Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 29 ottobre 2011

Meno dell'1% della popolazione arraffa il 39% della ricchezza.

di Galapagos * in Il Manifesto. Fonte: contropiano
Tra il 1979 e il 2007 il reddito dell'1% della popolazione più ricca è salito negli Usa del 275%. Quello del 20% più povero di appena il 18%

John Kenneth Galbraith nel suo celebre saggio «Il grande crollo», dedicato alla crisi del '29, identificava nella profonda sperequazione nella distribuzione dei redditi (l'1% della popolazione Usa si prendeva una fetta di torta del reddito pari a un terzo del Prodotto lordo) la causa prima di quella crisi. Insomma, non furono gli imbrogli finanziari (anche allora abbondanti) o la mancanza di controlli a far esplodere la grande crisi. Negli anni successivi al «grande crollo» le politiche di Roosvelt portarono a un parziale riequilibrio delle distribuzione dei redditi. E nel dopoguerra, la paura del comunismo e la diffusione delle politiche di welfare diedero un nuovo impulso positivo. Ma da una ventina di anni stiamo tornando alla situazione della fine degli anni '20. Secondo uno studio del Cbo,l'Ufficio di bilancio del Congresso, pubblicato ieri negli Usa, dal 1979 al 2007 la media dei redditi dell'1% delle famiglie più ricche si è quasi triplicato, aumentando del 275%, mentre quello della middle class è cresciuto di appena il 40%. Ovviamente, tutti i dati sono stati depurati della componente prezzi. Si tratta cioè di redditi reali. Anche se, come è noto, l'inflazione non è mai neutrale e tende a penalizzare categorie di redditi (persone) in base ai consumi.


Escluso l'1% più ricco, il reddito del 20% delle famiglie ai vertici della scala sociale è invece cresciuto del 60%. Sul versante opposto, il 20% della popolazione più povera ha visto aumentare negli stessi anni il suo reddito solo del 18%, ovvero poco più dello 0,5% l'anno. Insomma, gli indignati che rappresentano il «99%» della popolazione, hanno materiale in abbondanza per dimostrare la giustezza della loro protesta: ci sono masse di popolazione che non hanno reddito, lavoro e proprietà. E sono loro, i derelitti, le persone alle quali si vorrebbe far pagare una crisi nata con l'esplosione della finanza globale.
Ai dati sul reddito delle famiglie statunitensi non sono esaustive dei profondi squilibri non sole negli Usa, ma in tutto il mondo. Un recente Studio del Credit Suisse (una banca che di queste cose se ne intende) ha rivelato che meno dell'1% della popolazione mondiale nel 2011 controlla il 39% della ricchezza totale. In un solo anno la ricchezza dei più ricchi è salita del 3,4%. Il dato assoluto ci dice che 27,9 milioni di persone (e relative famiglie, ma in ogni caso meno dell'1% della popolazione mondiale) hanno una ricchezza superiore al milioni di dollari e posseggono un patrimonio complessivo di 89 trilioni di dollari. Ovvero, 89 mila miliardi di dollari con un incremento in un solo anno (non di crescita tumultuosa) di 20 mila miliardi di dollari.
Dove si trovano tutti questi milionari? La prima sorpresa è che nel 2011 il Vecchio Continente ha scavalcato gli Stati uniti per numero di milionari. Il 37,2% del totale mondiale infatti ha casa in Europa, contro il 37% che risiede in Nord America. Eppure, anche (e soprattutto) in Europa tutte le politiche economiche correttive sono indirizzate a far pagare la crisi ai ceti popolari, come dimostra quanto fatto in Grecia, in Portogallo, in Irlanda e come si cerca di fare in Italia.
Le cifre ci dicono, dunque, che il 74,2% dei ricchi del globo è concentrato in Europa e nel Nord America. Si tratta, in totale, di oltre 22 milioni di persone. Nel ricco Giappone, invece, i milionari (sempre in dollari) sono 3,1 milioni (l'11% del totale) mentre anche in Cina i milionari avanzano: sono 1 milione, oltre il 3% del totale, la stessa percentuale dell'Australia. Che, tuttavia, vista la popolazione, è il continente dove si conta il maggior numero di super ricchi.
Secondo calcoli del Credit Suisse, nei prossimi cinque anni la ricchezza mondiale dovrebbe crescere di circa il 50% (a 345 trilioni) e saranno i paesi emergenti quelli nei quali la crescita della ricchezza e dei milionari sarà più rapida. La globalizzazione, quindi, non produrrà un benessere diffuso, come molti cercano di dimostrare, ma porterà una profonda sperequazione, affossando in una vita senza speranza centinaia di milioni di persone.


da "il manifesto" del 27 ottobre 2011

Gli scenari politici internazionali della crisi sistemica*

di Piero Pagliani. da Megachipdue. Fonte: sinistrainrete

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi

1. Poche settimane or sono, in pieno attacco all’euro, “La Repubblica” mentre da una parte terrorizzava i suoi lettori parlando della caduta nell’abisso delle borse e persino dell’oro, dall’altra li invitava surrettiziamente ad investire in titoli a lungo termine del debito pubblico della Germania e degli Stati Uniti, ultimi rifugi al riparo dalla bufera planetaria.

