Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 16 novembre 2013

Gallino: “Senza lavoro, come si fa a parlare di ripresa imminente?”

Fonte: huffingtonpost.it | Autore: Giulia Belardelli
                                
 
Intervista a Luciano Gallino

"Ci vuole una bella dose di umorismo nero per parlare, oggi, di una ripresa imminente". Non ha dubbi Luciano Gallino, sociologo e massimo esperto italiano del mercato del lavoro. Il guaio è se a fare del "black humor" è il primo ministro di un Paese, in questo caso il nostro. Come si fa - si domanda Gallino - a parlare di ripresa con la disoccupazione a livelli record e in assenza totale di politiche per l'occupazione?

Il presidente Letta ha detto che “la ripresa è a portata di mano”, anche se non si vede. È davvero così?

Ci vuole una bella dose di ottimismo per fare un’affermazione del genere. I rapporti e gli studi che si possono leggere a livello internazionale dicono ben altro. È quanto meno paradossale che si parli di sintomi di ripresa con la disoccupazione in aumento. È come se ci si dimenticasse che il parametro più significativo per valutare lo stato di salute di un’economia è il tasso di occupazione. Detto sinceramente, per parlare ora di ripresa ci vuole una bella dose di umorismo nero.

Dagli Stati Uniti all’Europa, in molti prevedono una jobless recovery, ossia una ripresa senza lavoro. Secondo lei, è un ossimoro? Oppure è davvero possibile una ripresa senza lavoro?

Se l’occupazione non cresce, l’economia reale non può che risentirne. Chi parla di ripresa asseconda le teorie economiche neoliberali che hanno conquistato il discorso mediatico. Si guarda solo ed esclusivamente al Pil, e non al modo in cui è prodotto. E il Pil può crescere di qualche punto perché sono ripartite le attività finanziarie. Ma che ripresa è questa?

Quale cambio di passo dovrebbe esserci, in Europa, per invertire la rotta?

In Europa non si è intrapresa nessuna seria riforma che possa favorire l’occupazione: l’economia reale non è sostenuta, punto. Negli Stati Uniti si è fatto di più. L’Europa, con le sue politiche di austerità, non sta facendo altro che favorire la disoccupazione. Ignorando un altro aspetto fondamentale: la povertà. Ci sono, a cominciare dall’Italia, milioni di precari che guadagnano pochi euro all’anno e vivono nella disperata attesa del rinnovo di un contratto. Secondo Eurostat, ci sono in Europa più di 120 milioni di persone a rischio povertà. Si tratta di un quarto della popolazione europea. Sono questi gli indicatori che bisogna tenere a mente quando si parla. Perché le luci che si scorgono in fondo al tunnel possono anche essere i fari di un tir che arriva a tutta velocità dalla direzione opposta.

Cosa dovrebbero fare, dunque, l’Europa e i singoli paesi?

Il bello è che potrebbe fare molte cose. Ad esempio, l’Ue potrebbe varare un grande progetto per l’occupazione. Ma non spingiamoci troppo in là: basterebbe semplicemente richiedere un maggiore rispetto degli stessi trattati europei. L’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, ad esempio, è pura follia dal punto di vista della politica economica.

L’Europa ce l’ha chiesto e noi l’abbiamo fatto, si dice…

Sarebbe bastato leggere con attenzione i trattati per capire che si poteva scegliere una legge ordinaria. In tutta la loro storia gli Stati Uniti avranno rispettato il pareggio di bilancio quattro o cinque volte. Vorrà pur dir qualcosa… Invece il Parlamento italiano ha liquidato la questione in un quarto d’ora. Alla pesca del pesce azzurro nel Mediterraneo si sarebbero dedicati più tempo ed energie.

Parlando della legge di Stabilità, il viceministro all'Economia Stefano Fassina ha ammesso che una terapia shock per l'Italia è impossibile per via dei vincoli imposti dall'attuale politica economica della zona Euro. Anche nel governo, dunque, c'è chi si auspica una "correzione di rotta" della politica economica dell'Eurozona. Come commenta?

I nostri governanti (come quelli di altri paesi) appaiono totalmente succubi dei dettami di Bruxelles, questa è la verità. Mentre un grande Paese fondatore dovrebbe avere la forza e l'energia per chiedere - se necessario - una riforma dei trattati o quanto meno un'interpretazione meno passiva degli stessi. I nostri governi - sia quello attuale che quello precedente - non l'hanno fatto. Si sono comportanti come il militare di leva che batte i tacchi e obbedisce all'ordine.

Il suo ultimo libro si intitola "Il colpo di Stato di banche e governi". Perché parla di colpo di Stato?

Dal 2010 in poi è intervenuto nei Paesi dell’Unione europea un paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è che la crisi, fino all'inizio del 2010, è stata un crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l'idea che il problema fossero i debiti pubblici degli stati. Detta in parole semplici: i parlamenti hanno ceduto potere ai governi; i governi hanno ceduto alla Commissione europea e alla Bce; la Bce e la Commissione europea hanno assecondato Fmi e Banca Mondiale, e tutti insieme hanno ceduto alle grandi istituzioni finanziarie, che hanno bilanci superiori a quelli degli stati nazionali.

venerdì 15 novembre 2013

Le agenzie di rating: il retroscena della finanza

di Saverio Pipitone - 14 Novembre 2013 - ilcambiamento -

Chi sono le agenzie di rating

Le agenzie di rating sono quelle società finanziarie private che emettono giudizi sulla credibilità economica e finanziaria di un paese, una banca o un'azienda condizionando scelte finanziarie globali o nazionali che possono avere esiti devastanti per una società. Ma chi le muove? Come funzionano? Ecco una prima analisi di un esperto del settore che ci spiega i meccanismi speculativi di queste eminenze grigie della finanza liberista.



