Raccolta di gesti e rumori dal mondo virtuale, per comprendere il mondo reale.
Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας. Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute.... .... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ... (di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo. Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
L'OMS sui rischi dell'austerità. "Spagna, Irlanda e Italia sono avvisate".
maria grazia bruzzone @mar__bru
Un recente report dell’OMS – l’Organizzazione Mondiale della Sanità – evidenzia le pesanti implicazioni sanitarie della crisi economica in Europa. E registra come in Grecia un certo numero di cittadini arrivino ad infettarsi col virus dell’Aids per ottenere benefici economici dal governo.
Il documento dell’OMS pubblicato la settimana scorsa esamina i motivi sociali e le disparità in campo sanitario nella Regione Europea. E conclude che i sempre più alti livelli di disoccupazione e le obbligata austerity finanziaria hanno colpito duramente i cittadini, specialmente in Grecia dove i senza lavoro hanno raggiunto in settembre il 27%.
Che la crisi in Grecia stia causando problemi sanitari è già stato qua e là raccontato: la spesa sanitaria tagliata del 32% già nel 2009, la mancanza di medicine dopo che le multinazionali, che vantavano crediti dal governo per 2 miliardi, hanno bloccato la fornitura di 300 farmaci, anche per malattie gravi come Aids e tumori, gli ospedali in crisi, arrivati a tagliare 200 letti per la rianimazione. Un sistema morente, insomma. Vedi qui, qui e qui, in it.
Ora arriva la certificazione dell’OMS, una denuncia ben più pesante che non riguarda solo la Grecia. La crisi economica ha “esacerbato” i problemi sanitari in varie parti d’Europa provocando “iniquità sociali ed economiche tra paesi e all’interno di essi”, scrive l’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinenando come la più colpita sia appunto la Grecia.
Il report afferma che in tasso di HIV in quel paese è salito “significativamente” dal 2008. E stima che circa la metà delle nuove infezioni siano auto-inflitte per consentire alle persone di ricevere aiuti da €700 al mese e una più rapida ammissione a programmi di alternative alla droga.
I suicidi, riferisce l’OMS, sono aumentati in Grecia del 17% dal 2007 al 2009, di un ulteriore 25% nel 2010. Col peggiorare delle condizioni economiche nel 2011 sono saliti ancora del 40%, secondo il ministero della Sanità.
Omicidi e furti sono raddoppiati. Anche la prostituzione è salita, probabilmente in risposta alla durezza della situazione economica.
L’OMS rileva poi come l’accesso al sistema sanitario greco sia diminuito, a causa dei tagli del 40% ai budget degli ospedali, dove 26.000 lavoratori, compresi 9100 medici, sono a rischio di perdere il posto.
Secondo un’indagine europea citata nel report sono aumentati del 15% le persone che non vanno dal dottore o dal dentista pur avendone bisogno.
“Queste tendenze negative in Grecia sono un monito ad altri paesi dove sono in atto politiche di austerità, comprese Spagna, Irlanda e Italia” si legge nel report.
Atene ha varato misure di austerità per continuare a ricevere aiuti dalla BCE. Nel maggio 2010 i paesi dell’eurozona e il FMI hanno concordato un prestito-salvataggi di €110 miliardi che la maggioranza dei cittadini sta pagando pesantemente, con livelli di tassazione altissimi e tagli a stipendi e pensioni. Sei giovani su 10 sono senza lavoro. E i senzatetto sono in aumento.
Dopo la Grecia, il tasso di disoccupazione più alto nell’eurozona è in Spagna, al 26%, subito dopo viene il Portogallo, al 16.3%.
L’Italia è per ora lontana da tali cifre. E il governo attuale sta facendo di tutto per evitare che il nostro paese sia commissariato da UE e FMI. A dispetto di quanti sostengono che un “commissariamento” sia già in atto.
Guardiamoci dai facili populismi.
