Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 19 ottobre 2013

Una sinistra per le elezioni europee

Fonte: Il Manifesto | Autore: Tonino Perna, Alfonso Gianni                     
Il governo delle larghe intese, rafforzato dagli ultimi "comici" avvenimenti, non è un'anomalia italiana, ma ormai il modello che tende a prevalere in diversi paesi europei. Il grande centro, non è punto di equilibrio virtuoso tra forze contrapposte, ma lo stallo, il disperato tentativo delle classi dominanti di mantenere lo status quo, il segno di una politica diventata "amorfa", incapace di trovare una forma ed un contenuto diversi dal neoliberismo e dall'austerity, per uscire dalla Grande Depressione che sta impoverendo, economicamente e socialmente, la grande parte della popolazione europea.

Per questo le prossimi elezioni europee sono una grande occasione per far sentire che esiste un'altra visione dell'Europa, una vera via d'uscita dalla crisi. Con una parola-chiave: riequilibrio. Riequilibrare per trasformare la società europea nel senso della democrazia, della giustizia e dell'equità. Questa crisi è il frutto di uno squilibrio: tra finanza ed economia reale; tra la cessione di sovranità di singoli stati e l'assenza di democrazia negli organi di governo della Ue; tra i redditi dei ceti medio-alti ed il resto della popolazione; tra produzione e un ambiente sempre più disarmato verso l'urto del consumo di territorio e sostanze inquinanti; tra classi dirigenti e il resto dei cittadini con un inedito deficit democratico; tra Nord e Sud Europa, con l'iniziale divario ormai diventato un abisso.

La crisi è globale, ma in Europa le conseguenze sono più gravi perché più che vittima della crisi l'Europa lo è delle politiche delle classi dirigenti. Pertanto, per salvare l'Europa, per non affossarla - come faranno le forze centriste e dell'estrema destra nazionalista lasciate operare - dobbiamo imprimere una svolta radicale basata su alcuni elementi essenziali:
1)Un riequilibrio dei redditi, colpendo la rendita finanziaria, premiando il lavoro e l'occupazione, garantendo al contempo a tutte/i un reddito di base, allargando in senso universalistico il welfare europeo. Così da permettere un effettivo riequilibrio nella bilancia dei pagamenti tra i paesi esportatori del Nord e quelli importatori del Sud. Diversamente si accentuerà la distanza fra debito e credito nell'eurozona.

2)Un riequilibrio nel rapporto economia/ambiente, riconvertendo le produzioni inquinanti e favorendo le produzioni ecologicamente sostenibili, in luogo delle "grandi opere", inutili ed inquinanti, programmando un capillare intervento di salvaguardia del territorio, oggi più che mai nudo ed indifeso di fronte ai cambiamenti climatici. Un vero programma di investimenti pubblici e privati a livello europeo.

3)Un riequilibrio nei rapporti democratici fra cittadini e organi di potere. Il peso delle decisioni va spostato sul parlamento, organo elettivo, non sugli organismi designati dai governi, in un'ottica di un'Europa federale.

4)Un riequilibrio fra i poteri della politica e quelli della finanza, oggi solo a vantaggio di quest'ultima. Con una revisione del ruolo della Bce e la piena occupazione tra i suoi obiettivi, il potere di prestare direttamente ai singoli paesi in difficoltà, diventare uno strumento di una politica sociale e non il dominus dell'economia. Significa tagliare le unghie alla finanza con la Tobin tax, l'eliminazione dei paradisi fiscali, la separazione delle banche commerciali da quelle di rischio, la drastica limitazione dell'uso dei derivati.

5)Un riequilibrio nel rapporto Nord/Sud spostando l'asse della Ue verso il Mediterraneo, attraverso una forte alleanza tra i paesi del Sud-Europa, a partire dalla ristrutturazione del debito pubblico. Esigerne la restituzione a tappe forzate come vuole il fiscal compact significa uccidere le economie più deboli e accrescere il debito stesso. Vogliamo salvare le popolazioni del sud, i profughi, i migranti dalle stragi a cui questa Europa neoliberista e tecnocratica li ha condannati, riducendo il mare nostrum a un immenso cimitero del migrante ignoto.

Tutto questo comporta una revisione dei trattati fondativi e la cancellazione di quelli successivi che strangolano le economie (fiscal compact). Questa è l'unica, realistica, strada per salvare l'unità europea, per evitare che l'euro sia un cappio insopportabile e funzioni solo a vantaggio delle economie più forti. Molti, in campo intellettuale e politico la pensano come noi, ma ancora manca una forza dotata di autorevolezza e consistenza che esprima questa visione e persegua con coerenza questi obiettivi. Questo problema si presenta in Italia in termini drammatici e urgenti. Il "grande centro" ha definitivamente spazzato via le differenze tra centro-destra e centro-sinistra, ed il malcontento che sale in Europa può diventare appannaggio di forze di estrema destra e dell'astensionismo. Dobbiamo avere il coraggio di progettare un percorso unitario, sfruttando anche l'esempio positivo che ci viene da alcuni paesi europei, con forze e movimenti che si richiamino a questi valori e obiettivi essenziali, puntando sulla concretezza più che non sulle sigle o i richiami ideologici. Dobbiamo guardare a una grande alleanza euromediterranea, che sappia parlare anche ai popoli del Nord dell'Europa, un'alleanza di lavoratori, precari, disoccupati, di donne e di giovani, protagonisti di una nuova cooperazione Sud-Nord nella Ue e nel Mediterraneo.

Su queste basi pensiamo sia possibile costruire un nuovo schieramento politico, in grado eventualmente anche di partecipare alle prossime elezioni europee, in sintonia con le esperienze di sinistra d'alternativa di altri paesi europei, che si proponga di salvare l'unità europea trasformandola. Una forza radicale e di sinistra, sul piano dei valori, degli obiettivi e delle pratiche.
Vogliamo un'Europa di nuova generazione, perché ha bisogno di essere rifondata e nei giovani ha proprio futuro. Ci piacerebbe aprire una pubblica discussione.

STOP AUSTERITY

SCIOPERO GENERALE: 50.000 IN PIAZZA A ROMA. BLOCCATI TPL E SERVIZI

Partita “acampada” e dibattiti in piazza San Giovanni
20131018 rm sciopero 0134
20131018 rm sciopero 0134
“VIA I GOVERNI DELL’AUSTERITÀ DALL’ITALIA E DALL’EUROPA”. Dietro questo striscione hanno sfilato in corteo a Roma oltre 50.000 manifestanti, scesi in piazza per lo sciopero generale di 24 ore indetto oggi dall’USB insieme ad altre sigle sindacali di base.

La riuscita dello sciopero e del corteo è andata oltre le migliori aspettative degli organizzatori, che condannano l’allarmismo diffuso per oscurare le ragioni della protesta, che nel mondo del lavoro si fa invece sempre più forte, determinata e ragionata.

“Questa piazza dimostra che esiste l’alternativa sindacale”, ha affermato dal palco di piazza San Giovanni Pierpaolo Leonardi, dell’Esecutivo nazionale USB. “Nei posti di lavoro Cgil Cisl e Uil diffondono la rassegnazione, arrivando persino a paventare manifestazioni a sostegno del governo Letta in crisi. Un governo – ha attaccato Leonardi – che con la legge stabilità mantiene inalterata l’attuale iniqua distribuzione della ricchezza, e persevera nelle politiche di massacro sociale sotto dettatura della UE e della troika, come dimostra la nomina a supercommissiario di un membro del FMI. Ma il mondo del lavoro non si fa ingannare e non si piega – ha avvertito Il dirigente USB - e da qui bisogna ripartire per ridettare l’agenda: un piano straordinario per occupazione; per il diritto alla casa, alla sanità, al reddito alla conoscenza; contro l’erosione delle pensioni e per la riduzione dell’età pensionabile; per l’ orario di lavoro e contratti; per libertà e democrazia nei luoghi di lavoro”, ha concluso Leonardi.

I primi dati sullo sciopero confermano la necessità dell’azione di lotta: molti i voli cancellati, i servizi pubblici bloccati, con una forte adesione in, INPS, nei comuni, nella sanità e negli uffici territoriali. Fortissimo il dato del trasporto pubblico locale: il 100% dei mezzi fermi a Pisa; 90% a Terni; 80% a Bologna; 65% a Ferrara; 70% a Reggio Emilia; all’ACTV di Venezia ha incrociato le braccia l’81% del personale nel trasporto automobilistico ed il 70% di quello marittimo; 70% a Torino e provincia; a Milano metro chiusa e bus fermi al 75%; 50% a Trieste; 40% a Gorizia; 45% a Livorno; si è fermato il 70% dei mezzi nel tpl regionale della Sicilia ed il 40% nella Calabria; 45% nelle Marche. I dati del Tpl sono inoltre tutti destinati a salire nella fascia pomeridiana e serale in tutti i territori.

