La crisi della politica. La dittatura dei mercati. L’attacco alla Costituzione. Stefano Rodotà denuncia i pericoli per la nostra democrazia. E indica la strada per invertire la rotta. Con due parole d’ordine: diritti e partecipazione
Non si arrende mai, Stefano Rodotà, instancabile custode dello spirito della Costituzione, con una passione particolare per l’articolo 3, quello della democrazia sostanziale. Parlamentare indipendente di sinistra dal 1979 al 1994, garante per la privacy dal 1997 al 2005, professore alla Sapienza di Roma, il giurista che qualcuno vorrebbe al Colle non ha mai smesso di indicare la strada dei diritti a un’Italia che, oggi come non mai, fatica a imboccarla. «La democrazia rappresentativa si salva con un innesto di democrazia partecipata», ribadisce a left l’intellettuale che dialoga egualmente con i presidenti della Repubblica e con i giovani dei movimenti. E mentre addita «l’unilateralismo» del governo Monti, il «deficit di sinistra» del Pd e il rischio Grillo, incalza la politica a revocare «la delega all’economia». In un excursus che va dal Pci a Marchionne, dall’Europa a internet. Non fa bilanci, Rodotà, dall’alto dei suoi 79 anni, «perché non gli piace restare prigioniero» di quello che ha fatto. Ma quando rievoca il passato, traspare la nostalgia per una cultura politica che non c’è più.
Professore, quando ha scoperto la passione dell’impegno civile?
Ho cominciato a fare politica presto, all’università. In quegli anni era molto viva. Soprattutto, c’era la forza dei partiti e allora non c’era dubbio che fossero rappresentativi della società. Non c’era la tv e le campagne elettorali erano i comizi, gli incontri, “fare il caseggiato”, cioè andare a casa di qualcuno per parlare di politica. Ricordo una domenica mattina agli inizi degli anni Sessanta: arrivo nella borgata Gordiani a Roma con gli amici del Partito radicale di Panunzio e non c’è letteralmente nessuno. L’unico che si avvicina in questo deserto è un bambino che, indicando la donna col berretto frigio rosso nel simbolo dei vecchi Radicali, balbettando dice: «E questo che è? Cappuccetto rosso?». Lo racconto perché in quegli incontri ho imparato tante cose. Il distacco che oggi si sente in modo così profondo tra cittadini e politica era largamente colmato dalla presenza dei partiti. Tra le persone che ho incontrato ci tengo a ricordare Enrico Berlinguer: aveva quel grande rigore morale che in questo momento è una delle risorse poco capitalizzate ma essenziali per la politica. Non solo per la lotta alla corruzione ma per il bisogno di etica civile, di spirito pubblico. Mi viene in mente anche un fatto che non ho mai raccontato pubblicamente. Quando nel 1978 mi fu offerta la candidatura come indipendente nelle liste del Pci, dissi che prima di accettare volevo parlare con Ugo Pecchioli, considerato il repressore del Sessantotto e uomo del partito nella lotta al terrorismo, perché ero stato molto critico sulle sue posizioni. Pecchioli mi disse: «Figurati, sappiamo come la pensi. Ci interessa però che tu possa portare le tue idee all’interno di un partito che vorremmo che si aprisse un po’». E aggiunse: «Ma se tu, sul caso Moro, avessi avuto una linea non di fermezza, non ti avremmo mai chiesto di candidarti».
Poi quel rapporto tra partiti e movimenti si è perso.
Più la politica diventava autoreferenziale, più mi accorgevo di una selezione, non voglio dire al rovescio, ma quantomeno povera. Nel 1994 ho deciso di non candidarmi più. Con l’avanzare del degrado culturale ho maturato un distacco non dalla politica, perché ho continuata a farla in tutti i modi possibili, ma dai partiti. Di fronte all’involuzione dei partiti, non c’era solo l’antipolitica ma un’altra politica che andava riconosciuta. Nasce da qui la mia attenzione verso i movimenti. Tra la seconda parte del 2010 e la prima del 2011 hanno avuto anche vittorie significative: la legge bavaglio è stata bloccata, poi i successi alle elezioni amministrative del 2011 e la vittoria nei referendum. Tutto questo è il risultato di qualcosa che io chiamo “altra politica”. In tutte queste vicende i partiti, anche quando si sono in qualche modo svegliati, sono stati trascinati con grande fatica, perché non volevano identificarsi con quel mondo. Mi pare che questo sia un problema aperto. Ed ecco perché, malgrado la mia veneranda età, continuo a dire: bisogna sta sulla breccia. In questi anni, insieme a studiosi giovani, ho provato ad aprire altri fronti. Ad esempio la questione oggi molto discussa dei “beni comuni”, che è stata al centro in particolare del referendum sull’acqua: è diventata un grande tema, e ci dice che dobbiamo ripensare il concetto di proprietà. C’è insomma una società molto attenta, viva, capace di iniziative e anche di successi. La distanza dei partiti rispetto a tutto questo è grande, ed è motivo di preoccupazione. Perché nel Paese si è aperto un vuoto politico e culturale che si è pensato di poter colmare con il governo dei tecnici. Invece il degrado culturale e la lacerazione del tessuto sociale sono continuate. Con il rischio che si possano produrre altre derive pericolose.