Dalla seconda metà dell’Ottocento il processo di accumulazione del capitale ha seguito un avanzamento esponenziale e la stessa produzione che ne sta a fondamento non è riuscita a tenerne il passo.
La massa di capitali accumulati non ha tuttavia raggiunto il pieno impiego fino a quando non è subentrata la fase del capitalismo monetario che supera i cicli di produzione e consumo delle merci incentrandosi in un’odierna «società deindustrializzata e post-consumistica ovvero indebitata» per riprendere una frase di Stefano Franchini (nell’introduzione nel libro da lui curato Il capitalismo divino: colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione, edito da Mimesis).
Un debito permanente che trascina interi Paesi e singoli consumatori ai quali si affibbia un’etichetta di affidabilità creditizia, meglio nota con il termine “rating”, emessa da agenzie private fondate alla fine dell’Ottocento.
Stiamo parlando delle tre sorelle Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch che da qualche anno influiscono sul mercato mondiale imponendosi come demiurghi delle crisi finanziarie.
Nel libro Le agenzie di rating (edito dal Mulino) Giovanni Ferri e Punziana Lacitignola ne descrivono l’origine, la struttura, il ruolo e le problematiche legate alla finanza internazionale affermando che «[…] le agenzie forniscono un’opinione su quello che è il merito di credito in un determinato lasso di tempo, e a essa è collegata una specifica probabilità di default».
Migliaia di organizzazioni economiche private o pubbliche vengono osservate nella capacità di onorare i debiti rimborsando capitale e interessi con una valutazione basata su una serie di elementi quali probabilità, rischio, incertezza e complessità, a cui si lega un segno alfanumerico che sintetizza varie informazioni quantitative o qualitative e in genere parte da una tripla A per un alto grado di solvibilità fino alla D per l’insolvenza.
Praticamente le agenzie di rating interpretano i dati del presente per anticipare gli scenari futuri, ma in realtà dai primi anni Duemila a oggi non hanno previsto la bancarotta di Enron negli Stati Uniti, il default dei bond argentini, i crac Parmalat e Cirio in Italia, il crollo della banca Lehman Brothers, avallando positivamente prodotti finanziari anomali su cui nessuno avrebbe scommesso e milioni di risparmiatori sono stati messi in ginocchio.
L’Associazione di consumatori Adusbef di Roma aveva già avvertito il mercato sulle previsioni errate delle tre sorelle del rating e qualche mese fa ha avviato un’azione legale contro una sospetta emissione di un rating sovrano negativo sull’Italia circa un presunto rischio di insolvenza ad adempiere agli impegni del debito pubblico.
La procura di Trani ha svolto le indagini concludendo poi l’inchiesta con l’accusa per Standard & Poor’s di «manipolazione di mercato pluriaggravata e continuata che ha provocato una destabilizzazione dell’immagine, prestigio e affidamento creditizio dell’Italia sui mercati finanziari»; nel documento di chiusura delle indagini si può leggere che «fornivano intenzionalmente ai mercati finanziari, quindi agli investitori, un’informazione tendenziosa e distorta in merito all’affidabilità creditizia italiana ed alle iniziative di risanamento e rilancio economico adottate dal Governo, per modo di disincentivare l’acquisto di titoli del debito pubblico italiano e deprezzarne il valore».
In questi giorni è toccata alla Francia essere declassata dall’agenzia di rating Standard & Poor’s che ne ha bocciato le politiche finanziarie e i ministri economici francesi hanno affermato che i giudizi emessi dall’agenzia sono inesatti.
Nel libro I signori del rating (edito da Bollati Boringhieri) Paolo Gila e Mario Miscali spiegano che per conoscere le agenzie di rating «il baricentro dell’attenzione deve essere spostato sugli assetti proprietari, sulla rete di relazione che esiste tra questi “sistemi esperti” che controllano e guidano i mercati, il mondo degli investitori e quello del rating. Che cosa accadrebbe se qualche società o qualche uomo della finanza fosse presente contemporaneamente su tutti questi piani (informazione, controllo, investimento, rating) e potesse accedere alle informazioni mondiali rilevanti alla velocità della luce mentre parallelamente decide le sorti di un Paese attraverso un giudizio di valutazione della capacità di credito dei suoi bond?».
Nell’agenzia Moody’s il principale azionista è il magnate Warren Buffet, mentre un azionista di minoranza comune alle tre sorelle è il fondo di private equity BlackRock, ed entrambi hanno puntato sempre su “cavalli vincenti”. Sullo stesso mercato questi big della finanza da un lato giudicano e dall’altro investono, richiamando alla mente il finanziere d’assalto degli anni Ottanta Gekko Gordon del film Wall Street che, munito di informazioni riservate e reperite con l’inganno, speculava cinicamente in Borsa per fare soldi in poche ore anche se provocava fallimenti di aziende e la perdita di posti di lavoro.
Il professore Pierangelo Da Crema nel libro La crisi della fiducia (edito da Etas) individua le colpe del rating nel crollo della finanza globale ma avverte che «[…] sbaglierebbe chi volesse riconoscere la radice di quanto è successo solo nell’avidità degli uomini del rating e della finanza. Su uno sfondo brulicante e sconfinato premono i bisogni e i desideri di un’umanità intera, la voglia di tutti di avere di più».
Siamo dinanzi a un gioco pericoloso dove a ogni debito corrisponde un credito e al vantaggio di uno lo svantaggio di tanti altri che sono oramai soggiogati da una pesantissima crisi non di penuria di beni ma per mancanza di eccesso, ovvero i beni non mancano e le persone vogliono consumare sempre di più senza mai soddisfarsi ed indebitandosi per mantenere questo stile di vita.
Il consumatore rappresenta l’ultimo anello di questo sistema capitalistico di produzione e distribuzione di beni di consumo, sia materiali che immateriali, ma paradossalmente ha il potere di influenzare tutta la filiera economico-finanziaria verso l’alto per avviare un primo cambiamento attraverso l’adozione di comportamenti di sobrietà nei consumi con una conseguente riduzione del debito.

Il Grande "Déjà vu” delle rassicurazioni economiche

di Sebastiano Marino - sinistrainrete -

Da metà Settembre 2008 ad oggi non sentiamo altro che parlare di crisi e di recessione su tutti i media.

La crisi, esplosa negli Stati Uniti a causa della bolla immobiliare dei mutui subprime, si è poi riverberata in Europa minando seriamente le fragili fondamenta dell’Eurozona e provocando una vera e propria depressione economica nei paesi del Sud Europa. Tuttavia, dopo l’ultimo importante scossone delle borse valori nell’estate 2011 con la famosa crisi degli spread sulle obbligazioni sovrane dei PIIGS, è tutto un susseguirsi di dichiarazioni dei politici e burocrati nazionali e sovranazionali a proposito di riprese che dovrebbero arrivare e luci in fondo al tunnel che dovrebbero spuntare.


Le borse valori sembrano essere oggi del tutto slegate all’economia reale. Se, ad esempio, consideriamo l’indice azionario di riferimento americano, lo S&P 500, vediamo che dal minimo toccato a Marzo 2009 ha avuto un incremento del 164%, mentre l’Eurostoxx 50, l’indice di riferimento europeo, ha avuto nello stesso periodo un incremento del 74%. Non male per due aree geografiche in cui la crisi rispettivamente è nata ed è ancora in corso (anche se si potrebbe discutere sul fatto che gli USA ne siano usciti del tutto).

Per parafrasare un celebre libro sulle crisi finanziarie, si potrebbe dire che “questa volta non è diverso” rispetto alle passate crisi e, segnatamente, non lo è rispetto alla Crisi del ’29 e alla Grande Depressione seguente, non solo per quanto riguarda le caratteristiche proprie ai fenomeni finanziari ed economici, ma anche per quanto concerne le consuetudini degli uomini di potere che dovrebbero gestire queste dure fasi sociali.
Da poco mi è capitato di leggere “Il Grande Crollo”, libro del notissimo economista John Kenneth Galbraith, che narra in maniera alquanto dettagliata gli avvenimenti degli anni che precedettero e che seguirono la caduta della Borsa Valori di New York nell’Ottobre del 1929.
Ad ogni pagina mi si riaffacciava alla mente il pensiero che un sopravvissuto a quella crisi potrebbe benissimo battezzare la crisi in corso come “Il Grande Déjà Vu”.

