Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 17 dicembre 2011

78 PARTITI AD ATENE LANCIANO NUOVA INTERNAZIONALE

Fonte: controlacrisi
Ricostruire un "Movimento comunista e rivoluzionario internazionale nel 21ˆ secolo, all'altezza dei tempi". E' l'impegno di 78 Partiti comunisti e operai di 59 paesi, assunto nel corso di un incontro svoltosi ad Atene dal 9 all'11 dicembre sul tema: "Il socialismo e' il futuro". I Partiti comunisti - presenti delegazioni Cuba al Vietnam, dalla federazione russa alla Spagna, dal Brasile alla Grecia, per l'Italia era presente una delegazione del Pdci e del PRC - sottolineano "il grave e rapido approfondimento della crisi sistemica del capitalismo e l'offensiva articolata dell'imperialismo su scala mondiale", indicando "la necessita' dello sviluppo e del rafforzamento di un ampio movimento di lotta capace di resistere agli attacchi ai diritti sociali e del lavoro, ai diritti democratici e alla sovranita' di popoli".

Per favorire il raggiungimento di questi obiettivi i comunisti potranno "in modo flessibile" puntare "alla convergenza politica e programmatica con altre forze anticapitalistiche, antimperialiste, progressive e democratiche", a patto che cio' "consenta un avanzamento effettivo sul terreno della pace e del progresso sociale e democratico, contro quelle si presentano come le minacce reazionarie piu' pericolose". Infatti, "diventa sempre piu' evidente agli occhi di milioni di lavoratori che questa e' una crisi di sistema", che "mette in evidenza i limiti storici del capitalismo e la necessita' del suo rovesciamento. La ristrutturazione capitalista e le privatizzazioni vengono promosse al fine di massimizzare il profitto da parte del capitale, di garantire forza lavoro piu' a buon mercato e la regressione a decenni addietro dei diritti sociali e del lavoro. Senza il ruolo di primo piano dei partiti comunisti e operai e dell'avanguardia di classe, la classe operaia e i popoli saranno vulnerabili. Solo il socialismo puo' creare le condizioni affinche' guerra, disoccupazione, fame, miseria, analfabetismo, insicurezza per centinaia di milioni di persone e distruzione dell'ambiente siano sradicate dalla faccia della terra".

Per il responsabile esteri del Pdci, Fausto Sorini, sottolinea come in Italia la ricetta del "governo Monti configuri una sorta di 'soluzione greca in salsa italiana', con una linea di massacro sociale che scarica sui ceti popolari i costi della crisi del sistema", ha evidenziato che la questione in campo per il movimento comunista internazionale "non e' solo quella di rafforzare il proprio profilo politico e ideologico, ma soprattutto di essere in grado come comunisti, in un quadro di alleanze e convergenze sociali e politiche democratiche e progressive, di essere promotori di grandi movimenti di lotta, con basi di massa e non meramente testimoniali".

Lotte di classe nel default

di Andrea Fumagalli. Fonte: ilmanifesto
Salari, servizi e diritti sociali. Sono le vittime sacrificali del pareggio di bilancio. Un sentiero di letture a partire dal volume di François Chesnais «Debiti illegittimi e diritto all'insolvenza» L'insolvenza individuale come consapevole atto di critica e di contrasto al biopotere dei mercati finanziari

La crisi dei debiti sovrani europei ha portato alla ribalta termini che sino a poco tempo erano conosciuti solo agli addetti ai lavori. Tra questi, default e insolvenza sono diventate parole assai comuni anche all'interno dei movimenti sociali che hanno dato vita alle grandi manifestazioni del 15 ottobre scorso. È quindi con perfetto tempismo che DeriveApprodi pubblica la traduzione del libro di François Chesnais Le dettes illégitimes (uscito in Francia nell'estate 2011) con l'accattivante titolo: Debiti illegittimi e diritto all'insolvenza (pp. 160, euro 10).
Il pamphlet di Chesnais permette di fare chiarezza sull'uso, spesso distorto, del termine insolvenza. Tale termine può essere riferito a due contesti molto diversi tra loro: quello micro e quello macroeconomico. A livello micro, l'insolvenza è una pratica illegale che viene solitamente agita in momenti di bisogno quando il flusso di reddito percepito non consente di far fronte agli impegni di pagamento per le spese correnti (mutuo o affitto, bollette, ecc.). Non si tratta di una novità. La differenza è che oggi, in un contesto di individualizzazione (del lavoro e della proprietà), a fronte dello smantellamento del pubblico, la pratica dell'insolvenza dovrebbe essere estesa a tutto il sistema economico.

La logica avvelenata della finanza
Nel secondo numero dei «Quaderni di San Precario» (http://quaderni.sanprecario.info), viene provocatoriamente sostenuto che il diritto fallimentare, in Italia pensato solo per le imprese, possa essere esteso anche agli individui precari. Non è altro che il riconoscimento di un fondamento del capitalismo, ovvero, come scrive Maurizio Lazzarato nel suo ultimo saggio (La Fabrique de l'homme endetté, Editions Amsterdam, Paris), che «a fondamento della relazione sociale, non c'è la uguaglianza (dello scambio), ma l'asimmetria del debito/credito, che precede, storicamente e teoricamente, quella della produzione e del lavoro salariato». In altre parole, l'uomo nel capitalismo è «strutturalmente» indebitato, perché solo dall'indebitamento nascono l'accumulazione e il plusvalore. La differenza, nel capitalismo proprietario contemporaneo (dove il precario deve diventare impresa individuale), è che siamo tutti indebitati. Una condizione, dunque, che va ben al di là dei bilanci in rosso delle imprese e dello Stato. Da questo punto di vista, esercitare il diritto all'insolvenza è una forma di contropotere che interviene (quando organizzata collettivamente e coscientemente) nell'ambito del rapporto di sfruttamento, puntando aa una riappropriazione, seppur indiretta, di salario e reddito. L'insolvenza individuale potrebbe così minare il «biopotere» dei mercati finanziari e cogliere il significato vero della finanziarizzazione: quello di comandare il rapporto capitale-lavoro.
Diverso è invece il contesto macroeconomico, dove di insolvenza non si parla. Si parla piuttosto di default, ovvero di (possibile) fallimento dello Stato. È necessario specificare questo punto per evitare che sorgano equivoci: una dichiarazione di fallimento, ovvero la decisione politica di non pagare parte del debito o degli interessi sul debito, implica la sua rinegoziazione e non il suo «mancato pagamento» (come avviene per il privato). Tanto è vero che i vari esempi che spesso sono citati come casi di «insolvenza» (Argentina, Equador, Islanda), in realtà non hanno portato al non pagamento del debito, ma ad una sua ristrutturazione e/o congelamento, magari a condizioni più favorevoli. Non è un caso che Chesnais nel libro in questione non citi mai il termine «insolvenza».
TAI WHO? PENSIONER

venerdì 16 dicembre 2011

Scelte impopolari

Alberto Burgio. Fonte: esserecomunisti
Nel frastuono che ha accompagnato l’uscita di scena di Berlusconi e l’insediamento del «governo dell’emergenza» un’affermazione era passata inosservata, benché a insistervi fossero stati, nell’ordine, leader della vecchia maggioranza e della nuova, capitani d’industria e autorevoli opinion makers: il governo Monti – aveva decretato un coro greco – è chiamato a compiere «scelte impopolari». Ora questa minacciosa espressione è tornata sulla bocca dello stesso presidente del Consiglio e c’è da augurarsi che non la si prenda sottogamba, tanto più se si considera il contesto nel quale è stata proferita.

Che cosa s’intenda per scelte impopolari lo sappiamo bene. Benché la camicia di forza della «stabilità» aggraverà la recessione, impedirà la riduzione del debito e renderà sempre più ingestibile la finanza pubblica; benché l’anarchia del mercato finanziario continuerà indisturbata a seminare miseria e disoccupazione, deindustrializzazione e distruzione dei diritti del lavoro (Marchionne non si muove nel vuoto pneumatico); benché la cecità delle leadership europee rischi di causare l’implosione della moneta unica sotto le macerie dei bilanci statali in dissesto, nessuno tra coloro che hanno il potere di decidere sembra sfiorato dal dubbio. Bisogna tagliare ancora stipendi e pensioni, servizi e organici; bisogna precarizzare tutto il lavoro e aumentare la pressione fiscale (generalizzando l’Ici e aumentando l’Iva, non certo introducendo la Tobin tax, la patrimoniale e il conflitto d’interessi tra i contribuenti); e bisogna blindare la politica economica costituzionalizzando Maastricht. Dopo 35 anni di «sacrifici» imposti al lavoro dipendente (in Italia si è cominciato con la svolta dell’Eur nel nome delle compatibilità), la prospettiva è quella di altri sacrifici per il lavoro dipendente, nel nome del risanamento o del rigore o dell’interesse generale: se la santabarbara della collera popolare non salta per aria, vuol dire che c’è ancora del succo da spremere, poi si vedrà.