Che voto dà al governo Monti?
All’inizio confesso che ho avuto qualche accento positivo per il fatto di esserci liberati da Berlusconi. Ancora oggi, quando sento parlare di una sua nuova discesa in campo, mi vengono i brividi, anche se nulla si ripete allo stesso modo. Ma quello di Monti è un governo di assoluto unilateralismo. Non si può impunemente colpire in modo così frontale i diritti sociali. Questo approccio sta già determinando non solo malessere, ma una rivolta sociale. E di questo ci dobbiamo preoccupare. Si dice governo dei professori, dei tecnici: invece è un governo straordinariamente politico. Deve tornare la buona politica, altrimenti resteremo prigionieri di un meccanismo che avrà l’occhio rivolto soltanto al funzionamento dei mercati, alle borse e allo spread. Io, che ho avuto la fortuna di essere tra coloro che hanno scritto la Carta dei diritti fondamentali della Ue, so che in quel testo ci sono tante lacune. Ma ci sono anche i grandi valori di riferimento. Non possiamo lasciarci alle spalle il modello sociale europeo dicendo: «È economia bellezza». L’Europa ha avuto la grande capacità di uscire da una logica tutta proprietaria, di inventarsi un altro modo di guardare ai diritti delle persone. Questo è il grande tema che abbiamo di fronte. Grazie alla storia della sinistra, alla quale io torno sempre. Testardamente.
Insomma, della sinistra di oggi proprio non riesce a fidarsi?
Prima di tutto, non riesco a vederla bene. Il Pd fatica a riconoscersi come partito di sinistra. Io non sono mai stato iscritto al Pci, però quando ho visto che c’è stata una rivolta di un pezzo di Pd perché Fabrizio Gifuni si era rivolto ai convenuti chiamandoli “compagni”, mi è sembrato anche un oltraggio alla memoria. C’è persino il timore di dirsi socialdemocratici, anche se oggi significa semplicemente collegarsi a un grande capitolo della storia europea. Se Monti ha avuto qualche successo è solo perché Hollande ha vinto in Francia. Il Pd ha il problema di trovare non dico un’identità, ma almeno un’identificazione. Nello stesso tempo in formazioni come Sel e Rifondazione ci sono molte scorie del passato. Oggi vedo un grande deficit di sinistra, che significa incapacità di ridare forza alle grandi parole d’ordine della storia civile e politica: libertà, solidarietà, eguaglianza. Io aggiungerei altri due riferimenti: dignità e laicità. Invece c’è reticenza, confusione.
In questo periodo si parla tanto di metter mano alla Costituzione.
Quando il governo Berlusconi nel 2006 tentò una riforma costituzionale, 16 milioni di italiani dissero no. Vuol dire che c’è stata una identificazione con la Costituzione fortissima. È un dato di cui non possiamo non tener conto. La nostra Carta rilegge l’uguaglianza, e qui torna il ruolo fondamentale dell’art. 3, un capolavoro istituzionale che si apre con le parole: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». Fu un’innovazione straordinaria, nata dall’incontro tra la raffinata cultura giuridica di Massimo Severo Giannini e la vera passione politica di Lelio Basso. Non dico che bisogna restare fermi. Ma dobbiamo custodire quei punti di partenza straordinariamente forti. Si può fare una buona manutenzione della Carta, che significa anche rendere effettivi una serie di canali partecipativi, ripensando i referendum e l’iniziativa legislativa popolare. La democrazia rappresentativa si salva solo con un innesto di democrazia partecipativa. Non le vedo in conflitto. I partiti non devono pensare che i movimenti inquinano. Nello stesso tempo i movimenti non possono pensare di non dover fare i conti con la democrazia rappresentativa. Invece sono già in corso cambiamenti surrettizi della Carta, come la revisione dell’art. 81 sul pareggio di bilancio e il tentativo di cancellare l’art. 41 sull’iniziativa economica privata, che secondo la Costituzione è libera ma non può svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà, dignità umana. L’ipotesi di una Assemblea costituente mi spaventa, perché una cosa è una revisione, che non tocchi i principi fondamentali, un’altra è rimettere tutto in discussione. Specie in un momento in cui non c’è una cultura adeguata, ma solo una sottocultura liberista, in Italia la più sgangherata del mondo, che farebbe scempio di diritti e libertà. Anzi, lo sta già facendo.
Qualche consiglio alla sinistra?