Ma come? D’accordo la Germania, ma gli Stati Uniti? Il Paese più indebitato del mondo da che mondo è mondo?

D’acchito la perplessità è d’obbligo. Eppure, per lo meno sul breve periodo (ma difficilmente sul medio e a maggior ragione sul lungo - e qui sta una parte del trucco degli imbonitori) i titoli di debito pubblico di questi Paesi potrebbero veramente essere un affare sicuro.

Fino a quando?

Fino a quando regge la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza dominante sul piano militare, politico e diplomatico mondiale, anche se non sul piano economico, dato che è dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso che gli USA hanno perso questo primato (o, come si diceva una volta, non sono più l’opificio del mondo). I Paesi dominanti sul piano economico devono allora essere “contenuti” o associati all’impero come viceré sub dominanti, come nel caso, per l’appunto, della Germania.

Questa frattura tra il dominio economico e il dominio politico-militare è poco comprensibile se ci si attiene alla divisione meccanica struttura-sovrastruttura. E’ molto più comprensibile se invece si assume l’ottica leninista dell’analisi dell’intreccio tra le contraddizioni sociali e quelle intercapitalistiche.

A quel punto la rinnovata lente analitica ci permette di scoprire un ulteriore problema: il predominio economico e quello sui mezzi di pagamento mondiali, entrambi appannaggio della Cina, oltre a non coincidere col predominio politico-militare non coincidono nemmeno col predominio finanziario. Le principali piazze finanziarie del mondo rimangono infatti la City di Londra, a due passi da Downing Street, e Wall Street che sta a quattro ore di macchina dalla Casa Bianca[1]. In altri termini la finanza internazionale più che la sirena dei cosiddetti “fondamentali economici” sembra stare ad ascoltare quella del potere territoriale. Non è un problema da poco per chi non riesce ad affrancarsi da una visione meccanica del rapporto tra la cosiddetta “struttura” e la cosiddetta “sovrastruttura”.

Atene 20 ottobre



Il Partito Comunista di Grecia (Kke) in merito all'assalto assassino organizzato contro la manifestazione del 20 ottobre

Questa volta, gruppi organizzati con ordini specifici e gruppi anarco-fascistoidi hanno scatenato un attacco con bottiglie molotov, gas lacrimogeni, granate stordenti e pietre nel tentativo di disperdere la grande manifestazione di lavoratori e di popolo in piazza Sintagma e specialmente nell'area dove era concentrato il PAME. Il risultato dell'attacco è stato la morte del sindacalista del PAME, Kotzaridis Dimitris, di 53 anni, segretario della sezione del sindacato dei lavoratori delle costruzioni nel quartiere di Vironas. Decine di manifestanti del PAME sono stati feriti.
L'odio degli incappucciati contro il movimento operaio popolare e il PAME è l'espressione della furia delle forze al servizio del sistema e del potere borghese. Il governo ha una grande responsabilità per quanto è accaduto. L'operazione di intimidazione, di calunnia e di repressione del movimento operaio-popolare ha le sue radici nelle strutture, nei centri e nei servizi dello Stato. Ciò è stato dimostrato dalla storia e anche dall'ultimo feroce attacco assassino. Gli incappucciati, gli anarco-autonomisti, i fascisti, quale che sia la loro denominazione, si sono dati da fare per ottenere ciò che non hanno ottenuto le forze repressive, attraverso il ricatto e le minacce per intimidire il popolo e fargli chinare la testa.
L'obiettivo di disperdere la manifestazione del PAME è fallito. Allo stesso modo devono fallire i piani del governo, dei meccanismi del sistema, dei partiti della plutocrazia che cercano di intimidire e reprimere l'ondata del contrattacco degli operai e del popolo che sono scesi nelle strade durante lo sciopero di 48 ore.
Il KKE esprime il suo dolore e le condoglianze alla famiglia di Dimitris Kotzadiris che è caduto lottando per la causa giusta della classe operaia e del popolo. Esprime la sua solidarietà con i manifestanti feriti, con tutti coloro che hanno difeso la manifestazione operaia e popolare dai gruppi di provocatori. Fa appello al popolo perché scenda in maniera decisiva a lottare insieme al KKE, a unirsi ai sindacati, al PAME e alle altre organizzazioni radicali che lottano contro la politica antipopolare, contro il potere dei monopoli. Questa è la forza dell'opposizione ai partiti della plutocrazia, all'Unione Europea e al FMI. Questa è la forza del popolo per respingere le misure barbare, la violenza e l'intimidazione di ogni tipo di meccanismo repressivo. Il popolo può sconfiggere la politica e il potere antipopolare.