Che per i sacerdoti del Tempio monetarista non vi sia alternativa alla lieta corsa verso il disastro, è chiaro da tempo. Ma quando in democrazia si parla programmaticamente di scelte impopolari, e quando a teorizzarle è un capo di governo che si dichiara indifferente al controllo democratico (che cos’altro significa in italiano dirsi disinteressato agli orientamenti dell’elettorato?), qualche interrogativo ce lo si dovrebbe pur porre. Salvo immaginare di trovarsi di fronte a un popolo di masochisti, si sta progettando di andare contro la volontà dei cittadini: la cosa fa problema o no?

Ammazzateli tutti ... e subito.

FMI ALLA GRECIA: LICENZIATE TUTTI!
La Grecia ha bisogno di infrangere il tabù dell'inviolabilità del posto di lavoro dei dipendenti statali, è questo, il duro messaggio recapitato ieri da Paul Tomsen, rappresentante del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), alla Grecia. Tomsen è tornato sulla questione della necessità di attuare in Grecia nuove misure di austerità, proponendo al governo un taglio drastico del settore pubblico tramite l'abolizione o la chiusura degli Enti statali e il licenziamento dei dipendenti. «Siamo preoccupati se non saranno accelerate le riforme strutturali nel settore pubblico, il deficit si fermerà intorno al 10% del Pil. Lo abbiamo già detto l'anno scorso - ha aggiunto Tomsen -. Non ci sono più soluzioni facili nè misure facili e tanto meno spazio per tagli orizzontali». Discorsi di questo tipo molto presto si sentiranno anche in Italia...
====
La prossima sara’: troppi disoccupati, costano troppo per mantenerli in vita, ammazzateli tutti !!! … e niente funerali, sono un lusso: fosse comuni …

Gli indignati conquistano la prima pagina.

di Andrea Marinelli. Fonte: ilmanifesto
Il manifestante è stato scelto come personaggio del 2011 per la rivista americana Time. È un manifestante generico, che nella sua immagine raccoglie insieme i ragazzi di Piazza Tahrir, al Cairo, e gli indignati newyorkesi di Zuccotti Park, attraversando mezzo mondo. Dal 1927, quando la copertina andò all'aviatore Charles Lindbergh, l'uomo che a bordo dello Spirit of Saint Louis volò solitario da Long Island a Parigi, la rivista americana assegna il prestigioso riconoscimento a chi ha avuto il maggiore impatto nell'arco dei dodici mesi. In questo anno di proteste e rivoluzioni che hanno fatto rialzare la testa a popolazioni per troppo tempo vittime di sanguinari regimi o di promesse non mantenute, la copertina di Time non poteva che essere dedicata a un altro spirito, quello dei manifestanti, persone che hanno dimostrato come «l'azione individuale possa portare a un cambiamento collettivo e colossale», spiega la rivista. «Nessuno poteva immaginare che il fruttivendolo tunisino che si diede fuoco in piazza in una cittadina che a malapena compare sulla cartina avrebbe fatto scoccare la scintilla delle proteste che hanno rovesciato i dittatori di Tunisia, Egitto e Libia e fatto vacillare i regimi di Siria, Yemen e Bahrain», scrive Time. «O che lo spirito di dissenso avrebbe spronato i messicani a lottare contro i cartelli del narcotraffico, i greci a marciare contro i propri leader irresponsabili, gli americani a occupare le piazze pubbliche per protestare contro la disuguaglianza dei redditi e i russi a schierarsi contro un'autocrazia corrotta». Da quando, un anno fa esatto, Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Ben Arous, lo spirito della sua protesta ha contagiato decine di paesi e milioni di persone, dimostrando però come tutte queste rivoluzioni abbiano qualcosa in comune. Nonostante fossero concepite «diversamente nelle diverse piazze, l'idea di democrazia era presente in ogni raduno», spiega la rivista. Il manifestante della copertina di Time incarna quindi la protesta, il dissenso, la contestazione e l'onda di indignazione che ha travolto i giovani della primavera araba e dell'autunno americano, in questa rivoluzione del ventunesimo secolo. «Ovunque, quest'anno, le persone si sono lamentate per il fallimento della leadership tradizionale e l'incoscienza delle istituzioni», questo sentimento collettivo «è la ragione per cui non abbiamo selezionato una persona quest'anno», spiegano a Time. «La leadership è venuta dal fondo della piramide, non dalla cima». Sono le piazze e le collettività a prendersi così il riconoscimento della rivista americana, che con questa copertina premia l'impegno partito dal basso e la lotta contro le eterne promesse non mantenute dei politici in tutto il mondo.
Il manifestante del 2011 ha avuto il merito di portare la sua protesta nelle piazze e nelle case di tutto il pianeta, cambiando il modo di combattere l'economia e le dittature. Le manifestazioni di questo anno di fuoco sono state diverse da quelle del 1968 e del 1989, sono state parte di un movimento globale, diffuso anche grazie alle nuove tecnologie.
«In tutto il mondo le proteste del 2011 hanno condiviso la consapevolezza della corruzione e il malfunzionamento del sistema politico ed economico, finte democrazie che giocano a favore di ricchi e potenti per impedire ogni cambiamento significativo».

USA LEAVING FALLUJA
"SOLDIERS, YOUR MISSION A STRAORDINARY SUCCESS!"
"IT IS TRUE, WE ARE GOING TO HATE YOU FOR CENTURIES!"

giovedì 15 dicembre 2011

Le escort vogliono pagare le tasse.

di Eleonora Bianchini Fonte: ilfattoquotidiano
L’appello di Marina: “Fateci aiutare il nostro Paese”

La proposta arriva direttamente da una prostituta che ha lanciato la proposta dalle colonne del Gazzettino. Secondo Marina“in Italia, la legalizzazione della prostituzione porterebbe tanti miliardi di euro nelle casse dello Stato"

“Credo che il Governo Monti debba includere nella sua Manovra sul lavoro anche la possibilità di legalizzare la Prostituzione, che significa altresì far emergere il ‘lavoro sommerso’ di circa 300.000 individui fra donne/trans/uomini che oltretutto risultano per lo Stato disoccupati. Legiferiamo sulla Prostituzione, fateci pagare le tasse, fateci aiutare il nostro Paese”. Chi scrive è Marina: si definisce “orgogliosamente una ‘puttana’” e ha inviato al Gazzettino.it una lettera. Con una richiesta: visto il momento di crisi economica in cui la manovra mette le mani nelle tasche dei lavoratori italiani, anche lei vuole contribuire pagando i contributi. E per farlo bisogna legalizzare il mestiere più antico del mondo.

“Appartengo a una categoria di persone che tanto vorrebbe pagare le tasse, ma che in questo paese non gli viene permesso”, scrive Marina. E spiega che “in Italia, la legalizzazione della prostituzione non solo porterebbe tanti milioni, se non miliardi di euro, nelle casse dello Stato – scrive Marina -, ma risolverebbe indirettamente anche il problema dello sfruttamento della prostituzione e della tratta di esseri umani dei quali sono vittime numerose ragazze non solo dell’Est Europa, ma anche del Centro Africa e sempre più anche cinesi”. Oltre a dare un giro di vite allo sfruttamento delle straniere, la prostituta ricorda che “negli ultimi 20 anni circa davanti a un problema si è preferito chiudere gli occhi facendo finta che non ci fosse, piuttosto che adottare delle valide strategie per risolverlo”.