Abbiamo focalizzato l’attenzione sulla Grecia, sulla scia di un post di RT. Il report è in realtà molto ampio, consta di molti capitoli e tocca vari temi. Per es. la trasmissione intergenerazionale delle iniquità, la salute e l’educazione dei bambini connesse con la situazione sociale, i rischi sanitari derivanti da comportamenti della popolazione, esclusione sociale, vulnerabilità e svantaggiati, le politiche per ridurre l’health divide (le disparità in fatto di salute) fra i paesi europei, le raccomandazioni dell’OMS.
«La casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria». Sono state forse queste parole — contenute nell’appello con cui alcuni intellettuali hanno sentito che occorreva guardare alla Grecia come a una sorella — a convincermi che qualcosa di nuovo stava accadendo: l’irrompere della realtà, la necessità di nominare la miseria come una presenza che ci interpella, che minaccia le nostre esistenze, che erode un mondo di concetti di cui ci è rimasta in mano un’inutile se non dannosa carcassa.
Né l’Europa divisa nuovamente in caste è un rifugio, né lo è la nostra esistenza piccoloborghese, dove la parola «povertà» ha finora riguardato solo e sempre gli altri.
Perché l’Europa – intesa come mostro burocratico al servizio del capitale industriale e finanziario – abbia ogni interesse a occultare la questione sociale, è evidente: ridurre la sofferenza degli uomini e delle donne a numeri, statistiche, sottocommissioni, regolamenti e procedure significa anestetizzare la rabbia, la ribellione, la reazione collettiva. Significa rendere la disoccupazione, il licenziamento, la perdita di ogni possibilità di sostentamento, la debolezza davanti alla malattia e alla vecchiaia, una questione privata, un fallimento dei singoli. Ma perché la questione sociale sia stata considerata marginale dai partiti della sinistra, che proprio nel non sapersene fare interpreti hanno decretato il loro disfacimento, è meno evidente. Da un certo punto in avanti, la sinistra ha smesso di rappresentare i più deboli, è diventata sorda al dolore, all’umiliazione, ha delegittimato ogni sentimento di rivolta di fronte al sopruso. Si è fatta partecipe e mediatrice di politiche devastanti, alimentando dottrine di sacrificio di fronte al disastro, assumendo il concetto di crisi come fenomeno naturale, sciagura ineluttabile dalla quale solo gli esperti possono trarci in salvo.
La povertà, parola impronunciabile, è diventata – da ossificazione nelle figure rassicuranti perché estreme del clochard, del barbone, del senzatetto, del drop-out – una questione di atti amministrativi, normativi, una materia di direttive: una politica occultata sotto sigle illeggibili che in Grecia si è concretizzata nel fatto che i malati muoiono di cancro senza più assistenza ospedaliera, che le università chiudono, che il tasso di mortalità neonatale giunge alle percentuali di quello che eravamo soliti chiamare Terzo Mondo.
Abbiamo ancora nelle orecchie gli eufemismi ai quali sono ricorse, nel tempo, diverse dittature per mascherare i propri atti criminali: la mattanza compiuta dalla dittatura argentina, che fece sparire trentamila oppositori gettandoli in mare dagli aerei, venne chiamata «processo di riorganizzazione nazionale»; l’eliminazione industriale nelle camere a gas di sei milioni di individui venne chiamata, nella Germania nutrita di Goethe, «soluzione finale della questione ebraica». Oggi, nella democratica Europa, nata sulle rovine della Seconda guerra mondiale come antidoto alle dittature, una politica economica agita da un potere sovranazionale con il vassallaggio dei governi democratici viene chiamata austerity , fiscal compact , pareggio di bilancio, ristrutturazione del debito.
