Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 12 marzo 2011

Fukushima: la danza macabra dei nuclearisti sul Titanic energetico.


Ha proprio ragione Oscar Giannino a scrivere sul Messaggero di oggi che il terremoto giapponese è la prova del nove sul nucleare (e sulla sua credibilità professionale). Quell’artata fideistica certezza che pone sulla sicurezza del nucleare si scontra infatti con tutte le agenzie che stavano e stanno arrivando anche sulla sua scrivania e che invece ignora. Quelle agenzie ci indicano che siamo purtroppo sull’orlo del meltdown dell’enorme centrale di Fukushima.
Quantunque, come chiunque si augura, una nuova e forse peggior Chernobyl dovesse essere evitata, la prova del nove risulterebbe comunque fallita rispetto ad ogni principio di precauzione.

di Gennaro Carotenuto. Fonte: genarocarotenuto

Quell’editoriale di Giannino strillato in prima pagina, quelle parole supponenti e rancorose (ma anche vili e perfino stupide nel loro glissare sulle fughe radioattive ammesse pubblicamente fin da ieri dal governo giapponese), dimostrano non solo la scarsa avvedutezza (e onestà intellettuale) di Giannino, ma testimoniano il suo ruolo di pedone sulla scacchiera della propaganda nuclearista ideata da Chicco Testa (il compagno Chicco Testa, sic, che costruì la sua carriera con la presidenza di Legambiente e che fu per due legislature parlamentare comunista). Questo è colui che, oltre ad aver ideato una recente campagna pronucleare di successo (il Forum nucleare italiano, con la sua partita a scacchi) e a tenere i cordoni della borsa della propaganda nuclearista, ha pubblicamente minacciato di “spaccare la faccia” al geologo Mario Tozzi proprio per aver osato rivelare gli enormi interessi economici e il traballante rapporto costi benefici che si cela dietro il ritorno al nucleare italiano.

Così hanno un fare sinistro, impeccabili nei loro doppiopetti, quei presunti esperti mandati in tutta fretta a rappresentare gli interessi nuclearisti in ogni singola trasmissione radio e tivù che si sia dedicata in queste ore alla tragedia giapponese. Stavano lì, rassicuranti nel loro aspetto signorile, a spargere fiducia a piene mani nonostante le notizie sempre più allarmanti. Non solo non possono rassicurarci negando l’evidenza ma quei doppiopetti vanno denunciati come un pericolo non tanto o non solo per la sicurezza quanto per lo sviluppo stesso del paese. Sono infatti loro i veri inquinatori dei nostri tempi come quei presunti scienziati pagati dal governo di George Bush 5.000 dollari ad articolo per contrapporre agli studi sul cambiamento climatico altri pseudostudi che li confutassero inondando i media con menzogne che confondessero l’opinione pubblica negando l’evidenza.

Wisconsin - USA

Berlusconi verso il "golpismo istituzionale".


di Gianni Rossi, 11 marzo 2011, Fonte: paneacqua

Politica Riforma giustizia e difesa della Costituzione: in un colpo solo, Berlusconi, indagato, imputato, prosciolto per prescrizione o per cancellazione dei reati ottenuta con leggi "ad personam", si toglie la maschera di "statista", per vestire i panni del putschista che, attraverso le maglie larghe dei procedimenti legislativi del nostro Parlamento, intende stravolgere istituzionalmente la democrazia e ribaltare i criteri fondamentali della civiltà giuridica e politica, come la conosciamo dalla rivoluzione francese ad oggi
Se ci fosse bisogno per gli indecisi di un motivo in più per andare in piazza del Popolo, a Roma, il 12 marzo prossimo, a difendere la nostra Costituzione, la conferenza stampa di Berlusconi, che ha illustrato le linee guida della sua "controriforma" della giustizia, è proprio lì per spingerli con decisione a dimostrare: se non ora, quando?. Se la riforma fosse stata fatta prima, 20 anni fa, ha sostenuto il Sultano di Arcore con tono stentorio: " non ci sarebbe stata quella situazione che ha portato a cambiamenti di governo, all'annullamento di una classe di governo nel 92'-93', all'abbattimento di un governo nel 94', alla caduta di un governo di sinistra nel 2008 per la proposta di riforma della giustizia del ministro Mastella e il tentativo di eliminare per via giudiziaria il governo in carica". E poi, riferendosi al ridimensionamento del ruolo del pubblico ministero, uno dei punti che più gli stanno a cuore: "Il pm per parlare con il giudice dovrà fissare l'appuntamento e battere con il cappello in mano e possibilmente dargli del lei".

venerdì 11 marzo 2011

Michael Moore: L’America non è alla bancarotta.