L’occhio del padrone

Marco D'Eramo - il manifesto
Commettiamo un errore di prospettiva quando scrutiamo la politica della Germania in un’ottica tutta europea. Nel senso che europeo è il terreno di manovra, ma mondiale è la posta in gioco. Lo si può constatare meglio se l’andamento della crisi lo si osserva non da Roma o Parigi (o persino da Londra), bensì da Washington. Gli Stati uniti non hanno infatti dimenticato la mancata adesione tedesca, questa primavera, alla campagna Nato contro la Libia. All’epoca nessuno provò a riflettere su cosa implicasse quel gesto che nel passato sarebbe stato inimmaginabile. È vero che nel 2003 Gerhard Schröder si era dissociato dall’invasione dell’Iraq, ma lo aveva fatto insieme alla Francia, in nome di una posizione comune. Stavolta invece la Germania di Angela Merkel si smarcava proprio dai suoi partner europei.
Quel gesto lasciò trapelare, per la prima volta in modo palese, la nuova assertività della Cancelleria tedesca. Mostrò altresì che le critiche che i responsabili tedeschi da due anni non risparmiavano al capitalismo statunitense, non erano le solite ostentazioni da primo della classe che alza la mano per dire alla maestra che lui lo sapeva già. O almeno non erano solo questo.
Certo, Berlino è stata presa alla sprovvista dalla crisi finanziaria quanto tutte le altre capitali, e lo dimostrano i massicci aiuti di cui necessitarono le banche tedesche a cavallo del 2008-2009. Ma a poco a poco sulla Sprea ci si convinse che la crisi poteva essere sfruttata per conseguire infine quel che, dalla caduta del muro di Berlino (1989), rimane l’obiettivo primario di tutti i cancellieri tedeschi, quale che sia il loro colore politico perché su questo punto l’accordo dell’establishment politico tedesco è totale, e bipartisan. L’obiettivo è la reinserzione a pieno titolo della Germania nel novero delle grandi potenze planetarie, ovvero l’abrogazione totale dell’ordine uscito dalla seconda guerra mondiale e dagli accordi di Potsdam (1945).
Infatti, per capire la gestione tedesca dell’attuale crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», bisogna tenere a mente che se oggi c’è l’euro è perché nel 1990 François Mitterrand lo pose come condizione per consentire alla riunificazione tedesca: l’euro è cioè l’ultima espressione dell’ordine mondiale post-bellico.
Una Germania unita e sganciata dall’Europa era troppo potente e troppo pericolosa per i suoi vicini. Il presidente francese pensava perciò di imprigionarla in una forzosa solidarietà europea, nella camicia di forza di una moneta comune. Ma che i tedeschi avessero una propria agenda lo si vide fin dai primi anni ’90 dalla fretta (a volte improvvida) con cui Berlino spinse per l’allargamento a est dell’Unione europea, come per crearsi un hinterland con cui bilanciare il resto dell’Europa.
Perciò non dimentichiamo mai che l’euro è sentito dalla Germania come l’ultimo diktat derivato dalla sconfitta, come una prigione, cioè proprio quello per cui era stato pensato. Non è difficile perciò immaginare che i tedeschi provino una vera e propria Schadenfreude (termine che meravigliosamente sintetizza la ‘gioia provata per le disavventure altrui’) quando l’euro si ritorce contro chi l’aveva imposto e da camicia di forza della potenza tedesca diventa invece l’arma di punta del suo arsenale economico-finanziario.

Brancaccio: "In arrivo in Italia una stagione di acquisizioni da parte di capitali stranieri"

Fonte: controlacrisi
Dal vertice europeo è emerso di nuovo il dispotismo tedesco, corretto qua e là da elementi tesi più che altro ad abbassare la tensione che a risolvere i problemi. Tu cosa ne pensi?
Il vertice europeo ha dimostrato che ci sono due ordini di problemi che rimangono in sospeso e pressocché irrisolti: primo, tra “fondo salva stati” e Bce, non è chiaro se queste istituzioni avranno uno i mezzi e l’altra il mandato politico per potere contrastare le vendite al ribasso che sicuramente proseguiranno nel corso delle prossime settimane e nei prossimi mesi. Il vertice è stato sotto questo aspetto assolutamente ambiguo e opaco e questo non fa altro che aizzare gli scommettitori. Il secondo problema è che le vendite al ribasso sicuramente si intensificheranno dal momento che dal vertice europeo l’unica cosa che è emersa con chiarezza è l’accentuazione del profilo restrittivo delle politiche di bilancio. Cioè di fatto, il vertice stabilisce che a seguito del pareggio di bilancio e a seguito dell’acquisizione delle sanzioni automatiche verso i paesi che non lo rispettano i singoli paesi saranno costretti ad intensificare l’autmento dei tagli alla spesa e l’aumento delle tasse. La conseguenza sarà molto semplice, si ridurranno le capacità di spesa delle famiglie e le propensioni agli investimienti, l’occupazione e la produzione. Crolleranno i redditi e di conseguenza diventerà più difficile rimborsare i debiti sia pubblici che privati. In questo scenario è evidente che gli speculatori sono indiotti a vendere.

Quale ruolo ha giocato il presidente Mario Monti?
Per quanto riguada la linea del governo Monti purtroppo dobbiamo rilevare che ha scelto di assecondare pressoché integralmente la linea tedesca che si è imposta al vertice europeo. L’unica razionalità che potremmo rilevare in questa scelta dovrebbe prevedere il seguente scambio: a fronte delle maggiori restrizioni a carico dell’Italia la Germania si renderebbe disponibile a mutare il quadro di politica economica europea in senso espansivo e non più restrittivo. Solo in questa logica di scambio politico la linea politica italiana potrebbe avere un senso ma questo scambio non lo vediamo. E quindi l’unica spiegazione che riusciamo a darci è che di fatto allo scenario di recessione ci si è rassegnati e che i gruppi dominanti cercheranno di scaricare i costi sui soggetti più deboli.

Appunto, ormai scaricare sugli ultimi è l’unica cosa che mette d’accordo centrodestra e centrosinistra...
Di fatto ci troviamo al cospetto di uno scontro tra capitali che è fondamentalmente lo scontro che avviene tipicamente nelle fasi di crisi dell’accumulazione capitalistica. Nello scontro tra capitali in atto ci troviamo di fronte ai capitali situati nelle aree centrali che riescono a gestire la crisi ecnoomica con minor disagio dal momento che la liquidità si trova prevalentemente nelle loro mani. E la liquidità consente di prendere tempo. E invece i capitali situati nelle aree periferiche sono prevalentemente indebitati. Quello che sta avevnendo di fatto è che soprattutto nelle aree periferiche del continente i capitali cercano di scaricare le difficoltà riducendo il costo del lavoro e dello stato sociale fino a i loro minimi termini. La cosa più inquietante è che questa strategia, già di per se drammatica, potrebbe in ultima istanza rivelarsi fallimentare perché non fa altro che accentuarare il profilo della crisi e rischia di condurci in quella che viene indicata come una deflazione da debiti nella quale i capitali più fragili sono destinati comunque a soccombere. E ce ne accorgeremo presto, perché è probabile che di qui a poco cominceranno a verificarsi nuove acquisizioni bancarie.

La rotta d'Europa, tre riflessioni urgenti

di Rossana Rossanda. Fonte: sbilanciamoci
La crisi del capitalismo non ha antagonisti: il 99% delle persone ne è vittima, ma la metà di queste non lo sa. Come interpretiamo la crisi e la sua dimensione politica? Che fare? Quali proposte "riformiste" possono fermarla e cambiare direzione allo sviluppo? Quali forme della politica possono emergere, tra declino dei partiti e difficoltà dei movimenti?

La giornata di Firenze, il 9 dicembre, organizzata su "La Rotta d'Europa" merita qualche riflessione più seria di quella che le abbiamo dedicato sabato scorso. Essa incrocia alcuni temi maggiori della vicenda delle sinistre negli ultimi anni, noi inclusi.