A Roma, dove in accoglimento della richiesta del Sindaco Marino è stato revocato lo sciopero dei trasporti per la sola fascia serale e per le metropolitane, si registra in fascia diurna un dato del 65% per i bus e le ferrovie in concessione e del 60% nella Roma tpl (bus periferici). In Emilia Romagna è bloccato il 95% del trasporto merci e 75% di quello passeggeri delle ferrovie regionali.

Il corteo, aperto dai migranti e rifugiati, seguiti dai lavoratori dell’ILVA e dai Vigili del Fuoco in divisa, ha visto la partecipazione di lavoratrici e lavoratori da tutte le regioni e di tutti i settori: dal del commercio a Telecom; da Mirafiori alla Sigma Tau; dal Poligrafico di Roma e della Puglia; e poi i lavoratori di Alitalia, del settore logistica, il coordinamento ferrovieri.

Tanti i dipendenti pubblici, dalla sanità ai ministeri, dagli enti locali alla ricerca; tutti riuniti dietro lo striscione “PUBBLICO IMPIEGO INCAZZATO”. Tutti insieme ai precari, i pensionati, i licenziati ed i cassaintegrati, i movimenti di lotta per la casa.

Folte le rappresentanze dei movimenti per la difesa di salute e ambiente: No Muos, No Tav, il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua; dalla Campania le Mamme Vulcaniche ed il Comitato contro l’inceneritore di Giuliano/Acerra; rappresentanti dei movimenti sociali e per il diritto all’abitare.

La giornata di lotta prosegue in piazza San Giovanni, dove sta partendo un “acampada” di tende, che proseguirà nella notte in un ponte con la manifestazione di domani, che partirà dalla stessa piazza San Giovanni. Nel pomeriggio si attiveranno gli “speakers’ corner tematici su: Precariato nella P.A., Mutualismo e conflitti verso una nuova confederalità sociale, Rompere con la UE!, Amnistia per le lotte sociali,

Dalle ore 19.00 interverranno gli artisti che hanno dato il loro sostegno allo sciopero, fra cui Banda Bassotti, 99 Posse, Ascanio Celestini, Assalti Frontali, Banda Popolare dell’Emilia Rossa.
USB Unione Sindacale di Base

#19o - Il pilota automatico e la sollevazione

Fonte: Commonware | Autore: FRANCO BIFO BERARDI             
Il 19 Ottobre si ritrova a Roma il movimento che vuole sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo.
Due logiche incompatibili si affrontano oggi in Europa (e nel mondo): la logica di una società ricca di saperi, di competenze, di risorse – e la logica finanziaria che ha bisogno di distruggere risorse saperi e servizi sociali per poterne accumulare il valore sotto forma di astrazione monetaria.
Ecco allora la potenza della tecnologia, che permette di liberare tempo dal lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione, trasformata nella maledizione della disoccupazione e della miseria.
Ecco allora che per aumentare il valore delle azioni bancarie si deve aumentare lo sfruttamento, il tempo di lavoro, e ridurre le spese per l’educazione e la sanità.
Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista. La democrazia è stata cancellata perché, come dice Mario Draghi, Sommo Sacerdote della Teologia finanzista, il patto di stabilità procede con il pilota automatico.
Soltanto una sollevazione generale, che non si limiti a riempire le piazze per un giorno, ma che occupi in maniera permanente la vita quotidiana, può liberare la società dalla trappola del finanzismo.
La sollevazione non è un’azione militare, e neppure una ribellione momentanea, ma il dispiegamento della corporeità sociale, il rifiuto permanente di pagare un debito che non abbiamo contratto, l’autonomia delle forme di vita di sapere e di produzione.
Un’evoluzione violenta del movimento anticapitalista oggi sarebbe poco intelligente, perché nessuno crede alla possibilità di sconfiggere le forze armate degli stati, ultimo residuo del loro potere nazionale. In alcuni casi abbiamo assistito e assisteremo a massicce esplosioni di violenza precaria,come nelle quattro notti di rabbia dell’agosto 2011 in Inghilterra. Non dobbiamo criminalizzarle né dobbiamo stupircene. La violenza sistematica del finanzismo comprime il corpo sociale, generazioni intere si vedono promesse a un futuro di miseria e di schiavismo, il cinismo della classe dominante è ripugnante: fenomeni di esplosione psicotica sono del tutto comprensibili. La sollevazione non li giudica,ma li cura, ricostituendo le condizioni per la solidarietà del corpo sociale per l’insolvenza di massa e per l’autonomia della società dal dominio del capitale finanziario.
Nel 2011 il lavoro precario e cognitivo si ribellò: dalla rivolta degli studenti londinesi all’acampada spagnola all’occupazione di Wall Street alla rivoluzione tunisina ed egiziana parve che la sollevazione potesse fermare l’offensiva del sistema bancario.
Era l’inizio di una sollevazione che intendeva restituire solidarietà alla vita quotidiana e corporeità all’intelletto generale. La rivolta non seppe allora trasformarsi in un processo costante, l’intelletto generale precarizzato non riuscì a ricomporre la sua corporeità, e la società entrò in una fase di depressione da cui non è ancora uscita.
Da Roma 19-O viene un appello alle forze del lavoro precario e cognitivo perché insieme si possa uscire dalla depressione e si possa iniziare un moto persistente di insolvenza e di autorganizzazione.
Fiaccata dall’attacco finanzista l’Unione europea è un morto che cammina.
Un sentimento di rancore impotente si esprime in forme di nazionalismo e di razzismo. Il Mediterraneo trasformato in una fossa comune, e campi di concentramento razziali in ogni territorio dell’Unione. Alba Dorata in Grecia,il riemergente conflitto tra nazionalismo e indipendentismo in Spagna, la dittatura e il razzismo in Ungheria, l’ascesa del Front National che si presenta come forza di maggioranza in Francia.
La Banca Centrale Europea sta consegnando ai nazionalisti il governo del paese senza il quale Europa non significa niente. Il patto di pace tra francesi e tedeschi si sta sgretolando e crollerà quando il Fronte nazionale sarà partito di maggioranza. A quel punto l’agonia dell’Unione lascerà il posto alla guerra civile.
L’Italia è rimasta marginale nel movimento del 2011, perché molti ingenui credevano che il problema fosse riducibile al potere di un vecchio caimano mafioso. Ma ora che il vecchio mafioso pare messo in condizione di non nuocere, nulla cambia se non in peggio, e la società si trova in una stretta ogni giorno più soffocante.
La sollevazione europea può ripartire da Roma, se sapremo evitare che l’appuntamento di sabato 19 ottobre si trasformi in una fiammata rabbiosa e senza continuità, se sapremo evitare una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione, se sapremo trasferire l’energia di un giorno in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale.

Una finanza diversa in parlamento?

Una finanza diversa in parlamento?

