città, la Biblioteca Nazionale trasforma le sale di lettura in campi da golf, la Curia affitta le chiese sconsacrate per sfilate di biancheria intima, la Soprintendenza noleggia gli Uffizi per kermesse di moda con evidenti implicazioni razziste (ricordate i Masai esibiti in galleria?), l’Università progetta di affittare le aule a chi offre di più. Sono ormai secoli che il peggio di Firenze vive di sciacallaggio alle spalle di un passato glorioso, che ormai davvero non ci meritiamo più.
Matteo Renzi, conservatore per vocazione e per istinto, non fa dunque nulla di nuovo: si limita a seguire la corrente. Si adegua ad un sistema di potere che non vuole rovesciare, ma occupare. Accentua e approfondisce il solco tra la città dei poveri e la città dei ricchi. Dice, non sapendo quello che dice, che gli Uffizi devono diventare una macchina da soldi. E intanto costruisce il clima politico perché questo accada davvero.
Usando il patrimonio storico e artistico della sua città come arma di distrazione di massa ad alto impatto mediatico, il sindaco di Firenze è assai rapidamente diventato il politico professionista più a proprio agio nel violare il significato civile dell’arte del passato, clamorosamente ridotta ad alienante fabbrica di clienti (e, in particolare, di acquirenti di un format politico).
Ma se tutto questo riguardasse solo il patrimonio artistico, ebbene potrebbe impensierire me, Salvatore Settis e purtroppo non molti altri. Ma questo riguarda qualcosa di ancora più profondo, e vitale.
Riguarda il futuro della democrazia in Italia.
Matteo Renzi è l’ultimo epigono del provinciale ma aggressivo neoliberismo italiano. Egli confessa apertamente che il suo modello è Tony Blair: l’ultimo erede della stagione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. È un modello culturale che, per dirlo con le parole dello storico anglo-americano Tony Judt «ha cresciuto una generazione ossessionata dalla ricerca della ricchezza materiale e indifferente a quasi tutto il resto».
Dal suo vago programma per le primarie, si capisce che anche Matteo Renzi vuole cambiare la Costituzione. La nomina solo quattro volte: e sempre negativamente. Cito un passaggio: «Ma spesso la Costituzione si cita in piazza e si dimentica nella quotidianità. Si difende la Costituzione, solo se si attacca la rendita. Pensiamo che l’uguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 sia attuabile solo se rimuoviamo gli ostacoli. Ma l’uguaglianza non significa ugualitarismo».
La strada prospettata è chiarissima: è quella invocata dalle grandi banche d’affari. Pochi mesi fa JP Morgan ha scritto che la ripresa è frenata dall’ugualitarismo delle costituzioni dell’Europa meridionale, nate dalla Resistenza: e che è l’ora di cambiarle. È quello che farà Matteo Renzi: l’erede naturale delle Larghe Intese, che ora finge di criticare. Erede naturale, naturalissimo: perché la ideologia-non-ideologia di Renzi trova nella cosiddetta modernizzazione alla Blair la sintesi perfetta tra Pdl e Pd, tra Berlusconi e D’Alema.
Un segnale concreto? L’indecente alleanza con Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno supercementificatore, superindagato, cumulatore di cariche e violento. Un’alleanza col peggio di questo paese, per la distruzione dell’ambiente e la violazione della legge.
Al tradizionalissimo, usurato marketing della rendita, alla retorica del patrimonio artistico come petrolio di Firenze che ora si è reincarnata in Matteo Renzi è tempo di opporre un’idea di comunità, un progetto di città intesa come luogo e strumento della vita di una collettività.
Io non so se ci sono le condizioni politiche per una proposta alternativa: per una lista che sfidi Renzi alle prossime amministrative. So, è vero, che la maggior parte dei fiorentini non sono felici di come Renzi li ha governati, e so che non si riconoscono in questa grottesca parabola personale.
Il mio dovere di studioso, di storico dell’arte è quello di dare l’allarme. George Orwell ha scritto che «per vedere ciò che abbiamo di fronte al naso serve uno sforzo costante»: ecco, io credo che chi ha il privilegio di fare il mio mestiere debba cercare di rendersi utile proprio in questo modo, favorendo e promuovendo in ogni momento questo sforzo. Lo sforzo per vedere ciò che abbiamo di fronte al naso.
E di fronte al naso abbiamo un piccolo, mediocre replicante di ciò che ha devastato l’Europa e l’Italia negli ultimi 30 anni. Non c’è niente di nuovo: ma nuova sarà la rovina del Paese, imboccando questa strada.
In questo momento appare vitale riunire tutti coloro che pensano che Firenze possa tornare ad essere la forma e l’alimento di una vita civile la cui missione principale dev’essere, oggi, quella di fornire un modello culturale alternativo al mercato, di favorire l’integrazione tra italiani e immigrati, di permettere la frequentazione reciproca di classi diverse ormai chiuse in luoghi e vite nettamente separati.
L’arte e la storia della nostra città non servono a trasformarci in turisti, in clienti a pagamento, in spettatori lobotomizzati del Leonardo che non c’è: ma servono a farci cittadini sovrani, e a farci tutti eguali. È da qua che è urgente ripartire.
Michael Sandel, filosofo della politica e professore di Teoria del Governo ad Harvard, ha scritto che la grande domanda a cui oggi la politica deve rispondere è se abbiamo un’economia di mercato o siamo una società di mercato. Una società in cui tutto è in vendita, in cui tutto è merce: dalla salute al lavoro, dall’arte all’ambiente, dai diritti della persona alle virtù civili.
Il governo di Matteo Renzi ha proclamato forte e chiaro che Firenze è una merce, che la nostra città è una società di mercato in cui tutto è in vendita.
Ma la risposta della sinistra italiana, la risposta della Costituzione italiana è una risposta diversa. E spero che anche la risposta della mia città sarà diversa.
Una risposta opposta: la sovranità non appartiene ai mercati internazionali, appartiene al popolo. Ad ognuno di noi.
È per questo che stasera siamo qua. Ed è da qua che bisogna ripartire.