Fonte: controlacrisi
Contrariamente a quanto i tizi al potere amerebbero che voi credeste, così da rinunciare alle vostre pensione, tagliare i vostri stipendi, e adeguarvi alla vita dei bis-bisnonni, l’America non è alla bancarotta. Il paese è inondato di ricchezza e contanti. E’ solo che non sono nelle vostre mani. Ne sono lontanissimi. Sono stati trasferiti, nella più grande rapina della storia, dai lavoratori e consumatori alle banche e ai portafogli dei super-ricchi.
Oggi 400 americani da soli hanno la stessa ricchezza di metà di tutti gli americani messi insieme. Lasciatemelo dire di nuovo. Quattrocento persone oscenamente ricche, la maggior parte di quelli che hanno beneficiato in un modo o nell’altro del “salvataggio” da molti trilioni di dollari dei contribuenti del 2008, hanno gli stessi soldi, le stesse azioni e proprietà di 155 milioni di americani messi insieme. Se non ce la fate ad arrivare a definirlo un colpo di stato finanziario, semplicemente non siete sinceri riguardo a quello che sapete che il vostro cuore vi dice che è vero.
E riesco a capire il perché. Per noi ammettere che abbiamo permesso a un piccolo gruppo di persone di darsi alla latitanza accaparrandosi la massa di ricchezza che alimenta la nostra economia, significherebbe che dovremmo accettare l’umiliante consapevolezza che abbiamo davvero consegnato la nostra preziosa democrazia all’élite danarosa.
Questa repubblica la gestiscono ora Wall Street, le banche i 500 [più ricchi elencati nella rivista] Fortune e fino al mese scorso il resto di noi si è sentito totalmente impotente, incapace di trovare un modo per fare qualcosa al riguardo.
Io non ho altro che un diploma delle superiori. Ma quando ero a scuola tutti gli studenti dovevano seguire un semestre di economia per potersi diplomare. Ed ecco cosa ho imparato: i soldi non crescono sugli alberi. Crescono quando si producono cose. Crescono quando si ha un buon lavoro con un buon salario che si può usare per comprare le cose che ci servono e creare così altro lavoro. Crescono quando offriamo un sistema educativo eccezionale che poi fa crescere una nuova generazione di inventori, imprenditori, artisti, scienziati e pensatori che vengono fuori con la prossima grande idea per il pianeta. E quella nuova idea crea nuova occupazione e quella crea entrate per lo stato.

Mentre noi stavamo a girarci i pollici ...


EURO: IL PATTO E' SERVITO. FRENO A SALARI, AUMENTO PENSIONI, FLESSIBILITA'
Fonte: controlacrisi
Alla fine ci sono riusciti, mentre noi stavamo a girarci i pollici tra primarie, crisi di governo fasulle, elezioni anticipate e sciopericchi gli europadroni hanno lavorato in silenzio. Governi di centro sinistra e centro destra hanno raggiunto una mediazione che di fatto rappresenta la fine dell'Europa sociale, si tratta di un vero e proprio colpo di stato monetario che sottrae ai parlamenti la propria sovranità economica in nome della supremazia del mercato. Questo non è solamente un attacco al mondo del lavoro ma alla democrazia stessa, che sconquassa anche la nostra costituzione che dovrà essere modificata per recepire il criterio del rispetto del patto di stabilità. Il 24 marzo si voterà l'intero pacchetto. E' il più grande attacco al mondo del lavoro mai visto in Europa dopo il fascismo. Occorre reagire, non permettiamo a questi ladri di toglierci il futuro!
CRISI: PATTO EURO, DA FRENO SALARI A STOP PREPENSIONAMENTI (ANSA) - BRUXELLES, 11 MAR
- Legare i salari all'andamento della produttività, elevare l'età pensionabile, limitare i prepensionamenti, recepire nella legislazione nazionale i vincoli europei su deficit e debito, varare norme nazionali per la risoluzione delle crisi bancarie. E poi ancora: accelerare sulle liberalizzazioni, ridurre il costo del lavoro, rendere più flessibile il mercato dell'occupazione. Questi gli impegni che i Paesi della moneta unica si apprestano a prendere con il nuovo 'Patto per l'eurò, il cui via libera è atteso nel vertice dei leader dell'Eurozona in programma stasera a Bruxelles. Impegni che «saranno successivamente integrati nei programmi nazionali di riforma e nei programmi di stabilità» da inviare a Bruxelles. «Ogni anno - si legge infatti nella bozza del Patto - i capi di Stato e di governo fisseranno obiettivi comuni» e «ciascun capo di Stato e di governo assumerà impegni nazionali concreti».
Il «controllo politico» sull'attuazione di questi impegni spetterà agli stessi leader dell'Eurozona. «Ciascun Paese - si legge ancora - conserverà la competenza di scegliere gli interventi specifici necessari per raggiungere gli obiettivi comuni fissati» . Il nuovo Patto si accompagna al pacchetto anti-crisi che la Ue si appresta ad varare entro fine mese, e deve servire a compiere «un salto di qualità nel coordinamento delle politiche economiche nella zona euro, migliorare la competività e aumentare il livello di convergenza». Nel testo si sottolinea quindi come «gli Stati membri della Ue che non fanno parte della zona euro sono invitati a partecipare al Patto su base volontaria» .
Ecco i principali punti del Patto messo a punto dal presidente delle Ue, Herman Van Rompuy, e di quello della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso.
- MODERAZIONE SALARI. Gli Stati dell'Eurozona si impegnano ad assicurare «un'evoluzione delle retribuzioni che sia in linea con quella della produttività». Questo «riesaminando gli accordi salariali e, laddove necessario, il meccanismo di indicizzazione». Ma anche «assicurando che gli accordi salariali nel settore pubblico corrispondano allo sforzo del settore privato». Per misurare i progressi di ogni singolo Paese, si «monitoreranno in un dato arco di tempo i costi unitari del lavoro confrontandoli con l'evoluzione in altri Paesi della zona euro». Inoltre, i Paesi «dovranno prestare attenzione anche all'evoluzione a livello regionale».
- AUMENTO PRODUTTIVITÀ. Dovrà essere perseguito con una «ulteriore apertura dei settori protetti, eliminando restrizioni ingiustificate ai servizi professionali e nel settore del commercio al dettaglio». Ma anche attraverso «sforzi specifici per migliorare l'istruzione, promuovere la ricerca, l'innovazione e le infrastrutture».
- RIDUZIONE COSTO LAVORO. Per stimolare la ripresa dell'occupazione, il Patto indica la necessità di promuovere la 'flessicurezzà nel mercato del lavoro, ridurre il sommerso e «ridurre l'imposizione sul lavoro per rendere conveniente lavorare, mantenendo il gettito il gettito fiscale globale».
- SOSTENIBILITÀ PENSIONI. Per rafforzare le finanze pubbliche, ogni Paese si impegna a garantire «la sostenibilità di pensioni, assistenza sanitaria e prestazioni sociali». In particolare, si rende necessario «allineare la prestazione del sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, ad esempio allineando l'età pensionabile effettiva alla speranza di vita», «limitare i regimi di pensionamento anticipato» e «ricorrere a incentivi mirati per assumere lavoratori anziani (sopra i 55 anni)».
- VINCOLI DEFICIT IN LEGGE. Gli Stati si impegnano a «recepire nella legislazione nazionale le regole di bilancio della Ue fissate nel Patto di stabilità e di crescita». Ogni Paese deciderà a quale specifico strumento legislativo ricorrere (la Germania proponeva la Costituzione).
- REGOLE ANTICRACK. Al fine di assicurare la stabilità finanziaria, ogni Paese dovrà «introdurre una legislazione nazionale per la risoluzione delle crisi nel settore bancario». Saranno anche effettuati «stress test regolari e rigorosi sulle banche». Sarà in particolare «attentamente monitorato per ogni Stato membro il livello del debito privato di banche, famiglie e imprese non finanziarie».