Il compito della sinistra è ricostruire la politica partendo dai principi della Costituzione. Certo, c’è la crisi economica, siamo stretti dalla prepotenza dei mercati. Però questo non significa che dobbiamo arrenderci e passare all’altro campo. Perché non saremmo credibili e faremmo un cattivo lavoro. Se alla mia veneranda età sto ancora in gioco, è perché non credo che la partita sia perduta. Ho sempre nell’orecchio il bellissimo canto dei partigiani francesi che dice: «Nella notte la libertà ci ascolta». I giovani che rischiavano la vita non si arrendevano, perché sentivano la grande responsabilità della libertà. In questi anni ho sostituito la nostalgia dei comizi andando in giro a parlare di questi temi. Ho incontrato migliaia di persone. E nei licei l’intelligenza delle domande degli studenti mi ricorda che non possiamo abbandonare la scuola pubblica. Ha ragione Calamandrei: la scuola è una istituzione costituzionale. Se l’abbandoniamo, il degrado culturale continuerà a opprimerci. La cattiva politica è sempre figlia di cattiva cultura.
Cosa pensa di Beppe Grillo?
Grillo è figlio di tutto quello che non è stato fatto: la perdita di attenzione per le persone, la corruzione, la chiusura oligarchica. Gli ultimi due Parlamenti li avranno scelti al massimo 20 persone. In questo clima, ci dobbiamo aspettare fenomeni alla Grillo. Anzi, può darsi che ne vengano fuori altri, anche più pericolosi. Il fatto è che il populismo berlusconiano non è stato letto con la dovuta attenzione critica dalla sinistra. Ricordo bene cosa si diceva dopo la vittoria del 1994: Berlusconi ha fatto sognare, noi no. Altan, il più grande commentatore politico che ci sia in questo momento, ha disegnato uno dei suoi personaggi che diceva: «Non fatemi sognare, svegliatemi». La sinistra non è stata capace di andare alla radice culturale e politica del populismo berlusconiano. Quella deriva aveva un precedente negli anni del craxismo. Comincia allora la rottura, la corruzione giustificata, esibita, il disprezzo per la politica e per «gli intellettuali dei miei stivali». Anche oggi vedo grandi pericoli. Il fatto che Grillo dica che sarà cancellata la democrazia rappresentativa perché si farà tutto in Rete, rischia di dare ragione a coloro che dicono che la democrazia elettronica è la forma del populismo del terzo millennio. Queste tecnologie vanno utilizzate in altri modi: l’abbiamo visto con la campagna elettorale di Obama e nelle primavere arabe. Poi si scopre che Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio del ceto politico, allora vediamo che il tessuto di questi movimenti è estremamente pericoloso. E rischia di congiungersi con quello che c’è in giro nell’Europa. A cominciare dal terribile populismo ungherese al quale la Ue non ha reagito adeguatamente.
Quali possono essere i soggetti della buona politica?
La buona politica è oggetto di una grande discussione pubblica. Ha avuto protagonisti significativi nei sindacati. Si possono fare molte critiche a Landini, ma ha avuto certamente il merito di tenere al centro la questione dei diritti sociali, chiedendo ai magistrati che i diritti fossero restituiti ai titolari, mentre venivano calpestati dal referendum di Mirafiori. Quando ho visto in tv i lavoratori che dicevano che avrebbero votato sì perché dovevano mandare a scuola i figli o pagare il mutuo, io, che trovavo eroico il no degli altri, non mi sentivo di biasimarli. Perché nei loro confronti si attuava una vera violenza, che veniva dall’assenza di politica. Quando si dice che la più grande industria italiana chiude se 8mila persone non dicono sì a quello che chiede Marchionne, c’è la dimissione della politica, che dovrebbe farsi carico di questi grandi problemi. Questa delega della politica all’economia deve essere revocata. Oggi la discussione va fatta con molta determinazione nei confronti dei partiti esistenti, tutti, che siano o no in Parlamento. Purtroppo la sinistra ha sempre avuto anche il rischio del settarismo e la convinzione di possedere sino in fondo la verità. Invece c’è bisogno di discutere. E in questo dibattito mi sento assolutamente coinvolto e cerco di partecipare in tutti i modi. Mi auguro che faccia breccia sulla politica restituendo un po’ di sinistra ai partiti che l’hanno un po’ perduta. Se nasceranno altre formazioni che non siano semplicemente i frutti della nostalgia dei reduci delle battaglie perdute della sinistra – perché non si andrebbe da nessuna parte – sono benvenute.
Qualcuno comincia a invocare Rodotà presidente della Repubblica.
Sono le ipotesi dell’irrealtà. Però se un signore arrivato a questa età, che non è nella politica ufficiale da quasi 20 anni, viene considerato in questa dimensione, allora vuol dire che non ho sprecato gli ultimi anni della mia vita in questo impegno di spirito pubblico. Ne sono anche un po’ gratificato: è un incitamento a continuare a fare. Non per diventare presidente della Repubblica, ma perché quest’altra politica possa radicarsi un po’ di più.