Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 28 marzo 2014

Greci disperati, si iniettano l'HIV per avere il sussidio di €700. Rapporto OMS.

Reuters/Yannis Behrakis


L'OMS sui rischi dell'austerità. "Spagna, Irlanda e Italia sono avvisate".
maria grazia bruzzone @mar__bru


Un recente report dell’OMS – l’Organizzazione Mondiale della Sanità – evidenzia le pesanti implicazioni sanitarie della crisi economica in Europa. E registra come in Grecia un certo numero di cittadini arrivino ad infettarsi col virus dell’Aids per ottenere benefici economici dal governo.

Il documento dell’OMS pubblicato la settimana scorsa esamina i motivi sociali e le disparità in campo sanitario nella Regione Europea. E conclude che i sempre più alti livelli di disoccupazione e le obbligata austerity finanziaria hanno colpito duramente i cittadini, specialmente in Grecia dove i senza lavoro hanno raggiunto in settembre il 27%.

Che la crisi in Grecia stia causando problemi sanitari è già stato qua e là raccontato: la spesa sanitaria tagliata del 32% già nel 2009, la mancanza di medicine dopo che le multinazionali, che vantavano crediti dal governo per 2 miliardi, hanno bloccato la fornitura di 300 farmaci, anche per malattie gravi come Aids e tumori, gli ospedali in crisi, arrivati a tagliare 200 letti per la rianimazione. Un sistema morente, insomma. Vedi qui, qui e qui, in it.

Ora arriva la certificazione dell’OMS, una denuncia ben più pesante che non riguarda solo la Grecia. La crisi economica ha “esacerbato” i problemi sanitari in varie parti d’Europa provocando “iniquità sociali ed economiche tra paesi e all’interno di essi”, scrive l’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinenando come la più colpita sia appunto la Grecia.

Il report afferma che in tasso di HIV in quel paese è salito “significativamente” dal 2008. E stima che circa la metà delle nuove infezioni siano auto-inflitte per consentire alle persone di ricevere aiuti da €700 al mese e una più rapida ammissione a programmi di alternative alla droga.

I suicidi, riferisce l’OMS, sono aumentati in Grecia del 17% dal 2007 al 2009, di un ulteriore 25% nel 2010. Col peggiorare delle condizioni economiche nel 2011 sono saliti ancora del 40%, secondo il ministero della Sanità.
Omicidi e furti sono raddoppiati. Anche la prostituzione è salita, probabilmente in risposta alla durezza della situazione economica.

L’OMS rileva poi come l’accesso al sistema sanitario greco sia diminuito, a causa dei tagli del 40% ai budget degli ospedali, dove 26.000 lavoratori, compresi 9100 medici, sono a rischio di perdere il posto.

Secondo un’indagine europea citata nel report sono aumentati del 15% le persone che non vanno dal dottore o dal dentista pur avendone bisogno.

“Queste tendenze negative in Grecia sono un monito ad altri paesi dove sono in atto politiche di austerità, comprese Spagna, Irlanda e Italia” si legge nel report.

Atene ha varato misure di austerità per continuare a ricevere aiuti dalla BCE. Nel maggio 2010 i paesi dell’eurozona e il FMI hanno concordato un prestito-salvataggi di €110 miliardi che la maggioranza dei cittadini sta pagando pesantemente, con livelli di tassazione altissimi e tagli a stipendi e pensioni. Sei giovani su 10 sono senza lavoro. E i senzatetto sono in aumento.

Dopo la Grecia, il tasso di disoccupazione più alto nell’eurozona è in Spagna, al 26%, subito dopo viene il Portogallo, al 16.3%.

L’Italia è per ora lontana da tali cifre. E il governo attuale sta facendo di tutto per evitare che il nostro paese sia commissariato da UE e FMI. A dispetto di quanti sostengono che un “commissariamento” sia già in atto.

Guardiamoci dai facili populismi.