Traduzione a cura di Marx21.it

venerdì 28 ottobre 2011

Stavolta le calende greche arrivano.

di Felice Fortunaci. Fonte: megachipdue
Ecco il testo della lettera con gli impegni presi dall'Italia, un Paese in ginocchio, di fronte all'ultimatum europeo. La trovate, tra gli altri, sul Corriere della Sera. Invito a leggerla integralmente. E' a dir poco agghiacciante: vendita dei beni pubblici a privati, privatizzazione di tutti i servizi pubblici entro 12 mesi, licenziamenti facili, pensioni irraggiungibili, e molto altro... Cosa da non sottovalutare: il tutto viene condito con la totale distruzione della Costituzione, dei suoi principi di ispirazione sociale, della divisione dei poteri.

Questa è una vera rivoluzione. Un rovesciamento netto e rapido della costituzione materiale, con piena benedizione quirinalizia. Al Colle lo Stato d'eccezione piace, e non poco. Chi si illude del contrario perde tempo, e tempo non ce n'è più.

La devastazione della Costituzione è funzionale alla necessità di prendere decisioni tremende in tempi rapidi e senza "ostacoli" di tipo parlamentare.
Ogni spazio di espressione democratica DEVE essere impedito.

Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, in nome dell'opposizione fa forse le barricate? Sentitelo: "A parte le minacce inaccettabili di entrare a piè pari sul mercato del lavoro, tutto il resto è merce usata. Dico a Berlusconi: forza, venga in parlamento e spieghi e rispetti quel calendario". Urca, gliele canta chiare, eh? Quello che sa dire è: "rispetti quel calendario". In questo caso le calende greche arrivano, eccome se arrivano. Si fa come ad Atene, ragazzi.

Il diavolo si nasconde nei dettagli, e qui, di diavoli e dettagli, ce n'è a bizzeffe. Prendete l'accordo sulle banche. Anche questo è da leggere integralmente. Le banche devono iscrivere i titoli di stato ai valori di mercato, e devono ricapitalizzare. Se non ce la fanno, intervengono gli Stati e in seconda battuta l' EFSF con soldi pubblici.
Cioè si istituzionalizza il meccanismo che socializza le perdite e privatizza i profitti.
Gli imbecilli schiavi non parlano di questo, naturalmente. Si concentrano sulle scuse della Merkel.

Nulla - ora sia chiaro - sarà come prima. I decenni della Repubblica precipitano qui. Adesso.

mercoledì 26 ottobre 2011

Un buco nel secchio dell’Europa.

di Paul Krugman*, dal New York Times, traduzione di Edoardo Ferrazzani per l'Occidentale
Fonte: micromega
Se non fosse così tragica, l’attuale crisi europea sarebbe quasi divertente, però di un umorismo macabro. Mentre tutti i piani di salvataggio europei sinora messi in campo, hanno apertamente fatto fiasco, le ‘Very Serious People’ d’Europa – che sono, se possibile, addirittura più pompose e vanitose delle proprie controparti americane – continuano ad apparire sempre più ridicole.
Arriverò alla tragedia in un minuto. Prima però parliamo di quelle ‘botte sulle natiche’ che recentemente mi ha fatto venire in mente quella vecchia canzone per bambini che non smette di ronzarmi nella testa, “There’s a Hole in My Bucket” (ndt. la canzone a cui Paul Krugman si riferisce è parodossalmente d’origine tedesca).

Per coloro che non conoscono la canzone, dà conto di un pigro contadino che si lamenta di un buco in un secchio, la cui moglie esorta a colmare. A ogni azione che lei suggerisce al marito per colmare il buco, ci si rende conto che essa avrebberoavuto bisogno di un’azione propedeutica, e alla fine di tutta la canzone, la moglie chiede al marito di andare a prendere dell’acqua al pozzo. “Ma c’è un buco nel mio secchio, cara Liza, cara Liza”.
Ma che c’entra questo con l’Europa, si dirà? Beh, a questo punto, la Grecia, il paese da dove tutto è iniziato, è diventato nient'altro che un grigio evento minore. E' chiaro che il reale pericolo arrivi invece da una specie di assalto agli sportelli dell'Italia, la terza più grande economia della zona euro.
Gli investitori, per paura di un possibile default italiano, stanno domandando un più alto tasso d’interesse per la remunerazione dei titoli di debito italiani. Questo innalzamento dei tassi d’interesse rende un default italiano paradossalmente più probabile.