Quando, tre anni dopo il default dell’Argentina, andai a Buenos Aires per scrivere un libro sulle Madri di Plaza de Mayo, ebbi modo di vedere i cartoneros che vivevano a migliaia nelle bidonville tutt’attorno alla città, e i bambini che si prostituivano in pieno giorno sulla centralissima Avenida 9 de Julio. La presidente delle Madri, Hebe de Bonafini, mi portò in un manicomio dove gli internati, che chiamava «prigionieri psichiatrici», erano abbandonati a se stessi, nella sporcizia, con quasi nulla da mangiare. Ricordo che, davanti al mio sconcerto, più volte mi disse: fai un errore se ci guardi come un mondo diverso dal tuo, siamo solo il primo esempio, la prima palestra del neoliberismo, arriverà anche da voi. «Noi Madri», ripeteva, «crediamo che i disoccupati siano i nuovi desaparecidos del sistema, e che la mancanza di lavoro sia uno tra i peggiori crimini contro l’umanità. Un lavoro degno è un diritto umano inalienabile e la sua mancanza porta con sé la fame dei bambini e la distruzione delle famiglie».
La casa di tutti noi è in fiamme, e le nostre tane sono minuscole e illusorie. Ma nominare la realtà è già di per sé un atto rivoluzionario: significa non solo uscire dall’oscurità, ma ritrovare un senso di fratellanza. Non un chinarsi sui deboli da una posizione di illuminata supremazia, ma un condividere affanni e speranze. Questo moto interiore è stato archiviato dalla sinistra televisiva e professionale come naïf, ciarpame di vecchie liturgie, con il risultato di lasciare agli arringatori di piazze la possibilità di parlare al dolore e all’umiliazione delle persone, al senso di rivolta contro l’ingiustizia, che ancora è la vera molla capace di farci uscire dalle nostre claustrofobiche e private prigioni.
L’incendio che avanza rischia di abbattersi sui paesi mediterranei chiamati Pigs – un acronimo che rimanda, più che a un lapsus, all’emergere di un antico disprezzo non sopito, benché si sia poi trasformato in Piigs, con l’ingresso dell’Irlanda, e sia stata coniata l’alternativa Gipsi, a dimostrazione di quanto i fantasmi non risolti della vecchia Europa razziale aleggino ancora nell’inconscio collettivo.
Uno spettro si aggira per l’Europa, ed è lo spettro della povertà. Ignorarlo, o fingere che non ci riguardi, ha lasciato un enorme numero di uomini e di donne privi di rappresentanza; esposti – come scriveva Hannah Arendt a proposito delle rivoluzioni francese e russa – a cadere dalla dimensione della libertà a quella del bisogno, deviando verso l’assolutismo. E il risveglio che ci attende all’apertura delle urne europee rischia di essere molto duro, con un’ascesa del blocco nazionalista, razzista e xenofobo che va dal Front National di Marine Le Pen, che potrebbe diventare il primo partito in Francia, a Jobbik , il movimento di estrema destra di Gabor Vona, attualmente terzo partito ungherese, passando per il partito belga Interesse fiammingo di Vlaams Belang e la lista Veri Finlandesi di Timo Soini, senza dimenticare Alba Dorata e la Lega Nord .
Veniamo da una storia che, nel Settecento, nel cuore dell’Europa, ha concepito l’ideologia che chiamiamo razzismo – ovvero la «naturale» supremazia dell’uomo occidentale, maschio, bianco, dotato di logos, nei confronti dei «selvaggi» delle colonie, gradualmente prossimi, in base al colore della pelle e ai tratti somatici, alla scimmia; una storia che, nell’Ottocento, con il darwinismo sociale, ha teorizzato e praticato la soppressione dei più deboli – dei malati, degli handicappati, degli omosessuali, dei «devianti» di ogni specie – tramite le dottrine dell’eugenetica e le pratiche di sterilizzazione forzata e di eutanasia; una storia che, nel Novecento, ha pianificato e attuato lo sterminio su base razziale, con l’invenzione delle camere a gas e dei campi di annientamento. C’è una gerarchia del disprezzo, il cui precipizio abbiamo visto in Auschwitz, che la nostra tradizione di pensiero ci ha addestrato a riconoscere come «naturale», articolandola in uomo-donna, cultura-natura, logos-barbarie. È con questa tradizione che dobbiamo fare i conti. Non serviranno le liturgie della memoria a preservarci dal ritorno di quella furia omicida, ma solo un profondo ripensamento delle radici culturali che tutt’ora ci nutrono.