E adesso, povero euro?

Mimmo Porcaro - sinistrainrete -

Lasciamolo dire al Sole 24 ore, un giornale che per la sua funzione non può permettersi di raccontare troppe frottole: “Chi si illudeva che il ritorno dei socialdemocratici al governo avrebbe ammorbidito le politiche di rigore di Angela Merkel si ritrova smentito su tutta la linea: niente allentamenti, né mutualizzazione dei debiti, né solidarietà finanziaria Ue nell’unione bancaria se non come ultimissima spiaggia. Silenzio sulla crescita europea (che non c’è). Invece contratti Ue vincolanti sulle riforme degli altri”. Così Adriana Cerretelli, addì 28 novembre.

Capito? Il PD ha sempre saputo che le cose sarebbero andate così, e farà finta che sia ancora possibile ottenere, assieme al rigore, la sospirata crescita. Non si tratta di illusioni, si tratta di fare il proprio mestiere, che è, per il PD, quello di tenere i lavoratori italiani dentro la gabbia del capitalismo euroatlantico. Ma che dire della sinistra sedicente radicale, che ancora continua a coltivare speranze analoghe? “Beh – mi si risponderà – ma noi non speriamo certo nel rinsavimento della Merkel, contiamo piuttosto sulla lotta dei lavoratori europei…” . Appunto: se la Grosse Koalition tra socialdemocratici e conservatori è tirchia sull’Europa, è invece più generosa sul fronte interno. I patti prevedono infatti l’instaurazione di un salario minimo ed un allentamento delle restrizioni in tema di pensioni. Poca cosa, certo: ma cosa rilevantissima perché in assoluta controtendenza rispetto all’andazzo attuale. Insomma, diciamola chiara: con i sovrapprofitti garantiti anche dal poter godere, grazie all’euro, di una permanente svalutazione della propria moneta (quella svalutazione che, chissà perché, per l’Italia dovrebbe essere peccato capitale), la Germania finanzia il rafforzamento dell’adesione dei lavoratori tedeschi al suo modello mercantilista. Cosicché lo “spazio europeo” dimostra ancora una volta di non favorire affatto l’unità dei lavoratori, e quindi la costituzione del fronte sociale che dovrebbe democratizzarlo. Anzi.