Abbiamo focalizzato l’attenzione sulla Grecia, sulla scia di un post di RT. Il report è in realtà molto ampio, consta di molti capitoli e tocca vari temi. Per es. la trasmissione intergenerazionale delle iniquità, la salute e l’educazione dei bambini connesse con la situazione sociale, i rischi sanitari derivanti da comportamenti della popolazione, esclusione sociale, vulnerabilità e svantaggiati, le politiche per ridurre l’health divide (le disparità in fatto di salute) fra i paesi europei, le raccomandazioni dell’OMS.

mercoledì 26 marzo 2014

La povertà, razzismo d’Europa

Fonte: Il Manifesto | Autore: Daniela Padoan
 «La casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cer­casse rifu­gio nella sua tana minu­scola e illu­so­ria». Sono state forse que­ste parole — con­te­nute nell’appello con cui alcuni intel­let­tuali hanno sen­tito che occor­reva guar­dare alla Gre­cia come a una sorella — a con­vin­cermi che qual­cosa di nuovo stava acca­dendo: l’irrompere della realtà, la neces­sità di nomi­nare la mise­ria come una pre­senza che ci inter­pella, che minac­cia le nostre esi­stenze, che erode un mondo di con­cetti di cui ci è rima­sta in mano un’inutile se non dan­nosa carcassa.
Né l’Europa divisa nuo­va­mente in caste è un rifu­gio, né lo è la nostra esi­stenza pic­co­lo­bor­ghese, dove la parola «povertà» ha finora riguar­dato solo e sem­pre gli altri.
Per­ché l’Europa – intesa come mostro buro­cra­tico al ser­vi­zio del capi­tale indu­striale e finan­zia­rio – abbia ogni inte­resse a occul­tare la que­stione sociale, è evi­dente: ridurre la sof­fe­renza degli uomini e delle donne a numeri, sta­ti­sti­che, sot­to­com­mis­sioni, rego­la­menti e pro­ce­dure signi­fica ane­ste­tiz­zare la rab­bia, la ribel­lione, la rea­zione col­let­tiva. Signi­fica ren­dere la disoc­cu­pa­zione, il licen­zia­mento, la per­dita di ogni pos­si­bi­lità di sosten­ta­mento, la debo­lezza davanti alla malat­tia e alla vec­chiaia, una que­stione pri­vata, un fal­li­mento dei sin­goli. Ma per­ché la que­stione sociale sia stata con­si­de­rata mar­gi­nale dai par­titi della sini­stra, che pro­prio nel non saper­sene fare inter­preti hanno decre­tato il loro disfa­ci­mento, è meno evi­dente. Da un certo punto in avanti, la sini­stra ha smesso di rap­pre­sen­tare i più deboli, è diven­tata sorda al dolore, all’umiliazione, ha dele­git­ti­mato ogni sen­ti­mento di rivolta di fronte al sopruso. Si è fatta par­te­cipe e media­trice di poli­ti­che deva­stanti, ali­men­tando dot­trine di sacri­fi­cio di fronte al disa­stro, assu­mendo il con­cetto di crisi come feno­meno natu­rale, scia­gura ine­lut­ta­bile dalla quale solo gli esperti pos­sono trarci in salvo.
La povertà, parola impro­nun­cia­bile, è diven­tata – da ossi­fi­ca­zione nelle figure ras­si­cu­ranti per­ché estreme del clo­chard, del bar­bone, del sen­za­tetto, del drop-out – una que­stione di atti ammi­ni­stra­tivi, nor­ma­tivi, una mate­ria di diret­tive: una poli­tica occul­tata sotto sigle illeg­gi­bili che in Gre­cia si è con­cre­tiz­zata nel fatto che i malati muo­iono di can­cro senza più assi­stenza ospe­da­liera, che le uni­ver­sità chiu­dono, che il tasso di mor­ta­lità neo­na­tale giunge alle per­cen­tuali di quello che era­vamo soliti chia­mare Terzo Mondo.
