di Nicola Melloni – liberazione.it -
Non lo diciamo solo noi, lo dice anche il Fondo Monetario Internazionale, in una recente pubblicazione riportata con un mini articolo sul Corriere della Sera on line. Il Fondo fa una desamina piuttosto lunga ed articolata, partendo da una considerazione che potremmo definire di buon senso: la strategia messa in atto finora per ridurre il debito non ha ovviamente funzionato. I deficit di bilancio si stanno riducendo, è vero, ma assai più lentamente che ipotizzato inizialmente. Come più volte spiegato, i modelli economici con cui si era calcolato l’impatto dell’austerity erano fallati e non tenevano conto della forte spinta recessiva che le politiche pro-cicliche dei governi avrebbero comportato, con la conseguente riduzione delle entrate fiscali. Nel frattempo, proprio a causa dello stato comatoso dell’economia reale, il livello del debito non accenna a scendere, tutt’altro: in Italia nei prossimi due anni si arriverà ad un debito di quasi il 135%, mentre la Spagna, tanto per fare un esempio, passerà dall’85% del PIL a quasi il 100%. La prova provata del fallimento dell’austerity. Nulla di nuovo.Quello che però attira maggiore interesse è la proposta del Fondo di intraprendere altre strade, essendo ormai chiaro che non si può davvero pensare di diminuire il debito a colpi di tasse e tagli, il bagno di sangue visto finora. Il debito però deve essere attaccato, questo è chiaro, dati gli enormi costi per la collettività. Ma si deve ribaltare la logica dell’austerity: non più ridurre il debito per far ripartire la crescita, quanto invece far ripartire la crescita per ridurre il debito. Di conseguenza bisogna trovare una strada per consolidare il bilancio pubblico senza mettere a rischio la crescita. Ed anche i liberali del Fondo non hanno timore a parlare di tasse più alte e non solo, come sempre si fa dalle nostre parti, di riduzione delle imposte. Il punto, naturalmente, è chi deve pagare di più e pagare di meno, e ci sono naturalmente questioni di efficienza ed etica che si intrecciano e, a volte, si contraddicono. I tipi di tasse sono essenzialmente quattro, sulle imprese, sul reddito, sui consumi e sulla ricchezza. Dove è meglio intervenire, dunque? Tassare le imprese è, ovviamente, rischioso: in un mondo con piena mobilità dei capitali, sarebbe facile per molte imprese spostarsi in cerca di regimi fiscali più convenienti. Questo però non dovrebbe scoraggiarci. Quello che serve in realtà è accrescere la cooperazione tra Stati, a maggior ragione se partner economici e politici come i membri dell’Unione Europea. E’ uno scandalo che paesi come l’Olanda e l’Irlanda facciano a gara per ospitare grandi multinazionali che eludono così le tasse nel resto d’Europa creando una sede più che altro fittizia in paesi che fanno competizione attraverso dumping fiscale. Cosa che non danneggia solo le nostre finanze pubbliche, ma anche la competitività dei mercati, favorendo le grandi multinazionali contro le piccole imprese che non riescono con altrettanta facilità ad eludere le tasse o a delocalizzare. In questo campo dunque si può agire, ma farlo da soli rischierebbe di essere pericoloso.
Volgiamo allora lo sguardo altrove, ed in particolare alla tassazione su consumo e reddito, due strumenti che sono agli antipodi di politica economica. Come ben sappiamo le tasse sul consumo in questi anni sono aumentati praticamente in tutta Europa, uno degli strumenti principali dell’austerity. Ma più in generale, il Fmi fa notare come negli ultimi 30 anni una larga parte del carico fiscale si sia spostato dalle imposte dirette – sui redditi – a quelle indirette, sui consumi, invertendo dunque il trend di progressività fiscale che era stato il supporto centrale del capitalismo democratico. Il tutto accompagnato da un notevole abbassamento delle aliquote sui redditi più alti. E’ proprio qui, allora che bisognerebbe intervenire per cercare di conciliare le logiche di bilancio ed il tema centrale del capitalismo contemporaneo, la diseguaglianza. Alzare le tasse sui redditi più elevati renderebbe più equo ma anche più efficiente la nostra economia. Nell’America del dopoguerra – non proprio un paese socialista – la tassa sull’ultimo scaglione di reddito raggiungeva il 90%, ma anche senza arrivare a questi livelli si potrebbe riportarla ora al 60%, un aumento deciso ma non drammatico rispetto alla tassazione che si aggira tra il 40 ed il 50% in quasi tutti i paesi europei. Intervenendo semplicemente sull’1% più ricco si porterebbero a casa qualche miliardo di euro, utili per esigenze di bilancio e per ridurre la diseguaglianza galoppante. Ancora di più, però, si potrebbe fare tassando la ricchezza, che è ancora peggio distribuita del reddito, basti pensare che in Italia la ricchezza netta nelle mani del 10% più ricco è oltre il 50% del totale contro appena il 10 del 50% più povero (e peggio ancora va negli Stati Uniti, dove la porzione di ricchezza del decimo più ricco della popolazione raggiunge il 75%). Per quanto riguarda quella finanziaria, il discorso è simile a quello precedente, si richiede una rafforzata cooperazione tra gli stati così da evitare massicce fughe di capitale verso paesi a tassazione ridotta. Ma il Fondo suggerisce altri strumenti. Prima di tutto la tassa di successione, uno dei maggiori scandali italiani e, non a sorpresa, cavallo di battaglia di Berlusconi&C. La tassa di successione è uno dei fondamenti del liberalismo, non del socialismo, ma in Italia tutto questo appare estraneo al sentire comune: lo scopo di tale tassa è, in realtà, di dare a tutti le stesse opportunità ed aumentare la mobilità sociale. Semplicemente aumentando la tassa ai livelli di altri paesi occidentali si potrebbe ricavare entrate per quasi mezzo punto di Pil, altri 7 miliardi di euro. Ancora meglio se si attaccasse la ricchezza netta delle fasce più ricche: una tassa dell’1% sul patrimonio del top 10% porterebbe nelle casse dello Stato un altro punto di Pil, o 15 miliardi di euro, e siamo già ad oltre 25 miliardi di euro raccolti con modeste tassazione sulla parte più ricca della popolazione, che tanto ha accumulato in questi decenni di vacche grasse, per loro. Altro che gli 11 miliardi della anemica manovra di Letta – e senza tagli sociali e con minimi effetti distorsivi sull’economia reale.
Infine, ed è in realtà l’unico punto sollevato dal Corriere, il Fondo si spinge oltre e si azzarda a suggerire una patrimoniale una tantum in grado di riportare il debito ai livelli precedenti la crisi. Gli economisti del Fmi ipotizzano una tassa di circa il 10% sui possessori di ricchezza netta positiva, cosa che in Italia andrebbe naturalmente rimodulata per evitare una tassa impagabile per molte famiglie di classe media, possessori di casa ma senza la liquidità e la reddittività necessaria per pagare tale tassa. Ci sembra però un’ottima notizia che anche a Washington cominci ad andare di moda la parola patrimoniale. Come ben spiegato dal Fmi non si tratta di nulla di nuovo o rivoluzionario, ma anzi di un espediente già usato in passato per ridurre debiti troppo grandi. Una via certo non facile ma, in fondo, logica: i soldi vanno cercati nelle tasche di chi ce li ha.
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