Ma che ne è dell’altro paladino della cosiddetta Europa sovranazionale, che ne è di quel Mario Draghi che dovrebbe difendere l’euro (questo presunto “spazio avanzato” della lotta di classe) contro la miopia della Germania? Vediamo, vediamo:... “Mario Draghi non ha bloccato la proposta di alcuni membri dell’Esbr, l’autorità per i rischi sistemici, di prevedere una valutazione del rischio superiore a zero per i titoli di stato detenuti dalle banche. E, ovviamente, che tali rischi siano ponderati in modo diverso di stato in stato, con i titoli dei paesi virtuosi ad essere valutati più sicuri di quelli dei Piigs.” Se questa scelta venisse confermata – continua Investireoggi, un sito di consulenza finanziaria che, anch’esso, non può raccontare troppe frottole – ciò “equivarrebbe a dire agli investitori che anche per la BCE i BTp ei Bonos non sono così sicuri come i Bund tedeschi. E perché mai dovrebbero acquistarli, se la stessa banca centrale li declassa?”.

Inoltre Weidmann, il presidente della Banca centrale tedesca, “avverte Draghi che se intende andare avanti sulla strada della supervisione bancaria unica e centrale, non sarà lui a guidarla. La Germania uscirà dal cilindro [chiedo scusa per il pessimo italiano, ma io non c’entro… M.P.] l’ennesimo organismo sovranazionale e ufficialmente super-partes, per evitare che i bilanci delle sue banche siano giudicati dal board della BCE, dove ormai i tedeschi sono finiti in minoranza, come ha dimostrato l’ultimo voto di novembre con il taglio dei tassi avversato dalla Bundesbank e da pochi altri. E la BCE potrà anche scordarsi nuove misure di stimolo monetario, perché il discorso del governatore tedesco era tutto improntato ad evidenziare i difetti di simili provvedimenti, che non sarebbero tollerati da Berlino, dopo il taglio dei tassi di meno di venti giorni fa”.

Capito l’aria che tira? Mario Draghi preferirebbe tenere in piedi la zona euro, forse per evitare che una sua disgregazione ostacoli il prossimo – e per noi micidiale – trattato di partnership euro-americana. Ma Berlino, nonostante possa lucrare molto dalla moneta unica, non le sacrificherà mai la propria autonomia strategica.

Non c’è niente da fare, dunque: la sinistra radicale (se davvero vuole essere sinistra e se davvero vuole essere radicale) deve rassegnarsi a deporre la vetusta retorica dell’Europa sociale, dei movimenti, della lotta di classe continentale, per affrontare con coraggio i propri compiti storici. Ossia la ridefinizione della posizione internazionale del Paese. L’elaborazione di un nazionalismo difensivo e democratico-costituzionale come base di un’alleanza del Sud, e poi di un’Europa confederale. La riscoperta dei pregi dell’economia pubblica contro le illusioni privatistiche (comuni anche a tanto “privato sociale”, a tanta “economia alternativa”). La costruzione di un’alleanza trai lavoratori che oggi seguono il PD e quelli che oggi seguono il centrodestra, su un programma che mescoli pianificazione per i grandi gruppi e (vero) mercato per le PMI, innovazione scientifico-tecnologica e democrazia industriale, valorizzazione dell’immenso patrimonio paesistico-culturale dell’Italia ed espansione razionale del lavoro pubblico.

Capiamolo una buona volta: lo rompano i Piigs o lo rompa la Germania l’euro finirà. Saremo allora costretti a riscoprire la serietà, la difficoltà, la durezza di una effettiva posizione di sinistra, dunque socialista.

Ma è possibile uscire dall'euro e adottare in Italia le politiche della Modern Monetary Theory?