Usa, lo smantellamento della classe media.


L'Idaho imita il Wisconsin e approva leggi che limitano la contrattazione collettiva. Seguito a ruota da Indiana, Ohio e Michigan. Fonte: PeaceReporter
Continua negli Stati Uniti lo smantellamento dello stato sociale. Dopo il Wisconsin, dove è stata approvata stanotte dal Senato la legge che vieta la contrattazione collettiva ai dipendenti pubblici, anche nello Stato dell'Idaho è in via di approvazione un provvedimento che priva gli insegnanti dello stesso diritto.
La misura, votata dal Congresso con 48 voti contro 22, è finalizzata alla limitazione della contrattazione collettiva solo a salari e benefits, mentre viene totalmente rimossa dal negoziato sindacale nei settori che riguardano le dimensioni delle classi e i carichi di lavoro degli insegnanti.
L'obiettivo dei legislatori dello Stato repubblicano è di tagliare le spese per l'istruzione livellando il deficit. Per far questo, secondo i parlamentari del Congresso, è necessaria una drastica dieta dimagrante, con l'attacco ai diritti fondamentali quali il ruolo (che potrebbe essere addirittura eliminato), la durata dei contratti (ridotta a un anno) e l'anzianità come fattore per la determinazione l'ordine dei pensionamenti. La contrattazione collettiva è prevista da parte delle unioni sindacali esclusivamente in caso di rappresentanza delle Union di più della metà del corpo docente.
In un luogo dove le manifestazioni di protesta sono relativemente rare, migliaia di persone stanno scendendo in piazza. L'onda della contestazione è partita mesi fa dal Wisconsin, quando il governatore Walker ha deciso di smantellare le tutele dei dipendenti pubblici, trovando la ferma opposizione dei Democratici ('fuggiti' per far mancare il numero legale) e della popolazione, che ha occupato la sede dell'assemblea legislativa per settimane, prima di venire sgomberata a forza dal 'Capitol'.

giovedì 10 marzo 2011

Wisconsin.

La dottrina shock che sembra venire dagli Usa ma che in Italia già governa: Mettere una società a capo di una intera nazione.
di Georgia. Fonte: georgiamada
La prima volta che ho sentito parlare di lotte nel Wisconsin è stato da Valerio Evangelisti nel suo pezzo dove faceva un intelligente accostamento tra il cuore dell'America operaia e sindacale e tutto il mondo in subbuglio. Ci eravamo dimenticati che tutto nel mondo (in positivo o in negativo) inizia prima in america (crisi e sue conseguenze) e che quando là c'è un battito d'ala poi qui succede un terremoto. Lo tsumani però stavolta non è avvenuto a Parigi o a Londra come nel maggio del '68, ma nel nordafrica dove sui giovani, forse, ancora non era stata praticata massicciamente la shock doctrine televisiva ma vigeva ancora il vecchio manganello, il carcere e la tortura e la vecchia strategia della tensione, che tutto sommato forse ha lasciato spiragli di pensiero.