Se anche è stata dimostrata l’inesistenza scientifica del concetto di razza applicato agli uomini, permane un razzismo paradossale, un razzismo senza razze, rivolto contro i poveri, resi categoria, destituiti di umanità, possibili da sfruttare e da annientare. Torna attuale il problema della schiavitù, che siamo abituati a collocare nel mondo antico e negli Stati sudisti del cotone, mentre, nella nostra storia recente, un paese colto e tecnologicamente avanzato ha progettato la sottomissione di tutti gli altri popoli europei: una parte di essi sarebbe stata soppressa, gli altri sarebbero stati fatti schiavi, così da garantire la supremazia e lo «spazio vitale» del popolo germanico.
La Lista L’Altra Europa con Tsipras ha posto come punto qualificante del suo programma la lotta alla xenofobia e al razzismo, e la ricerca di politiche fondate sui principi di giustizia, accoglienza, solidarietà e inclusione sociale. Perché, come ripetono le Madri di Plaza de Mayo, «non si vince alla lotteria, d’essere poveri». Si tratta di politiche decise dagli uomini, e il solo modo che abbiamo per cambiarle è abbracciare l’orizzonte continentale, costruendo un’Europa che non sia una giustificazione metafisica della sottomissione, un moloch che richiede il sacrificio dei deboli, ma una garanzia di democrazia e di inclusione. È necessario tornare alle origini del progetto europeo, alle motivazioni profonde della sua costituzione, prima di essere sommersi da un nuovo fascismo.
La sola comunità possibile, scriveva Georges Bataille, è quella di coloro che non hanno comunità, ed è a loro (a noi) che dobbiamo tentare con tutte le nostre forze di dare rappresentanza.
* La versione integrale di questo testo verrà pubblicata nel prossimo numero della rivista Inchiesta
Vorrei, in questa circostanza, affrontare brevemente una sola questione che mi sembra trascurata e che invece va tenuta presente per ben impostare la campagna elettorale a favore della lista Tsipras. Mi riferisco a quella che credo sia una evidente sottovalutazione del peso e dell’importanza strategica dell’attacco ai gangli vitali dello Stato sociale, perpetrato in nome e per conto di un’Europa delle banche che cavalca l’ideologia neoliberista vincente. Molto si parla – e giustamente – dell’attacco al lavoro, ai diritti, all’istruzione, all’acqua pubblica, genericamente ai beni comuni, alla democrazia. Tutte cose sacrosante, per carità. Ma troppo poco e male si parla della demolizione sistematica della Sanità Pubblica e della Previdenza sociale che oggi sta assumendo caratteristiche e proporzioni impressionanti.
Leggevo ieri che sono di nuovo a rischio le pensioni e persino gli assegni di accompagno per malati gravi e gravissimi. E allora non occuparsene o occuparsene troppo poco e male significa non intercettare il giusto risentimento non solo dei ceti meno abbienti ma anche di un ceto medio, già ampiamente proletarizzato, che facilmente diventa preda dei populismi di varia matrice, e che invece – oggi – potrebbe essere nostro alleato. La salute è il principale dei beni comuni e attorno ad esso, ruota un business colossale. Ma voi lo sapete che ogni anno noi spendiamo circa 18 miliardi per mantenere in vita una rete disomogenea e inadeguata di ospizi, che si chiamano Residenze sanitarie assistenziali, quasi solo perché si tratta dell’investimento produttivo più facile e remunerativo per la sanità privata?