by Elido Fazi - sinistrainrete -

Ringrazio Ricky che mi ha segnalato il manifesto “Non Eravamo i PIIGS. Torneremo Italia”. Il documento, preparato dagli economisti Warren Mosler (uno dei più conosciuti fautori della Moderna Teoria Monetaria), Mathew Forstater, Alain Parguez e il giornalista eretico italiano Paolo Barnard, propone un ritorno unilaterale dell’Italia alla lira e una messa in pratica nel nostro paese delle tesi della scuola economica che si rifà alla Modern Monetary Theory (MMT). Dirigo, insieme al teologo Vito Mancuso, una collana di teologia che si chiama “Campo dei Fiori” in onore di Giordano Bruno. Ho simpatia per gli eretici come Barnard, anche se su molti punti, alcuni cruciali, non sono d’accordo con lui. Ma devo riconoscergli che, al contrario di molti altri, lui cerca di andare oltre i soliti conformistici articoli sulla crisi che leggiamo troppo spesso sui giornali italiani (e anche su quelli stranieri).
Poiché la tesi dell’uscita della lira dall’Euro è legata alle teorie della Moderna Teoria Monetaria, bisogna cercare di capire che cos’è quest’ultima, portata avanti soprattutto dalla sinistra del Partito Democratico americano (tra i suoi più accesi sostenitori c’è l’economista James K. Galbraith, docente di Scienza delle Finanze all’università del Texas, figlio del celebre economista John Kenneth Galbraith, il più grande studioso della crisi del ’29, consigliere, non si sa se ascoltato o meno, di Barack Obama).
Essendo una teoria propugnata da quella parte della sinistra americana che si è battuta affinché fosse eletta Janet Yellen alla guida della Federal Reserve (a proposito, c’è qualcuno che ha capito il sacro mistero del perché Obama preferisse Lawrence Summers, noto trafficante di Wall Street, consulente di hedge fund, ispiratore della nefasta politica di deregulation sotto la presidenza Clinton, alla Yellen, che ha sempre lavorato nel pubblico e a Wall Street non ha mai messo piede?),
solo per questo andrebbe presa molto sul serio anche dalla sinistra nostrana, sia quella renziana che quella cuperliana o lettiana, che sulle questioni economiche è ancora danneggiata pesantemente dalla disastrosa decisione di sposare le teorie neoliberiste, proprio nel periodo in cui la MMT cominciava ad affermarsi, all’inizio degli anni Novanta.
Mi sembra che sia una teoria che dovrebbe essere senz’altro sposata dalla sinistra, poiché mette al primo posto come suo obiettivo la creazione di posti di lavoro. Mi sembra di aver sentito Renzi argomentare da Fabio Fazio – giustamente, aggiungo – che il problema principale dell’Italia, e su questo penso nessuno possa contraddirlo, sia la disoccupazione. Io aggiungerei che tutte le risorse intellettuali residue nel Partito Democratico dovrebbero essere concentrate sullo studio di come trovare soluzioni a questo problema. Non basta dire in un talk show che la disoccupazione è il problema principale dell’Italia. Bisogna provare ad azzardare anche qualche terapia o medicina che possa avere qualche effetto sul paziente malato. Non so se il consulente economico di Renzi, Yoram Gutgeld, ex consulente di una società, la McKinsey, che ha sempre sostenuto le teorie della shareholder value, e cioé che la creazione di valore per gli azionisti debba essere l’unico e principale obiettivo di un azienda, sia la persona giusta per dare consigli a Renzi.
Purtroppo, il problema della Modern Monetary Theory (MMT) è che finora nessuno è riuscito a fare una narrazione plausibile e convincente della teoria fuori dal mondo accademico (se non fosse così, avrei piacere che me lo segnalaste). Provo a raccontarla con parole mie, nel modo più semplice possibile, sperando di averla capita per bene.
Il punto di partenza per capire una teoria monetaria sulla moneta è quello di porsi una domanda che può in apparenza sembrare banale ma di fatto non lo è: che cos’è la moneta? Se facessimo questa domanda a Mario Draghi o al prossimo governatore della Federal Reserve, Janet Yellen, forse neanche loro riuscirebbero a dare una risposta precisa, o almeno la stessa risposta. I teorici della MMT partono da un fatto fondamentale, e cioè dal fatto che a partire dal 15 agosto 1971, cioè da quando il presidente statunitense Richard Nixon sospese unilateralmente la conversione in oro del dollaro, la moneta appartiene a un genere mai prima visto nella storia, quello della moneta fiat.