La prima è la valutazione della crisi: perché, da quando, da chi e come essa viene giocata. La chiamiamo "crisi del capitalismo": se con questo si vuol dire che è una crisi "nel capitalismo", va bene ma se sottintediamo che il capitalismo è in crisi non va bene affatto. Su questo c'è stata fra i convenuti una certa chiarezza. Il sistema attraversa le crisi senza perdere la sua egemonia se non si scontra con una soggettività alternativa, o rivoluzionaria, al suo livello. Oggi questa non c'è. È vero che il 99 per certo delle popolazioni è vittima di questa crisi, ma più di metà di questo 99 per cento non lo sa. E si tarda a individuare perché, nel rapporto di forze sociali, siamo tornati indietro di un secolo. E anche le più generose reazioni puntuali – operaie quando, come nel caso della Fiat, il lavoro è direttamente attaccato, o sui beni comuni che si vogliono sottomessi al profitto privato, o contro la corruzione – ma anche le più vaste e giovanili, del tipo "Indignatevi", sono destinate a essere travolte se non individuano chiaramente il meccanismo di dominio avversario.
Questo non è facile. Una delle carte vittoriosamente messe in campo dal capitale è la tesi di Fukujama che, con la caduta dei "socialismi reali", ai quali erano direttamente o indirettamente legate le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, si era alla "fine della storia". Naturalmente non è così, la storia non finisce. Ma è certo che il capitale ha reagito prima di noi alla crescita di un anticapitalismo diffuso culminato dalla fine dei colonialismi al '68, e la sua aggressività ha cambiato l'organizzazione del lavoro, mondializzato a sua immagine e somiglianza il pianeta, dilatato le inuguaglianze, ribaltato la cultura politica del secondo dopoguerra. E non solo: ha modificato i suoi equilibri interni, enfatizzando lo spazio della finanza rispetto alla cosiddetta "economa reale". Di qui il ridursi delle alternanze politiche fra destra populista e destra liberista, Berlusconi e Monti, con conseguenti devastazioni della libertà di uomini e donne come eravamo giunti a concepirla.
TAX EVADER
SELF EMPLOYED
EMPLOYED
JOBLESS
PENSIONER

mercoledì 14 dicembre 2011

L'esperienza argentina e la crisi europea

Scritto da T. Lukin - J. Lewkowicz Fonte: megachip
"Con la guida del Fmi, i risultati furono disastrosi". Intervista a Joseph Stiglitz
di Tomas Lukin e Javier Lewkowicz tradotto da comedonchisciotte.org.

Il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz rivendica la strada scelta dall’Argentina dopo la fine della convertibilità e il default, "anche se in tanti hanno idee diverse su quelle che debbano essere le buone ricette economiche".

Joseph Stiglitz è un militante contro le ricette di aggiustamento fiscale che propongono una "svalutazione interna" grazie alla diminuzione dei salari e alla sottomissione dei debitori nei confronti dei creditori.

Anni fa l'Argentina soffrì di questa malattia come nessun altro paese al mondo, una situazione che riuscì a lasciarsi alle spalle grazie all'applicazione di una serie di politiche economiche di segno opposto, come il ripristino della competitività partendo da una forte svalutazione, compensata dall’incremento della spesa pubblica e una politica dei redditi di stile keynesiano, oltre a una forte ristrutturazione del debito estero che ripartì i costi del default.

Per questo motivo Stiglitz è diventato un difensore del modello argentino. "Negli anni '90, fu proprio il FMI a guidare l'Argentina nell’applicazione delle politiche di austerità, con risultati disastrosi. Nell’eurozona non sono riusciti ad imparare questa lezione. Ancora una volta, l'Europa dovrebbe prestare attenzione alla crescita argentina, mostrandole che c'è vita anche dopo un default", ha spiegato in un reportage concesso in esclusiva a Pagina 12.

Alle prime ore del mattino e appena prima di partire verso il Cile, il Premio Nobel del 2001, mentre assaporava all'aperto un'abbondante colazione all’americana con pane, uova poché, lardo e frutta, ha analizzato a fondo la crisi dell'euro, la possibile uscita delle economie più deboli, l'incapacità dei governi di Germania e Francia e i nuovi governi "tecnocratici" che sono saliti al potere in Italia e in Grecia. Stiglitz ha ricordato l’articolo che questo quotidiano realizzò ad agosto nella città tedesca di Lindau, dove si tenne la conferenza mondiale dei Premi Nobel per l’Economia. Ha ammesso, in rapporto a quella chiacchierata, che la sua percezione della crisi europea è ancora più negativa: "L'Europa e l'euro sono sulla strada del suicidio." Ha anche raccomandato alla Grecia un’uscita dalla moneta comune.

Ha anche sottolineato l’importanza del favorevole contesto internazionale per spiegare il successo economico argentino, riferendosi all'inflazione e ai profitti delle multinazionali. Questa settimana Stiglitz si è incontrato con presidente, Cristina Fernández: "Sia Néstor, quando ebbi l'opportunità di conoscerlo, che Cristina mi sono sembrate due persone molto interessanti. Ma lei è più passionale."

Signoraggio bancario e debito pubblico: truffa a norma di Legge ?

di Piero Angelo Tartaglino. Fonte: altritasti
Qualche tempo fa, per caso come sempre accade, navigando sulla rete mi sono imbattuto in un libro “e-book” ovvero un libro scaricabile liberamente in formato pdf senza pagare nulla. Il libro è stato scritto da un uomo che mi da l’idea di essere un “illuminato” per la semplicità e chiarezza con cui tratta un tema molto complesso come il signoraggio bancario. L’uomo è Giacinto Auriti ed il libro si intitola “Il Paese dell’utopia”(1). Terminata la lettura del breve saggio tanti pensieri mi hanno dominato per un po’: come sarà stato possibile? Che nessun altro se ne sia accorto? Sarà vero ciò che afferma Auriti? ...

Comincio la mia indagine personale e scopro che nella rete vi sono molti siti dedicati al signoraggio (2), che vi sono petizioni (3), che vi sono stati Disegni di Legge per abolirlo (4), che vi sono state richieste parlamentari per limitarlo (5) e addirittura vi è una Sentenza di Cassazione che ne convalida la pratica in Italia per “assenza di giurisdizione”(6).

Sia chiaro non è mio intento giudicare le sentenze (anche perché non ne sarei in grado), però sarebbe opportuno che vi fosse un po’ di dibattito su un tema alquanto poco conosciuto nonostante gli enormi risvolti che implica nella nostra vita di tutti i giorni.

Sperando di aver incuriosito all’argomento, vi auguro buona lettura.

(1) http://www.signoraggio.com/auriti/ilpaesedellutopia_auriti.pdf

(2) http://www.disinformazione.it/intervistasaba.htm

(3) http://www.petizionionline.it/petizione/petizione-popolare-per-la-proprieta-popolare-della-moneta/4295

(4) http://www.teodorobuontempo.it/wp-content/uploads/2011/11/15-PDL-778-moneta-popolare.pdf

(5) http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emend&leg=15&id=292279&idoggetto=395258

(6) http://www.bancaditalia.it/bancomonete/signoraggio/cass_SS_UU_16751_06.pdf

Grecia. La Troika ordina: 150 mila licenziamenti e nuove tasse

di Marco Santopadre Fonte: contropiano
I vampiri della troika pretendono nuovo sangue e 'chiedono' a Papademos di cacciare 150 mila dipendenti pubblici. Ondata di nuove tasse e rincari. La Grecia si conferma il paese con il più alto tasso di suicidi ...

I rappresentanti della famigerata troika - Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea - tornati ieri ad Atene per controllare il lavoro dell’uomo della Bce Lukas Papademos, ha chiesto esplicitamente al governo di Atene il licenziamento di altri 150 mila dipendenti statali entro il 2015 per ridurre drasticamente la spesa pubblica, precisando che questa è solo una delle misure che i rappresentanti dei creditori internazionali hanno chiesto durante il loro incontro con il ministro della Riforma Amministrativa, Dimitris Reppas. Il ministro ha spiegato ai rappresentanti della troika - Matthias Mors, Mark Flamagan e Bob Traa - che la misura della sospensione temporanea dal lavoro di circa 30 mila dipendenti pubblici già decisa non ha dato i risultati desiderati perché molti lavoratori sono riusciti ad evitare la misura andando in pensione. In un paese che ha già un tasso di disoccupazione intorno al 20% il licenziamento drastico di 150 mila dipendenti pubblici potrebbe rappresentare la mazzata finale.