di Andrea Baranes*
Un rapporto della rete Social Watch di alcuni anni fa titolava “se i poveri fossero una banca, sarebbero già stati salvati”. A fine 2008, un solo mese dopo il fallimento della Lehman Brothers il dimissionario George W. Bush convocava in tutta fretta negli Stati uniti il primo vertice del G20 a livello di capi di Stato e di governo per lanciare i piani di salvataggio delle banche responsabili della crisi. Profitti privati, socializzazione delle perdite. Da allora ogni vertice internazionale, dallo stesso G20 in giù, si chiude con roboanti dichiarazioni sulla necessità di chiudere una volta per tutte la finanza-casinò.
Mentre per salvare la finanza si è intervenuti con un’efficacia e con somme mai viste prima, poco o nulla è però stato fatto sulla regolamentazione finanziaria. A distanza di cinque anni il mercato dei derivati segna nuovi record, sistema bancario ombra e paradisi fiscali prosperano più che mai, i banchieri di Wall Street e della City si gratificano con bonus multimilionari, la speculazione gira a pieno ritmo. Dall’altra parte le proposte su nuove regole vanno avanti con una lentezza esasperante e soprattutto non rimettono in alcun modo in discussione l’intero impianto, limitandosi a cercare qualche intervento su singoli strumenti o operazioni. Anche in questi pochi ambiti l’azione delle lobby finanziarie frena o diluisce percorsi e contenuti.
Persino una proposta di buon senso come l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie [www.zerozerocinque.it] che ha visto dopo anni di campagne il parere favoreovle tanto del Parlamento quanto della Commissione europei, non è ancora entrata in vigore nell’Unione europea.
Non solo. Cittadini che hanno già pagato diverse volte il costo della crisi devono accettare durissime misure di austerità. Le banche e il sistema finanziario che ne sono responsabili sono al contrario inondati di soldi, dai piani di salvataggio alla liquidità illimitata messa a disposizione dalle banche centrali. In Italia le nostre banche hanno preso in prestito 250 miliardi di euro all’1 per cento dalla Bce – un tasso negativo se si tiene conto dell’inflazione – ma cittadini e imprese subiscono il credit crunch, ovvero non hanno accesso al credito. Non è unicamente una questione di ingiustizia sociale. La finanza è ripartita a pieno ritmo, l’economia ristagna. Uno scollamento sempre più marcato tra finanza ed economia, ovvero la stessa definizione di una nuova bolla finanziaria, alimentata con soldi pubblici.
Per questo dobbiamo radicalmente cambiare rotta, approvando urgentemente poche e chiare misure per riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia e della società, non un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi nel minore tempo possibile. Non è una questione di difficoltà tecnica. Sappiamo cosa andrebbe fatto. E’ una questione di volontà politica, superando l’attuale approccio di istituzioni pubbliche che si limitano a compiacere, e non a controllare, i mercati.
Se è vero che molte misure devono essere prese a livello europeo e internazionale, molte altre potrebbero essere portate avanti anche qui in Italia. Da un lato imporre delle regole per frenare gli eccessi della finanza speculativa, dall’altro incentivare forme di finanza etica e cooperativa. In questa direzione si è costituito nei giorni scorsi l’intergruppo parlamentare per la finanza sostenibile, che vede la partecipazione di qualche decina di parlamentari di diversi schieramenti. Tra le prime proposte, un progetto di Legge a prima firma di Giulio Marcon per una revisione della debolissima versione della tassa sulle transazioni finanziarie introdotta dal governo Monti. L’obiettivo è quello di allargare la base imponibile all’insieme dei derivati e di tassare ogni singola transazione, non unicamente i saldi di fine giornata.
La costituzione dell’Intergruppo e le prime proposte portate avanti sono un segnale incoraggiante. Occorrerà monitorarne il lavoro e capire quale potrà essere la sua reale capacità di incidere, in particolare rispetto a un governo che sembra guardare più alle reazioni dei mercati che non a quelle dei cittadini, più al valore dello spread che non al tasso di disoccupazione. Troppo spesso negli ultimi anni la finanza ha guidato e controllato le decisioni politiche. E’ ora di ribaltare tale approccio. Nei prossimi mesi vedremo se la creazione dell’Intergruppo per la finanza sostenibile sarà finalmente stato un primo passo nella giusta direzione.

Andrea Baranes è presidente della Fondazione culturale del gruppo Banca etica, ha lavorato per molti anni nella Campagna per la riforma della Banca mondiale e oggi, tra le altre cose, collabora stabilmente con Comune-info. Finanza per indignati, edito da Ponte alle Grazie (2012), è il suo ultimo libro.