L'America riscopre la lotta di classe


di Stefano Rizzo, Fonte: paneacqua

La lotta di classe è ricominciata un mese fa nel Wisconsin ( stato di robuste tradizioni operaie e sindacali) e nel giro di pochi giorni si è propagata all'Ohio, all'Indiana e ad altri stati del Midwest, per poi irradiarsi a sud fino alla Florida e a nord fino allo stato di Washington, coinvolgendo l'Est progressista e la California

Nonostante il relativo disinteresse dei grandi media americani (e il totale disinteresse di quelli europei), è nato un movimento di protesta che per la prima volta in molti anni sta acquistando caratteristiche di lotta di classe: lavoratori e sindacati contro i padroni e i governi locali che li sostengono, poveri e disoccupati contro ricchi, dipendenti pubblici contro i rispettivi governi. Sul piano politico la protesta ha dato nuovo impulso ai democratici che, dopo la dura sconfitta di novembre, sembrano avere ritrovato slancio e capacità combattiva.

Tutto è partito dal Wisconsin, uno stato di robuste tradizioni operaie e sindacali, dove a novembre era stato eletto un nuovo governatore repubblicano, Scott Walker, e un nuovo parlamento dello stato a maggioranza repubblicana. Forte del mandato popolare il giovane e aggressivo governatore ha subito presentato un provvedimento di drastico taglio del bilancio dello stato, che prevede riduzioni nei servizi pubblici e licenziamenti. Ma non si è fermato lì: ha dichiarato anche l'intenzione di abolire per legge il diritto alla contrattazione collettiva per i dipendenti pubblici, che lo stato del Wisconsin era stato tra i primi a riconoscere fin dagli anni '50.
In questo, come in altre questioni, Walker agiva in perfetta sintonia con il partito repubblicano a livello nazionale e con svariati altri governatori repubblicani di nuova nomina che, come lui, avevano vinto le elezioni promettendo la riduzione del deficit pubblico, con il non troppo celato obbiettivo di ridurre i servizi per i cittadini e di assestare un duro colpo ai dipendenti pubblici, rappresentati in campagna elettorale come dei privilegiati e dei parassiti. Inizialmente i sindacati del settore pubblico si sono detti disponibili al dialogo riconoscendo che il problema del debito esisteva e andava affrontato. Hanno accettato riduzioni degli stipendi e il blocco degli aumenti per tre anni. Ma quando il governatore ha preteso di abolire la contrattazione collettiva hanno capito che troppo era troppo.

Zygmunt Bauman: L’insostenibile deriva neoliberale delle socialdemocrazie europee.


di Zygmunt Bauman. fonte
Scritto da LdS Lombardia
Mercoledì 09 Marzo 2011

Ma lo sanno i socialdemocratici a cosa mirano? Ce l'hanno una qualche nozione di una 'società giusta' per cui vale la pena lottare? Ne dubito. Credo non ce l'abbiano. In ogni caso non nella parte di mondo in cui viviamo noi. L'ex cancelliere tedesco Schroeder ne ha dato prova restando abbagliato di fronte alle proprietà di Tony Blair come a quelle di Gordon Brown e dicendo, solo pochi anni fa, che non esiste un'economia capitalista e un'altra socialista, l'economia è soltanto buona o cattiva. Per molto tempo, almeno gli ultimi trenta-quarant'anni, la politica dei partiti socialdemocratici si è andata articolando anno dopo anno con leggi neo-liberaliste, secondo il principio: "qualsiasi cosa voi (il centro-destra) facciate, noi (il centro-sinistra) possiamo farlo meglio".
A volte, anche se non molto spesso, qualche iniziativa particolarmente oltraggiosa e arrogante presa dai legislatori provoca uno spasimo nell'antica coscienza socialista. Allora in questi casi, senza alla fine combinare un gran che, si solleva la richiesta di una maggior compassione e una maggior lungimiranza nei confronti di "chi ha più bisogno" o di un "alleggerimento del carico" per "chi è più colpito" – ma di sicuro non prima di aver valutato le conseguenze in fatto di popolarità in caso di elezioni – e ancor più frequentemente mutuando frasi e termini dagli "avversari".
Questo stato di cose ha la sua ragion d'essere: la socialdemocrazia ha perso la sua specifica base costitutiva – le roccaforti e i baluardi sociali suoi propri, quelle aree popolate da gente, i destinatari finali delle azioni politico-economiche, che aspetta e spera di essere ridefinita o ricollocata, altrimenti che come una massa di vittime, in un integrato soggetto collettivo di interessi, agenda e organismo politici già di per sé.

mercoledì 9 marzo 2011

Salvataggio fallito: ecco perché la Grecia è di nuovo in pericolo.