Lo sapete che stiamo parlando di circa il 18% di quello che in toto spendiamo per la sanità? Senza contare gli altri enormi costi aggiuntivi legati al tema della cronicità, in un paese in cui gli ultrasessantacinquenni si approssimano a diventare un quarto della popolazione. E lo sapete che, tanto per fare un esempio soltanto, con l’assistenza domiciliare potremmo risparmiare quasi la metà di questa cifra, che potrebbe essere utilmente reinvestita in altro, per esempio nel potenziamento dei pronto soccorso che oggi esplodono? Ma a parte gli aspetti economici, che pure sono fondamentali, avete idea di quanto sopravvivano i pazienti costretti in cattività dentro le RSA? In media solo sei mesi (dati forniti da chi ci lavora)! E non vengono, per lo meno nel Lazio quasi mai dimessi perché i posti letto devono essere permanentemente occupati per fare cassa. Mentre l’Assistenza domiciliare pubblica è al palo perché non deve fare concorrenza col business dei privati.
Questa mannaia non si abbatte solo sui poveri, colpisce soprattutto loro ma non solo. In Italia si calcola che esistano più di un milioni di badanti che sono l’alternativa per coloro i quali, a costo spesso di grandi sacrifici, vogliono evitare l’internamento dei propri cari in RSA. E a questa gente si vuole pure togliere quell’assegno di accompagno che è indispensabile per sopperire alla carenza dei servizi socio-sanitari. Sarebbe il caso di riflettere sul fatto che in Italia oltre 9 milioni di persone (dati Censis) non si curano più perché non sono in grado di sostenerne i costi, e che in Grecia la morbilità e la mortalità infantile sono peggiorate drammaticamente.
Noi siamo sulla stessa strada e questo è un argomento che riguarda tutti. È per questo che dobbiamo saper gridare che la sanità privata non va bene mai, paradossalmente neanche per i ricchi, perché quando sono in gioco interessi colossali, le scelte diagnostiche e terapeutiche non sono garantite nella loro obiettività. E da questo che proviene il fenomeno colossale e volutamente ignorato della inappropriatezza prescrittiva che non è innocentemente casuale, ma organicamente funzionale agli interessi del capitale finanziario.
Difendere, allora, la Sanità pubblica significa oggettivamente contrastare la deriva neoliberistica, battersi contro i diktat della troika, significa allargare le alleanze su una piattaforma che coinvolge tutti. Perché tutti hanno interesse a conservare per se e per i propri cari il bene più prezioso: la salute. Una buona sanità pubblica è la metafora più eloquente di un buono stato. Chi l’attacca è un nemico degli interessi collettivi – semplicemente – e questo lo possono capire tutti, perché capirlo non richiede competenze complesse di tipo economico-finanziario o di altra natura.
Ebbene compagni/e, noi queste cose le dobbiamo spiegare alla gente. Finora lo abbiamo fatto poco e male. E invece lo dobbiamo fare anche, anzi soprattutto quando sosteniamo la lista Tsipras , magari proprio segnalando i disastri prodotti in Grecia da politiche europee selvaggiamente antipopolari. Si tratta, e concludo, di un terreno di lotta di importanza vitale, non inferiore a quello del lavoro. È ora finalmente di prenderne coscienza!
1) Prof. Halevi, in un suo
lavoro scritto con Riccardo Bellofiore dal titolo “La Grande Recessione e
la Terza Crisi della Teoria Economica”, sostenete che, con la grande crisi
capitalistica del 2007-2008, siamo dinanzi alla terza crisi della teoria
economica. Può spiegarci, brevemente, cosa intendete? Quali sono state, invece,
le prime due crisi?
La crisi del 2007 è, ovviamente, anche una crisi di tutti quegli approcci
teorici che celebravano l’efficienza dei mercati finanziari come trasmettitori
di informazioni affidabili per non dire perfette. Ma questo non sarebbe un
granchè. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui
dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema
economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il
ruolo dell Stato a favore del mercato.
Invece no, per molti versi lo Stato o organismi statuali insindacabili (come
quelli dell’UE) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari
economici intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e
sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici
prescelti (Bellofiore ha scritto delle cose fondamentali sulla falsa
rappresentazione del neoliberismo da parte della sinistra) . Infine si è
dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e
stagnazione dei salari (negli Usa prima e progressivamente anche in Europa) che
ha spinto le famiglie ad indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata
differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre
appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di
acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale
riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del
costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza
organizzata alle decisioni manageriali.
Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali, prima verso il Messico poi,
massicciamente, verso la Cina sono andate pari passo con l’indebolimento
salariale e sindacale che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare
tali delocalizzazioni. In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con
questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda tale da
non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni
finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre
rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che
Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri
termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato
la stagnazione salariale. E’ andato molto più in avanti. Il sistema giuridico
statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti
da indebitare anche nelle classi di reddito più basse che altrimenti non
avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli
USA è stata sostenuta la domanda effettiva MONDIALE: tramite le
delocalizzazioni e con le conseguenti le importazioni dal resto del mondo. A
ben guardare i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita
degno di questo nome sono Cina, India, USA e pochi altri. Negli USA il tasso di
crescita pro capite è stato moderato ma quello aggregato, che include l’aumento
di popolazione è stato maggiore che in Europa o Giappone.
Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia
erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La
fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due
aspetti al punto che è impossibile fare delle distinzioni. Le altre due crisi
sono quella della fine di Bretton Wooods nel 1971 connessa alla guerra del
Vietnam che fece deragliare propio la forza del capitalismo post-1945 su cui
poggiava l’intervento USA in Vietnam, cioè il keynesismo militare. Per questo
nel 1972 la grandissima Joan Robinson nel suo famoso discorso al convegno
dell’American Economic Association a New Orleans individuò nella finedel
sistema post bellico detto di Bretton Woods una seconda crisi della politica e
teoria economica: cioè del keynesismo pratico – quello militare – e di quello
insegnato nella manualistica universitaria che presenta la disoccupazione
keynesiana come un problema di breve periodo. Infini, la prima crisi fu quella
degli anni 30 che portò alla cosiddetta rivoluzione keynesiana sebbene fin dal
1929 esistessero i lavori del marxista polacco Michal Kalecki. che sui problemi
sollevati poi da Keynes aveva svolto considerazioni più pregnanti.
2) Il capitalismo, dagli ultimi tre decenni, si è mosso sui binari
della precarizzazione del lavoro, della finanziarizzazione e di quella che lei,
Francesco Garibaldo e Riccardo Bellofiore chiamate “centralizzazione senza
concentrazione”. Secondo lei, l’Euro (e i vincoli che esso comporta) può essere
letto come totalmente organico a questo processo capitalistico globale, visto
che si stanno imponendo, con le mani legate, proprio quei processi di
flessibilità del mercato del lavoro e di distruzione dei diritti sociali?
Insomma, l’Euro come strumento è un qualcosa di ben più ampio rispetto alla
crisi dell’Eurozona?
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali.
Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo
voleva. E morirà tra la Francia e la Germania… L’euro ha creato un consenso
politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce
in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la
deflazione salariale. E’ questo l’elemento che cementa le diverse componenti
del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto l’euro sarebbe già saltato
per reazione del resto dei paesi dell’eurozona alle azioni unilaterali della
Francia e della Germania, come ad esempio, l’annuncio di Parigi e Berlino sul
finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. Ed infatti
Olanda e Austria protestarono ma Francia e Germania non li presero nemmeno in
considerazione. Italia zitta ovviamente.
3) Continuando sul tema dell’Euro, oggi se ne dibatte sicuramente
molto di più rispetto a qualche anno fa. Molti continuano in un suo tenace
“oltranzismo”, come ha detto Emiliano Brancaccio; altri invece ritengono che
bisogna uscirne, senza però chiarire se continueranno o meno con il filone di
pensiero economico dominante o ritorneranno ad un keynesismo di matrice
classica, cioè proponendo generiche politiche fiscali espansive volte al
sostegno della domanda aggregata. Nello specifico, come pensa dovrebbe agire
una nazione come l’Italia, immeritatamente inclusa tra i PIIGS (pur essendo un
paese con un elevato risparmio privato), per trovare una soluzione ai problemi
derivanti dall’Euro? E’ sufficiente tornare a Keynes oppure bisogna andare
oltre? Qualora l’opzione fosse proprio l’uscita dall’UME, come dovrebbe essere
gestita tale situazione?