E’ un circolo vizioso, con la paura default che finisce per diventare una profezia che si auto-realizza. Per salvare l’euro, questa minaccia deve essere eliminata. Ma come? La risposta ha certamente a che fare con la creazione di un fondo che possa, se necessario, prestare all’Italia (e alla Spagna, che è anch’essa a rischio) abbastanza denaro affinché l'Italia non abbia bisogno di prestare ai mercati con gli alti tassi d’interesse odierni.
E' probabile che un fondo del genere non verrebbe neanche utilizzato, visto che il solo fatto d'esistere metterebbe fine al ciclo della paura sui mercati. Ma l'ipotetico ammontare per un reale prestito su larga scala – certamente per un valore di più di un trilione di euro – dovrebbe comunque essere immobilizzata là dentro.

James Galbraith. La Grecia è stata distrutta.

Austerity: la crisi europea potrebbe sfociare in violenze
di: WSI Pubblicato il 25 ottobre 2011| Fonte: wallstreetitalia
James Galbraith, professore di economia alla University of Texas, bisogno di "una revisione completa dell’idea che al momento governa l’Europa ..."

New York - In questo modo si sta solamente distruggendo l’Europa e i suoi paesi, senza risolvere il problema di fondo: ripristinare la competitività. Continui tagli nella salute, nell’educazione e nei servizi pubblici non faranno altro che portare a un punto in cui la distruzione della società diventerà intollerabile. È solo allora che la crisi in Europa finirà, quando esploderanno le prime rivolte violente nella periferia, secondo James Galbraith, professore di economia alla University of Texas. Quello di cui c’è bisogno, dice, è di "una revisione completa dell’idea che al momento governa l’Europa e un maggiore senso di solidarietà" per salvare altri paesi.

"La periferia dell’Europa si trova in netta difficoltà e la Grecia è stata distrutta", ha detto Galbraith, riferendosi ai tagli nella salute, nell’educazione e nei servizi pubblici che hanno portato alla nascita di proteste violente. "Credo che (la crisi europea) finirà quando esploderanno le prime rivolte nella periferia, probabilmente dalla Grecia, ma possibile anche da altre parti ... Si arriverà ad un punto in cui la distruzione della società diventerà intollerabile, e allora che si vedrà il tutto, secondo me".

Infatti le politiche adottate o in fase di studio non sarebbero quelle giuste. Come fa notare anche Howard Archer, economista capo Europa e Regno Unito per IHS Global Insight: "Nel lungo termine rimane comunque il problema chiave, il ritorno alla competitività non solo per la Grecia, ma per tutte le economie dell’Europa che si sono dimostrate deboli, come anche Spagna e Italia", scrive in un analisi. "Senza questo l’eurozona rimane vulnerabile a tensioni e speculazioni, sulla capacità di sopravvivere nel lungo periodo mantenendo lo status attuale".

La crisi in corso della regione non rappresenta un problema confinato, ma impatta l’intera economia mondiale, come ricorda William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York: "La crisi del debito in Europa ha ridotto l’outlook sulla crescita economica globale, e con esso, quello delle esportazioni statunitensi. Questi problemi hanno creato ulteriore pressione nei mercati finanziari a livello globale, portando a un calo della ricchezza nell’azionario. In aggiunta, alcune istituzioni ricevono forti pressioni per ridurre la quantità di denaro a prestito. Al momento gli effetti sono stati maggiori in Europa e negli Stati Uniti, ma ci saranno conseguenze anche in altri paesi e dobbiamo sempre tenere gli occhi aperti".

martedì 25 ottobre 2011

MICHAEL HARDT: LA VIOLENZA DEL CAPITALE.





(Recensione del libro di Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri pubblicata sulla New Left Review nov.dic.2007)
Fonte: controlacrisi
Naomi Klein possiede un talento particolare che le consente di afferrare l’essenza dell’attuale situazione politica e di abbozzare una chiave di interpretazione in grado di riaggregare la Sinistra.

È quello che ha fatto in No Logo, il best-seller apparso nel 2000,e che ripete in Shock economy. In entrambe le opere, così come nella sua attività giornalistica, l’autrice insiste sul fatto che la nostra sfida politica verte soprattutto sull’economia. E aggiunge che non è necessario essere degli esperti per comprendere come funzionino i meccanismi del capitalismo globale. Il fascino della sua prosa, d’altra parte, è corroborato dalla capacità di spiegare i fondamenti dei rapporti economici in termini chiari, e anche personali, accessibili alle più vaste fasce di lettori.

In No Logo la Klein analizza la logica elementare della globalizzazione neoliberale e il ruolo delle multinazionali, offrendo un utile quadro d’insieme a tutta una generazione di attivisti che potremmo chiamare «la generazione di Seattle». Il libro, difatti, ha fornito al movimento no global le ragioni per le quali ci battiamo. Ma, nella nostra epoca, le generazioni si succedono rapidamente e il ciclo che ha indotto i movimenti a riunirsi a Seattle nel 1999 per protestare contro il WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio) è precipitato in una fase di declino dopo che gli Stati Uniti hanno lanciato la «guerra globale al terrorismo» e si sono apprestati a occupare l’Iraq. Di fronte ai nuovi orrori causati dalla violenza e dalla distruzione, i dibattiti economici che avevano tenuto banco in precedenza (sui regimi commerciali, sul debito, sulla povertà e sui profitti delle multinazionali) sono apparsi all’improvviso meno urgenti.