di Vladimiro Giacchè. Fonte: sinistrainrete
Come già più volte accaduto nel corso della tempesta che dalla primavera scorsa infierisce sul debito sovrano dei Paesi europei, il governo tedesco ha affidato il compito di testare le reazioni alle sue nuove proposte alle “indiscrezioni” rilanciate dal settimanale “Der Spiegel”: una sorta di Merkeleaks. Questa volta si tratta del Meccanismo Europeo di Stabilità, una specie di Fondo Monetario Europeo, con una potenza di fuoco complessiva di 500 miliardi di euro.
Ad esso dovrebbero contribuire i Paesi membri della zona euro, in proporzione alla quota di partecipazione alla Banca Centrale Europea (quindi con un rilevante contributo italiano). Questa proposta, presentata come una grande concessione ai Paesi in crisi, è accompagnata dalla consueta lista della spesa delle cose da fare: abolire la scala mobile (abbiamo scoperto che essa è ancora in vigore in diversi Stati europei, e che alcuni governi la ritengono essenziale per motivi di equità e di stabilità sociale), alzare l’età pensionistica, mettere in costituzione il divieto di deficit pubblici, e soprattutto accettare un meccanismo automatico di sanzioni (non previsto dal Trattato di Maastricht) per chi non rientra rapidamente da debiti pubblici eccessivi.

Tutti provvedimenti assai opinabili.

Il problema, però, è che non funziona neppure la parte positiva della proposta, ossia il Fondo che dovrebbe prestare soldi ai paesi in difficoltà. Ma i prestiti, per definizione, servono soltanto a risolvere le crisi di liquidità e non quelle di solvibilità. Possono, in altre parole, risolvere soltanto condizioni di difficoltà momentanee di un Paese nell’approvvigionamento di denaro sui mercati dei capitali: quando, ad esempio, i titoli di Stato si deprezzano bruscamente a causa di un attacco puramente speculativo.

Purtroppo, però, la situazione dei Paesi europei che oggi sono nell’occhio del ciclone non è questa. La loro crisi è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero (ossia consumano da anni più di quanto producono). Finché si ha un deficit del genere, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici di quel Paese accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi.

Ma quali Paesi si trovano in questa situazione?

Parlare chiaro.


Autore: Fonte: eddyburg
Una critica appassionata alle incertezze, anche nella sinistra, a dare un giudizio e promuovere conseguenti azioni nei confronti di Gheddafi.

Il manifesto, 9 marzo 2011
Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta?
Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?

Come uscire dalla crisi che ha cambiato il mondo.


di Fonte: eddyburg
«Un saggio di Luciano Gallino sui meccanismi che hanno portato alla "tempesta perfetta" del 2007 suggerendo anche una via d’uscita». La Repubblica, 8 marzo 2011
La differenza fondamentale tra "la produzione" e "l’estrazione" del valore. Gli esseri umani ormai trasformati in robot o in esuberi dovrebbero ribellarsi al pensiero liberista dominante Se dovessi scegliere il "romanzo della crisi" di questi anni di turbocapitalismo globale e letale voterei Sunset Park.
Le prime pagine del libro di Paul Auster – in cui il giovane Miles Heller racconta il suo lavoro di "moschettiere della disgrazia", incaricato di ispezionare per conto delle banche le case abbandonate dagli inquilini morosi e di fotografare le innumerevoli "cose abbandonate" per sempre dalle famiglie espropriate – sono l’affresco letterario di un’epoca. La Spoon River di «un mondo che crolla, di rovina economica e di difficoltà assidue e crescenti» per milioni di persone sommerse dalla "tempesta perfetta" iniziata oltre tre anni fa. Ma ora esce anche il "saggio della crisi". Non che in questi mesi la titolistica sul tema sia stata avara. Ma il libro che vi suggerisco adesso è forse il più completo e il più scientifico di tutti quelli che mi è capitato di leggere. Sto parlando di Finanzcapitalismo, che Luciano Gallino ha appena dato alle stampe (sempre per Einaudi).
Quello di Gallino è il viaggio dentro i deliri cinici, e a volte addirittura clinici, del mercatismo. Un viaggio che parte da un trionfo egemonico: un sistema economico basato sull’azzardo morale e sull’irresponsabilità del capitale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro. E che ci conduce a un capolinea drammatico: la completa svalorizzazione del lavoro, la devastazione delle risorse industriali e naturali, la desolazione di una massa di donne e di uomini che ormai non sono più "ceto medio", ma "classe povera". Quello che è accaduto, da quella drammatica fine estate del 2007, lo sappiamo. Quello che ancora mancava è un’analisi storica e sociologica, oltre che economica, del processo che ha cambiato i connotati del sistema.
Gallino lo ricostruisce a partire dal concetto, teorizzato da Lewis Mumford, delle "mega-macchine sociali": quelle grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come "componenti o servo-unità". Kombinat di potere politico, economico e culturale che hanno generato "mostri" nell’arco dei millenni: dalle piramidi egiziane costruite col sangue degli schiavi all’Impero Romano, dalla fabbrica di sterminio del Terzo Reich nazista all’universo concentrazionario del comunismo sovietico. Ora siamo alla fase più "evoluta": il "finanzcapitalismo", "mega-macchina" sviluppata allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, «il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli eco-sistemi».

PSE ad Atene: L'Europa è nelle mani sbagliate.