Come se non bastasse, le decisioni dei governi Papandreou e Papademos comporteranno a partire da gennaio una nuova ondata di tasse. I redditi dei contribuenti greci si ridurranno ulteriormente l'anno prossimo a causa delle decine di nuove imposte che saranno costretti a pagare per far sì che il governo riesca ad ottenere circa 2 miliardi di euro. In particolare i lavoratori dipendenti e i pensionati subiranno un nuovo assalto alle loro tasche perché ogni mese saranno costretti a pagare una tassa straordinaria che si aggiunge a quella comunale sugli immobili risalente al 2009 e alle tasse di proprietà per gli anni 2010 e 2011. Fra le nuove tasse c’è il cosiddetto “contributo di solidarietà” (per il triennio 2010-2012) alla quale si aggiungerà il significativo abbassamento dell'esenzione fiscale, e l'aumento delle quote annuali per l'esercizio di una professione. Il nuovo sistema fiscale sarà particolarmente duro per le famiglie con tre o più figli in quanto dovranno pagare un'imposta addizionale sul reddito che andrà dai 540 ai 2.750 euro all'anno.

Anche le tariffe dell'elettricità sono destinate ad aumentare sensibilmente a partire da gennaio anche se il governo e l'azienda elettrica statale devono ancora concordare esattamente quanto. Il rialzo potrebbe essere intorno al 10%, anche se quello deciso dalle autorità inizialmente era del 19%.

Una situazione insostenibile per centinaia di migliaia di famiglie che già si trovano nell’impossibilità di sopravvivere in un paese in cui i salari e le pensioni – per chi ce li ha – sono stati ridotti e i prezzi e le tariffe continuano a salire. Non stupisce che la Grecia abbia scalato le classifiche europee a proposito di suicidi. A confermare la tendenza già annunciata da numerosi studi e analisi è il gruppo di volontariato «Get Involved» che nel corso di una conferenza stampa svoltasi venerdì nell'Università di Atene ha fornito dati allarmanti. Secondo i dati forniti ai giornalisti, il tasso di suicidi in Grecia sarebbe aumentato del 40% nei primi cinque mesi del 2011 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e sarebbe ora in ulteriore rialzo. Uno studio pubblicato dalla rivista medica Lancet aveva già chiarito che i suicidi in Grecia erano già aumentati del 17% tra il 2007 e il 2009.

Difendersi con tutti i mezzi democratici rimasti.

Scritto da Giulietto Chiesa Giovedì 08 Dicembre 2011
Fonte: megachipinfo
Chi ci bombarda? Sono i “proprietari universali”. Non hanno patria e sono pochi, ma sono potenti. Nelle attuali circostanze il loro quartier generale è a Wall Street, New York, Stati Uniti d’America. I più importanti tra loro sono cittadini americani, ma la cosa è inessenziale. Essenziale è che il loro portavoce principale è il presidente degli Stati Uniti. Quello di turno. Essenziale è che possano usare le armi dell’America. Ci bombardano perché sono falliti, ma essendo i padroni del pianeta (o ritenendosi ancora tali, anche se non lo sono più) non hanno nessuna intenzione né di ritirarsi né di pagare. Vogliono anzi che paghiamo noi. E’ dal 2008 che hanno deciso – loro che controllano la finanza mondiale – che bisogna liquidare l’euro e l’Europa.

Perché il primo minacciava la supremazia del dollaro (che è la loro moneta) e perché la seconda, ogni tanto, fungeva da terzo incomodo.

Così, prima hanno comprato la seconda, mettendo alla sua testa i loro uomini, scrivendo le sue leggi, scegliendo i suoi statuti e imponendoli ai popoli europei; e adesso attaccano il primo, perché la partita finale vogliono giocarsela da soli contro lo yuan cinese.

Significa che l’attacco non è contro questa o quella classe sociale: è contro i popoli dell’Europa (e del mondo). E’ l’attacco dello 0,01% contro il 99,99%.

Voi penserete che è una cosa assurda. E lo è. Ma questo non significa che sia irreale. Per mantenere il loro potere hanno la necessità assoluta di schiacciarci, di toglierci ogni via di fuga, di cancellare ogni nostra libertà, di ridurre al minimo vitale il nostro tenore di vita, di privarci della nostra autonomia, dei nostri pensieri.

Ci dicono che “poi” cresceremo, ma i pochi che ancora ragionano sanno bene che, riducendo i nostri salari e le nostre pensioni, i servizi sociali e tutto ciò che ancora ci aiuta a vivere, non ci sarà nessuna crescita. Ci sarà, al contrario, la recessione. Ma, com’è ovvio, non possono dirci la verità. E la verità è che sono andati in fallimento da soli, senza che nessuno, da chissà quale pianeta, li ostacolasse. Hanno prodotto il disastro con le loro morbide mani. Noi non c’entriamo con le loro follie.

E’ vero: ci siamo indebitati, perché ci hanno istupidito tutti a tal punto che abbiamo speso più di quanto potevamo permetterci. La pubblicità e lo spettacolo sono stati le loro più potenti portaerei (e infatti dovremmo attaccare, quando cominceremo a difenderci, in primo luogo quelle). Il resto, cioè il lavoro sporco, coperto, lontano dalla luce del sole, l’hanno fatto fare ai loro maggiordomi, ben pagati, o ricattati, dopo essere stati corrotti, messi al comando dei paesi satelliti d’Europa.

Solo che – bisogna che ce lo ripetiamo, per non dimenticarlo – sono falliti. E non hanno nessuna ricetta per salvarsi. Neanche quella di sottoporci al macello sociale che stanno organizzando. Perché dalle misure di “austerità e di rigore” che pretendono di imporci si ricaverà, al massimo qualche centesimo per le caldarroste alla vigilia di Natale.

I proprietari universali, i banchieri globali non concepiscono la democrazia (sebbene possano pagare eserciti di servi che ne parlano ogni giorno per farci credere che viviamo appunto in democrazia). Un tempo ce l’avrebbero tolta con la forza, ma non ne avevano bisogno. Scelsero di preparare il terreno (quando sarebbe giunto il momento) per togliercela con il nostro consenso. Il momento è giunto. Loro sono arrivati al capolinea, e noi, a centinaia di milioni, viviamo dentro Matrix.

Ma anche Matrix comincia a sgretolarsi e dalle fessure entra l’aria, la puzza. Chi la sente si svegli. Dobbiamo cominciare a difenderci.

Fonte e commenti: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/08/difendersi-tutti-mezzi-democratici-rimasti/176161/.

CULTURE AGAINST HATE

martedì 13 dicembre 2011

«Occupy Wall Street è più forte che mai Il potere può sfrattare i corpi, non le idee»

Fonte: corriere
Parla Cornel West, il docente di Princeton «ideologo» del movimento: siamo di fronte alla terza rivoluzione americana
Dal nostro corrispondente ALESSANDRA FARKAS
NEW YORK – Dopo aver ispirato la recente «svolta Rooseveltiana» del presidente Barack Obama in Kansas, Occupy Wall Street (Ows) organizza massicce proteste per bloccare i porti della West Coast, da Oakland a Portland a Vancouver, minacciando persino di rovinare la festa al partito dell’asinello alla prossima Convention democratica del 2012. «Dopo gli sfratti e con l’arrivo dei rigori invernali il movimento è più forte che mai - spiega al Corriere il 58enne docente di Princeton Cornel West -. Il potere può sfrattare corpi, non un’idea, una visione, un magnifico risveglio collettivo delle coscienze democratiche che ha contagiato ogni angolo del Paese. Il genio è uscito dalla bottiglia e non puoi più farlo rientrare».

Laurea magna cum laude a Harvard conseguita in tre anni, una carriera accademica in università quali Yale e la Sorbona, trenta libri tra cui La Razza Conta (Feltrinelli) e La Filosofia Americana (Editori Riuniti), 25 film e tre album parlati, (di cui uno, Never Forget, con Prince) il filosofo-scrittore-critico-attore-attivista West è, insieme a Henry Louis Gates Jr. il più autorevole intellettuale nero d’America. Ciò non gli ha impedito di finire per ben due volte dentro, il 16 ottobre a Washington durante una manifestazione di Occupy D.C. e cinque giorni dopo ad Harlem mentre protestava con i giovani di OWS. «Ho partecipato a tanti raduni del movimento, da Amsterdam a Seattle, da Oakland a San Francisco e Portland - spiega West -, nessuno prima di me aveva portato la protesta in un scalino tanto alto della Corte Suprema di Washington».