Non pochi sono gli elementi che si ripresentano oggi in maniera simile se non del tutto identica ad allora, alcuni veramente tragicomici. Vediamo di ripercorrerne qualcuno (sulle cause della crisi e le ripercussioni macroeconomiche invito il lettore a leggere per esteso il libro di Galbraith)
.

Anche allora la crisi fu preceduta durante la metà degli anni ’20 da un boom immobiliare che si concentrò negli stati statunitensi del sud-est, in particolare nella Florida.
Il 1927 e il 1928 furono due anni di forte crescita del mercato azionario, in cui venivano continuamente battuti record di prezzi e di volumi delle contrattazioni e, anche allora, l’indice nascosto da tenere d’occhio era quello della contrattazione a riporto, detto anche margin debt .
Per sostenere e difendere la pratica della contrattazione a riporto si diceva “non che essa assistesse in modo efficace e ingegnoso lo speculatore, ma che incoraggiasse le operazioni addizionali che trasformano un mercato fiacco e anemico in un mercato sano e robusto”. Il tasso d’interesse sui prestiti a riporto passò durante il 1928 dal 5% al 12%, questo fece sì che arrivassero da tutto il mondo capitali per finanziare gli acquisti di titoli a riporto a Wall Street, comprese molte aziende che preferirono usare i loro capitali in questo modo piuttosto che usarli negli investimenti produttivi.
Tra l’altro le banche newyorkesi riuscirono a mettere in atto “la più vantaggiosa operazione d’arbitraggio di tutti i tempi” prendendo a prestito denaro dalla Federal Reserve al 5% e prestandolo al 12% senza fare molte domande a chi chiedeva fondi. Naturalmente qualcuno si accorse che questa euforia dei prestiti su titoli era un qualcosa di anomalo, ma venne aspramente criticato come profeta di sciagure che voleva minare la fiducia del pubblico. Due di questi furono il banchiere Paul M. Warburg, che nel marzo 1929 chiese alla Federal Reserve di arrestare la “sfrenata speculazione” in corso prima di giungere a un disastroso tracollo che avrebbe provocato una depressione generale nazionale, e l’investitore Roger Babson, che aveva profetizzato un crollo sul mercato azionario grazie all’utilizzo dell’analisi grafica e che, proprio per non aver utilizzato i canonici “metodi scientifici” accademici, fu dileggiato. Anche se di vedute opposte, rimase celebre l’affermazione resa nell’autunno del 1929 dal professor Irving Fisher, di Yale: “i prezzi dei titoli hanno raggiunto quella che appare una quota stabilmente elevata”; aggiunse poi: “Mi aspetto di vedere fra qualche mese il mercato azionario a un livello più elevato di oggi”. Qualche mese dopo Fisher cercava a tutti i costi di spiegare perché aveva sbagliato dicendo sostanzialmente che la sua previsione era fallita per l’irrazionalità della folla.
Anche allora il mainstream economico, i cosiddetti neoclassici, guidava l’opinione pubblica, in particolar modo contro le leggi statali e federali (i famosi “lacci e lacciuoli”), considerate “un’arcaica barriera a un consolidamento che avrebbe riunito le banche dei piccoli centri in pochi grandi gruppi regionali e nazionali” (è davvero incredibile come i concetti su cui si svolgono le battaglie tra gli economisti sono rimasti sempre uguali, anche se supportati da dosi crescenti di matematica ed econometria). Questi professori dell’epoca vivevano in un periodo d’oro e spesso diventavano consulenti privati degli investment trust (i precursori dei moderni fondi d’investimento) e quindi non siamo pienamente sicuri che i loro “consigli” fossero del tutto disinteressati.
Nei giorni seguenti al crollo di fine ottobre iniziarono le rassicurazioni dai piani alti della finanza e della politica, condite dal solito neoclassicismo e laissez-faire. Il presidente della National City Bank (oggi Citibank) dichiarò che le condizioni dei mercati erano “fondamentalmente sane” e “la situazione era tale che, se lasciata a se stessa, si sarebbe corretta da sola”.

I giornali annunciavano che nei mercati sarebbe stata esercitata un’azione di “sostegno organizzato” da parte delle banche per arginare il crollo, che in effetti ci fu per la mezza giornata del Giovedì Nero del 24 ottobre 1929, tra un’ondata di panico e l’altra in cui diversi famosi speculatori dell’epoca si suicidarono.



Per far sorgere qualche piega ai lati della bocca sono sicuramente da ricordare i vari interventi della Harvard Economic Society, una vera miniera d’oro di previsioni errate (lo scopo di questo istituto extrauniversitario doveva essere quello di “assistere gli uomini d’affari e gli speculatori nelle previsioni del futuro”), di cui ancora oggi i successori mantengono intatta la tradizione.