venerdì 18 ottobre 2013

La moneta greca che batte l’euro

Si chiama Tem ed è scambiata a un euro. Ne avevamo cominciato a parlare su Comune-info un anno fa (L’evoluzione del trueque). Tra i mercati «alternativi» e la fabbrica recuperata Vio.Me, il paese riscopre l’autogestione contro la crisi
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di Graziano Graziani*
La Vio.Me si trova in una vasta area industriale a sud di Salonicco, a cui si accede dal raccordo autostradale. Gli stabilimenti più visibili sono quelli delle grandi catene commerciali, come Ikea e Leroy Marlin, ma dietro le loro insegne scintillanti si estende un vasto numero di capannoni industriali. Christos, uno dei lavoratori Vio.Me, ci raggiunge lungo la strada per scortarci. «Non è semplice trovare la fabbrica», spiega in inglese. Lui è uno dei pochi operai del collettivo di fabbrica che conosce una lingua straniera, quasi tutti gli altri parlano solo greco. Anche se lo stabilimento è un po’ nascosto, il nome Vio.Me nelle ultime settimane ha assunto una grande visibilità e ha varcato i confini nazionali. A giugno sono venuti a fare visita al collettivo alcuni tra gli esponenti più noti del movimento anti-globalizzazione, come Naomi Klein e John Holloway. Perché questa è la prima fabbrica autogestita in Grecia dall’inizio della crisi e segue apertamente il modello delle fabbriche argentine durante la crisi di dieci anni fa. «Speriamo che quello che stiamo facendo qui possa fornire idee e spunti ad altri lavoratori che sono nella nostra stressa condizione – mi dice un altro operaio, Georgiou – se tutti ci muoviamo per fare qualcosa allora c’è la possibilità che qualcosa cambi».
Quello che più spaventa della crisi è il rischio rassegnazione. I greci ormai sanno che da questa situazione non si uscirà tanto rapidamente e questo, insieme alla sfiducia nella classe politica e nel governo, che sta svendendo il Paese ai privati un pezzo alla volta, getta molte persone nell’apatia. I licenziamenti sono continui: nei soli tre giorni della nostra visita alla Vio.Me, due grandi imprese hanno licenziato rispettivamente 500 e 300 persone, di colpo e tutte insieme. «Non cambierà niente» è il ritornello che si sente recitare più spesso. L’autorganizzazione resta, dunque, una delle poche possibilità per cambiare, anche di poco, la propria condizione.
Il caso della Vio.Me è esemplare. La fabbrica ha chiuso due anni fa, nel 2011, picco di maggiore visibilità per la crisi greca (anche se oggi la percentuale di disoccupati nel Paese è superiore). La proprietà si è come volatilizzata, semplicemente, lasciando fallire l’impresa. Il giudice ha deciso di assegnare momentaneamente la fabbrica agli operai, che già da molti mesi non percepivano più lo stipendio, perché non c’era nulla su cui rifarsi per ottenere denaro e pagare così lavoratori e fornitori. «Eppure questa era una fabbrica che guadagnava molto – dice ancora Christos – credo almeno un milione e mezzo di euro l’anno e parlo soltanto degli utili. Ma la proprietaria è svanita nel nulla. Deve aver pensato che le cose, con la crisi, sarebbero peggiorate rapidamente e quindi ha rastrellato tutto il denaro possibile e se n’è andata».
Gli operai si sono organizzati
Anche i manager e i dirigenti sono scomparsi. Mentre alcuni operai hanno preferito cercare altri lavori. Delle 70 persone impiegate alla Vio.Me oggi nel collettivo dei lavoratori ne restano esattamente la metà. «Lavoriamo in modo più rilassato», scherza Christos, ma è una battuta fino a un certo punto. Quando la fabbrica era aperta si lavorava a ciclo continuo: tre turni da otto ore senza pausa, giorno e notte; i capiturno che controllavano i lavoratori permettevano solo una pausa sigaretta e una rapida sosta in bagno. La produttività non doveva mai calare. «Lavorate, lavorate! ci dicevano di continuo. Ma quando chiedevamo di migliorare le condizioni di lavoro – prosegue Christos – non c’era verso. La vedi la fabbrica com’è adesso, senza vetri alle finestre? Era così anche allora. Niente riscaldamento, né aria condizionata. D’inverno si moriva di freddo e d’estate, quando bruciavamo i polimeri per fare i nostri prodotti, la temperatura saliva fino a 45 gradi». Mentre noi parliamo, alcuni operai sono fuori dalla fabbrica, sotto un portico, a bere caffè freddo. Hanno lo sguardo rilassato, scherzano. Il clima che si respira è amichevole e tranquillo, molto diverso da quello che Christos ricorda: e questo nonostante gli operai oggi guadagnino molto poco. «Tra i 250 e i 300 euro al mese, che è davvero pochissimo. Per questo c’è chi fa anche altri lavori, quando li trova. Alcuni di noi, invece, hanno il sostegno delle mogli che magari hanno un altro stipendio. Speriamo di riuscire a migliorare i guadagni in breve. Il prossimo mese dovremmo arrivare a 400 euro a testa».
Prima della chiusura l’azienda produceva materiali per l’edilizia, in particolare piastrelle, mattonelle, collanti per fissarle e stucchi colorati per le rifiniture. In magazzino c’è ancora molto materiale che giace invenduto: il giudice non ha dato agli operai il permesso di venderlo. Né ha permesso che i macchinari possano essere rimessi in funzione. Ogni settimana il collettivo chiede alle autorità l’autorizzazione per riprendere la vecchia produzione, ma per ora nessuno gli ha dato una risposta. Nel frattempo gli operai si sono organizzati diversamente e hanno cominciato a produrre saponi e detergenti, che possono essere lavorati con attrezzature più piccole. Detergenti per i pavimenti, per i vetri, sapone per i vestiti e, ultimamente, anche per le mani, tutti prodotti realizzati senza additivi chimici, con sistemi biologici. «Saltiamo anche la grande distribuzione – mi spiega Christos – i prodotti vengono venduti attraverso una rete di solidarietà che attraversa tutta la Grecia: mercati autogestiti, associazioni di quartiere, associazioni politiche o di solidarietà che organizzano la distribuzione dei prodotti senza intermediari. Il risultato è che i nostri saponi sono buoni e molto economici». Il grande interesse che la loro azienda sta suscitando all’estero ha suscitato negli operai la voglia di tentare una distribuzione internazionale dei prodotti. Al momento, però, l’autorizzazione non c’è ancora: lo scoglio, anche in questo caso, resta la burocrazia.
Tasos, un operaio a cui chiedo se pensa che l’esempio dell’autogestione possa influenzare altre fabbriche in crisi, si scusa perché dice di non saper fare discorsi politici: «Prima che venisse fuori l’idea di autogestire la fabbrica, molti di noi non si occupavano di politica», mi spiega. E anzi, il fatto stesso che la loro autogestione abbia suscitato tanto clamore a livello nazionale e internazionale li ha colti un po’ di sorpresa. Poi, però, aggiunge che senza la speranza di cambiare le cose non si sarebbero buttati in un’impresa tanto complessa che sta assorbendo tutto il loro tempo e le loro energie.
Una rete di mercati
5Come funziona la rete di mercati autogestiti che permette agli operai della Vio.Me di saltare la grande distribuzione? Le iniziative che vedono i cittadini greci organizzarsi in questo senso sono le più varie e si stanno diffondendo a macchia d’olio. Tra gli esperimenti più interessante c’è quello di una rete di mercati che cerca di superare l’utilizzo del denaro nell’acquisto di beni e servizi, senza per questo tornare al baratto. Il primo di questi mercati, in ordine di tempo, è sorto a Volos, l’antica Argo, una città portuale che si trova a metà strada tra Atene e Salonicco, in Tessaglia. Qui Angelica e suo marito Panos hanno dato il via a un esperimento che è stato imitato dalle municipalità vicine: un mercato agricolo che bypassa la grande distribuzione. Tutto è nato con la cosiddetta “rivolta delle patate” del 2012: i produttori avevano grandi quantitativi di patate che rischiavano di marcire nei magazzini perché i distributori offrivano prezzi ridicoli, per poi rivendere quelle stesse patate a cifre esorbitanti sui banchi di verdura dei mercati. Cittadini e agricoltori si sono organizzati e il prezzo è sceso a meno di un terzo, con un buon margine di guadagno per tutti. Oggi a Volos e nei dintorni della penisola del Pilio si tiene un mercato mobile organizzato dagli stessi agricoltori due volte al mese. Via internet le persone possono ordinare ortaggi e altri prodotti agli agricoltori e poi passarli a ritirare il giorno di vendita, quando scendono con il camion in città. Anche chi non ha prenotato ha la possibilità di comprare, ammesso che restino dei prodotti, cosa che non avviene spesso da quel che racconta la gente.
Non solo. Oltre ad aggirare la grande distribuzione qui a Volos si è fatto un grosso passo in più: la nascita di un mercato alternativo dove si compra senza soldi, o meglio, attraverso una valuta immateriale alternativa chiamata Tem, un acronimo che sta per “unità alternativa locale” ed è equiparato a un euro. In questo mercato, che si svolge il mercoledì e il sabato, si compra esclusivamente con tale valuta, accreditata o addebitata su un libretto virtuale. Una delle organizzatrici, anche lei di nome Angelica, me ne spiega il funzionamento: «Ognuno di noi ha un nickname a cui corrisponde un libretto virtuale, che è come un conto corrente. Se vendo qualcosa – io ad esempio vendo libri usati – mi vengo accreditati dei Tem, con i quali posso poi a mia volta comprare qualcosa, non solo beni di consumo, che sono il fulcro del mercato, ma anche servizi che posso acquistare in giorni e posti diversi. Ad esempio, se c’è un parrucchiere che aderisce al Tem posso tagliarmi i capelli e pagarlo con la moneta virtuale. Lo stesso vale per il medico: ce ne sono diversi che si fanno pagare così ed è un bel risparmio».
Giovanni è un italiano che vive a Volos da trent’anni ed è uno dei medici di cui parla Angelica. Anche lui è tra i fondatori della valuta virtuale: «Chiaramente – dice – il nostro sistema non può risolvere tutti i problemi, ma abbiamo calcolato che può incidere sulla spesa mensile anche del 20-25 per cento, che di questi tempi non è poco. Soprattutto per quanto riguarda i servizi, come il medico, il meccanico, l’idraulico, il fisioterapista. Tutte cose che con la crisi diventano secondarie, perché tasse, bollette e generi di prima necessità si mangiano tutto lo stipendio mensile e a volte nemmeno è sufficiente. Il vantaggio sta nel fatto che il Tem non è una vera moneta, ma solo un sistema virtuale che regola i nostri scambi. Di conseguenza non è tassabile. La finanza ha già fatto diversi controlli, ma non ha rilevato irregolarità. D’altronde che cosa possono dire se un mio paziente mi paga con delle uova e io le accetto? Niente. Il Tem è pressappoco così, ma permette di andare oltre il baratto, perché quel valore che produco facendo un servizio o vendendo un oggetto non mi viene compensato subito con qualcos’altro che magari non mi serve: posso capitalizzarlo e spenderlo in un altro momento, con una terza persona, per qualcosa che davvero mi occorre».
Ovviamente non è tutto così idilliaco: anche nell’ambito del sistema Tem, come in qualunque altra economia, c’è chi ha tentato di approfittarsi degli altri. Giovanni mi racconta che c’è stato chi ha portato oggetti di scarto, alimenti deteriorate, insomma cose che non si sarebbero potute vendere, e ha cercato di piazzarle. «Quando individuiamo persone che si comportano in questo modo ci parliamo e se continuano – assicura Giovanni – le isoliamo, estromettendole dal nostro sistema di scambio». Un altro problema si è verificato quando alcune persone non hanno restituito il fido iniziale. Per fare in modo che chi aderiva si sentisse immediatamente parte della comunità di scambio gli veniva accreditato un fido di 300 Tem, che si potevano cominciare a spendere subito. Il fido andava poi restituito attraverso la vendita di beni o servizi: «Ora, per tutelarci, lo abbiamo ridotto a 150 unità». Aggiunge Angelica: «All’inizio nel mercato si trovavano quasi solo prodotti di seconda mano, oppure cose fatte in casa, dalle torte ai maglioni. Ora invece stanno aderendo al Tem diversi negozianti che hanno chiuso la loro attività. Chi chiude, spesso ha molta merce invenduta e non sa che farsene. Sono prodotti nuovi, ancora imballati, che qui possono essere acquistati con il sistema dell’unità altermativa. Non è una soluzione definitiva, ma almeno evitiamo lo spreco e queste persone trovano momentaneamente una nuova piccola entrata».
A Patrasso e Kalamarià
L’idea dei mercati alternativi si è diffusa rapidamente, in Grecia. Di realtà strutturate come quella di Volos se ne contano sei, tra cui un sistema di baratto a Patrasso e un’altra moneta virtuale alternativa a Kalamarià, a sud di Salonicco. Si chiama Kinò, che vuol dire «comune», mi dice uno dei suoi ideatori, Yannis, un signore corpulento dal sorriso gioviale con il quale facciamo un giro per il mercato allestito sul lungomare ogni settimana. Anche in questo caso le persone scambiano sia beni che servizi attraverso un conto corrente virtuale e anche in questo caso un Kinò è equiparato a un euro. «Stiamo parlando con quelli di Volos e con gli altri mercati della Grecia», racconta poi Militsa, la donna che registra gli acquisti della comunità di scambio. «Ci scambiamo pratiche e suggerimenti – prosegue – qualche volta alcuni di noi sono anche riusciti a incontrarci. C’è l’idea di equiparare le nostre “unità alternative”, che sono tutte a loro volta equiparate all’euro. Sarebbe un grande passo in avanti. Vorrebbe dire che con i Kinò di Kalamarià potrei acquistare beni e servizi anche a Volos e nelle altre città della Grecia e viceversa. Ma non è così semplice, perché ogni comunità ha i suoi sistemi e le sue logiche e non sempre tutto coincide». C’è da tener conto poi del fattore fiducia, che anche in un mercato di piccole dimensioni come questo resta un nodo importante. Al momento si tratta di comunità che si autoregolano, ma ci riescono perché tutti si conoscono, possono guardarsi in faccia. Un domani, se il sistema crescesse, si potrebbero creare dei problemi. Così come c’è chi pensa che se le valute virtuali si federassero, diventando una realtà nazionale, il nuovo sistema alternativo non verrebbe lasciato libero dalle autorità governative come accade adesso a livello locale.
C’è anche chi è critico fin d’ora. I partiti della sinistra radicale affermano che non si può andare oltre il sistema capitalistico con i suoi stessi mezzi. Ma anche chi è vicino a Syriza, il primo partito di opposizione i cui militanti organizzano mercati alternativi, sostengono che queste attività non sono del tutto risolutive. «Il vero problema è che hanno bisogno di energie continue, non sono sistemi che possono funzionare in automatico: se le persone smettono di impegnarsi, cessano di esistere», dice Argiris Panagopoulos, un giornalista di Avgi, quotidiano che sostiene Syriza. Anche lui è attivo in alcuni comitati di scambio di Atene: nella capitale, che conta oltre quattro milioni di abitanti ed è divisa in decine di municipalità, ne sono sorti moltissimi. «Quello che è veramente cambiato – aggiunge – è l’atteggiamento nei confronti dello spreco. Prima si buttava molto di più, oggi trovi immigrati, ma anche tanti greci, che rovistano nei cassonetti per recuperare materiali da rivendere, soprattutto ferro. Anche nei mercati si scambiano cose che vengono conservate perché possono essere utili agli altri: farmaci, cibo, vestiti. È sicuramente utile, ma non può essere la soluzione della crisi».
Una cosa interessante, rileva Panagopoulos, è che queste esperienze funzionano soltanto se sono veramente espressione del territorio: «Io stesso – dice – ho partecipato ad alcune iniziative di Syriza di questo tipo, ma che sono morte quasi subito. Il fatto è che oggi, in Grecia, se la gente sente che ci sono di mezzo i partiti non si fida più. In altre situazioni, dove i militanti di Syriza hanno aiutato e sostenuto iniziative nate direttamente nei territorio, le cose sono andate decisamente meglio». Si tratta, secondo Panagopoulos, di un segnale dello scollamento che le persone hanno rispetto alla classe politica. Ma anche del fatto che oggi in Grecia le organizzazioni politiche, se vogliono davvero essere popolari, devono tornare a stare in mezzo alla gente che mai come ora si sente truffata da chi l’ha rappresentata in patria e all’estero.