Che cosa intende dire?
«Pochi sanno che non esiste la libertà di parola sui gradini della Corte Suprema, dove è vietato protestare. Mi hanno arrestato perché ho osato improvvisarvi un’arringa».

Come l’hanno trattata in carcere?
«A Washington sono rimasto in una cella sovraffollata per 25 ore, senza cibo e solo un bicchiere d’acqua. Nella prigione di Harlem ci siamo divertiti a cantare e discutere di politica. L’America ha avuto due rivoluzioni: contro la monarchia nel 1775 e contro la schiavitù nel 1860. Questa è la terza rivoluzione americana: contro l’oligarchia».

Una cura all’eurofollia

di Joseph Halevi. Fonte: ilmanifesto
È grazie alla fiducia nella crescita dell’export che Berlino ha deciso di traslare sul debito pubblico dei paesi più vulnerabili della zona dell’euro la crisi bancaria franco-tedesca. Ricordiamo che dal varo dell’euro nel 1999 i parametri sono stati violati più volte proprio per iniziativa di Parigi e Berlino. E’ successo nel 2002, l’anno in cui entrava in circolazione la nuova moneta, con tanto di annuncio formale da parte dei due pessimi amici, giustificato dalla recessione statunitense e dall’emergenza causata dall’11 settembre che aveva letteralmente travolto i mercati finanziari. Il rientro nei parametri e la volontà di imporli anche agli altri sono a loro volta collegati al successo nella dinamica delle esportazioni. Un ulteriore abbandono dei parametri riguardo il deficit pubblico si è ripetuto nel 2008, quando la Germania mise in cantiere un vasto programma di spesa per rilanciare l’economia.
Ogni qual volta il dettato dei trattati è in conflitto con i propri interessi, Berlino sceglie sempre, con ragione, quest’ultimi e volutamente impedisce con ogni mezzo agli altri paesi della zona dell’euro di fare altrettanto. In tal modo la Germania coniuga il potere oligopolistico delle suo capitalismo al monopolio istituzionale acquisito al livello europeo. Quest’ultimo è andato rafforzandosi sebbene l’Unione europea sia passata dai 12 stati del 1992 ai 27 attuali. A tale rafforzamento corrisponde l’indebolimento politico degli altri paesi, dell’Italia e della Francia in particolare (gli unici che possano contrastare l’egemonia tedesca in Europa), in misura maggiore del divario economico che li separa dalla Germania. L’accordo franco-tedesco siglato dai 17 paesi dell’eurozona, con l’aggiunta di 9 firmatari fuori all’Unione monetaria, non risolve la crisi bancaria, appunto perché si concentra sul debito pubblico.
I buoni del tesoro sono una componente importante del capitale bancario europeo e dopo due anni di sistematico attacco tedesco sono ormai ad alto rischio. Il contagio sta lambendo anche i titoli di Berlino i quali, essendo considerati sicuri, hanno un basso rendimento. Tuttavia un numero crescente di investitori istituzionali ora lo ritiene troppo piccolo. Infatti, in quanto appartenenti al paese che sta segando il ramo su cui è seduto (l’Unione europea), i titoli di Berlino vedono crescere l’incertezza circa la loro solidità (soprattutto se si conferma il calo della crescita tedesca). Come osserva John Authers sul Financial Times, per la Bce diventa impossibile aiutare le banche, erogando loro denari, senza sostenere i titoli pubblici. Ma è proprio ciò che Berlino e la Bundesbank – che non ha esitato un attimo a comperare i bund dopo il fallimento della recente vendita – non vogliono che venga fatto.
Le banche intendono evitare una massiccia svalutazione dei titoli pubblici in loro possesso e quindi continuano a liberarsene creando così un circolo vizioso. Da Bruxelles non è arrivata nessuna indicazione rassicurante in tal senso, pertanto, a breve termine, lo stato dei titoli pubblici non migliorerà, mentre si sta aggravando la crisi bancaria franco tedesca: la Commerzbank, le seconda in Germania, è con l’acqua alla gola. Non resta quindi che augurarsi il fallimento della strategia dell’export di Berlino – come forse indica il calo dell’export tedesco su base mensile per il mese di ottobre sebbene su base annua la dinamica sia ancora alquanto positiva ad eccezione delle esportazioni verso l’eurozona – sperando che agisca da cura all’eurofollia.

«Salva Italia»? Salvabanche.

di Leonardo Mazzei Fonte: ariannaeditrice
L'omino della Trilateral lo ha implorato: lo si deve chiamare «Salva Italia». Ma il suo decreto passerà alla storia più prosaicamente come «Salvabanche». Per uno che è stato messo lì proprio per questo non è poi così disdicevole. Che poi le salvi veramente è tutto da vedere, diciamo che si sta impegnando. Tuttavia è questa la sostanza che va afferrata. Il decreto della domenica sera non salverà né l'Italia, né l'euro, tanto meno le condizioni di vita degli italiani. Di certo non quelle del popolo lavoratore. Cercherà invece di dissetare i vampiri della City e di Wall Street, i sadici banchieri di Francoforte, i quasi coniugi Merkozy.

E darà un po' di respiro, non sappiamo per quanto, alle grandi banche del Belpaese, più o meno tutte con l'acqua alla gola, a partire da quella Banca Intesa che ha «prestato» al governo il signor Passera e la signora Fornero. A proposito del famoso conflitto d'interessi tanto evocato, ma oggi dimenticato, dagli antiberlusconiani alla Scalfari...
Da domenica sera anche i più duri di comprendonio dovrebbero avere inteso alcune cosette. Primo, che il governo Monti è il governo più classista ed antipopolare della storia repubblicana. Secondo, che la sbandierata «equità» altro non era che una scadente mercanzia propagandistica ad uso dei gonzi. Terzo, che il massacro sociale iniziato con le manovre d'estate ha compiuto un decisivo salto di qualità. Quarto, che il disastro che si dice di voler evitare è in realtà già iniziato.

La luna di miele del commissario Monti volge già al termine. Le sue carte sono ormai scoperte, ma questo non vuol dire che la stagione degli inganni sia finita. Anzi, il dibattito parlamentare alle porte ce ne offrirà un campionario vasto quanto non appassionante. «Noi siamo per correggerla un pochino», questa la frase più ardita del noto smacchiatore di leopardi di Piacenza. Un vero monumento alla specchiata qualità del politicantume attualmente in commercio.

Mentre Monti salvava le banche - pardon, l'Italia - la signora «equità», al secolo Elsa Fornero, piangeva sul blocco, da lei stessa appena approvato, all'adeguamento delle pensioni all'inflazione, aggiudicandosi in tal modo l'edizione 2011 del Coccodrillo d'oro. Non risulta peraltro, dalle attente cronache giornalistiche, che la suddetta signora abbia avuto qualcosa da obiettare sulla cancellazione del modesto incremento alla aliquota Irpef della fascia più ricca, una misura data per certa fino alla domenica pomeriggio...

Ma veniamo alla sostanza del decreto. Secondo le cifre ufficiali si tratterebbe di un intervento da 30 miliardi, 20 dei quali destinati alla riduzione del deficit statale, 10 a non meglio precisate misure per la mitica «crescita». Molte sono le misure odiose e classiste, dall'aumento dell'IVA di ben due punti e mezzo, alla reintroduzione dell'Ici sulla prima casa, al taglio agli Enti locali che si riverserà inevitabilmente su sanità e trasporti. Ma il vero simbolo del massacro sociale compiuto è quello contenuto nel capitolo pensioni.