All’inizio del 1929 questa società era stata ribassista e aveva affermato quasi ogni settimana che si era prossimi ad una recessione, ma, quando il mercato per tutto l’anno la sconfessò, si arrese affermando di essersi sbagliata. Così cambiò del tutto le proprie previsioni. Il 2 novembre 1929, subito dopo il crollo, affermò che “l’attuale recessione, sia per le azioni che per gli affari, non è il preludio di una depressione economica”. Pochi giorni dopo, il 10 novembre, sentenziò che “una severa depressione come quella del 1920-1921 non rientra nel novero delle probabilità. Non ci troviamo di fronte a una liquidazione prolungata” e ripeté la stessa sentenza il 23 novembre. La lista di questo genere di affermazioni si allungò ogni settimana in maniera sempre più divergente rispetto alla realtà.
Il 21 dicembre 1929: “Una depressione appare improbabile; [prevediamo] una ripresa degli affari nella prossima primavera, con un ulteriore miglioramento in autunno.”
Il 18 gennaio 1930: “Ci sono segni di un superamento della fase più dura della recessione.”
Il 1° marzo: “L’attività manifatturiera, a giudicare dai passati periodi di contrazione, è ora decisamente in via di ripresa.”
22 marzo: “Le prospettive continuano ad essere favorevoli.”
19 aprile: “Per maggio o giugno la previsione di ripresa primaverile dei nostri bollettini di dicembre e novembre dovrebbero palesemente avverarsi.”
17 maggio: “[gli affari] si metteranno al meglio questo mese o il prossimo, riprenderanno vigorosamente slancio nel terzo trimestre e concluderanno l’anno a un livello sostanzialmente superiore al normale.”
24 maggio: “[le condizioni] continuano a giustificare i pronostici del 17 maggio.”
28 giugno: “Gli irregolari e contrastanti movimenti degli affari dovrebbero presto cedere il passo a una sostenuta ripresa.”
19 luglio: “Elementi infausti sono intervenuti a ritardare la ripresa, ma cionondimeno l’evidenza fa presagire un sostanziale miglioramento.”
30 agosto: “La presente depressione ha quasi esaurito la sua forza.”
15 novembre: “Siamo ora vicini alla fine della fase declinante della depressione.”
31 ottobre 1931: “La stabilizzazione ai livelli (attuali) di depressione è palesemente possibile.”
Qualche mese dopo la Society fu sciolta.
Altre rassicurazioni giunsero in quei giorni. I rappresentanti delle maggiori concessionarie di borsa dichiararono che il mercato era “fondamentalmente sano” e “tecnicamente in condizioni migliori di quelle in cui si è trovato per mesi”. Una di esse aggiunse: “Siamo convinti che l’investitore che acquista titoli in questo momento […] può farlo con la massima fiducia”. Eugene M. Stevens, presidente della Continental Illinois Bank: “Nella situazione economica non c’è nulla che giustifichi il nervosismo”. Il presidente degli USA Hoover: “L’attività fondamentale del paese, cioè la produzione e la distribuzione delle merci, si svolge su base solida e prospera”.
Naturalmente oggi sappiamo che le cose stavano in un modo leggermente diverso, il declino del mercato azionario era appena all’inizio, così come gli indicatori macroeconomici.
In quel preciso periodo grazie al presidente Hoover nacque il rito delle riunioni inconcludenti, destinate a non produrre decisioni, descritto mirabilmente in uno dei migliori paragrafi del libro di Galbraith. Come il lettore può agevolmente constatare, oggi tale rito ha assunto un’importanza quasi semi-divina: i nostri politici ci hanno ormai abituato a regolari vertici europei e internazionali in cui non si decide nulla. Hoover fu un pioniere e non perdeva occasione per incontrarsi con industriali, dirigenti delle ferrovie e del settore edilizio, capi delle grandi aziende di servizi pubblici e delle organizzazioni degli agricoltori. Tali riunioni volevano dare la sensazione che si stessero sbrigando degli affari utili per la collettività tramite lo “scambio d’idee”. In realtà nessuno, tra coloro che erano invitati, aveva la benché minima idea di cosa fare per contrastare la depressione economica.
In seguito alle riunioni inconcludenti Hoover fece altre dichiarazioni ottimistiche: “I provvedimenti presi [comprese le conferenze inconcludenti] hanno ristabilito la fiducia” aggiungendo che “i peggiori effetti del tracollo sulla disoccupazione sarebbero finiti in una sessantina di giorni” e ancora che “abbiamo ora passato il peggio e con una continua unità di sforzi ci riprenderemo rapidamente”.
Ci pare opportuno concludere con un passo quasi scioccante del testo di Galbraith in cui si racconta di come il nuovo presidente della borsa, Richard Whitney, eletto nel 1930, scaricò le responsabilità della crisi sull’apparato pubblico:
“Il governo, non Wall Street, aveva la responsabilità dell’attuale congiuntura, dichiarò Whitney, e il governo, egli aggiunse, poteva dare il suo maggior contributo alla ripresa portando in pareggio il bilancio e ristabilendo così la fiducia [vi ricorda qualcosa? Ndr]. Per il pareggio del bilancio egli raccomandò la riduzione delle pensioni e delle provvidenze per gli ex-combattenti che non avessero inabilità contratte in servizio, e inoltre la riduzione di tutti gli stipendi statali. Interrogato circa l’opportunità di ridurre la propria paga, egli rispose che no, che era “molto bassa”. Incalzato dalle domande circa il suo ammontare, disse che era solo di 60 mila dollari circa [circa 1 milione e mezzo di dollari correnti, ndr]. I membri della commissione richiamarono la sua attenzione sul fatto che ciò era sei volte quel che riceveva un senatore, ma Whitney rimase imperturbabilmente favorevole alla riduzione degli stipendi pubblici, inclusi quelli dei senatori.”
Qualche anno dopo Whitney fu arrestato per appropriazione indebita grave.

Fuori dall'Unione Europea

Una proposta politica per il cambiamento

Rete dei Comunisti - sinistrainrete -

Forum Euromediterraneo, Roma 30 Novembre – 1 Dicembre 2013 (ore 10.30,ex Mattatoio, via Monte Testaccio 22) promosso dalla Rete dei Comunisti*
Le nostre tesi storiche e politiche
a) Un nuovo polo imperialista
La costruzione dell’Unione Europea è indubbiamente un evento storico per il mondo e per la storia del continente anche se i caratteri che ha assunto fin dall’inizio negli anni ’90 sono stati quelli di una area capitalistica competitiva a livello internazionale. Non a caso il terreno su cui cementare la prospettiva unitaria è stato quello monetario con la nascita dell’Euro quale moneta di riserva internazionale ed in diretta concorrenza con il Dollaro statunitense. Dunque l’Unione Europea, a differenza di come viene dipinta, è un elemento di instabilità internazionale come aveva detto già negli anni ’90 il falco americano Martin Feldstein preconizzando rischi di guerra mondiale.
Con sicurezza a tutt’oggi possiamo dire che questa unione sta destabilizzando gli assetti economici e sociali interni ai paesi che vi partecipano. Sono in corso forti processi di concentrazione e centralizzazione delle imprese assurte ad una dimensione sovrannazionale e conseguenti processi di ristrutturazione, viene ridimensionato dappertutto lo Stato Sociale, viene ridotto il potere contrattuale del lavoro dipendente e subordinato aumentando lo stato di precarietà occupazionale soprattutto per i settori giovanili, insomma vengono applicate sempre più rigidamente le leggi dello Modo di Produzione Capitalista che si basa sullo sfruttamento.
Questi processi, che vivono su tutto il territorio continentale, non si manifestano in tutti i luoghi con le stesse forme e la stessa intensità; infatti si sta configurando un processo di gerarchizzazione tra i diversi paesi e regioni, classico nelle dinamiche sociali e politiche del capitalismo, dove si afferma la più brutale e forte diseguaglianza. Si sta formando un centro, dove si concentra il potere economico e finanziario, e le periferie dove il disagio sociale aumenta e dove la forza lavoro può essere agevolmente sfruttata e piegata alle esigenze del mercato. Centro e periferie che non seguono necessariamente i confini dei diversi Stati nazionali ma quello delle classi, ovvero siamo di fronte alla costituzione continentale di una borghesia, sommatoria selettiva e dialettica delle diverse borghesie nazionali, e di un proletariato e classi subalterne estremamente diversificati per condizione, reddito, mansione lavorativa e dislocazione territoriale oltre che per storia e cultura.
Quella che si sta creando non è una democrazia che mira al benessere dei popoli che la compongono ma è la costruzione, scientifica e sistematica, di un Polo Imperialista che deve competere a livello internazionale ed ad una dimensione paritaria con gli USA, la Cina, il Giappone ed i molteplici soggetti statuali ed economici che oggi danno vita alla competizione globale.