Le nuove circostanze hanno costretto i movimenti di protesta no global a trasformarsi in movimenti no war.Stabilendo un legame fra l’analisi della guerra, della violenza e dei disastri, e i dibattiti sulla globalizzazione neoliberale, in Shock economy la Klein offre alla Sinistra un nuovo punto di riferimento aggregante, adeguato alla situazione odierna. Tuttavia, se il libro riporta al centro dell’attenzione i rapporti economici, l’analisi dei profitti del capitalismo e del controllo che esso opera sono integrati questa volta da un esame degli apparati statali e imprenditoriali che producono e sfruttano diverse forme di distruzione su vasta scala. A tal proposito, la Klein propone il concetto di «capitalismo dei disastri» per indicare un regime di accumulazione che non solo tratta le tragedie collettive come un’opportunità economica (per privatizzare i beni pubblici, allargare i mercati, ristrutturare i programmi produttivi, e così via) ma ha anche bisogno di tali disastri per continuare a funzionare. Con una certa audacia concettuale, la studiosa colloca sullo stesso piano i disastri provocati dalla violenza militare (quali quelli della «guerra al terrorismo» e dell’occupazione dell’Iraq) e i disastri provocati da cause «naturali» (come le tragiche conseguenze dell’uragano Katrina o dello tsunami che ha investito l’Oceano Indiano nel 2004). In un certo senso, secondo questa ottica, al capitalismo poco importa cosa provoca il disastro. Gli basta che tali crisi si ripetano periodicamente, consentendogli di sfruttare la devastazione e il momentaneo disorientamento per realizzare i principali obiettivi del programma neoliberale: privatizzazione della ricchezza pubblica, deregolamentazione dell’attività economica e riduzione delle spese assistenziali. Nel seguito della riflessione, tuttavia, la relazione esistente fra violenza e capitale viene chiarita ripercorrendo lo sviluppo del «capitalismo dei disastri» nel corso degli ultimi tre decenni. Approfondendo tale concetto, la studiosa attribuisce un nome al nemico e ne collega i numerosi e disparati volti, fornendo un nuovo obiettivo contro il quale combattere.
THE FINANCE ACT
The Package deal REAL PERCEIVED

lunedì 24 ottobre 2011

Atene 20 ottobre

Il «Telegraph»: così la Nato ha spinto il raìs nelle mani dei miliziani islamici di Misurata.

Fonte: controlacrisi
Quel «killer» di Las Vegas arrivato da una base in Sicilia. di Manlio Dinucci
su il manifesto del 22/10/2011
Le immagini di Gheddafi linciato e ucciso da una folla inferocita di miliziani sono state diffuse su scala mondiale, per dimostrare che quella libica è stata una ribellione popolare conclusasi col rovesciamento dell'odiato dittatore. Versione semplicistica, facente parte delle potenti «armi di distrazione di massa» usate nell'operazione Protettore Unificato. Ben diversa la realtà che sta venendo a galla, come dimostra la documentata ricostruzione degli avvenimenti fatta ieri dal quotidiano britannico The Telegraph.
Dopo aver svolto un ruolo chiave nella conquista di Tripoli, gli agenti della Cia e del servizio segreto britannico MI6, che operano sul terreno in Libia, si sono concentrati nella caccia a Gheddafi, sfuggito ai massicci bombardamenti Nato. Mentre i droni e altri aerei spia, dotati delle più sofisticate apparecchiature, volteggiavano giorno e notte sulla Libia, forze speciali statunitensi e britanniche setacciavano la zona di Sirte, probabile rifugio di Gheddafi. Questi, nelle ultime settimane, è stato costretto a interrompere il silenzio telefonico, usando un cellulare forse di tipo satellitare. La conunicazione è stata intercettata, confermando la sua presenza nella zona.
Quando un convoglio di alcune decine di veicoli è uscito dalla città, è stato subito avvistato dagli aerei spia: un Rivet Joint statunitense (che può individuare l'obiettivo a 250 km di distanza), un C160 Gabriel francese e un Tornado Gr4 britannico. A questo punto un drone Predator statunitense, decollato dalla Sicilia e telecomandato via satellite da una base presso Las Vegas, ha attaccato il convoglio con numerosi missili Hellfire. Anche se non viene specificato, si tratta di uno dei Predator MQ-9 Reaper dislocati a Sigonella, dove si trova il personale addetto al rifornimento e alla manutenzione, e guidati da un pilota e un addetto ai sensori seduti a una consolle negli Stati uniti, a oltre 10mila km di distanza. Il Reaper, in grado di trasportare un carico bellico di una tonnellata e mezza, è armato di 14 missili Hellfire («fuoco dell'inferno») a testata anticarro, esplosiva a frammentazione o termobarica. Subito dopo, il convoglio è stato colpito anche da caccia francesi Mirage-2000 con bombe Paveway da 500 libbre e munizioni di precisione Aasm, anch'esse a guida laser. Questo attacco è stato decisivo per la cattura di Gheddafi.
Tali fatti dimostrano che, in realtà, è stata la Nato a catturare Gheddafi, spingendolo nelle mani di miliziani islamici di Misurata, animati da particolare odio nei suoi confronti. E che è stata la Nato a vincere la guerra, non solo sganciando sulla Libia 40-50mila bombe in oltre 10mila missioni di attacco, così da spianare la strada ai «ribelli», ma infiltrando in territorio libico servizi segreti e forze speciali per attuare e dirigere le operazioni belliche.
Il piano - deciso a Washington, Londra e Parigi - era quello di eliminare Gheddafi, che in un pubblico processo avrebbe potuto rivelare verità scomode per i governi occidentali. Non è quindi escluso che tra la folla di miliziani urlanti, dietro al «ragazzo con la pistola d'oro» cui viene attribuita l'uccisione di Gheddafi, vi fossero ben più esperti killer di professione.