Basta un soffio, un fischio o una magia, come fa Mefistofele nel Faust di Goethe, e la moneta si crea dal nulla. Questo cambiamento, secondo i teorici della MMT – ma già Keynes, quando nel 1930 pubblicò il suo Trattato sulla Moneta (Treatise on Money), aveva anticipato alcune delle loro conclusioni –, rimette totalmente in discussione le assunzioni fatte nei vecchi manuali di macroeconomia. Fino al 1971 vivevamo in un sistema economico delineato a Bretton Woods nel 1944, cioè quello di una moneta convertibile in oro e un sistema di cambi fissi (che potevano essere modificati solo secondo le procedure previste). Oggi viviamo in un mondo in cui in cui i cambi sono flessibili e non c’è nulla dietro la moneta. Se portate 35 vecchi dollari alla Federal Reserve americana non vi danno più un’oncia d’oro, ma vi daranno altrettante banconote, magari meno sgualcite.
Il Gold Exchange era stato introdotto in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento e aveva resistito fino alla prima guerra mondiale. C’era stato un tentativo di reintrodurlo dopo la fine della guerra ma nel 1931 il Regno Unito era stato costretto ad abbandonarlo. L’oro era il principale strumento per poter fare i pagamenti internazionali. Se l’Italia aveva un disavanzo della parte corrente della bilancia dei pagamenti con l’Inghilterra, l’oro veniva caricato in una nave e spedito in Inghilterra (semplifico al massimo, naturalmente). L’arrivo di quest’oro avrebbe consentito all’Inghilterra di aumentare l’offerta di moneta, poiché avevano più oro per supportare la sterlina. Per l’Italia, la fuoriuscita di oro avrebbe avuto un effetto deflazionistico, cioè avrebbe diminuito l’offerta di moneta. La disoccupazione sarebbe salita e i prezzi delle merci e dei salari sarebbero scesi, e automaticamente ci sarebbe stato un riequilibrio. Oppure la lira avrebbe dovuto svalutare.
Nel 1944 a Bretton Woods il sistema fu reintrodotto con una piccola, si fa per dire, variante: solo il dollaro era convertibile in oro (44 dollari per un’oncia d’oro). Il 15 agosto 1971, Nixon affossò definitivamente il sistema dichiarando unilateralmente che gli Stati Uniti non avrebbero più convertito il dollaro in oro.
In questo sistema, l’idea che uno Stato potesse fare una politica monetaria espansiva come quella che fanno oggi gli Stati Uniti (quantitative easing) per stimolare l’economia non sarebbe stata possibile. Un governo avrebbe potuto estendere la sua offerta di moneta solo se avesse avuto un forte surplus della bilancia dei pagamenti. Con questo sistema, non c’è dubbio che i governi avevano dei limiti invalicabili per fare politiche monetarie espansive. La politica monetaria non poteva essere usata come strumento per far crescere l’occupazione, ma solo come strumento di stabilizzazione del cambio. La Banca Centrale di un paese non poteva espandere la base monetaria con un click di computer come può essere fatto oggi. L’offerta di moneta doveva per forza essere legata all’oro (o ai dollari che in quanto convertibili in oro erano l’equivalente) tenuto come riserva.
Per approfondire perché si è arrivati alla fiat money vi consiglio il libro La terza guerra mondiale? in ebook a solo 0.99€ . Dal 1971 viviamo tutti in regime di fiat money e la decisione di Nixon ha certamente accelerato l’idea di far nascere una moneta fiat, l’euro, anche in Europa (ventisette fiat money non sarebbero state né auspicabili né praticabili, perché sarebbero rimaste in balia del primo speculatore à la George Soros che fosse passato). Secondo la MMT, quindi, fino al 1971 gli Stati avevano limiti alla spesa pubblica poiché la creazione di moneta non poteva essere infinita, ma legata alle riserve in oro.
Oggi viviamo in un sistema totalmente diverso. Le monete, il dollaro, l’euro, ma anche le altre, non hanno nessun valore specifico. Il governo ha (per ora, almeno) il monopolio sulla stampa di moneta fiat e pertanto la spesa pubblica diventa indipendente dalle entrate fiscali. Se non ci fosse un pericolo di inflazione uno Stato potrebbe paradossalmente stampare tutta la moneta di cui ha bisogno e portare le tasse a zero. L’idea che un governo possa restare a corto di soldi non esiste. Quando si è parlato di recente di default americano si è usato un termine improprio. Gli Stati Uniti non potranno mai fare default.