Abbiamo ancora nelle orec­chie gli eufe­mi­smi ai quali sono ricorse, nel tempo, diverse dit­ta­ture per masche­rare i pro­pri atti cri­mi­nali: la mat­tanza com­piuta dalla dit­ta­tura argen­tina, che fece spa­rire tren­ta­mila oppo­si­tori get­tan­doli in mare dagli aerei, venne chia­mata «pro­cesso di rior­ga­niz­za­zione nazio­nale»; l’eliminazione indu­striale nelle camere a gas di sei milioni di indi­vi­dui venne chia­mata, nella Ger­ma­nia nutrita di Goe­the, «solu­zione finale della que­stione ebraica». Oggi, nella demo­cra­tica Europa, nata sulle rovine della Seconda guerra mon­diale come anti­doto alle dit­ta­ture, una poli­tica eco­no­mica agita da un potere sovra­na­zio­nale con il vas­sal­lag­gio dei governi demo­cra­tici viene chia­mata auste­rity , fiscal com­pact , pareg­gio di bilan­cio, ristrut­tu­ra­zione del debito.
Quando, tre anni dopo il default dell’Argentina, andai a Bue­nos Aires per scri­vere un libro sulle Madri di Plaza de Mayo, ebbi modo di vedere i car­to­ne­ros che vive­vano a migliaia nelle bidon­ville tutt’attorno alla città, e i bam­bini che si pro­sti­tui­vano in pieno giorno sulla cen­tra­lis­sima Ave­nida 9 de Julio. La pre­si­dente delle Madri, Hebe de Bona­fini, mi portò in un mani­co­mio dove gli inter­nati, che chia­mava «pri­gio­nieri psi­chia­trici», erano abban­do­nati a se stessi, nella spor­ci­zia, con quasi nulla da man­giare. Ricordo che, davanti al mio scon­certo, più volte mi disse: fai un errore se ci guardi come un mondo diverso dal tuo, siamo solo il primo esem­pio, la prima pale­stra del neo­li­be­ri­smo, arri­verà anche da voi. «Noi Madri», ripe­teva, «cre­diamo che i disoc­cu­pati siano i nuovi desa­pa­re­ci­dos del sistema, e che la man­canza di lavoro sia uno tra i peg­giori cri­mini con­tro l’umanità. Un lavoro degno è un diritto umano ina­lie­na­bile e la sua man­canza porta con sé la fame dei bam­bini e la distru­zione delle famiglie».
La casa di tutti noi è in fiamme, e le nostre tane sono minu­scole e illu­so­rie. Ma nomi­nare la realtà è già di per sé un atto rivo­lu­zio­na­rio: signi­fica non solo uscire dall’oscurità, ma ritro­vare un senso di fra­tel­lanza. Non un chi­narsi sui deboli da una posi­zione di illu­mi­nata supre­ma­zia, ma un con­di­vi­dere affanni e spe­ranze. Que­sto moto inte­riore è stato archi­viato dalla sini­stra tele­vi­siva e pro­fes­sio­nale come naïf, ciar­pame di vec­chie litur­gie, con il risul­tato di lasciare agli arrin­ga­tori di piazze la pos­si­bi­lità di par­lare al dolore e all’umiliazione delle per­sone, al senso di rivolta con­tro l’ingiustizia, che ancora è la vera molla capace di farci uscire dalle nostre clau­stro­fo­bi­che e pri­vate prigioni.
L’incendio che avanza rischia di abbat­tersi sui paesi medi­ter­ra­nei chia­mati Pigs – un acro­nimo che rimanda, più che a un lap­sus, all’emergere di un antico disprezzo non sopito, ben­ché si sia poi tra­sfor­mato in Piigs, con l’ingresso dell’Irlanda, e sia stata coniata l’alternativa Gipsi, a dimo­stra­zione di quanto i fan­ta­smi non risolti della vec­chia Europa raz­ziale aleg­gino ancora nell’inconscio collettivo.
Uno spet­tro si aggira per l’Europa, ed è lo spet­tro della povertà. Igno­rarlo, o fin­gere che non ci riguardi, ha lasciato un enorme numero di uomini e di donne privi di rap­pre­sen­tanza; espo­sti – come scri­veva Han­nah Arendt a pro­po­sito delle rivo­lu­zioni fran­cese e russa – a cadere dalla dimen­sione della libertà a quella del biso­gno, deviando verso l’assolutismo. E il risve­glio che ci attende all’apertura delle urne euro­pee rischia di essere molto duro, con un’ascesa del blocco nazio­na­li­sta, raz­zi­sta e xeno­fobo che va dal Front Natio­nal di Marine Le Pen, che potrebbe diven­tare il primo par­tito in Fran­cia, a Job­bik , il movi­mento di estrema destra di Gabor Vona, attual­mente terzo par­tito unghe­rese, pas­sando per il par­tito belga Inte­resse fiam­mingo di Vlaams Belang e la lista Veri Fin­lan­desi di Timo Soini, senza dimen­ti­care Alba Dorata e la Lega Nord .