Troppo grandi per fallire, e anche per essere salvati.

di Pitagora. Fonte: sbilanciamoci
Così com'è l'Europa non può salvare un paese come il nostro. Per evitare il disastro, sistema finanziario e Unione dovranno cambiare. E necessariamente l'Italia dovrà cambiare governo

Nell'intervento d'apertura del convegno «L'Italia e l'economia internazionale, 1861-2011» organizzato dalla Banca centrale per celebrare i 150 anni dell'unità del nostro paese il governatore uscente, Mario Draghi ha ripercorso alcune tappe dello sviluppo economico italiano e ha mandato numerosi segnali. Otto i principali: l'Italia è troppo grande per uscire dalla crisi con gli aiuti dall'estero; la crisi è sistemica e l'Italia può contagiare l'intero sistema finanziario europeo; la stagnazione economica dell'ultimo decennio ha concorso significativamente all'esplodere della crisi; l'apertura internazionale del sistema economico in Europa e nel mondo sono processi che non possono essere fermati; la situazione è difficile ma non disperata; l'obiettivo del risanamento dei conti pubblici non può essere disgiunto dal rilancio dell'economia; per rilanciare l'economia occorre intaccare i privilegi di «gruppi sociali organizzati» stratificatisi in molteplici campi di attività; «Occorre agire con rapidità. È stato già perso troppo tempo».

La difficile situazione attuale, tuttavia, è il risultato delle modalità con cui è stata realizzata l'Unione monetaria in Europa e delle risposte che sono venute da imprese, banche e governi. Prima dell'unificazione monetaria l'equilibrio tra le economie dei paesi europei si poteva realizzare attraverso la leva del cambio e delle svalutazioni. Quando si formava un disavanzo eccessivo nei pagamenti con l'estero, la riduzione del valore della moneta ripristinava la competitività delle imprese e nel volgere di qualche tempo l'equilibrio nei conti internazionali; ciò non era immune da conseguenze sul piano interno, perché l'aumento dei prezzi delle merci importate innescava un processo inflazionistico che a sua volta portava a effetti redistributivi e accentuava le tensioni sociali. I paesi con monete forti, capaci di attrarre capitali esteri, erano invece avvantaggiati da un costo del capitale più ridotto.
L'unificazione monetaria è stata un elemento centrale dell'Unione europea, che fu guidata da motivi ideologici e realizzata in pochi mesi per scongiurare il timore della ricostruzione di una Germania unificata forte e militarizzata; l'unione fu promossa senza adeguate riflessioni sulle conseguenze economiche e finanziarie in un mondo che andava mutando con una velocità senza precedenti.
AFTER

domenica 23 ottobre 2011

Assassini




di Marco Cedolin. Fonte: ilcorrosivo

La foto di Gheddafi sanguinante e senza vita campeggia a tutta pagina sulle TV, sui giornali e sui siti web, come un trofeo di caccia da esibire appeso sopra al caminetto, per compiacere l’ego degli “eroi” senza macchia e senza paura, che elevatisi al rango di gendarmi del mondo hanno “legalizzato” la strage e l’omicidio, inserendoli nel novero dei sacrifici necessari per ottenere un nuovo ordine mondiale che sia completamente funzionale alle loro esigenze.
Abbiamo prodotto riflessioni sull’argomento, fin dall’inizio della "guerra santa", portata avanti dall'occidente con la vile compiacenza dell’ONU, nascosto sotto l’ombrello di una risoluzione farsa del tutto disancorata dalla realtà dei fatti e dalle azioni messe in atto sul campo.
Abbiamo seguito passo passo l’annientamento dello stato sovrano socialmente ed economicamente più avanzato dell’intero continente africano, le tonnellate di bombe lanciate sul suo popolo, la distruzione delle sue città e delle sue infrastrutture, la morte e la devastazione portata dal “mostro” occidentale e delegata nelle operazioni di terra ad un manipolo di mercenari e briganti della peggior specie……


Abbiamo stigmatizzato l’informazione mainstream, mai come oggi serva del potere e disposta a produrre documentazioni false a profusione, notizie destituite di ogni fondamento e fandonie di ogni genere, al solo fine di mistificare la realtà e compiacere i desideri del padrone.