b) Rompere l’Unione Europea

I settori sociali vittime di questa costruzione, le classi lavoratrici, le sinistre, i comunisti ed i movimenti democratici del continente devono avere ben chiara questa dinamica in quanto una lotta contro l’Unione Europea è la lotta contro la nascita di un nuovo imperialismo che non può che peggiorare la condizione dei propri popoli e di quelli di cui si appresta a fare rapina. L’aggressività verso i popoli del Medio Oriente per rapinare le loro risorse energetiche (concretizzatasi negli interventi militari e nella loro tribalizzazione) come le aggressioni fatte verso i paesi dell’Est dopo la fine dell’URSS (di cui lo smembramento della Jugoslavia ne è l’esempio più eclatante) stanno a testimoniare che la nascita di un nuovo soggetto imperialista non può essere promotore di crescita e benessere ma è funzionale a rapinare le risorse interne ed esterne rese sempre più scarse dalla crisi sistemica che procede dal 2007 nel mondo in funzione dell’accumulazione dei profitti.
La nascita di questa nuova entità statuale, seppure ancora in via di formazione, è un passaggio storico che non può essere sottovalutato nelle sue conseguenze, ne si può pensare che questo progetto intrinsecamente reazionario possa fallire a causa delle proprie interne contraddizioni. Ancora una volta è necessaria la soggettività politica e la lotta delle classi che sono e saranno penalizzate da un tale sviluppo.
Saranno necessarie le lotte in difesa delle residue tutele del lavoro e di quelle sociali, bisognerà ricostruire l’organizzazione delle classi subalterne per impedire i processi di impoverimento e di sfruttamento che diverranno tanto più forti quanto avanzerà la crisi generale del capitalismo, come pure bisognerà battersi in difesa dei diritti democratici erosi dalla burocrazia comunitaria. Ma costruire tutto questo in modo permanente nel tempo sarà possibile solo se si riuscirà ad individuare una proposta ed una prospettiva di fuoriuscita dall’attuale sviluppo capitalista.

c) Costruire l’area alternativa Euromediterranea

Il punto di crisi, l’anello debole, della costruzione europea è che questa si può realizzare solo peggiorando le condizioni di vita e dei diritti sociali, politici e democratici di decine e decine di milioni di lavoratori, giovani, donne, immigrati in Europa; e gran parte di queste popolazioni sono concentrate nei paesi euromediterranei, i cosiddetti PIIGS dal Portogallo alla Grecia passando per l’Italia, che stanno pagando a caro prezzo la costruzione della UE. Contrastarla significa partire da queste contraddizioni concrete per bloccare un processo storicamente dannoso.
Questa “faglia” sociale divide nettamente chi guadagna dalla crisi da chi ci rimette in modo drammatico; essa si manifesta a partire dai PIIGS ma già adesso si estende ai paesi dell’Est ed in prospettiva arriva fino ai lavoratori dei paesi centrali più forti del Nord Europa, che per ora sembrano fuori dalla crisi sociale che attanaglia il resto del continente.
Organizzare socialmente e politicamente il nostro versante della “faglia” sociale descritta è il giusto modo per contrastare questa distorta nuova dimensione Europea; per questo va ipotizzato e avviato un processo di organizzazione e di alleanze sociali che abbia un carattere sovrannazionale, che rompa l’Unione Europea e che costruisca quel Blocco Sociale Antagonista in grado di materializzare questa prospettiva. Un blocco sociale che si ponga l’obiettivo di divenire anche Blocco Storico ovvero una forza reale che sappia progettare non solo il piano della difesa sociale, politica e democratica dei settori di classe e dei suoi alleati obiettivi ma anche su quello dell’attacco per il superamento dell’attuale ed iniquo sistema sociale.
E’ utile qui inquadrare e ritornare su un concetto lasciato ormai da anni nell’oblio che è quello di “Blocco Storico”. Negli anni passati è sempre stato usato quello di “Blocco Sociale” in riferimento al conflitto di classe ed alle ipotesi di rappresentanza politica. Era ed è un uso corretto, ma il termine “Storico” sposta in avanti tutto il ragionamento verso la questione degli assetti sociali complessivi e verso le ipotesi di un loro cambiamento rivoluzionario. Il Blocco Storico presuppone, in ogni tipo di assetto sociale ed oggi nel capitalismo, una propria unità, ma anche una dialettica interna tra le sue diverse componenti; e riguarda sostanzialmente la costruzione dell’organicità, o della non contraddittorietà, tra la Struttura (ovvero la parte economico-produttiva) e le Superstrutture (o “sovrastrutture”, come l’ideologia, l’etica, la religione, la cultura, ecc) all’interno di una Nazione o di uno Stato.
Oggi questa “organicità” nel capitalismo mondializzato si è rotta ed è nelle cose la necessità di individuare il superamento dello stato presente delle cose. Per noi questo significa concretamente proporre, propagandare e battersi per la costruzione di un’area omogenea, sia sul piano istituzionale che su quello economico e monetario, che veda assieme tutti i paesi del Mediterraneo nel chiamarsi fuori dal condizionamento e ricatto dei poteri forti finanziari, economici e della Eurocrazia ma che vede complice e partecipe anche la parte “vincente” e non berlusconiana della nostra Borghesia nazionale. Una parte di questa borghesia sconfitta ha interesse a rompere con gli assetti dominanti nell’Unione Europea. Per la sua natura sociale ne intravede solo vie d’uscite nazionaliste e conservatrici. Ma è proprio sull’egemonia nel processo di rottura e fuoriuscita che il movimento di classe può e deve giocarsi la partita dei proprio interessi e renderli egemonici su quelli di un settore della borghesia in crisi.
Una proposta che guarda anche agli altri popoli d’Europa ed ai quali dice che la crisi attuale non è il prodotto di incidenti “naturali” ma è stata costruita ad arte per piegare tutta la società al volere della costituenda borghesia continentale. E’, dunque, anche un modello che può parlare alle altre regioni, da quelle dell’Est a quelle centrali, fino a quelle dell’Europa settentrionale, anche in forza della maggiore omogeneità produttiva, sociale, politica e culturale che caratterizza ognuna di queste aree.