Veniamo da una sto­ria che, nel Set­te­cento, nel cuore dell’Europa, ha con­ce­pito l’ideologia che chia­miamo raz­zi­smo – ovvero la «natu­rale» supre­ma­zia dell’uomo occi­den­tale, maschio, bianco, dotato di logos, nei con­fronti dei «sel­vaggi» delle colo­nie, gra­dual­mente pros­simi, in base al colore della pelle e ai tratti soma­tici, alla scim­mia; una sto­ria che, nell’Ottocento, con il dar­wi­ni­smo sociale, ha teo­riz­zato e pra­ti­cato la sop­pres­sione dei più deboli – dei malati, degli han­di­cap­pati, degli omo­ses­suali, dei «devianti» di ogni spe­cie – tra­mite le dot­trine dell’eugenetica e le pra­ti­che di ste­ri­liz­za­zione for­zata e di euta­na­sia; una sto­ria che, nel Nove­cento, ha pia­ni­fi­cato e attuato lo ster­mi­nio su base raz­ziale, con l’invenzione delle camere a gas e dei campi di annien­ta­mento. C’è una gerar­chia del disprezzo, il cui pre­ci­pi­zio abbiamo visto in Ausch­witz, che la nostra tra­di­zione di pen­siero ci ha adde­strato a rico­no­scere come «natu­rale», arti­co­lan­dola in uomo-donna, cultura-natura, logos-barbarie. È con que­sta tra­di­zione che dob­biamo fare i conti. Non ser­vi­ranno le litur­gie della memo­ria a pre­ser­varci dal ritorno di quella furia omi­cida, ma solo un pro­fondo ripen­sa­mento delle radici cul­tu­rali che tutt’ora ci nutrono.
Se anche è stata dimo­strata l’inesistenza scien­ti­fica del con­cetto di razza appli­cato agli uomini, per­mane un raz­zi­smo para­dos­sale, un raz­zi­smo senza razze, rivolto con­tro i poveri, resi cate­go­ria, desti­tuiti di uma­nità, pos­si­bili da sfrut­tare e da annien­tare. Torna attuale il pro­blema della schia­vitù, che siamo abi­tuati a col­lo­care nel mondo antico e negli Stati sudi­sti del cotone, men­tre, nella nostra sto­ria recente, un paese colto e tec­no­lo­gi­ca­mente avan­zato ha pro­get­tato la sot­to­mis­sione di tutti gli altri popoli euro­pei: una parte di essi sarebbe stata sop­pressa, gli altri sareb­bero stati fatti schiavi, così da garan­tire la supre­ma­zia e lo «spa­zio vitale» del popolo germanico.
La Lista L’Altra Europa con Tsi­pras ha posto come punto qua­li­fi­cante del suo pro­gramma la lotta alla xeno­fo­bia e al raz­zi­smo, e la ricerca di poli­ti­che fon­date sui prin­cipi di giu­sti­zia, acco­glienza, soli­da­rietà e inclu­sione sociale. Per­ché, come ripe­tono le Madri di Plaza de Mayo, «non si vince alla lot­te­ria, d’essere poveri». Si tratta di poli­ti­che decise dagli uomini, e il solo modo che abbiamo per cam­biarle è abbrac­ciare l’orizzonte con­ti­nen­tale, costruendo un’Europa che non sia una giu­sti­fi­ca­zione meta­fi­sica della sot­to­mis­sione, un moloch che richiede il sacri­fi­cio dei deboli, ma una garan­zia di demo­cra­zia e di inclu­sione. È neces­sa­rio tor­nare alle ori­gini del pro­getto euro­peo, alle moti­va­zioni pro­fonde della sua costi­tu­zione, prima di essere som­mersi da un nuovo fascismo.
La sola comu­nità pos­si­bile, scri­veva Geor­ges Bataille, è quella di coloro che non hanno comu­nità, ed è a loro (a noi) che dob­biamo ten­tare con tutte le nostre forze di dare rappresentanza.
* La ver­sione inte­grale di que­sto testo verrà pub­bli­cata nel pros­simo numero della rivi­sta Inchiesta