* L’articolo è un’anticipazione da Il Reportage, pubblicato da il manifesto.

Tassare i ricchi per promuovere lo sviluppo, fare giustizia sociale e ridurre il debito

Tassare i ricchi per promuovere lo sviluppo, fare giustizia sociale e ridurre il debito

di Nicola Melloni – liberazione.it -

Non lo diciamo solo noi, lo dice anche il Fondo Monetario Internazionale, in una recente pubblicazione riportata con un mini articolo sul Corriere della Sera on line. Il Fondo fa una desamina piuttosto lunga ed articolata, partendo da una considerazione che potremmo definire di buon senso: la strategia messa in atto finora per ridurre il debito non ha ovviamente funzionato. I deficit di bilancio si stanno riducendo, è vero, ma assai più lentamente che ipotizzato inizialmente. Come più volte spiegato, i modelli economici con cui si era calcolato l’impatto dell’austerity erano fallati e non tenevano conto della forte spinta recessiva che le politiche pro-cicliche dei governi avrebbero comportato, con la conseguente riduzione delle entrate fiscali. Nel frattempo, proprio a causa dello stato comatoso dell’economia reale, il livello del debito non accenna a scendere, tutt’altro: in Italia nei prossimi due anni si arriverà ad un debito di quasi il 135%, mentre la Spagna, tanto per fare un esempio, passerà dall’85% del PIL a quasi il 100%. La prova provata del fallimento dell’austerity. Nulla di nuovo.
Quello che però attira maggiore interesse è la proposta del Fondo di intraprendere altre strade, essendo ormai chiaro che non si può davvero pensare di diminuire il debito a colpi di tasse e tagli, il bagno di sangue visto finora. Il debito però deve essere attaccato, questo è chiaro, dati gli enormi costi per la collettività. Ma si deve ribaltare la logica dell’austerity: non più ridurre il debito per far ripartire la crescita, quanto invece far ripartire la crescita per ridurre il debito. Di conseguenza bisogna trovare una strada per consolidare il bilancio pubblico senza mettere a rischio la crescita. Ed anche i liberali del Fondo non hanno timore a parlare di tasse più alte e non solo, come sempre si fa dalle nostre parti, di riduzione delle imposte. Il punto, naturalmente, è chi deve pagare di più e pagare di meno, e ci sono naturalmente questioni di efficienza ed etica che si intrecciano e, a volte, si contraddicono. I tipi di tasse sono essenzialmente quattro, sulle imprese, sul reddito, sui consumi e sulla ricchezza. Dove è meglio intervenire, dunque? Tassare le imprese è, ovviamente, rischioso: in un mondo con piena mobilità dei capitali, sarebbe facile per molte imprese spostarsi in cerca di regimi fiscali più convenienti. Questo però non dovrebbe scoraggiarci. Quello che serve in realtà è accrescere la cooperazione tra Stati, a maggior ragione se partner economici e politici come i membri dell’Unione Europea. E’ uno scandalo che paesi come l’Olanda e l’Irlanda facciano a gara per ospitare grandi multinazionali che eludono così le tasse nel resto d’Europa creando una sede più che altro fittizia in paesi che fanno competizione attraverso dumping fiscale. Cosa che non danneggia solo le nostre finanze pubbliche, ma anche la competitività dei mercati, favorendo le grandi multinazionali contro le piccole imprese che non riescono con altrettanta facilità ad eludere le tasse o a delocalizzare. In questo campo dunque si può agire, ma farlo da soli rischierebbe di essere pericoloso.
Volgiamo allora lo sguardo altrove, ed in particolare alla tassazione su consumo e reddito, due strumenti che sono agli antipodi di politica economica. Come ben sappiamo le tasse sul consumo in questi anni sono aumentati praticamente in tutta Europa, uno degli strumenti principali dell’austerity. Ma più in generale, il Fmi fa notare come negli ultimi 30 anni una larga parte del carico fiscale si sia spostato dalle imposte dirette – sui redditi – a quelle indirette, sui consumi, invertendo dunque il trend di progressività fiscale che era stato il supporto centrale del capitalismo democratico. Il tutto accompagnato da un notevole abbassamento delle aliquote sui redditi più alti. E’ proprio qui, allora che bisognerebbe intervenire per cercare di conciliare le logiche di bilancio ed il tema centrale del capitalismo contemporaneo, la diseguaglianza. Alzare le tasse sui redditi più elevati renderebbe più equo ma anche più efficiente la nostra economia. Nell’America del dopoguerra – non proprio un paese socialista – la tassa sull’ultimo scaglione di reddito raggiungeva il 90%, ma anche senza arrivare a questi livelli si potrebbe riportarla ora al 60%, un aumento deciso ma non drammatico rispetto alla tassazione che si aggira tra il 40 ed il 50% in quasi tutti i paesi europei. Intervenendo semplicemente sull’1% più ricco si porterebbero a casa qualche miliardo di euro, utili per esigenze di bilancio e per ridurre la diseguaglianza galoppante. Ancora di più, però, si potrebbe fare tassando la ricchezza, che è ancora peggio distribuita del reddito, basti pensare che in Italia la ricchezza netta nelle mani del 10% più ricco è oltre il 50% del totale contro appena il 10 del 50% più povero (e peggio ancora va negli Stati Uniti, dove la porzione di ricchezza del decimo più ricco della popolazione raggiunge il 75%). Per quanto riguarda quella finanziaria, il discorso è simile a quello precedente, si richiede una rafforzata cooperazione tra gli stati così da evitare massicce fughe di capitale verso paesi a tassazione ridotta. Ma il Fondo suggerisce altri strumenti. Prima di tutto la tassa di successione, uno dei maggiori scandali italiani e, non a sorpresa, cavallo di battaglia di Berlusconi&C. La tassa di successione è uno dei fondamenti del liberalismo, non del socialismo, ma in Italia tutto questo appare estraneo al sentire comune: lo scopo di tale tassa è, in realtà, di dare a tutti le stesse opportunità ed aumentare la mobilità sociale. Semplicemente aumentando la tassa ai livelli di altri paesi occidentali si potrebbe ricavare entrate per quasi mezzo punto di Pil, altri 7 miliardi di euro. Ancora meglio se si attaccasse la ricchezza netta delle fasce più ricche: una tassa dell’1% sul patrimonio del top 10% porterebbe nelle casse dello Stato un altro punto di Pil, o 15 miliardi di euro, e siamo già ad oltre 25 miliardi di euro raccolti con modeste tassazione sulla parte più ricca della popolazione, che tanto ha accumulato in questi decenni di vacche grasse, per loro. Altro che gli 11 miliardi della anemica manovra di Letta – e senza tagli sociali e con minimi effetti distorsivi sull’economia reale.
Infine, ed è in realtà l’unico punto sollevato dal Corriere, il Fondo si spinge oltre e si azzarda a suggerire una patrimoniale una tantum in grado di riportare il debito ai livelli precedenti la crisi. Gli economisti del Fmi ipotizzano una tassa di circa il 10% sui possessori di ricchezza netta positiva, cosa che in Italia andrebbe naturalmente rimodulata per evitare una tassa impagabile per molte famiglie di classe media, possessori di casa ma senza la liquidità e la reddittività necessaria per pagare tale tassa. Ci sembra però un’ottima notizia che anche a Washington cominci ad andare di moda la parola patrimoniale. Come ben spiegato dal Fmi non si tratta di nulla di nuovo o rivoluzionario, ma anzi di un espediente già usato in passato per ridurre debiti troppo grandi. Una via certo non facile ma, in fondo, logica: i soldi vanno cercati nelle tasche di chi ce li ha.