La bolla dell’insubordinazione.

di Christian Marazzi. Fonte: alfabeta2
La crisi del capitalismo finanziario che si è imposto negli ultimi trent’anni è speculare alla crisi del rapporto tra capitale e lavoro che ha siglato la fine del regime fordista d’accumulazione e la transizione verso un capitalismo caratterizzato dalla centralità della rendita rispetto alle variabili «reali» dell’economia, ossia salario, prezzo e profitto. La finanziarizzazione dell’economia prende avvio negli anni Settanta con la deregolamentazione dei mercati dei cambi che ha fatto seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods, si sviluppa con la deregolamentazione dei mercati finanziari con la nascita dei mercati obbligazionari ai quali gli Stati si rivolgono per finanziare i propri debiti pubblici, si espande ulteriormente alla fine degli anni Ottanta con lo sviluppo dei mercati dei prodotti derivati e, dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari. «Ma l’elemento più impressionante – scrive François Morin nel suo Un mondo senza Wall Street? – è senza alcun dubbio la rapidità con la quale i mercati di copertura si sono sviluppati. Nel 1987, sui mercati delle opzioni e dei futures il volume degli scambi era pari a 1,7 teradollari (T$), mentre alla fine 2009 aveva raggiunto i 426,7 T$. Se si eccettuano i Cds che sono passati da 0,9 T$ nel 2001 a 62,1 T$ nel 2007, prima di calare di nuovo a 30,4 T$ nel 2009, questa folgorante espansione non è stata arrestata dalla crisi». La creazione di liquidità, in altre parole, è praticamente illimitata e lubrifica una finanza di mercato in cui i rischi legati ai più diversi prodotti finanziari sono tra loro tutti correlati, dando origine a processi contagiosi che alimentano una bolla dopo l’altra, dalla bolla internet a quella dei subprime alla bolla dei debiti sovrani. È infatti nella natura stessa dei mercati finanziari il fatto di essere intrinsecamente instabili, soggetti cioè a processi autoreferenziali, tali per cui l’aumento del prezzo di un attivo finanziario non provoca la riduzione della sua domanda, bensì l’opposto, ossia un ulteriore aumento della domanda, facilitato dall’accesso al credito.

L’autonomizzazione della finanza dall’economia reale è l’altra faccia dell’autonomizzazione del capitale dal rapporto diretto tra capitale e lavoro salariato, quel processo che vede il capitale colonizzare sempre nuove «terre vergini», sussumendo prima il lavoro salariato alla finanza e al debito, poi i beni comuni di intere popolazioni attraverso la privatizzazione dei debiti pubblici e, infine, la stessa sovranità degli Stati. È un processo sincopatico, fatto di alternanza tra espansione e contrazione, che nel corso degli ultimi decenni ha visto la biforcazione tra tassi di profitto e tassi di accumulazione, con i primi in costante aumento e i secondi stagnanti, se non regressivi. Gli aumenti dei profitti si effettuano attraverso tagli di salari e occupazione, flessibilizzazione del lavoro e esternalizzazione dei processi di estrazione/appropriazione del valore prodotto nella sfera della circolazione del capitale. In questo movimento espansivo del capitale i beni comuni vengono «recintati», ossia privatizzati, generando esclusione e povertà. L’accumulazione del capitale si effettua a mezzo di esclusione, di sfruttamento non remunerato della vita, di «disoccupazione attiva». Si effettua attraverso la generalizzazione dei rapporti di debito/credito all’intero ciclo di vita del capitale e della forza-lavoro. Di fatto, il capitalismo finanziario è, come ha scritto Maurizio Lazzarato, una vera e propria «fabbrica dell’uomo indebitato».

Nella configurazione odierna del capitalismo finanziario i margini di riforma, di «riregolamentazione[ dei mercati, di ristrutturazione del debito privato e sovrano, sono estremamente ridotti. La rivendicazione del «diritto all’insolvenza» ha infatti senso come obiettivo di uscita dal capitalismo, come processo di insubordinazione dal basso che deve trovare in sé le forme della propria autodeterminazione. La posta in palio non è il fallimento di un paese o di un altro, dato che la finanziarizzazione ha ormai raggiunto un tale livello di interdipendenza da rendere pressoché impossibile qualsiasi riduzione del debito senza effetti devastanti per tutti. La posta in palio è la costruzione di un contro-potere costituente interno ai processi di mobilitazione sociale.

lunedì 12 dicembre 2011

31 tesi sulla società della miseria (e oltre)*

Fonte: virgilioit
Message in a bottle
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di
produzione capitalistico si presenta come una “immane
raccolta i merci (Karl Marx Il Capitale)
L’intera esistenza delle società nelle quali predominano le
moderne condizioni di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di ‘spettacoli”
(Guy Debord, La Società dello spettacolo)

I. Diversamente da quanto solitamente immaginato, la "politica" non ha mai avuto alcun ruolo rilevante nelle società capitalistiche, specie riguardo l'influenza da essa esercitata sulle fasi del trend economico. Essa ha goduto dei favori della crescita economica un tempo (Golden Age) come è caduta in disgrazia quando si è entrati in una fase di pronunciato declino economico.

II. A partire in specie dal secondo dopoguerra e relativamente ai Paesi industrializzati, il capitalismo ha intrapreso una notevole fase di crescita economica, caratterizzata da consistenti investimenti in capitale fisso ed ampio incremento dell'occupazione in ogni settore dell'economia. La crescita dei primi si è accompagnata - come sempre nella storia di questo sistema sociale - alla crescita della seconda.

“Il mio punto di vista … concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale”
(K. Marx, Il Capitale)

III. In questa fase il capitalismo sembra aver portato a compimento, in alcune aree del pianeta, la sua più essenziale natura, ossia trasformare la popolazione in una massa di lavoratori salariati. Il sistema capitalistico così non è altro che il sistema del lavoro salariato; è attraverso questa forma del lavoro infatti che si producono beni e servizi, ossia quella parte del reddito monetario costituito da profitti e salari.

Technical Brothers: commissari alla conquista dell'Europa di Serie B

Giuliano Garavini, Fonte: paneacqua
Dibattito Gli italiani e i greci, popoli che tanto hanno contribuito (nel bene e nel male) alla nascita di sistemi politici innovativi, hanno fatto nascere in queste settimane una nuova topologia di governo europeo del Ventunesimo secolo: quello del "commissario tecnico". Il governo del commissario tecnico è un governo che, salvaguardando la facciata democratica del voto bipartisan in Parlamento, è in realtà imposto da istituzioni sovranazionali, governi stranieri, consolidati poteri economici nazionali, che scelgono personalità che danno loro garanzie solide

La novità è piuttosto notevole perché non siamo in era coloniale, né in epoca di regimi "a sovranità limitata", né dipendiamo da un governo federale europeo che, forte della legittimità dell'investitura popolare, possa nominare dei prefetti a rimettere a posto i conti. Siamo solo un paese con dei cittadini sempre più poveri, disoccupati e demotivati sul quale i mercati finanziari globalizzati hanno deciso di accanirsi sfruttando le carenze dell'attuale e folle meccanismo di governance economica dell'euro, che non prevede garanzie illimitate della Banca centrale europea sui titoli di Stato dei paesi membri.

I nostri costituzionalisti più eminenti, e con simpatie a sinistra, da Cassese a Zagrebelski, si sono affrettati a dire non si tratta di un governo tecnico ma di un governo democratico che ha ottenuto la fiducia in Parlamento, e come tale di governo pienamente politico. Zagrabelski ha poi aggiunto che nei momenti di crisi, sotto la pressione di innovazioni tecnologiche, di pericoli ambientali o di shock di altro genere è prudente affidare la guida a persone competenti che possano guardare al lungo periodo piuttosto che alle immediate scadenze elettorali.
ON THE TABLE OF THE INTERNATIONAL MONETARY FUND

domenica 11 dicembre 2011

L'euro è salvo. Almeno per qualche giorno

di Vincenzo Comito. Fonte: sbilanciamoci
Un accordo dell’ultima ora forse salva l’euro, almeno per ora. Ma politici e “tecnici” non sembrano in grado di far uscire il mondo dalla trappola in cui esso è stato spinto

“…anche se questo accordo funziona, …non c’è niente che risolva il problema di competitività che tocca i paesi più deboli dell’eurozona o che offra loro qualcos’altro che molti anni di dura austerità…” H. Stewart. “…questa, nella sostanza, è una crisi delle bilance dei pagamenti…” M. Wolf. “…noi non stiamo salvando i greci o gli italiani… noi stiamo salvando le nostre banche (quelle tedesche), noi stessi e le nostre poltrone… la questione è tutta qui…” F.-W. Steinmeier, leader della Spd tedesca. “...la percezione della minaccia di un disastro non sempre è sufficiente a impedire che esso poi accada…” The Economist.

Premessa

Appare ormai possibile, anche se non è certo, dopo le misure prese dal governo Monti, nonché gli accordi del vertice europeo del 9 dicembre, la nuova disponibilità ad ampliare i suoi interventi manifestata inoltre dalla Bce e infine la stessa stanchezza degli operatori, che il sistema dell’euro, almeno per il momento, non vada a pezzi e che la partita sia rimandata per qualche tempo. Certamente, comunque, ha probabilmente ragione Claude Junker quando afferma, appena conclusi i lavori, “…non penso che questo sia l’ultimo vertice per salvare l’euro…”.