GRECIA. L'oligarchia dell'Euro chiede altri sacrifici di sangue


- movisol-
1 dicembre 2013 (MoviSol) - Il 20 novembre il capo dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha chiesto che i greci "facciano altri sacrifici" per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Troika. Definire questa una richiesta di sacrifici di sangue non è un'iperbole.
Il grosso dei tagli al bilancio greco avvengono nel settore sanitario e sociale. Stando al rapporto appena pubblicato dall'OCSE, Health at a Glance 2013, la spesa pro capite per la sanità in Grecia è crollata dell'11,1% tra il 2010 ed il 2011, il crollo peggiore in tutti i 34 paesi membri dell'OCSE. È aumentata la mortalità infantile. Come c'era da aspettarsi, il secondo posto va ad un'altra vittima della Troika, l'Irlanda, dove la spesa per la sanità è diminuita del 6,6%. Negli anni successivi la situazione è peggiorata drammaticamente.
Ad un incontro dell'Associazione Medica di Atene il 16 novembre, il ministro della Sanità greco Andonis Georgiadis è stato accolto da urla di "assassino economico" dalle centinaia di medici ed operatori sanitari presenti. Pochi giorni prima Georgiadis, confermando che l'ente sanitario nazionale avrebbe licenziato oltre 1.200 medici, si era preso tutto l'onore di questa decisione. Oltre 6.000 medici sono già emigrati in cerca di un impiego.
La stessa settimana Georgiadis ha ammesso che i pazienti di oncologia hanno liste di attesa di un anno per le cure negli ospedali pubblici, inclusi quelli di Atene e Thessaloniki. Al Policlinico di Iraklio, a Creta, devono aspettare fino all'ottobre 2014! Tutto il sistema è stato gettato nel caos quando sono stati chiusi otto ospedali nell'area di Atene.
Uno studio condotto dalla Scuola Nazionale di Sanità Pubblica dimostra che un greco su tre ha ridotto il dosaggio dei propri farmaci per farli durare più a lungo. I pazienti cronici hanno ridotto del 30% le visite dal 2011 al 2013, perché non possono più permettersi di pagare il ticket.
Questa politica uccide, come dimostra il fatto che negli ultimi 4 anni l'aspettativa di vita è scesa da 81 a 78 anni. E questo non vale solo per gli anziani e gli infermi.
L'UNICEF riferisce che 600.000 bambini e giovani in Grecia sono malnutriti e vivono al di sotto del livello di povertà, mentre un altro studio ha rilevato che il 60% degli scolari affronta "l'incertezza del cibo" mentre il 23% patisce la fame. Tre famiglie su cinque in aree "socialmente vulnerabili" non sono neanche in grado di offrire ai propri figli una fetta di pane a colazione prima di mandarli a scuola. Decine di migliaia di genitori si sono dovuti rivolgere ad enti per l'infanzia quali Childrens Village SOS, perché non possono più permettersi di nutrirli.
Nonostante questi effetti killer, l'intenzione del governo è di ridurre la spesa sociale di un altro 10%. La disoccupazione aumenterà così dal 28% al 34%, con la disoccupazione giovanile arrivata ad un incredibile 64%.

lunedì 2 dicembre 2013

Slavoj Žižek pensatore pericoloso?


Scritto da Diego Fusaro
Pubblicato Lunedì 02 Dicembre 2013, - lospifero -
 
Domenica 1 dicembre, il filosofo Slavoj Žižek è stato ospite della trasmissione “Che tempo che fa” diretta da Fabio Fazio. Non è interessante, in questa sede, discutere della trasmissione in quanto tale, su cui peraltro già vi sarebbe molto da dire. La trasmissione di Fazio è, in estrema sintesi, l’equivalente televisivo del quotidiano “La Repubblica”, il luogo della riproduzione del politicamente corretto e dell’ideologia di legittimazione dell’esistente.

Certo, si tratta di un fatto hegelianamente noto, ma non conosciuto: ma non è di questo che intendo occuparmi, né di come la trasmissione di Fazio svolga la funzione di rassicurazione ideologica per la gente semicolta del ceto della sinistra politicamente corretta, antiborghese e ultracapitalista, nemica di ogni possibile formazione ideologica in grado di opporsi al capitale dominante.

E, tuttavia, occorre partire dal fatto che, nel rassicurante e comodo salotto della trasmissione di Fazio, vengono sempre e solo invitati ospiti organici a quella cultura. Perché, dunque, invitare il filosofo irregolare Slavoj Žižek, colui che mai ha rinnegato il nome di Marx e che, in tempi recenti, ha addirittura preteso di riabilitare Hegel, l’autore più dissonante in assoluto rispetto all’ordine della globalizzazione trionfante (si veda, a questo proposito, l’ultimo lavoro di Žižek, Meno di niente, Ponte Alle Grazie 2013)? Si tratta di un abbaglio dell’occhiuta censura dell’ideologia dominante? O non sarà invece che il dissidente Žižek è più organico all’ordine dominante di quanto non si possa a tutta prima immaginare?

Ritengo, personalmente, che questa seconda risposta sia quella corretta. E proverò brevemente a spiegare perché, fermo restando che Žižek – già solo perché pone al centro del suo discorso Hegel e Marx – resta un gigante rispetto ai nostrani pagliacci in salsa postmoderna, ai pensatori analitici senza senso storico, ai cani da guardia dell’ordine neoliberale e, ancora, a quanti si sono penosamente convertiti, dopo il 1989, dalla dialettica marxiana a nuove forme di pensiero compatibile con lo Spirito del tempo.