Abbiamo assistito all’annientamento del futuro di un popolo, che viveva dignitosamente, con disponibilità economiche e diritti superiori a quelle degli italiani, attraverso l’uso delle bombe, del fuoco e della distruzione. Il tutto perché all’impero occidentale necessitava la disponibilità del petrolio libico, così come necessitavano i denari di Gheddafi e la di lui dipartita.

E oggi assistiamo a quello che verrà presentato come l’ultimo atto della tragedia di Libia. L’assassinio a sangue freddo del leader di quello che era uno stato sovrano, per mano di un commando di briganti, di mercenari o di truppe scelte degli eserciti occidentali. In fondo poco importa l’identità del boia, trattandosi di una storia già scritta, dove i mandanti sono ben noti e pontificano ogni giorno con disinvoltura di civiltà, libertà e democrazia.

Non assisteremo invece al dopo Gheddafi, perché del popolo libico non si parlerà più, così come non si è più parlato del popolo iracheno e di tutti gli altri popoli caduti sotto la scure della Nato, con l’intercessione dell’ONU. Raggiunto l’obiettivo, anche la Libia uscirà dai palinsesti dell’informazione, per entrare nel novero dei paesi “democratizzati” e ridotti alla miseria, sui quali stendere il velo dell’omertà mediatica.

Il tutto con la compiacenza della"società civile" di casa nostra, sempre pronta a stracciarsi le vesti e abbandonarsi all’isterismo più becero, di fronte ai sampietrini e alle vetrine rotte, ma altrettanto pronta a voltarsi dall’altra parte, quando l’oggetto della violenza è un popolo intero, massacrato senza pietà.

La capitalizzazione delle banche.

di Vincenzo Comito. Fonte: sbilanciamoci
Scartate, una per una, le altre soluzioni non rimane che nazionalizzare gli istituti in crisi. Ma come fidarsi degli stati?

“…tutti ci guadagnerebbero dalla messa a punto di un sistema (finanziario) più sicuro…”

S. Ingves (Masters, 2011)

Premessa
In questi giorni i membri dell’eurozona stanno mettendo a punto i dettagli di un piano per risolvere, almeno in parte, i problemi della crisi del debito sovrano dell’area e, in questo quadro generale, anche quelli specifici della ricapitalizzazione delle banche. Può darsi che già al momento dell’uscita di questo articolo i provvedimenti presi siano stati resi noti.

Come stanno veramente le cose?

Il settore bancario si può fregiare del discutibile privilegio di essere stato per molti aspetti al centro di ambedue le ondate di crisi manifestatesi nell’ultimo periodo, quella del 2007-2008 e poi quella del 2011, due tappe peraltro di un fenomeno sostanzialmente unitario.

Come è noto, dopo le prime gravi difficoltà del settore bancario circa tre anni fa, sì è manifestata, da parte di tutti i governi e di tutte le istituzioni internazionali, un'apparente e quasi unanime dichiarazione di volontà di voler cambiare lo stato delle cose; si era parlato, in particolare, di ripensare radicalmente i sistemi di controllo su di un settore che aveva manifestato l’impossibilità di autoregolarsi e che aveva invece mostrato la sua capacità di scatenare una crisi sistemica in tutto il mondo atlantico.

Nella realtà, si è poi invece fatto relativamente poco da parte dei governi per portare avanti le necessarie drastiche riforme richieste dalla situazione. Certo, le amministrazioni statunitense e britannica, nonché l’Unione europea, hanno varato, dopo molte giravolte, nuove normative e nuovi orientamenti, ma si è trattato complessivamente di poca cosa. Comunque il tema dei provvedimenti pubblici in tema di finanza meriterebbe di essere trattato in un articolo a parte.

Oggi vogliamo invece prendere in considerazione un aspetto della questione più legato all’attualità delle discussioni in atto. L’attenzione si è in effetti concentrata di recente da parte di governi ed esperti sul tema della capitalizzazione e del miglioramento della situazione di liquidità delle banche europee.

Chi è che non ha futuro?

La crisi e i giovani, dopo il 15 ottobre.
Fonte: sbilanciamoci
Una ragazzina che conosco, pur non essendo ancora in età di andare alla manifestazione del 15 ottobre (e per fortuna), ha detto la sua, vedendo i servizi della vigilia in tv: “E' perché noi non abbiamo futuro”. Mettendo in fondo alla domanda il punto interrogativo che lei non ci aveva messo, i genitori hanno risposto: no, non è vero, ce l'avete.