martedì 25 marzo 2014

Lista Tsipras e Sanità pubblica

Autore: Roberto Gramiccia      
http://www.controlacrisi.org/notizia/Welfare/2014/3/24/39989-lista-tsipras-e-sanita-pubblica/
Vorrei, in questa circostanza, affrontare brevemente una sola questione che mi sembra trascurata e che invece va tenuta presente per ben impostare la campagna elettorale a favore della lista Tsipras. Mi riferisco a quella che credo sia una evidente sottovalutazione del peso e dell’importanza strategica dell’attacco ai gangli vitali dello Stato sociale, perpetrato in nome e per conto di un’Europa delle banche che cavalca l’ideologia neoliberista vincente. Molto si parla – e giustamente – dell’attacco al lavoro, ai diritti, all’istruzione, all’acqua pubblica, genericamente ai beni comuni, alla democrazia. Tutte cose sacrosante, per carità. Ma troppo poco e male si parla della demolizione sistematica della Sanità Pubblica e della Previdenza sociale che oggi sta assumendo caratteristiche e proporzioni impressionanti.
Leggevo ieri che sono di nuovo a rischio le pensioni e persino gli assegni di accompagno per malati gravi e gravissimi. E allora non occuparsene o occuparsene troppo poco e male significa non intercettare il giusto risentimento non solo dei ceti meno abbienti ma anche di un ceto medio, già ampiamente proletarizzato, che facilmente diventa preda dei populismi di varia matrice, e che invece – oggi – potrebbe essere nostro alleato. La salute è il principale dei beni comuni e attorno ad esso, ruota un business colossale. Ma voi lo sapete che ogni anno noi spendiamo circa 18 miliardi per mantenere in vita una rete disomogenea e inadeguata di ospizi, che si chiamano Residenze sanitarie assistenziali, quasi solo perché si tratta dell’investimento produttivo più facile e remunerativo per la sanità privata?
Lo sapete che stiamo parlando di circa il 18% di quello che in toto spendiamo per la sanità? Senza contare gli altri enormi costi aggiuntivi legati al tema della cronicità, in un paese in cui gli ultrasessantacinquenni si approssimano a diventare un quarto della popolazione. E lo sapete che, tanto per fare un esempio soltanto, con l’assistenza domiciliare potremmo risparmiare quasi la metà di questa cifra, che potrebbe essere utilmente reinvestita in altro, per esempio nel potenziamento dei pronto soccorso che oggi esplodono? Ma a parte gli aspetti economici, che pure sono fondamentali, avete idea di quanto sopravvivano i pazienti costretti in cattività dentro le RSA? In media solo sei mesi (dati forniti da chi ci lavora)! E non vengono, per lo meno nel Lazio quasi mai dimessi perché i posti letto devono essere permanentemente occupati per fare cassa. Mentre l’Assistenza domiciliare pubblica è al palo perché non deve fare concorrenza col business dei privati.
Questa mannaia non si abbatte solo sui poveri, colpisce soprattutto loro ma non solo. In Italia si calcola che esistano più di un milioni di badanti che sono l’alternativa per coloro i quali, a costo spesso di grandi sacrifici, vogliono evitare l’internamento dei propri cari in RSA. E a questa gente si vuole pure togliere quell’assegno di accompagno che è indispensabile per sopperire alla carenza dei servizi socio-sanitari. Sarebbe il caso di riflettere sul fatto che in Italia oltre 9 milioni di persone (dati Censis) non si curano più perché non sono in grado di sostenerne i costi, e che in Grecia la morbilità e la mortalità infantile sono peggiorate drammaticamente.
Noi siamo sulla stessa strada e questo è un argomento che riguarda tutti. È per questo che dobbiamo saper gridare che la sanità privata non va bene mai, paradossalmente neanche per i ricchi, perché quando sono in gioco interessi colossali, le scelte diagnostiche e terapeutiche non sono garantite nella loro obiettività. E da questo che proviene il fenomeno colossale e volutamente ignorato della inappropriatezza prescrittiva che non è innocentemente casuale, ma organicamente funzionale agli interessi del capitale finanziario.
Difendere, allora, la Sanità pubblica significa oggettivamente contrastare la deriva neoliberistica, battersi contro i diktat della troika, significa allargare le alleanze su una piattaforma che coinvolge tutti. Perché tutti hanno interesse a conservare per se e per i propri cari il bene più prezioso: la salute. Una buona sanità pubblica è la metafora più eloquente di un buono stato. Chi l’attacca è un nemico degli interessi collettivi – semplicemente – e questo lo possono capire tutti, perché capirlo non richiede competenze complesse di tipo economico-finanziario o di altra natura.
Ebbene compagni/e, noi queste cose le dobbiamo spiegare alla gente. Finora lo abbiamo fatto poco e male. E invece lo dobbiamo fare anche, anzi soprattutto quando sosteniamo la lista Tsipras , magari proprio segnalando i disastri prodotti in Grecia da politiche europee selvaggiamente antipopolari. Si tratta, e concludo, di un terreno di lotta di importanza vitale, non inferiore a quello del lavoro. È ora finalmente di prenderne coscienza!