"Il PSE ha capito che la crisi non è colpa della gente comune o del welfare": ... non mi dire!!!
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Fonte: paneacqua
Europa Lo scorso 4 marzo, i leader del PSE convenuti ad Atene hanno approvato un forte documento di politica europea e economica, alternativo alle linee che si stanno affermando a livello europeo. Qui di seguito un'ampia sintesi

L'Europa è nelle mani sbagliate. Non bisogna dare la colpa all'Europa ma alla maggioranza conservatrice che la governa.
Ci siamo riuniti per mettere a punto una alternativa alla linea dominante "solo austerità": questo mese sarà decisivo per l'Unione Europea, i paesi dell'eurozona e soprattutto per il popolo europeo. Sono in gioco i principi su cui fu fondata l'unione europea: solidarietà e destino comune.
I conservatori europei si stanno preparando a sacrificare questi principi per mettere stati e cittadini in competizione gli uni con gli altri. le proposte che sono state messe all'ordine del giorno del prossimo Consiglio Europeo sono tutte improntate all'istituzionalizzazione dell'austerità e all'annacquamento del nostro modello sociale e delle istituzioni di welfare.
Nonostante tutto quello che è successo negli ultimi 30 mesi, la linea è ancora quella di far pagare il fallimento dei mercati finanziari alla gente comune.
Il PSE ha una alternativa chiara,socialmente responsabile ed economicamente credibile,
per mantenere un corretto ritmo di crescita, e garantire l'occupazione, il progresso sociale e il pareggio dei bilanci pubblici.

Il PSE ha capito che la crisi non è colpa della gente comune o del welfare, ma dell'avida e irresponsabile politica dei governi conservatori di alcuni stati dell'Unione e della perdurante mancanza di controlli sui mercati finanziari.

martedì 8 marzo 2011

Dalla Libia arriva un grido di libertà.


di Farid Adly * in Il manifesto
Cari lettori, continuate ad abbonarvi al manifesto! Cari compagni del manifesto, redattori e lettori, non sono d'accordo con voi su alcune posizioni, ma continuo a leggere e difendere (per quel poco che posso fare) il manifesto. Le riflessioni che sono state avanzate da Rossanda, Castellina, Parlato e Di Francesco sono sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico.
Sarebbe un dibattito avanzato e profondo su dubbi e zone d'ombra, se non ci fosse in corso una tragedia di un popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d'affari del mondo industrializzato. La frase del compagno Parlato «Sono e resto un convinto estimatore del colonnello Gheddafi» (Il Sole-24 Ore del 18/2/2011, poi ribadita sulle pagine del manifesto dieci giorni dopo) fa molto male a chi - come me - ha perso la propria libertà a causa del tiranno. Quanti articoli sul manifesto ho dovuto firmare diversamente, per scongiurare una repressione contro i miei familiari.
Prima di tutto, quella in corso non è una guerra civile; lo potrà diventare in futuro, ma adesso è una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i miliziani e mercenari. È paragonabile alla resistenza italiana contro il fascismo mussoliniano.
La questione della bandiera issata sulle zone liberate, avanzata da Manlio Dinucci, quella dell'indipendenza, non è un sintomo di ritorno al passato. Quella bandiera non è certo proprietà dell'ex re Idriss o della confraternita senussita. (A proposito, non ho capito il riferimento del compagno Parlato all'asserito antisemitismo di Idriss. Essere anti-sionisti non è necessariamente antisemitismo. Vi ricordo che prima dell'occupazione della Palestina, tra i vari progetti per creare Israele, nella prima metà del Novecento, la Cirenaica era uno dei luoghi proposti. Essere contrari a quei propositi non è certo antisemitismo). Io avrei usato la bandiera rossa, ma io e la mia generazione non contiamo nulla in questa rivoluzione. La corrente monarchica nell'opposizione è assolutamente minoritaria e lo sbandierare di quel tricolore, con stella e mezzaluna in bianco, non è un attaccamento al passato ma un chiaro rifiuto del regime. Fondare su questo una critica ai giovani libici che hanno affrontato a petto nudo le mitragliatrici anti-carro dei miliziani e mercenari di Gheddafi, è di una ingenerosità disarmante. Non si nega qui l'esistenza di piani internazionali per mettere le mani sul petrolio della Libia, ma la rivoluzione libica del 17 Febbraio 2011 non è guidata da fantocci dell'imperialismo, bensì da giovani e democratici che hanno una storia nel paese. La caduta del muro della paura, dopo le esperienze di Tunisia e Egitto, li ha portati ad alzare la testa contro la tirannia. Se non mettiamo al centro dell'attenzione questo grido di libertà, che nasce dal basso, non capiremmo nulla dai moti di rivolta che stanno caratterizzando la lotta dei paesi arabi contro le cariatidi al potere da troppi anni.