d) Per la transizione, verso il Socialismo nel XXI° secolo

L’ipotesi di un’area, di un insieme di paesi, che si stacca dal proprio imperialismo predominante non è certo una novità ed oggi ha il suo riferimento più avanzato nell’esperienza dell’ALBA latinoamericana che ha scelto una strada indipendente dagli USA, nonostante la guerra economica, politica e diplomatica che questi gli fanno. I motivi di questa divaricazione stanno nella storia del quel continente e delle sue relazioni con gli Stati Uniti i quali hanno considerato quei paesi il loro cortile di casa e conseguentemente lo hanno sfruttato e brutalmente represso ogni volta che lo hanno ritenuto necessario. La rottura con gli USA non è limitata ad essere solo politica ma è divenuta anche una rottura con quel modello sociale, con il capitalismo. E’, dunque, stato necessario individuare una prospettiva che ora si può chiamare socialismo del XXI° secolo e che recupera storicamente una alternativa sociale che sembrava finita con l’URSS.
Pezzi importanti dell’Europa ora vivono questa stessa condizione di sfruttamento che peggiorerà con l’avanzare della crisi e dunque si affaccia anche da noi l’esigenza obiettiva di separare i destini di chi viene subordinato dalle esigenze del capitale che vuole distruggere tutte le conquiste sociali, politiche e di civiltà fatte dalle generazioni precedenti. Certamente se l’esigenza politica è la stessa le condizioni sono diverse e, ad esempio, le risorse naturali a disposizione dei paesi latino americani da noi non sono disponibili; ma nei nostri paesi abbiamo altre risorse che sono quelle di possedere un livello avanzato sul piano scientifico e produttivo ed i paesi PIIGS, soprattutto in Italia, non sono certamente sprovvisti di queste qualità e potenzialità. Non è stato certo un caso che nel subordinare il nostro paese alla dimensione continentale la Scuola, l’Università e la Ricerca sono state sistematicamente distrutte, equanimemente dai governi di centrodestra e di centrosinistra, come non è un caso che una serie di imprese di punta e competitive sono state svendute a privati ed a imprese estere dentro una logica di divisione internazionale del lavoro che vede il ruolo dell’Italia e degli altri paesi del Mediterraneo soprattutto come fornitori di manodopera qualificata e collocata nella periferia produttiva interna alla UE.
Reclamare la propria indipendenza dal progetto della Unione Europea non solo è una affermazione dei diritti dei popoli ma è anche una possibilità di crescita economica e sociale; non è vero che non c’è alternativa al capitalismo occidentale, infatti un cambiamento come quello proposto permette un rapporto diretto e più libero con le uniche aree che oggi crescono sul piano internazionale, i cosiddetti paesi emergenti. Ma anche con le potenzialità che possiede la sponda sud del Mediterraneo compressa dall’intervento anche militare degli USA ma soprattutto della UE. Rompere questo progetto di dominio eurocentrico significa candidarsi ad un rapporto privilegiato con aree economiche e paesi che possono effettivamente crescere nei prossimi decenni, trovare un ruolo internazionale fuori dalla gabbia del capitale europeo ma anche una opportunità internazionalista in quanto la sconfitta dei paesi imperialisti dominanti non può che passare attraverso l’individuazione di un modello sociale e produttivo alternativo che possiamo definire come Socialismo del XXI° secolo.
Su questo punto bisogna essere molto chiari, infatti questa ripresa della marcia verso il Socialismo e la transizione, per il superamento del capitalismo, forse non è quello che ci saremmo aspettati o che avremmo voluto; questa ripresa vede l’intreccio tra elementi di socialismo e meccanismi economici intrisi ancora da una logica capitalista. La garanzia del superamento di questa non può essere meccanicamente garantita da nessuno e dunque sarà decisivo l’impegno, la lotta e la soggettività delle classi subalterne. Ma aver individuato una ripresa del movimento di classe a livello internazionale e una ipotesi di sviluppo del socialismo possibile è indubbiamente una opportunità che la situazione ci offre e che va colta inserendosi dentro questo, per ora lento, fiume della Storia.


Le nostre tesi economiche e sociali


a) La crisi è sistemica

Quando si scatena la crisi dei subprime negli USA, volutamente viene evidenziata come crollo di carattere finanziario per lo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie; ma è semplicemente la punta dell’iceberg che evidenzia un blocco dell’economia reale nei processi stessi dell’accumulazione, cioè sono questi stessi meccanismi che permettono la crescita capitalistica che si sono inceppati già dai primi anni ’70 e che dimostrano che la crisi è sistemica e irreversibile. La difficoltà di riattivare un nuovo e profittevole modello di accumulazione rende questa crisi unica, mettendo in seria discussione lo stesso modo di produzione capitalistico, è per questo che ormai da vent’anni la identifichiamo come di carattere sistemico.
Gli intensi processi di competizione globale dell’economia a livello mondiale hanno portato la Germania a costruire un polo geoeconomico a carattere imperialista con un asse privilegiato verso la Francia ma rivolgendosi a tutte le borghesie europee in maniera differenziata in funzione del ruolo assegnato ad ogni singolo paese nella nuova divisione internazionale del lavoro; questo per cercare una ipotetica soluzione ai problemi della concorrenza internazionale con la costruzione di un’area economica e monetaria incentrata sull’esigenza esportatrice del modello tedesco.
La costruzione dell’Europolo imperialista, basata sui parametri di Maastricht, altro non rappresenta che la definizione di uno scenario di un confronto aperto e da protagonisti a quella economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense o meglio anglosassone, quella incentrata sulla variabile asiatica e quella dell’Eurozona guidata dall’asse tedesco-francese.
L’Eurozona così concepita controlla le variabili del patto di stabilità, in quanto la sua crescita è incentrata sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Grecia , Spagna, considerando anche se oggi in maniera difforme l’Irlanda), compresa anche la Francia, in funzione delle necessità relative al rilancio del processo di accumulazione del polo imperialista europeo .

b) Unione Europea e nuova divisione internazionale del lavoro

E’in considerazione di quanto scritto in precedenza che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata ancora di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha applicato negli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi sud-americani e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del FMI ( e nelle attuali dinamiche europee, alla Troika, e cioè Commissione Europea, FMI, BCE) .
L’acutizzarsi della crisi del debito degli Stati dell’Unione Europea ha fatto sì che si mettesse mano ai bilanci imponendo un continuo attacco all’economia pubblica e ai salari e diritti dei lavoratori dipendenti, tagli alla spesa sociale allo scopo di sostenere le banche e le speculazioni dei privati. La caratteristica di questa fase è in ultima sintesi quella del trasferimento consistente di ricchezza da una parte all’altra nelle società europee.
L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dell’Eurozona e per indebolire la posizione commerciale e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione internazionale del lavoro imposta dai paesi centrali; in tal modo Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS con l’aggiunta dell’Irlanda) si convertono sempre più in riserve di servizi turistici e residenziali, o di servizi generali alle imprese, sottomessi ad un processo di deindustrializzazione più o meno accelerato.
Una via europea che in nome di un mal figurato progresso, di un liberismo sempre più selvaggio, si apre all’incontro-scontro con l’economia mondiale lasciando un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella miseria, aumentando le diseguaglianze economico-sociali nel nome della gigantesca mistificazione europea.
La nuova divisione internazionale del lavoro va ad assegnare ai paesi dell’Eurozona mediterranea il ruolo di importatori ed erogatori di servizi, delocalizzando il proprio sistema industriale verso i paesi dell’Est europeo per risparmiare molto sul costo del lavoro, avendo al contempo una manodopera specializzata. E’ evidente che con le privatizzazioni, con l’attacco al costo del lavoro, al sistema del Welfare, ai diritti, con la finanziarizzazione dell’economia, hanno cercato di fuoriuscire o almeno di coprire la crisi internazionale del capitale che si porta dietro il carattere della strutturalità e sistemicità.