giovedì 17 ottobre 2013

GRECIA: Alba Dorata, una persecuzione politica

di Matteo Zola - eastjournal -

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Alba Dorata è un partito d’opposizione. Quando i membri di un partito d’opposizione vengono arrestati, quando il loro leader è messo in carcere, tutti coloro che hanno a cuore la democrazia dovrebbero avere un sussulto. Uno Stato democratico non arresta i membri di un partito di opposizione, nemmeno se quel partito mette in discussione (o in pericolo) la democrazia stessa. E’ il confine sottile dell’idea democratica oltre al quale si entra in uno stato di democrazia limitata, foss’anche limitata dal buon senso o dalla necessità di giustizia.
L’arresto del leader di Alba Dorata, Nikos Mihaloliakos, di Christos Pappas, “numero due” del partito, e di altri 35 iscritti, alcuni dei quali deputati, è seguito al giro di vite che la magistratura ha voluto imprimere nei confronti del partito neonazista dopo l’omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas, ucciso il 17 settembre scorso per mano del militante neonazista Georgos Roupakias. Secondo gli inquirenti Alba Dorata sarebbe una organizzazioni criminale e i suoi dirigenti sarebbero i capi di questa organizzazione. Una organizzazione dotata di una struttura militare, vere e proprie squadracce fasciste che prendono a sprangate gli stranieri, gli anarchici, e chiunque sia “nemico” del partito. Un atteggiamento che in nulla può appellarsi ai diritti democratici. Compito degli inquirenti, però, sarà stabilire le reali responsabilità dei dirigenti in merito agli episodi di violenza e all’omicidio di Fyssas e garantire loro un equo processo. Insomma, non basta essere nazisti per essere colpevoli.
E che Alba Dorata fosse violenta, che avesse delle squadre di picchiatori, che incitasse all’odio razziale, lo si sapeva già. Perché si arriva adesso a questo improvviso giro di vite dopo anni di tacita tolleranza? La retata contro il partito è un fatto politico, non giudiziario. La repressione del partito si spiega con un mutato atteggiamento del governo Samaras che ha fin qui cercato – come spiega anche Dimitri Deliolanes, giornalista greco autore di un saggio su Alba Dorata edito per Fandango – di sdoganare il movimento neonazista in modo da farne un alleato. Le retoriche contro l’immigrazione, seppur di diverso grado, accomunano sia Alba Dorata che Nuova Democrazia, il partito al governo. L’enorme pressione dell’opinione pubblica dopo l’omicidio Fyssas ha convinto il governo a liberarsi di un partito che ormai non poteva più essere un alleato. Infine, in Grecia c’è aria di elezioni anticipate e senza Alba Dorata molti consensi torneranno a Nuova Democrazia. Si tratta, come si vede, di motivazioni politiche.
Per arrivare a questi arresti il governo ha dovuto sostituire i vertici delle forze di polizia. Questo testimonia, da un lato, quanto già sostenemmo in passato, ovvero le connivenze tra Alba Dorata e le forze dell’ordine greche, e dall’altro la natura politica di questi arresti.
E i partiti non si eliminano in nome del calcolo politico. Questo è, mi si perdoni il paradosso, fascismo.
Non voglio dire che il governo di Atene sia “più fascista di Alba Dorata”, sarebbe stupido, ma è un fatto che la Grecia versi in un semi-regime.
Mi spiego. La Grecia ha chiesto dei prestiti internazionali (al Fondo monetario e alla Banca centrale europea). Per ottenerli ha dovuto sottostare alle misure di austerità. Queste misure producono un effetto negativo: la riduzione della democrazia. Secondo il Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, il Fmi impone le sue decisioni ai governi democraticamente eletti che si trovano così a perdere la sovranità sulle loro politiche economiche. Michel Chossudovsky, economista canadese, spiega come le politiche economiche del Fmi siano obbligatorie e scavalchino la consultazione dei cittadini: la democrazia ne esce perciò impoverita. I cittadini, esasperati dalla disoccupazione e dall’inflazione, protestano invano contro le misure di austerità e contro i governi che le hanno introdotte (accettando l’aiuto del Fondo). Il fatto è che le misure imposte dal Fondo non sono negoziabili. Le proteste, così frustrate, si fanno sempre più violente. Diventa allora necessario rafforzare gli organi di sicurezza e reprimere il dissenso. Così la democrazia viene messa ulteriormente in serio pericolo. E’ quanto sta avvenendo in Grecia.
E’ forse una democrazia questa? E come può questa non-democrazia stigmatizzare un movimento come Alba Dorata che – ricordiamolo – rappresenta una delle opposizioni (per quanto terribile) al semi-regime greco?
Insomma, la democrazia greca è ormai una democrazia castrata. Al punto che il governo ha cercato prima di “sdoganare” Alba Dorata per poi farne arrestare i capi per ragioni di puro ordine politico: la giustizia, la tutela della democrazia, qui non c’entrano più nulla. Se ad essere arrestati fossero stati i capi di una formazione neomarxista il mondo avrebbe gridato allo scandalo. Ma i neonazisti possono essere fatti fuori senza problema. Essi sono un male, certo. Ma sono un effetto, non una causa. La causa è la “catastrofe umana” – come l’ha definita il quotidiano greco Kathimerini – della distruzione sociale di un paese che ha generato mostri come Alba Dorata. Ma colpire Alba Dorata non metterà fine al disastro. Serve solo a garantire al semi-regime qualche anno ancora di sopravvivenza.

mercoledì 16 ottobre 2013

Ce n’est qu’un debut

Verso e oltre il 18 e il 19 ottobre

Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

Pubblichiamo di seguito un corposo e densissimo contributo del collettivo "Noi saremo tutto" di Genova che sentiamo di condividere quasi completamente. Comprendiamo pure che leggerselo su internet potrebbe risultare faticoso per questo motivo potete scaricarlo qui in pdf e poi magari stamparlo
“Durante la rivoluzione milioni e decine di milioni di uomini imparano in una settimana più che in un anno di vita ordinaria, sonnolenta, perché una svolta brusca nella vita di tutto un popolo permette di rendersi conto chiaramente dei fini perseguiti dalle classi sociali, delle loro forze e dei mezzi con i quali agiscono”. (V. I. Lenin, Gli insegnamenti della rivoluzione)

La posta in palio


Le giornate di mobilitazione generale del 18 e 19 ottobre possono rappresentare un passaggio importante se non addirittura decisivo per la messa in forma di un movimento antagonista in grado di “unificare” le lotte e le tensioni politiche e sociali che la crisi obiettivamente produce. Per molti versi è un’occasione non secondaria per dare una forma politica a quell’insorgenza sociale manifestatasi nella giornata romana del 15 ottobre la cui radicalità non ha trovato uno sbocco politico/organizzativo capace di trasformare quella rabbia in progetto politico. Ciò non è stato evidentemente un caso e neppure l’esito di una incapacità politica, piuttosto ha dimostrato la difficoltà di buona parte della stessa sinistra radicale e anticapitalista a fare realmente i conti con gran parte della sua storia passata e, al contempo, a confrontarsi positivamente con quella “nuova composizione di classe” che, l’attuale modello di produzione capitalista, ascrive e circoscrive ogni giorno che passa nell’ambito della marginalità e dell’esclusione sociale.

I comportamenti di questo nuovo segmento di classe, che le statistiche ufficiali indicano ormai come maggioritario dentro l’attuale ciclo produttivo, si manifestano il più delle volte in maniera anarchica e nichilista finendo con il reiterare persino in ambito metropolitano pratiche non distanti dal luddismo. Tutto ciò non deve stupire più di tanto. Per certi versi i comportamenti di questo ampio settore sociale reiterano prassi e stili di vita che, pur con tutte le tare del caso, ricordano assai da vicino quanto mirabilmente descritto da Engels in La condizione della classe operaia in Inghilterra. Prima di entrare nel merito dei comportamenti pubblici di questa classe, ovvero la dimensione di perenne insorgenza sociale che si porta appresso ancorché priva di progettualità politica e quindi incapace di porsi sul terreno della conquista del potere politico, appare utile soffermarsi sulla sua dimensione “sociologica”. Ciò non tanto per vezzo intellettualistico bensì per seguire un metodo di indagine che è stato tanto di Marx, in particolare nel primo libro del Il capitale e in parte nei suoi scritti storici, oltre che, come ricordato, di Engels.