Va comunque subito sottolineato al riguardo che, come c’era da aspettarsi, quando gli orizzonti della moneta unica sembrano schiarirsi almeno un poco, si trova sempre una qualche agenzia di rating che cerca di fare del sabotaggio; questa volta è toccato a Standard & Poor’s minacciare di degradare il rating di 15 paesi della zona euro, compresa la Germania e anche quello del fondo salva stati.

Vediamo in ogni modo con qualche dettaglio alcuni aspetti delle misure sponsorizzate dalla coppia Merkel-Sarkozy, certamente, come al solito, non clamorose ma che, unite agli altri interventi per il settore finanziario, potrebbero plausibilmente avere l’effetto di calmare un po’ le acque.

Le misure previste

Si era parlato qualche giorno fa di un possibile accordo Merkel-Sarkozy abbastanza impegnativo e che prevedeva che si arrivasse in tempi brevi a una vera e propria “unione fiscale”, con la quale in sostanza i paesi dell’eurozona, con una parziale perdita di sovranità, avrebbero ceduto i loro poteri di decisione sui rispettivi budget pubblici a un’autorità europea, che avrebbe dovuto essere costituita in prima battuta da un commissario al bilancio; l’unione fiscale si sarebbe basata su delle norme molto stringenti e avrebbe previsto rilevanti sanzioni automatiche per i trasgressori, sanzioni che avrebbero dovuto essere incorporate nei trattati dell’Ue. Le violazioni e le relative penalità sarebbero state decise dalla corte di giustizia europea.

Una società oltre lo stato e il mercato

di Mauro Trotta. Fonte: ilmanifesto
Sono passati poco più di quattro anni dallo scoppio della crisi dei subprime e l'economia è ancora nel pieno della bufera. Un ciclone che investe ormai anche l'Italia e potrebbe far crollare l'intero sistema economico-finanziario mondiale. Sono crollati colossi del calibro di Lehman Brothers, gli stati hanno investito somme incredibili nel salvataggio delle grandi banche, eppure la tempesta non accenna a placarsi. Crollano governi, si sospende di fatto la democrazia ma le borse continuano a fare su e giù, prediligendo il segno meno.
Per capire cosa è successo effettivamente e ragionare sulle possibili vie di uscita può risultare estremamente utile un libro agile e chiaro, scritto un po' prima che la speculazione attaccasse in modo così violento il nostro paese, approfittando delle sue debolezze endemiche. Un libro come Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi (Editori Riuniti, pp. 367, euro 16) di Enrico Grazzini. Il fatto che questo saggio sia stato scritto non in piena emergenza - l'autore stesso afferma di averlo finito nel marzo 2011 - gli conferisce, infatti, una sorta di lucidità, propria dei momenti di calma relativa, che spesso si perde quando si è nel pieno di una crisi. Inoltre l'autore aveva ben presente al momento della stesura che la situazione sarebbe potuta facilmente precipitare. Lui stesso afferma nell'introduzione che, nonostante una fragile ripresa, «l'economia del debito è ancora ben viva e il sistema finanziario non è stato risanato. È possibile che la crisi economica sia quindi destinata a durare, modificando profondamente, o anche sconvolgendo, il panorama sociale e politico delle nazioni e il contesto internazionale».

Ferrero: Über Alles!

di Paolo Ferrero Fonte: controlacrisi
Il vertice europeo si è concluso con la piena vittoria della Cancelliera Merkel. Nella nottata di venerdì è stato deciso un vero e proprio Colpo di Stato Monetario e così l’ordine di Berlino regna in Europa! Non ci sono termini abbastanza forti per descrivere l’impasto di ideologismo neoliberista, di egoismo pantedesco e di vera e propria stupidaggine che informano quanto deciso in sede europea. Come dopo la crisi del 1929, la follia torna a prevalere nelle classi dominanti del vecchio continente e la stagione nata dopo la guerra antifascista viene rovesciata nel suo contrario. Con questo accordo, viene demolita l’Europa del welfare, l’Europa dei diritti sociali e civili, l’Europa che ha conosciuto nel protagonismo dei lavoratori e dei sindacati il proprio tratto distintivo. Il modello europeo, appunto. Le scelte assunte a livello europeo sotto l’egemonia della destra prussiana e l’ignavia delle altri parti in commedia – a partire dal ridicolo Sarkozy – avranno pesanti ripercussioni non solo sull’economia ma sui livelli di vita e di civiltà del continente europeo. Monti, in questo quadro, si è comportato per quello che è: un burocrate di alto bordo del partito mondiale neoliberista, del tutto indifferente alle sorti del popolo italiano e dei popoli in generale. Volendo ricercare nella storia esempi di situazioni simili si potrebbe dire che il modello a cui si ispira la Merkel sono le folli politiche restrittive che il cancelliere Bruning impose alla Germania dopo la crisi del ’29. Portarono a 5 milioni di disoccupati e alla vittoria di Hitler nelle elezioni del gennaio ’33. Questa volta la Germania non applica queste politiche in primo luogo a se stessa, ma al resto d’Europa.
Le misure adottate al vertice sono innanzitutto pesantemente recessive, aggravano la crisi e spingono molti paesi – tra cui l’Italia – sulla strada della Grecia. Viene imposto a tutti i paesi il pareggio di bilancio in Costituzione e le sanzioni per chi sforerà i limiti di deficit (resi più restrittivi) saranno automatiche e comminate direttamente anche attraverso la Corte di Giustizia europea. Non vi sarà più discussione politica, ma il boia interverrà – diciamo così – per via burocratica. Ovviamente le sanzioni “automatiche” graveranno su stati già in difficoltà e avranno il compito quindi di rendere catastrofica una situazione difficile. Oltre a questa decisione, per un paese come l’Italia, L’Euro Plus Pact – approvato dal Parlamento europeo con il voto contrario della Sinistra Europea ed esplicitamente richiamato nell’accordo – obbligherà non solo al pareggio di bilancio, ma anche a fare – per vent’anni di fila – un ulteriore taglio di 40 miliardi all’anno.

Pareggio di bilancio nelle Costituzioni, la follia ultima. Forse

di Francesco Piccioni. Fonte: controlacrisi
Il vertice azzoppato della tarda notte nel pomeriggio è tornato a sembrare un gigante dalle gambe salde. Recuperati gli indecisi, azzerata l’anomalia ungherese, si è potuta ammirare la dimensione del successo tedesco: un nuovo «patto di bilancio», aggiuntivo rispetto ai trattati europei, che parte dalla disciplina sui conti pubblici e di poco altro si interessa (i «meccanismi di stabilizzazione»). Ma impone di inserire in tutte le Costituzioni nazionali il «pareggio di bilancio», tollerando uno scostamento massimo dello 0,5%.
Diciamola in modo semplice: nel bel mezzo di una crisi globale di dimensioni ancora incomprese, una decisione del genere equivale ad affrontare la tempesta con una pietra al collo. Dà l’impressione della «fermezza» mentre tutto intorno balla a un ritmo indiavolato. Si adatta perfettamente all’immagine che la Germania in questo momento vuol dare di sé (il paese «serio» e «fermo»), mentre proprio la «spensieratezza» degli altri governi europei ha permesso di rafforzare la centralità della produzione e della capacità di esportazione tedesca, trasformando i confinanti in «contoterzisti».
Da questa angolatura la governance rafforzata si articola in regole ferree e sanzioni «automatiche» o quasi, nella convinzione metafisica che i «bilanci sani» degli stati permettano a tutti di comportarsi e competere come fa la Germania. Il doppio vincolo (3% massimo nel rapporto tra deficit e Pil, 60% massimo per quello debito/Pil) diventa un tritacarne in cui verranno infilati parecchi paesi (persino i virtuosi tedeschi superano ormai l’80%), Senza alcuna possibilità di venirne fuori migliorati.
IF NOT THE WOMEN, WHO ?
Today, piazza del Popolo, ROMA

Blog curato da ...

Blog curato da ...
Mob. 0039 3248181172 - adakilismanis@gmail.com - akilis@otenet.gr
free counters