c) Fuori dalle compatibilità del capitale: la soluzione è politica

Per questo non si può avere una uscita dalla crisi che non pregiudichi sempre più i lavoratori senza modificare le regole del sistema monetario e finanziario vigente. La politica dell’austerità non è una soluzione, perché come segnalano molti analisti, la riduzione degli investimenti riduce l’accumulazione a lungo termine, e la riduzione del consumo pubblico restringe la domanda globale, e pertanto la crescita quantitativa a breve termine, al punto che l’aumento della disoccupazione e la chiusura delle imprese riducono la base impositiva fiscale e il problema del deficit, lontano dal correggersi, si aggrava. La politica di aggiustamento pertanto persegue il solo scopo di risolvere il problema di liquidità nel quale è caduta la Banca europea, mediante un trasferimento massiccio di redditi dai lavoratori al capitale, per via diretta con l’attacco contro le condizioni di lavoro e il salario, e per via indiretta con la riduzione dei trasferimenti sociali.
L’idea di abbandonare l’Unione Economica e Monetaria della UE (UEM) e tornare alle monete nazionali del passato non può neppure questa essere considerata un’alternativa per i Paesi della periferia europea mediterranea, poiché la debolezza estrema di un’eventuale moneta nazionale di fronte al capitale finanziario globale non permetterebbe una regolazione efficace del ciclo e del cambio strutturale in questi Paesi. Quindi è la stessa costruzione dell’Europolo che è in crisi e non hanno a disposizione strumenti economici efficaci per far fronte alla crisi che ormai anche organismi internazionali identificano come sistemica.
Per ribaltare la logica economico-finanziaria imperialista è assolutamente necessario un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per i popoli di Nuestra America) dove i movimenti sociali, gli operai,gli indios, i contadini, i minatori, gli sfruttati tutti ,hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa sui percorsi della transizione al socialismo.

d) Uscire dall’Eurozona, costruire l’ALBA Mediterranea

Rimane pertanto alle organizzazioni indipendenti di classe dei lavoratori di porsi da subito su un terreno di radicalità conflittuale che sappia rispondere a domande che hanno una forte valenza politica che si impone con superiorità rispetto a qualsiasi scelta economica.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili, sarebbe una alternativa realizzabile?
Ciò permetterebbe di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea?
Si può creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori e quindi nell’ambito di una soluzione tutta politica sul terreno strategico del socialismo?
Noi pensiamo che l’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia euromediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.
I quattro momenti-elementi sono:
1) Uscita dall’Europolo e determinazione di una nuova moneta comune all’Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro). L’uscita dall’euro, dall’Eurozona o Europolo, è un’opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono semplicemente squilibri finanziari ma son innanzitutto legate allo stesso carattere del sistema produttivo: una struttura di base industriale in declino, un uso eccessivo e inefficiente enorme del sostenimento attraverso fondi pubblici, una concentrazione scandalosa di ricchezza e di patrimonio.
2) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS. – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce.
3) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo Con il non pagamento del debito pubblico è quindi il sistema bancario - finanziario che bisogna aggredire e danneggiare nei suoi interessi economici e politici, in tal modo si possono di conseguenza favorire gli investimenti in beni comuni, in servizi sociali, in nazionalizzazioni delle imprese dei settori strategici, aumentando di conseguenza i salari diretti, indiretti e differiti.
4) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione ,incluso la proibizione (momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa, e la nazionalizzazione dei settori strategici (energia, trasporti, telecomunicazioni,ecc.).
La capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità attraverso usi sociali così come l’ampliamento intenso dell’accesso ai sistemi di comunicazione ed energia in particolare per quelle fasce più povere della popolazione locale e per i Paesi alleati della nuova area ALIAS in una pratica di una nuova strategia di sviluppo globale solidale, con una ripresa del protagonismo di classe che sappia aprire con le lotte vertenze su riforme strutturali che sappiano creare organizzazione di classe.
Tutti questi momenti-elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti a carattere sociale, con un ruolo prioritario degli interessi dei lavoratori dipendenti e con un rilancio di una efficiente economia pubblica.
Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su una nuova area fuori dalle regole dell’Europolo, uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale, complementare e un benessere qualitativo.
E’ ovvio, quindi, che tale proposta da credibile diventa realizzabile concretamente rilanciando il protagonismo nelle lotte dei lavoratori europei, ristabilendo la supremazia della politica sull’economia, trasformando così la crisi dell’Europolo in una forte ripresa di iniziativa del sindacalismo indipendente di classe; così anche nei processi di lotta su obiettivi tattici ( riduzione orario di lavoro, lavoro a pieno salario e pieni diritti, Reddito Sociale, edilizia pubblica residenziale, tassazione dei capitali, ecc) si vanno accumulando forze nel conflitto sociale e sedimentando organizzazione di classe a partire da lotte rivendicative per riforme strutturali.
Ciò deve necessariamente essere accompagnato dall’idea forte che solo una soggettività politica di classe complessiva che si muova su un percorso di superamento del modo di produzione capitalista, quindi sull’orizzonte e con la pratica rivoluzionaria per il socialismo come sta realizzando l’alternativa bolivariana dell’ALBA nel Socialismo per il XXI Secolo, può costituire uno strumento valido per le nuove sfide che il sempre più aspro conflitto capitale-lavoro richiede in Europa.
Cogliere la dinamica che parte dalle contraddizioni dell’imperialismo oggi e che prospetta un suo superamento da parte delle soggettività di classe è una strada che la Rete dei Comunisti intende indagare, proporre, percorrere .Su questo chiama al confronto Sabato 30 Novembre dalle ore 10.30 e Domenica 1 Dicembre presso la Casa della Pace, a Roma in Via di Monte Testaccio 22.

* "Fuori dall'Unione Europea. Una proposta politica per il cambiamento", è questo il tema del Forum Euromediterraneo che la Rete dei Comunisti organizza a Roma il prossimo 30 novembre-1 dicembre per discutere insieme con attivisti e studiosi spagnoli, greci, portoghesi e non solo, intorno ad una ipotesi "generale" di rottura e cambiamento per i settori popolari nei paesi Pigs e del Mediterraneo sud. Il testo che precede è il documento preparatorio di convocazione del forum.

giovedì 14 novembre 2013

Grecia, disoccupazione al 27,3% in agosto


 

Grecia, la disoccupazione ha raggiunto il tasso del 27,3% ad agosto 2013 rispetto al 25,5% dell'agosto del 2012.
A riferirlo è l'Istituto di Statistica ellenico Elstat.