Per comprendere il proletariato contemporaneo non è sufficiente, per quanto indispensabile, la sola analisi strutturale. Dobbiamo evitare, cioè, il vizio professionale degli economisti i quali assolutizzano, o almeno tendono a farlo, il dato oggettivo e strutturale dimenticando che l’astrazione proletariato è fatta di donne e uomini in carne, sangue e ossa, oltre che di tempo ed esistenza concreti. Questo per dire che la dimensione soggettiva della classe riveste un ruolo non secondario nell’autorappresentazione che questa si dà di se stessa con tutte le ricadute obiettive che ciò comporta.

Al proposito non è secondario ricordare Mao e il suo stile di lavoro fondato sull’inchiesta. Nel momento in cui Mao affronta in “concreto” la questione contadina non si limita a descrivere la base strutturale della campagna, i rapporti di produzione e di proprietà ivi presenti ma, una volta fatto ciò, si addentra nei modelli “culturali” che fanno da sfondo alle vite reali dei medesimi. Lo stesso modello lo ritroveremo, per esempio, nel momento in cui Mao affronta il problema del soggettivismo e del militarismo dentro l’Esercito rosso. Anche in questo caso, Mao, non limita il discorso alla politica, ovvero a identificare sotto il profilo ideologico cosa rappresentano determinate tendenze, ma entra direttamente nel merito degli stili di vita e dei retaggi culturali che all’interno dell’Esercito rosso si manifestano. Perché? Perché, nel momento in cui l’ordine del discorso va oltre la ristretta cerchia dei militanti e dei quadri politici d’avanguardia, non si può risolvere il tutto con le pure e semplici categorie della teoria politica. In poche parole, l’inchiesta e l’analisi di massa, non possono essere condotte con la medesima strumentazione con la quale, per esempio, si affronta un gruppo politicamente strutturato e teoricamente organizzato. Un conto, richiamandosi a Lenin, è la battaglia interna al partito contro le tendenze economicistiche e terroristiche, altra cosa è il rapporto con quelle aree sociali attratte dall’economicismo e dal terrorismo. Nel primo caso si tratta di combattere e liquidare le linee politiche sbagliate attraverso precise argomentazioni teorico/politiche, nel secondo di conquistare alla politica rivoluzionaria tutte quelle quote di proletariato che nel loro immediatismo non posso far altro che, volta per volta, essere catturate dal riformismo e/o dall’avventurismo. Perché ciò sia possibile occorre conoscere a fondo l’humus sociale e culturale in cui questo proletariato consuma la sua esistenza.

Tradotto nel presente ciò significa fare i conti con la condizione proletaria qua e ora, rendendosi conto che la frattura storica rappresentata dalla fase imperialista globale ha scompaginato per intero il “mondo di ieri” ed che questo è stato un processo che si è articolato a trecentosessanta gradi. L’operaio con il quale ha a che fare Engels nel momento in cui delinea i profili della classe operaia inglese non ha più nulla a che vedere con il lavoratore figlio delle corporazioni medioevali o con l’artigiano che detiene tra le mani, per intero, il ciclo del prodotto. La classe operaia figlia della rivoluzione industriale è il frutto di un sommovimento storico che ha sradicato completamente un mondo facendo comparire sulla scena storica un soggetto la cui cultura e identità è tutta da inventare. Per molti versi, oggi, ci troviamo ad affrontare un compito identico.

Il Pil e la chimera di una crescita illimitata

di Federica Martiny - sbilanciamoci -

Il paradigma consumistico è messo in crisi dal calo del potere d’acquisto delle famiglie. Una riduzione dei consumi necessaria, ma non dovrebbe dipendere dall'impoverimento

Secondo l’ultima indagine dell’Istat, il reddito disponibile dei consumatori italiani è calato in termini correnti del 2%, mentre il potere d’acquisto è diminuito addirittura del 4,7%. Le famiglie spendono meno, riducono i consumi dei generi alimentari, rinviano a data da destinarsi i “piccoli lussi”.
Uno dei capisaldi del paradigma consumistico è messo in crisi dal calo del potere d’acquisto delle famiglie e dei singoli consumatori, e non da una scelta libera e consapevole. Perchè una riduzione dei consumi è certamente necessaria, ma deve essere gestita con intelligenza e non dovrebbe certo dipendere dall'impoverimento dei redditi.
“Un economista eterodosso direbbe che ciò che entra nel processo economico rappresenta risorse naturali preziose, e ciò che ne viene espulso scarti senza valore.” scriveva Georgescu-Roegen nel 1971. Questo perchè c'è un'energia disponibile o libera sulla quale l'uomo ha un quasi totale controllo, e un'energia non disponibile o legata, che l'uomo non può utilizzare. Una differenza sostanziale. Così come il calore fluisce spontaneamente dal corpo più caldo a quello più freddo, e mai viceversa, l'entropia di un sistema chiuso, e cioè la trasformazione da energia disponibile in energia non disponibile, aumenta continuamente ed inesorabilmente fino a scomparire del tutto. E del resto, tutti i tipi di energia si trasformano gradualmente in calore e questo calore si dissipa a tal punto da non poter più essere utilizzato.
Tutti gli organismi vivono sulla bassa entropia nella forma rinvenibile immediatamente nell'ambiente, ad eccezione dell'uomo: egli non solo cuoce la maggior parte del suo cibo, ma trasforma le risorse naturali in lavoro meccanico o in una varietà di oggetti utili. E facendo questo, produce una crescita del livello di entropia nell'ambiente nel quale vive: perfino nel caso della raffinazione di un minerale come il rame, la cui entropia è più bassa dopo il processo di raffinazione, causa, in ogni caso, un aumento più che equivalente dell'entropia dell'ambiente circostante.
“In termini di entropia, qualunque attività del genere ha inevitabilmente per risultato un deficit”: un deficit di energia disponibile per l'uomo, non solo per le sue attività economiche, ma per la sua stessa sopravvivenza: è un deficit di energia che diventa non disponibile fino a scomparire del tutto. L'assuefazione nei confronti dei lussi industriali e nelle comodità che vi derivano può essere anche un fattore molto positivo per noi adesso e nell'immediato futuro, ma è certamente qualcosa che si pone contro l'interesse dell'umanità nel suo insieme.
Gli economisti classici sono rimasti fedeli all'epistemologia meccanicista che era alla base dell'orientamento dei fondatori della scuola neoclassica: l'idea, cioè, di costruire l'edificio della scienza economica a partire dal modello della meccanica, quella meccanica definita da William Stanley Jevons come meccanica dell'utilità e dell'interesse individuale nella sua Teoria della economia politica.
Ad un'economia creata per incarnare e riprodurre in se stessa le idee della meccanica, Georgescu-Roegen contrappone un'economia che al contrario cerca di non sovvertire con le sue analisi le leggi della fisica ed in particolare della termodinamica, che della fisica è una branca molto particolare. Un'economia, in altre parole, radicata nel mondo che cerca di influenzare con i suoi scambi e le sue transazioni. Un'economia che non finge che il processo economico sia isolato ed autosufficiente, indipendente dal contesto nel quale si muove e che la rende possibile. Un'economia che ha un rapporto di reciproca influenza sull'ambiente naturale e che di questo deve rendere conto. Anche se in molti hanno cercato di non tener conto dell'inevitabilità delle leggi della fisica e delle loro conseguenze; hanno finto di vivere in un mondo incorruttibile, immortale, infinitamente ed illimitatamente a loro disposizione.
Il mito pericoloso della scienza economica di cui l'uomo è ormai schiavo è l'idolatria della crescita del Prodotto interno lordo, la divinizzazione del possesso delle merci e della ricchezza, la chimera di una crescita illimitata.
In uno spazio finito, chiuso, limitato da confini, la materia e l'energia circolano e si muovono tra organismi produttori, i vegetali, organismi consumatori, gli animali, e decompositori, che riciclano parzialmente gli scarti rendendoli nuovamente disponibili. L'energia che attraversa i processi economici, al contrario, si sposta continuamente dal momento della produzione a quello del consumo, e sebbene la sua quantità rimanga invariata, la sua qualità peggiora inesorabilmente.
Ma non solo: diminuisce anche la capacità della Terra di assorbire gli scarti del processo industriale di fabbricazione delle merci, per non parlare dell'inquinamento di rifiuti tossici e radioattivi. Il 20 agosto scorso c'è stato l'Ecological Debt Day o Earth Overshoot Day. Si tratta del giorno nel quale il consumo dei beni naturali nel mondo supera la quantità di quegli stessi beni prodotta nell'intero anno. Una data, questa, calcolata dal Global Footprint Network di Londra, che ogni anno si sposta indietro: nel 1987 era il 19 dicembre. Il nostro debito ecologico nei confronti della natura è immenso e ormai insostenibile.
In questa parte di mondo ogni pochi anni ogni cittadino sente il bisogno di una nuova auto, di un secondo frigorifero e dell'ultimo modello di I-pad: si tratta di cose che non sono affatto necessarie alla sopravvivenza, ma che nello stile di vita occidentale sono viste come diritti acquisiti di cui non si può più fare a meno.
Quindi, sì, dobbiamo ridurre i nostri consumi, ma in modo intelligente ed efficace: dobbiamo imparare a consumare meno per consumare meglio. Il punto è però che in tempi di crisi, consumare meno significa sempre consumare peggio.
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martedì 15 ottobre 2013

Avanti tutta verso la Grecia ...