domenica 23 marzo 2014

Intervista al Prof. Joseph Halevi

Posted by Redazione / In Scelti da noi /

1) Prof. Halevi, in un suo lavoro scritto con Riccardo Bellofiore dal titolo “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, sostenete che, con la grande crisi capitalistica del 2007-2008, siamo dinanzi alla terza crisi della teoria economica. Può spiegarci, brevemente, cosa intendete? Quali sono state, invece, le prime due crisi?

La crisi del 2007 è, ovviamente, anche una crisi di tutti quegli approcci teorici che celebravano l’efficienza dei mercati finanziari come trasmettitori di informazioni affidabili per non dire perfette. Ma questo non sarebbe un granchè. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dell Stato a favore del mercato.

Invece no, per molti versi lo Stato o organismi statuali insindacabili (come quelli dell’UE) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti (Bellofiore ha scritto delle cose fondamentali sulla falsa rappresentazione del neoliberismo da parte della sinistra) . Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari (negli Usa prima e progressivamente anche in Europa) che ha spinto le famiglie ad indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali.

Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali, prima verso il Messico poi, massicciamente, verso la Cina sono andate pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni. In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. E’ andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli USA è stata sostenuta la domanda effettiva MONDIALE: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti le importazioni dal resto del mondo. A ben guardare i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, USA e pochi altri. Negli USA il tasso di crescita pro capite è stato moderato ma quello aggregato, che include l’aumento di popolazione è stato maggiore che in Europa o Giappone.

Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti al punto che è impossibile fare delle distinzioni. Le altre due crisi sono quella della fine di Bretton Wooods nel 1971 connessa alla guerra del Vietnam che fece deragliare propio la forza del capitalismo post-1945 su cui poggiava l’intervento USA in Vietnam, cioè il keynesismo militare. Per questo nel 1972 la grandissima Joan Robinson nel suo famoso discorso al convegno dell’American Economic Association a New Orleans individuò nella finedel sistema post bellico detto di Bretton Woods una seconda crisi della politica e teoria economica: cioè del keynesismo pratico – quello militare – e di quello insegnato nella manualistica universitaria che presenta la disoccupazione keynesiana come un problema di breve periodo. Infini, la prima crisi fu quella degli anni 30 che portò alla cosiddetta rivoluzione keynesiana sebbene fin dal 1929 esistessero i lavori del marxista polacco Michal Kalecki. che sui problemi sollevati poi da Keynes aveva svolto considerazioni più pregnanti.