La piramide del potere.


di Marco Travaglio. Fonte
Buongiorno a tutti, c’è una bella aria di P2 in questi giorni, o meglio in questi giorni si scoprono rapporti revival e permanenze piduiste che hanno lavorato e operato in questi anni sotto traccia che improvvisamente stanno rivenendo fuori in parte loro malgrado grazie a un’indagine della Procura di Napoli in parte volontariamente, dichiaratamente con il progetto di cosiddetta riforma della giustizia epocale che Berlusconi ha annunciato.
Il mondo cambia, noi pensiamo ad altro
Il bello è che tutto il mondo si occupa d’altro, per esempio di quella cosetta da niente che sta avvenendo in nord Africa e che è la più importante, il più importante evento del mondo arabo e islamico che non sono necessariamente la stessa cosa di molti decenni a questa parte e cioè una rivolta finalmente non fondamentalista, finalmente non ideologica, finalmente non etero- diretta da questa o quella superpotenza, dove invece di bruciare bandiere americane, israeliane e affidarsi al solito ayatollah o al solito tiranno c’è invece una popolazione giovane, laica, educata attraverso Internet ai rapporti con le persone normali che abitano anche in Europa e in occidente.
Chiedono semplicemente libertà, autodeterminazione, diritti civili, diritti politici, libertà di parola, di espressione, di manifestazione, chiedono semplicemente normalità e nessuno riesce a controllarli e nessuno riesce neanche bene a capirli perché in quelle aree siamo abituati a apprezzare soltanto quelli che ci obbediscono o quelli che mettiamo lì noi, come avevamo messo lì il dittatore della Tunisia Ben Ali che poi si era sdebitato con i nostri politici ospitandone une latitante come avevamo sostenuto per decenni Gheddafi e come avevamo scambiato il regime feroce di Mubarak per un regime moderato soltanto perché era amico nostro.

lunedì 7 marzo 2011

Per una politica di opposizione (fra il tramonto di Berlusconi e la dissoluzione dell'Italia)


Scritto da M. Badiale - M. Bontempelli. Fonte: megachip
Il colpo di Stato di Berlusconi è già iniziato. Berlusconi si è trovato in questi mesi nella stessa situazione in cui si trovava Mussolini nel 1924, all'indomani dell'omicidio Matteotti, con lo scandalo e l'inizio di erosione del suo potere che ne seguì: nella situazione, cioè, di dover scegliere fra la rovina politica e personale e l'abbattimento delle regole della democrazia per l'instaurazione di un potere dispotico. Berlusconi, come Mussolini nel '24, ha scelto questa seconda strada.
Le analogie ovviamente finiscono qui. L'esito di un colpo di Stato di Berlusconi sarebbe molto diverso da quello di Mussolini.
Per capire questo punto, occorre riprendere ciò che abbiamo scritto in “Un tramonto pericoloso” sulla natura del blocco sociale che sostiene Berlusconi. Si tratta di un arcipelago di feudi di potere economico, politico e criminale: per dirla con una parola divenuta corrente, di cricche. Da un simile blocco sociale non può nascere un totalitarismo di Stato, ma soltanto un illegalismo dell'arbitrio, volta a volta condizionato e necessitato dai rapporti di potere tra le cricche (il totale arbitrio, infatti, non è affatto libertà, ma, come è dimostrato dalla logica hegeliana, coincide con la totale necessità). In questa situazione si manifestano due linee di forza, una a favore di Berlusconi e una contraria.
A favore di Berlusconi giocano elementi noti a tutti: il suo potere mediatico in un'epoca in cui modelli mentali e comportamentali sono sempre più di origine televisiva, e la sua capacità comunicativa nei confronti di una sempre più estesa opinione pubblica involgarita. Oltre a questo, si può notare che il suo impero economico è esso stesso una delle cricche, anzi la principale delle cricche. Si tratta di una grossa realtà che genera essa stessa affari e profitti non solo per Berlusconi, ma anche per un'ampia parte del variegato mondo affaristico che lo sostiene. Ognuno dei feudi di questo arcipelago sa che il proprio destino, se Berlusconi dovesse cadere, è di cadere insieme a lui, e questo fatto induce tutti ad una certa compattezza nel sostenerlo.

Libia, una tragedia se noi mondo libero facciamo la guerra per imporre la pace come in Afghanistan, come in Iraq.


E dalle basi della Sicilia partirebbero gli aerei per bombardare le città in mano a Gheddafi. Inevitabili gli "effetti collaterali", migliaia di vittime civili, ma gas e petrolio finalmente sicuri senza inchini e baciamano. Chissà se i libici continueranno ad avere un triste ricordo degli italiani.
Libia, una tragedia se noi mondo libero facciamo la guerra per imporre la pace come in Afghanistan, come in Iraq
di Raniero La Valle. Fonte: arcoiris
È evidente che non bisogna invadere la Libia, non mandare commandos di paracadutisti, non ripetere l’orrore della “no fly zone” che fu il massimo simbolo della prepotenza occidentale contro l’Iraq, che vuol dire guerra certa e che del resto la Lega araba non vuole. È evidente che i libici Gheddafi se lo devono cacciare da soli, come ogni popolo da solo deve cacciare i suoi governanti felloni.

Però il problema della Libia, della Tunisia, dell’Egitto, è tutto lì, come ormai da troppo tempo è lì il problema di Israele e della Palestina, di cui in nessun modo si riesce a venire a capo. Si può lasciare che questo grande dramma mediterraneo, che è anche un passaggio d’epoca, si svolga senza che da parte dell’Italia, dell’Europa, dell’Occidente, ci sia uno straccio d’idea, un progetto, una cultura per affrontarlo?
Dovrebbe cominciare proprio l’Italia, se fosse ancora un Paese che avesse un governo serio, e avesse una politica estera. Ha perfettamente ragione il ministro Maroni quando dice che la marea di profughi è tale che non la si può considerare solo un problema dell’Italia, né tanto meno di Malta, ma che è un problema dell’Europa. Sì, ma quale Europa? Si può pensare che l’Irlanda, o la Danimarca, o la Polonia, possano sentire il problema della ridislocazione delle popolazioni mediterranee come lo possono sentire i Paese rivieraschi, l’Italia, la Spagna, la Grecia?
È chiaro che il problema è soprattutto nostro. E che per affrontarlo dobbiamo fare appello alla nostra vocazione, alla nostra vicenda culturale e religiosa, alla nostra storia, che è prima di tutto e felicemente mediterranea.