Mi è tornata in mente questa scena della vigilia, dopo la manifestazione globale del 15 ottobre. Quella mondiale, e la sua declinazione tra le rovine romane. Non è giusto – perché non è vero -, far passare questo luogo comune: non abbiamo futuro. Una frase diventata retorica al punto da essere ripetuta come un fatto assodato da una ragazzina di dodici anni. E' il sistema economico nel quale viviamo che, se continua così, non ha futuro; e chi è messo in maggior sofferenza da questo stato di cose – tutti, ma in particolare i più giovani – ha la necessità fisiologica di cambiarlo. Quindi ha un futuro pieno, parecchie cose da fare, studiare, vedere, far girare, con tutta quella roba che da nativi digitali padroneggiano alla grande.

“The outsiders”, era il titolo dell'Economist a questo grafico qualche tempo fa:

Un grafico impressionante, che dice che la Grande Recessione si è abbattuta soprattutto sui giovani, che hanno fatto da cuscinetto umano sul mercato del lavoro: i loro contratti temporanei e flessibili sono stati i primi a saltare, così come sono entrate in sofferenza tutte quelle fasce di lavoro indipendente non intruppato nelle corporazioni antiche e chiuse. E tra i giovani, le donne più che i maschi soffrono i contraccolpi di una crisi che le lascia fuori dal lavoro o al di sotto del lavoro per il quale si sono qualificate; e le donne più che i maschi soffrono per l'esclusione di fatto e di diritto dalle tutele del welfare. Insomma, senza farla lunga: è scandalosamente evidente l'impatto generazionale di questa crisi, che nel caso europeo si abbatte proprio su quella generazione che con l'Europa unita è nata e cresciuta, una generazione “comunitaria” e non solo per qualche Erasmus, ma per nascita. Perché allora dico che dobbiamo smetterla di dire: “siete (o siamo, a seconda dell'età di chi parla) senza futuro”?

Finanza forte, politiche deboli e la via d’uscita della democrazia. Una sintesi del dibattito.

di Claudio Gnesutta. Fonte: sbilanciamoci
I guai dell’Italia, l’assenza dell’Europa e il vuoto di democrazia sono i tre temi al centro del dibattito sulla “Rotta d’Europa” iniziato lo scorso luglio. In questa sintesi della discussione emerge il nodo difficile della finanza internazionale, la necessità di rinnovare le istituzioni e le politiche dell’Unione, e di estendere le forme di partecipazione e democrazia a scala europea

Rossana Rossanda nell’avviare la discussione sulla “Rotta d’Europa” ha posto la questione del rapporto tra la crisi del nostro debito pubblico e il ruolo incerto dell’Unione Europea in questa fase turbolenta. I successivi interventi, fin dal primo contributo di Mario Pianta, hanno affrontato questo tema nella convinzione che, per comprendere la situazione attuale e le prospettive dell’immediato futuro, sia essenziale individuare le ragioni della crisi delle istituzioni europee, non solo di quelle economiche ma anche, se non soprattutto, di quelle politiche.

All’inizio del dibattito la questione più trattata è stata la difficoltà dell’economia italiana nel fronteggiare l’attacco della finanza internazionale, ma ben presto l’interesse si è spostato sulle responsabilità dell’Unione europea, in primis della sua Banca centrale, per avere orientato la sua azione all’interno di una concezione neoliberista delle relazioni economiche e sociali considerando del tutto marginali i costi sociali che ne potevano derivare. Attorno a questi tre temi – situazione strutturale dell’economia italiana; inadeguatezza delle istituzioni europee nel sostegno dei paesi membri in difficoltà; ostacolo alla costruzione di una democrazia di qualità – si è concentrata una riflessione collettiva con l'intento non solo di dare una spiegazione delle difficoltà attuali, ma soprattutto di prospettare i modi per il loro superamento.

I tre temi costituiscono la guida per il tentativo di sintesi della discussione che presento in questo articolo, con l’intento di sottolineare gli snodi principali di un discorso collettivo e le acquisizioni maggiormente condivise. Nella prima parte riporto le spiegazioni della nostra fragilità economica e sociale e le sue connessioni con l’inadeguatezza assunta dal “progetto europeo”. Successivamente espongo quali cambiamenti sono proposti affinché le istituzioni economiche europee possano garantire ai paesi in difficoltà di far fronte agli shock finanziari, attuali e futuri. Infine, presento le contromisure che potrebbero controbilanciare l’ulteriore accentramento delle istituzioni economiche europee, potenziando il grado di democrazia politica dell’Unione. Non è possibile fare riferimenti puntuali a tutti gli spunti offerti dal dibattito; riporto l’indicazione dell’autore (tra parentesi) solo nel caso di citazioni esplicite o per segnalare il contributo che sviluppa un tema particolare.
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