Prendendo spunto da un’acuta osservazione di Costanzo Preve, voglio partire dalla definizione che del pensiero di Žižek è stata prospettata dalla rivista americana di politica e arti “The New Republic”: “il pensatore più pericoloso dell’Occidente”. Il paradosso è evidente: perché mai il mainstream culturale gestito capillarmente dal capitale – e di cui “The New Republic” come “Che tempo che fa” sono parte integrante – dovrebbero dedicare spazio, per di più in termini encomiastici, a un pensatore dissidente e in lotta contro il loro mondo?

In breve, la mia tesi è la seguente. Il successo mediatico che continua ad arridere a pensatori che, come Žižek, apparentemente incarnano con le loro riflessioni l’opposizione più radicale possibile al sistema della produzione si spiega in ragione del fatto che, in verità, a un’analisi attenta e non superficiale, tali pensatori, con la loro stessa critica, rappresentano la glorificazione ideale del sistema dominante: una glorificazione ancora più efficace – perché dissimulata – rispetto a quella delle sempre in voga apologetiche dirette di chi santifica il reale presentandolo panglossianamente come il migliore dei mondi possibili.

In fondo, il segreto del successo globale di Žižek sta tutto qui. La sua funzione ideologica, in apparenza oppositiva, è in realtà immancabilmente rassicurante. Žižek si assume il compito della critica per disinnescarla, addomesticandola e finendo, così, per riproporre il collaudato schema dell’intrasformabilità dell’esistente, nella forma di una spettacolarizzazione (nel caso di Žižek, anche assai pacchiana e postmoderna) della critica e del messaggio di Marx. In senso generale, nell’atto stesso con cui agita senza tregua il nome di Marx e di Hegel, Žižek non fa altro che disinnescarli, presentandoli in salsa postmoderna come inoffensivi e, de facto, come organici alla produzione capitalistica. Per usare la grammatica di Žižek contro Žižek stesso, Marx e Hegel vengono “decaffeinati”, cioè privati della loro valenza oppositiva rispetto alle logiche dell’alienazione planetaria (Marx) e del capitalistico regno animale dello Spirito (Hegel).

Nel suo esercizio di una critica già da sempre metabolizzata dal cosmo mercatistico, Žižek, l’inarrestabile fustigatore della società esistente, svolge sempre e solo la stessa funzione apologetica di tipo indiretto. La sua critica addomesticata e perfettamente inseribile nei circuiti della manipolazione organizzata occulta la propria natura apotropaica rispetto a una critica non assimilabile nell’ordine dominante. Chiedetevi perché a “Che tempo che fa” venga invitato Žižek e non sia mai stato ospitato Costanzo Preve e avrete la risposta al dilemma.

I numerosi critici del presente lasciano apparire morbido, permissivo e aperto a ogni pratica contestativa il monoteismo del mercato: e, insieme, complici le prestazioni dell’industria culturale, saturano mediaticamente lo spazio della possibile contestazione, facilitando il silenziamento invisibile delle critiche autenticamente antiadattive, coerentemente sfocianti nel programma del rivoluzionamento dell’esistente.

Solo così si spiega il paradosso della gloria mediatica di pensatori che il sistema stesso della produzione promuove urbi et orbi, definendoli, con stile pubblicitario, “i più pericolosi dell’Occidente” e, per ciò stesso, neutralizzando la pensabilità, se non altro per l’opinione pubblica, di critiche effettivamente antisistemiche. In tal maniera, all’opinione pubblica e alla cultura universitaria pervengono sempre e solo idee inoffensive e organiche al sistema, ma contrabbandate come le più “pericolose” in assoluto, creando l’illusione che esse coincidano con il massimo della critica possibile.