2) Il capitalismo, dagli ultimi tre decenni, si è mosso sui binari della precarizzazione del lavoro, della finanziarizzazione e di quella che lei, Francesco Garibaldo e Riccardo Bellofiore chiamate “centralizzazione senza concentrazione”. Secondo lei, l’Euro (e i vincoli che esso comporta) può essere letto come totalmente organico a questo processo capitalistico globale, visto che si stanno imponendo, con le mani legate, proprio quei processi di flessibilità del mercato del lavoro e di distruzione dei diritti sociali? Insomma, l’Euro come strumento è un qualcosa di ben più ampio rispetto alla crisi dell’Eurozona?

Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania… L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. E’ questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio, l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. Ed infatti Olanda e Austria protestarono ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta ovviamente.

3) Continuando sul tema dell’Euro, oggi se ne dibatte sicuramente molto di più rispetto a qualche anno fa. Molti continuano in un suo tenace “oltranzismo”, come ha detto Emiliano Brancaccio; altri invece ritengono che bisogna uscirne, senza però chiarire se continueranno o meno con il filone di pensiero economico dominante o ritorneranno ad un keynesismo di matrice classica, cioè proponendo generiche politiche fiscali espansive volte al sostegno della domanda aggregata. Nello specifico, come pensa dovrebbe agire una nazione come l’Italia, immeritatamente inclusa tra i PIIGS (pur essendo un paese con un elevato risparmio privato), per trovare una soluzione ai problemi derivanti dall’Euro? E’ sufficiente tornare a Keynes oppure bisogna andare oltre? Qualora l’opzione fosse proprio l’uscita dall’UME, come dovrebbe essere gestita tale situazione?

Purtroppo gli economisti non danno alcuna importanza alla struttura giuridico statuale dei sistemi economici che dovrebbero studiare. Non si può uscire dall’UME se non si esce anche dall’UE. Per poter permettere l’uscita soltanto dall’UME sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e UE cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’Unione Monetaria. Bisognerebbe studiarsi l’economia politica dell’UE e dell’UME. Invece si procede per modellini aprioristici infarciti di ipotesi normative (così andrà bene o male, ecc…) senza conoscenza della storia e dei rapporti politici, statuali ed economici dell’intera costruzione dell’UME, quest’ultima voluta non tanto dal capitale europeo quanto dallo Stato francese. Detto questo la vostra domanda contiene delle affermazioni che a mio avviso richiedono delle precisazioni critiche. Non capisco che importanza abbia il risparmio privato che nell’insieme è sempre determinato dal volume degli investimenti.

In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo Economic Outlook dell’OCSE – è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità e, quindi, per via del connesso calo degli investimenti. Inoltre vorrei sottolineare che non si può tornare a Keynes perchè a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “KEYNESISMO MILITARE” del periodo 1947-71 o forse 47-74. Infine con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza USA non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani. Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberimso ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate.

C’è stato più Stato e più capitale privato. L’attuale opposizione alla spesa da parte degli stessi repubblicani è volta solo a bloccare il funzionamento della presidenza Obama. E’ semplice sabotaggio. A Keynes non si può ritornare perchè non ci si è mai arrivati, nè ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana The New Republic nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però  raggiunto e superato ma grazie al pilastro rappresentato dal Keynesismo miltare. Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli USA che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali ecc; mentre il lavoro dipendente, il precariato ed i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia.

4) De facto per i Paesi che oggi condividono la moneta unica essa rappresenta una sorta di “nuovo gold standard”, in quanto tra loro ci sono dei tassi di cambio fissi. Alla luce di ciò Lei crede che un’eventuale rottura dell’Euro, e quindi un ritorno ad un cambio flessibile, possa garantire uno spazio fiscale di manovra maggiore rispetto all’odierno assetto europeo? Quali sono i vantaggi di un cambio flessibile rispetto ad uno fisso?