Purtroppo gli economisti non danno alcuna importanza alla struttura
giuridico statuale dei sistemi economici che dovrebbero studiare. Non si può
uscire dall’UME se non si esce anche dall’UE. Per poter permettere l’uscita
soltanto dall’UME sarebbe stato necessario includere nei Trattati una
separazione tra Eurozona e UE cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di
uscita nei testi che legalizzano l’Unione Monetaria. Bisognerebbe studiarsi
l’economia politica dell’UE e dell’UME. Invece si procede per modellini
aprioristici infarciti di ipotesi normative (così andrà bene o male, ecc…) senza
conoscenza della storia e dei rapporti politici, statuali ed economici
dell’intera costruzione dell’UME, quest’ultima voluta non tanto dal capitale
europeo quanto dallo Stato francese. Detto questo la vostra domanda contiene
delle affermazioni che a mio avviso richiedono delle precisazioni critiche. Non
capisco che importanza abbia il risparmio privato che nell’insieme è sempre
determinato dal volume degli investimenti.
In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile
secondo l’ultimo Economic Outlook dell’OCSE – è crollato per via della crisi
aggravata dalle politiche di austerità e, quindi, per via del connesso calo
degli investimenti. Inoltre vorrei sottolineare che non si può tornare a Keynes
perchè a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “KEYNESISMO
MILITARE” del periodo 1947-71 o forse 47-74. Infine con o senza riferimento a
Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato
una politica fiscale attiva finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici
che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la
presidenza USA non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa
federale inoltrate dai repubblicani. Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti
“keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma
non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono
però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberimso ha implicato meno
Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate.
C’è stato più Stato e più capitale privato. L’attuale opposizione alla spesa
da parte degli stessi repubblicani è volta solo a bloccare il funzionamento
della presidenza Obama. E’ semplice sabotaggio. A Keynes non si può ritornare
perchè non ci si è mai arrivati, nè ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso
in un articolo apparso sulla rivista americana The New Republic nel 1940.
Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di
aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua
concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e
superato ma grazie al pilastro rappresentato dal Keynesismo miltare. Oggi non è
questione di andare oltre Keynes né di ritornarci dato che le probabilità di un
ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane
si allontana sempre di più a meno che non sorgano delle esigenze militari
globali che coinvolgano sia gli USA che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo
stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un
compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci
credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali ecc; mentre
il lavoro dipendente, il precariato ed i disoccupati non hanno espressioni
politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di
fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a
formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia.
4) De facto per i Paesi che oggi condividono la moneta unica essa
rappresenta una sorta di “nuovo gold standard”, in quanto tra loro ci sono dei
tassi di cambio fissi. Alla luce di ciò Lei crede che un’eventuale rottura
dell’Euro, e quindi un ritorno ad un cambio flessibile, possa garantire uno
spazio fiscale di manovra maggiore rispetto all’odierno assetto europeo? Quali
sono i vantaggi di un cambio flessibile rispetto ad uno fisso?
Non capisco questa fascinazione per le supposte virtù curative dei cambi
flessibili. L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di
svalutare o rivalutare. Nel 1953 Milton Friedman scrisse un lungo saggio
apparso nel volume Essays on Positive Economics, in cui egli elogiava i cambi
flessibili in quanto avrebbero permesso di raggiungere l’equilibrio esterno
anche laddove i prezzi interni a ciascun paese rimanevano rigidi. Su questa
base teorica i cambi flessibili vanno benissimo, essendo l’unico strumento per
poter sostenere degli shock provenienti dall’estero. Infatti le virtù
miracolose dei cambi flessibili consistono nel raggiungimento di situazioni
ottimali di equilibrio sul piano esterno malgrado le rigidità dei prezzi
interni. Aria assolutamente fritta! Così come è aria fritta la concezione di
zone monetarie ottimali all’interno delle quali dovrebbero operare tutte le
ottimalità paretiane.