Legge stabilità, Prc: no tagli alla sanità pubblica, si faccia la patrimoniale

Due miliardi di tagli per la sanità pubblica, di questo parlano le indiscrezioni giornalistiche sul prossimo provvedimento del governo. «Non è vero che per poter tagliare le tasse ai lavoratori occorre fare tagli corrispondenti alla spesa pubblica – ha commentato Paolo Ferrero -, i pesantissimi tagli alla sanità pubblica di cui si parla in queste ore sarebbero un vero disastro per il nostro Paese. Il vero nodo è far pagare i ricchi e tassare le rendite finanziarie, cioè far pagare coloro che guadagnano sulle spalle dei lavoratori: perfino la Svizzera ha deciso di fare una patrimoniale per aiutare i disoccupati! Occorre fare una tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze, ricavando così 20 miliardi da usare per aumentare le pensioni e tagliare le tasse ai lavoratori».

Il crollo dell'Italia e l'ascesa del Caos

Da M5S
-fabionews -

Ogni tanto è interessante guardare all'Italia con gli occhi di chi sta al di fuori e rendersi conto del "sentiment" che circola nel resto del mondo su di noi.
Raramente i nostri giornali e televisioni ci offrono questo punto di vista.

La London School of Economics and Political Science, una delle università di studi sociali migliori al mondo, ha un sito ufficiale http://www.lse.ac.uk/home.aspx attraverso il quale si può accedere al suo blog ufficiale http://blogs.lse.ac.uk/ (*) sul quale vengono pubblicati gli articoli di docenti, colleghi professori di altre università e collaboratori in genere.

(*) About LSE Blogs Expert analysis and debate from LSE
LSE Blogs hosts blogs managed by staff at the London School of Economics and Political Science (LSE): see ‘Our blogs’ (right).
Blog posts are written by LSE staff and selected external contributors. For more information about LSE’s staff, see LSE Experts.

In particolare, nei giorni scorsi è stato pubblicato un articolo a firma di un ex docente ora a Tokyo,
Roberto ORSI (The University of Tokyo, Policy Alternatives Research Institute, Project Assistant Professor)

Questo articolo non ci risulta che sia stato ripreso da alcun organo di informazione nazionale perciò ve lo proponiamo nella versione tradotta in italiano e vi forniamo il link alla versione originale in lingua inglese:

The Demise of Italy and the Rise of Chaos
Il crollo dell'Italia e l'ascesa del Caos


Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all'Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent'anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i
ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.

Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell'IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l'estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un'economia che ha perso circa l'8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo.
Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo "ripresa" è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione.
Sfortunatamente, come nella Tragedia Greca, i leaders italiani sono stati privati anche di questo illusorio e pietoso sogno.
I dati economici dei mesi estivi indicano che la recessione economica è lungi dall'essere finita.

Un recente studio indica che il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l'immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce.
Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell'élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L'Italia non avrebbe potuto affrontare l'ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori.
La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l'apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell'Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull'Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell'UE sapendo perfettamente che l'Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza , l'Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa.

L'Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell'UE e uno dei più alti al mondo. Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d'Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese . Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani.

La scomparsa dell'Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare.
L'Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l'opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia.
L'Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi - collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall'ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d'Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell'UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica,
che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell'ordine repubblicano.
L'interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale. L'illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d'Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese.
Saranno amaramente delusi
. L'attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l'intenzione, di salvare il Paese dalla rovina.
Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell'Italia.
In conclusione, la rapidità del declino è davvero mozzafiato.

Continuando su questa strada, in meno di una generazione non rimarrà nulla dell'Italia nazione industriale moderna.
Entro un altro decennio, o giù di lì, intere regioni, come la Sardegna o Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare.
I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l'Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all'interno del mondo occidentale, che il Paese aveva occupato solo nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento.

Quel progetto ora è fallito, insieme con l'idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità. A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l'Italia.
Per il momento, sembra essere una causa persa.Roberto Orsi, The University of Tokyo

Roberto Orsi is a co-investigator on the Euro Crisis in the Press project.
He holds a PhD International Relations and is currently Project Assistant Professor at the Policy Alternative Reasearch Institute (政策ビジョン研究センター) of the University of Tokyo (Japan). His research interests focus on international political theory, history of ideas (particularly modern continental political philosophy and critical theory), political theology (Carl Schmitt). He is also interested in social science
epistemology and classical philology. View all posts by Roberto or visit his personal website.


34 anni, originario di Saluzzo, in provincia di Cuneo, Roberto Orsi si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino. Ha vissuto prima ad Amburgo (tra il 2005 e il 2006), poi a Londra (2006-07), è quindi tornato in Germania, a Francoforte nel 2008, e dal settembre dello stesso anno sino alla fine del 2011 risiede stabilmente nella capitale inglese collaborando con la LSE.
Ora è in Giappone presso l'Università di Tokyo.


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Link all'articolo orginale:
http://blogs.lse.ac.uk/eurocrisispress/2013/10/08/the-demise-of-italy-and-the-rise-of-chaos/

Fmi decide il prelievo forzoso su tutti i conti correnti europei

yahoofinanza

Prelievo forzoso sui conti correnti bancari. E'successo a Cipro a marzo, attraverso un diktat della Troika imposto per evitare che l'isola precipitasse nel default. Precisando agli Stati membri della UE che il "modello Cipro" non avrebbe creato alcun precedente, contestualizzando la scelta di prelevare dai depositi sopra i 100mila euro una percentuale di circa il 38% esclusivamente a questa situazione. E invece...

Invece pare che l'idea del prelievo forzoso potrebbe diventare una norma da applicare a tutti i conti correnti dei 15 Paesi dell'area Euro. La decisione arriverebbe direttamente da un report del Fondo Monetario Internazionale dal titolo "Monitor delle finanze pubbliche": "Per porre rimedio all’esperimento fallimentare della moneta unica - scrive il Wall Street Journal - il Fondo Monetario Internazionale ha aperto alla possibilità che le autorità europee impongano un prelievo forzoso del 10% sui conti correnti di 15 paesi dell’area euro. Tanto ci vorrebbe, secondo i calcoli degli economisti, per riportare il debito sovrano del blocco ai livelli pre crisi". Una decisione passata inosservata, riportata però da alcuni quotidiani, tra cui il greco Imerisia, che vede nel provvedimento una manovra suicida per tutti gli Stati europei interessati, oltre a provocare una fuga di capitali dalle banche europee.

"Il concetto è semplice - ribadisce il quotidiano statunitense - piuttosto che appesantire il carico fiscale delle imprese e far scendere ancora di più le buste paga, perché non andare a toccare i capitali "dormienti"?. In questo modo, attraverso il prelievo del 10% su tutti i conti correnti, sarebbero ancora una volta i cittadini a pagare la crisi del debito sovrano provocata da politiche monetarie europee sbagliate. Poco importa al FMI di inasprire ancora di più i rapporti con Bruxelles e Bce, andando ad innescare nuove e violente rivolte sociali in tutta Europa. Anzi, consapevole "che le misure drastiche non hanno avuto i risultati attesi e che non hanno portato ad una riduzione del debito pubblico", (come si legge nel rapporto) provocando una fuga di capitali all'estero e un'elevata inflazione per via del ritardo nell'attuazione delle stesse misure, il prelievo forzoso diventa la misura necessaria per "riportare il livello del debito pubblico a livelli pre-crisi". Come? Attraverso "un tasso di prelievo alto (10%) dei risparmi netti positivi dei nuclei familiari di 15 paesi della zona euro".

La missione è difficile, ma non impossibile, conclude il report del Fondo, perciò fa appello all'Unione e alla Bce di prendere in considerazione l'idea che messa a confronto "con i rischi e le alternative per ridurre il debito pubblico", come ad esempio una moratoria delle passività o l'inflazione, "è anche una sorta di tassa sul patrimonio". Una proposta inquietante, che però per molti potrebbe essere fattibile, come afferma l'economista belga Etienne de Callatay che la considera sì "perturbante, persino scioccante e scandalosa", ma non nega di vederla come "una alternativa alle altre misure preconizzate per uscire dalla crisi, come il ricorso all'inflazione". Staremo a vedere.

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