Non capisco questa fascinazione per le supposte virtù curative dei cambi flessibili. L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. Nel 1953 Milton Friedman scrisse un lungo saggio apparso nel volume Essays on Positive Economics, in cui egli elogiava i cambi flessibili in quanto avrebbero permesso di raggiungere l’equilibrio esterno anche laddove i prezzi interni a ciascun paese rimanevano rigidi. Su questa base teorica i cambi flessibili vanno benissimo, essendo l’unico strumento per poter sostenere degli shock provenienti dall’estero. Infatti le virtù miracolose dei cambi flessibili consistono nel raggiungimento di situazioni ottimali di equilibrio sul piano esterno malgrado le rigidità dei prezzi interni. Aria assolutamente fritta! Così come è aria fritta la concezione di zone monetarie ottimali all’interno delle quali dovrebbero operare tutte le ottimalità paretiane.

Se si applicasse rigorosamente la definizione di zona monetaria ottimale si constaterebbe che la stragrande maggioranza delle monete esistenti non appartiene ad alcuna zona ottimale. Il fatto che gran parte degli economisti di sinistra accetti la visione Friedman-Mundell (iper-neoclassica quindi) del ruolo dei cambi e delle zone monetarie risiede nel fatto che anche questi economisti procedono da modellucci normativi aprioristici senza economia politica. Consiglierei di ritornare indietro di una settantina di anni e studiare le argomentazioni CONTRO i cambi flessibili che vennero usate per costruire il sistema di Bretton Woods. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Nè l’uno nè l’altro sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero. Mutatis mutandis il discorso vale anche per il sistema monetario ed i relativi cambi esteri. Esattamente come il ruolo della Banca Centrale non può essere indipendente, anche la dinamica dei cambi deve essere subordinata alle priorità delle politiche economiche.

In nessun modo ciò è attuabile nell’UE-UME. Qui però le cose diventano molto più complicate perchè non si sa dove si andrà a finire; esattamente come non si sa quale sarà l’effetto di un cambiamento dei prezzi relativi sulla distribuzione del reddito, sulla scelta delle tecniche ecc. Cose che la teorie economiche hanno, in negativo, sceverato con successo. In altri termini, le complicazioni emergono dal fatto che non ci sono teorie che ci dicano se il tasso cambio (o anche il tasso di interesse, o i prezzi relativi) aumenta succederà questo e quest’altro, se invece si abbassa succederà  x,y,z. Non lo sappiamo; pretendere altrimenti è millantare. Ogni situazione deve essere studiata caso per caso senza partire da ipotesi comportamentali o da relazioni tecniche aprioristiche.

5) In tema di occupazione una proposta degli economisti della Modern Money Theory è rappresentata dalle politiche di “job guarantee” (lavoro garantito), in cui lo Stato, come finanziatore diretto, diviene datore di lavoro di ultima istanza (ELR). La trova auspicabile tale proposta? Pensa possa essere suscettibile di ulteriori miglioramenti?

Non do molta importanza a quella proposta. Quando venne lanciata circa 15 anni fa partecipai con Peter Krielser ad un dibattito sui suoi eventuali meriti e demeriti. Studiando la forma concreta della proposta avanzata da Randall Wray ci trovammo in sostanziale disaccordo con lui. In primis subordina il lavoro ad una specie di militarizzazione civile. Facemmo l’esempio dell’Arbeiter Front (Fronte del Lavoro) del regime nazista. Inoltre la proposta non si focalizza sull’investimento. Sostenemmo che con la disoccupazione di massa sono gli investimenti a dover essere programmati, non la regimentazione del lavoro (WP – 2001/02 “Political Aspects of Buffer Stock Employment” - Peter Kriesler and Joseph Halevi). Data la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi spesso corrotti ed imboscati nei meandri della politica, però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù – l’ELR può diventare un’arma a doppio taglio.

Comunque se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa: cioè la socializzazione pianificata degli investimenti (su questo c’è un bel saggio di Bellofiore, purtroppo appena pubblicato sulla rivista di Bertinotti, ossia di un politico non assolvibile che ha fatto danni irreparabili alla sinistra) e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della CGIL e per la dissoluzione del PD. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.

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