Prova ne è che oggi le sole idee veramente “pericolose”, cioè incompatibili con lo Zeitgeist postborghese e ultracapitalista, coincidono con il recupero integrale della sovranità nazionale (economica, politica, culturale, militare) come passaggio necessario per la creazione dell’universalismo dell’emancipazione (contro il criminale incubo eurocratico), con la deglobalizzazione pratica e con il riorientamento geopolitico contro la monarchia universale. Di tutto questo, naturalmente, nell’opera di Žižek non v’è traccia. Muovendosi entro i confini del politically correct fissati dal sistema, Žižek critica il presente con toni che, quanto più sembrano radicali, tanto più rinsaldano il potere nel suo autocelebrarsi come intrascendibile e democratico. Per quanto tempo ancora dovrà durare tutto questo?

domenica 1 dicembre 2013

L’università di Atene batte la Troika

Fonte: Il Manifesto | Autore: Argiris Panagopoulos                  
Mondo accademico avanti a oltranza. Il ministro pronto a ritirare il piano chiesto dalla troika
Dopo dodici settimane di sciopero il personale dell’Università di Atene e del Politecnico ha costretto il governo a fare marcia indietro: dei 500 impiegati che si volevano licenziare ora Samaras ipotizza il solo trasferimento di 100 unità in altri uffici a un minor salario. Tutto il mondo accademico è compatto su un punto: nessun licenziamento a danno degli atenei pubblici per garantire meglio la funzione di quelli privati.
Nel frattempo però il governo di Samaras e la troika hanno messo in ginocchio le università greche, ritardando l’iscrizione delle matricole e annullando in pratica gli esami, mentre il personale amministrativo dell’Università di Atene e del Politecnico resiste alle pressioni e continuerà fino a martedì una serie di scioperi prolungati contro il licenziamento della metà degli impiegati. La tenacia del personale e la solidarietà dei senati accademici di tutte le università, dei sindacati, di Syriza e gran parte degli studenti hanno fatto costringere il governo Samaras a trattare e infine ad arrendersi. Il ministro della Pubblica Istruzione Arbanitopoulos sembra essere costretto a una resa incondizionata se non procede ai tanto desiderati licenziamenti, mentre da parte loro e con molta ragione, molti impiegati non si fidano delle promesse del governo.
Ieri le riunioni del personale del Politecnico e dell’Università di Atene si sono svolte in clima di enorme tensione, anche perché i lavoratori hanno chiesto l’annullamento dei vertici del sindacato che avevano trovato positive le proposte del ministro! «Abbiamo resistito con una enorme battaglia contro il massacro dell’Università. L’unica soluzione è tornare tutti nei nostri posti di lavoro per far funzionare le facoltà insieme con i professori e il personale docente. Lo sciopero continua e il ministero mente dicendo che il 50% del personale è tornato al lavoro», insistevano ieri pomeriggio gli impiegati in assemblea, mentre Arbanitopoulos telefonava disperato al rettore dell’Università di Atene Pelegrinis per costringere gli impiegati ad aprire l’ateneo.
Secondo Arbanitopoulos università e politecnico rimangono chiusi illegalmente a causa di una minoranza del personale e di «manipoli» di Syriza e di Antarsya, la coalizione della sinistra extraparlamentare. Per il ministro l’apertura delle istituzione universitarie per permettere agli studenti di partecipare agli esami e non perdere il loro semestre è la pre-condizione per negoziare. Intanto Nuova Democrazia e Pasok hanno votato in fretta e furia una legge che permette agli studenti di partecipare a febbraio e a giugno del 2014 anche alle sedute degli esami saltate e che salteranno ancora se le università non aprono lunedì.
Il giornale dell’armatore Alafouzos, la prestigiosa Kathimerini, ha chiesto ieri in prima pagina la testa di Arbanitopoulos per il solo fatto di aver fatto marcia indietro sui licenziamenti. Il ministro si è difeso sostenendo che ha assunto 454 docenti e ne assumerà altri 400. Anche per Syriza «le dimissioni del ministro rappresentano l’unica soluzione possibile». Anche gli studenti hanno risposto con occupazioni in tante Facoltà di fronte al pericolo che il governo utilizzasse per ennesima volta la polizia per risolvere i conflitti sociali.
Vincendo sulla salvezza delle otto università, la Grecia può ottenere una grande vittoria contro la troika. Grazie a una fermezza così corale, il governo non ha osato aprire gli atenei con i manganelli, lasciando le ingenti forze di polizia schierate fuori dai cancelli.
Clamorosa rimane l’unanime decisione dei membri del senato accademico e dei loro sostituti della grande Università di Salonicco «Aristoteleio» che hanno offerto al rettore le dimissioni in massa pur di ostacolare i licenziamenti del personale amministrativo.
Nel vuoto sono caduti anche i tentativi di forzare gli scioperi attraverso le proteste degli studenti che volevano sostenere gli esami. Perfino l’organizzazione degli studenti di Nuova Democrazia (Dap) si è tenuta lontana dalle richieste del governo.

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