Se si applicasse rigorosamente la definizione di zona monetaria ottimale si
constaterebbe che la stragrande maggioranza delle monete esistenti non appartiene
ad alcuna zona ottimale. Il fatto che gran parte degli economisti di sinistra
accetti la visione Friedman-Mundell (iper-neoclassica quindi) del ruolo dei
cambi e delle zone monetarie risiede nel fatto che anche questi economisti
procedono da modellucci normativi aprioristici senza economia politica.
Consiglierei di ritornare indietro di una settantina di anni e studiare le
argomentazioni CONTRO i cambi flessibili che vennero usate per costruire il
sistema di Bretton Woods. A mio avviso su questo terreno ha valore
l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e
protezionismo. Nè l’uno nè l’altro sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul
commercio estero. Mutatis mutandis il discorso vale anche per il sistema
monetario ed i relativi cambi esteri. Esattamente come il ruolo della Banca
Centrale non può essere indipendente, anche la dinamica dei cambi deve essere
subordinata alle priorità delle politiche economiche.
In nessun modo ciò è attuabile nell’UE-UME. Qui però le cose diventano molto
più complicate perchè non si sa dove si andrà a finire; esattamente come non si
sa quale sarà l’effetto di un cambiamento dei prezzi relativi sulla
distribuzione del reddito, sulla scelta delle tecniche ecc. Cose che la teorie
economiche hanno, in negativo, sceverato con successo. In altri termini, le
complicazioni emergono dal fatto che non ci sono teorie che ci dicano se il
tasso cambio (o anche il tasso di interesse, o i prezzi relativi) aumenta
succederà questo e quest’altro, se invece si abbassa succederà x,y,z. Non
lo sappiamo; pretendere altrimenti è millantare. Ogni situazione deve essere
studiata caso per caso senza partire da ipotesi comportamentali o da relazioni
tecniche aprioristiche.
5) In tema di occupazione una proposta degli economisti della Modern
Money Theory è rappresentata dalle politiche di “job guarantee” (lavoro
garantito), in cui lo Stato, come finanziatore diretto, diviene datore di
lavoro di ultima istanza (ELR). La trova auspicabile tale proposta? Pensa possa
essere suscettibile di ulteriori miglioramenti?
Non do molta importanza a quella proposta. Quando venne lanciata circa 15
anni fa partecipai con Peter Krielser ad un dibattito sui suoi eventuali meriti
e demeriti. Studiando la forma concreta della proposta avanzata da Randall Wray
ci trovammo in sostanziale disaccordo con lui. In primis subordina il lavoro ad
una specie di militarizzazione civile. Facemmo l’esempio dell’Arbeiter Front
(Fronte del Lavoro) del regime nazista. Inoltre la proposta non si focalizza sull’investimento.
Sostenemmo che con la disoccupazione di massa sono gli investimenti a dover
essere programmati, non la regimentazione del lavoro (WP – 2001/02 “Political
Aspects of Buffer Stock Employment” - Peter Kriesler and Joseph
Halevi). Data la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi
organismi spesso corrotti ed imboscati nei meandri della politica, però sono
necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà
neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica
tenderebbe verso la schiavitù – l’ELR può diventare un’arma a doppio taglio.
Comunque se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro,
dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee
stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si
può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare
in testa: cioè la socializzazione pianificata degli investimenti (su questo c’è
un bel saggio di Bellofiore, purtroppo appena pubblicato sulla rivista di Bertinotti,
ossia di un politico non assolvibile che ha fatto danni irreparabili alla
sinistra) e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali
subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le
condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una
radicale trasformazione della CGIL e per la dissoluzione del PD. I nuovi quadri
dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo
discusso. Impossibile.