I corpi bunga bunga e le mercificazioni del dio denaro.


Scritto da Giulietto Chiesa Domenica 06 Marzo 2011 Fonte: megachip
Giulietto Chiesa - Alternativa

La legge del denaro, quella che “regola” la mercificazione dei corpi e degli esseri umani, è sull’orlo del proprio fallimento. Al di là di ogni contesa giudiziaria, ciò che emerge è un Paese che sta producendo sempre nuova “carne da cannone”. E’ necessario perciò custodire memoria e indignazione per poter preparare la via di uscita da questo orrore.
LA REGINA CATTIVA della favola di Biancaneve oggi direbbe: specchio, specchio delle mie brame, chi è il più ricco del reame? Il bunga bunga è l’estrema propaggine della mercificazione cui tutti siamo stati trascinati a viva forza.La società umana è da tempo divenuta mero accessorio del sistema economico, anzi, società e mercato sono ormai la stessa cosa. E poiché questo sistema è dominato dal denaro, ecco che ogni individuo, e gli individui tutti insieme, cioè la società, è ora funzione del denaro.
Uomini e donne, donne e uomini, la natura intera, l’acqua, l’aria, sono diventati merce. In certi casi si vede di più, in altri meno. Quando si vede, ovviamene fa schifo, perché noi siamo ancora legati al nostro passato, alla nostra storia, e ce ne accorgiamo. Non tutti, ma tanti. E ce ne offendiamo quando vediamo non solo che c’è chi si vende, neanche per bisogno, ma per consumismo, ma soprattutto quando vediamo che, per molti, questa è già la norma.
Se ci sentiamo offesi è perché, donne e uomini, ancora resistiamo a questa nuova legge che - in tutto l’Occidente - è dogma. Ma dobbiamo sapere che il denaro ha già vinto e piegato a sé la maggioranza dei ricchi del pianeta. E - come vediamo attorno a noi - anche molti che ricchi non sono affatto, vedono e sentono come i ricchi, anche se non lo sanno neppure. E non lo sanno perché non si possono vedere allo specchio. L’unico specchio che vedono è quello della tv e del computer, che però rimandano indietro solo l’immagine di noi che la società dello spettacolo ha prodotto per tutti. Per questo corrono dietro la carota profumata - uomini e donne - che è stata predisposta per loro.

Standard salariale per salvare l’Europa.


di Emiliano Brancaccio. Fonte: sinistraeuropea

Quale è lo schema della proposta sullo standard retributivo europeo?
L’obiettivo della proposta, (consultabile su www.economiaepolitica.it) è di intervenire su una delle vere cause della crisi europea: la divergenza tra i costi del lavoro e il conseguente accumulo di squilibri commerciali tra paesi della zona euro. La proposta di “standard” verte su due pilastri: primo, tutti i paesi membri dell’Unione dovrebbero essere tenuti a garantire una crescita delle retribuzioni reali almeno uguale alla crescita della produttività del lavoro. Secondo, al di sopra della crescita minima, lo standard legherebbe la crescita delle retribuzioni reali agli andamenti delle bilance commerciali di ciascun paese, allo scopo di favorire il riequilibrio tra paesi in surplus e paesi in deficit con l’estero. Quindi, in sintesi, da una parte la redistribuzione sociale e, dall’altra, il riequilibrio commerciale. Il tutto con l’obiettivo del rilancio complessivo della domanda e della occupazione in Europa.
Il salario, quindi, come ultima chiamata per salvare l’unità europea?
Lo “standard” mostra che l’interesse generale collettivo, teso alla salvaguardia dell’unità dell’Europa, può coincidere con l’interesse dei lavoratori. I gruppi di interesse dominanti in Europa hanno fino ad oggi promosso politiche di stampo liberista, che hanno alimentato il dumping salariale e che hanno accentuato gli squilibri anziché risolverli. Per salvaguardare l’unità europea è allora forse giunto il tempo che le rappresentanze sociali e politiche del lavoro si facciano avanti con una proposta alternativa.
Quale è la connessione con il salario minimo?
La proposta di salario minimo europeo stabilisce semplicemente un limite retributivo al di sotto del quale non si può scendere. Si tratta di una misura auspicabile, ma in quanto tale non sarebbe sufficiente per contrastare le divergenze che stanno mettendo in pericolo l’Unione. La proposta di “standard retributivo” lega invece la crescita dei salari in rapporto alla produttività con gli andamenti delle bilance commerciali. Lo standard rappresenta quindi un elemento di convergenza che può garantire la tenuta dell’unità europea.
Come è stata accolta la proposta?

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