Il tasso di disoccupazione in Grecia dunque e' piu' che doppio rispetto alla media nei Paesi dell'eurozona che a agosto era del 12%. Secondo l'Elstat, sul totale della forza lavoro greca, il numero dei disoccupati era in agosto di 1.365.406 persone. Quelle considerate "inattive" invece erano 3.360.334.

Il problema tedesco

    
Il problema tedesco

di Nicola Melloni – liberazione.it

Infine, anche a Bruxelles sembrano essersi accorti che in Europa non c’è solo il problema del debito. Anzi, il problema principale si chiama Germania. Anche Draghi lo aveva intuito la settimana scorsa quando ha dovuto forzare la mano per abbassare i tassi di interesse nonostante l’opposizione di Berlino. Ora invece è la Commissione ad aprire un’inchiesta sull’eccessivo surplus di bilancia commerciale della Germania, che sfiora ormai il 7%, anche se la maggioranza di questo avanzo viene dal commercio col resto del mondo e non con l’Europa, dove è in leggero calo.
In discussione, in realtà, ci sono le basi della politica economica tedesca. Il taglio di Draghi è stato accolto con notevole isteria a Berlino: si tratterebbe di un aiuto neanche tanto nascosto ai Pigs, dando la possibilità alle banche di prendere a prestito praticamente gratis per poi magari comprare i titoli di debito di Italia, Spagna e Grecia. Dietro l’angolo, temono i tedeschi, c’è sempre lo spettro dell’inflazione. Una paura assolutamente irragionevole, senza alcuna base reale, tant’è che, invece, ci troviamo ormai in una situazione di deflazione, il passo finale dell’avvitamento della crisi con salari e prezzi a crescita negativa, meno denaro in circolazione ed economie che smettono di produrre.
Eppure a Berlino fanno orecchie da mercante. La deflazione interna è, per loro, la logica risposta agli squilibri precedenti: l’Europa del Sud ha vissuto anni di vacche grasse e ora è il momento di stringere la cinghia. Le riforme devono essere strutturali, non si può usare la leva monetaria per facilitare la crescita. Bisogna tagliare i salari e prezzi per tornare a essere competitivi sui mercati internazionali, esattamente come fece la Germania ad inizio secolo con le politiche di Schroeder. In fondo questa è stata la risposta tedesca alla globalizzazione – anche se tale attitudine tedesca risale in realtà al secondo dopoguerra. Industrie competitive, poca domanda interna – quindi risparmi e investimenti – e conquista dei mercati internazionali. Nulla di tanto dissimile, a ben vedere, da quello che fece nel passato – e riprova a fare ora – il Giappone e da quello che ha fatto la Cina negli ultimi trent’anni.
Nei casi asiatici si è spesso accusato quelle nazioni di manipolare le loro valute mettendo così a repentaglio la stabilità dell’economia internazionale, ma la Germania non fa molto meglio, come per altro segnalato dal governo americano non più tardi di una decina di giorni fa. In realtà anche Berlino è un manipolatore del commercio internazionale, anche se lo fa più spesso attraverso le politiche fiscali. Nel periodo di peggior crisi dell’Euro ha continuato con assurde politiche di austerity in Germania (!) dove le finanze pubbliche non erano affatto sotto stress, rendendo così la vita impossibile ai partner europei che si trovavano a competere con una economia più forte e che cercava di rendersi ulteriormente più forte frenando la domanda interna e quindi le esportazioni dal Sud Europa. Tale andazzo va avanti dal 2007, ma finora a Bruxelles si era preferito sorvolare – negli anni passati, curiosamente, non si erano rilevati sbilanciamenti dell’economia tedesca che erano invece chiaramente presenti.
Il problema è che la Germania non riesce neppure a capire il senso delle critiche che le vengono mosse. Cosa abbiamo fatto di male, in fondo? Risparmiamo e produciamo, vendiamo di più di quello che compriamo, tutti dovrebbero fare come noi. Il punto, però, è proprio quello: è impossibile che tutti facciano come i tedeschi, se qualcuno produce più di quello che consuma, per definizione ci deve essere qualcuno che consuma più di quello che produce. In momenti di crisi, con la domanda mondiale stagnante, è semplicemente logico che siano i più ricchi a consumare – se invece risparmiano, come fanno i tedeschi, si mette a repentaglio l’intero sistema economico. Nel mercato intra-europeo, in realtà, ci sarebbe altro da aggiungere. Se è vero, come è vero, che ci sono squilibri di natura commerciale, pare davvero assurdo pensare che questi squilibri debbano essere risolti solo da un lato, quello delle economie mediterranee. La Germania dovrebbe fare la sua parte, ma fa invece l’opposto, prolungando la recessione del Sud. A che pro, poi? Per continuare con la politica dei mini-jobs, della povertà che avanza anche in Germania, della competitività sulla pelle dei lavoratori tedeschi.
La Germania vuole essere leader dell’Europa, o almeno vuole basare le politiche europee su quelle di Berlino, ma rifiuta di prendersi le sue responsabilità. Nel passato ha rotto gli accordi europei quando era in difficoltà, ha favorito lo spostamento di capitali da Nord a Sud, indebitando le economie latine per aumentare la domanda di prodotti tedeschi durante la loro ristrutturazione economica, ma si rifiuta di fare altrettanto quando sono gli altri a dover mettere i conti in ordine in casa propria. Non si comporta da partner, ma da rivale. O accetta di far parte di un’Unione in cui si sta tutti insieme e si lavora di comune accordo, o questa Unione non ha alcun senso.

L’austerity non è per tutti: i manager italiani sono i più pagati del mondo

  
L’austerity non è per tutti: i manager italiani sono i più pagati del mondo

Pubblicato il 14 nov 2013

Mentre l’economia del Paese, in piena recessione, tracolla, mentre i redditi e i consumi popolari continuano a diminuire, mentre il tasso di disoccupazione decrescea ad ogni rilevazione, mentre il numero delle persone in stato di povertà e di indigenza tocca strati di popolazione sempre più estesi, l’Ocse – che raggruppa 34 fra i paesi sviluppati ad economia di mercato – ci ragguaglia su un altro dato, eloquente come pochi altri: i “senior manager” della pubblica amministrazione centrale italiana sono i più pagati di quell’area, con uno stipendio medio di 650 mila dollari (circa 482 mila euro al cambio attuale), oltre 250 mila in più dei secondi classificati (i neozelandesi con 397 mila dollari) e quasi il triplo della media dell’area medesima (232 mila dollari). In Francia, un dirigente dello stesso livello guadagna in media 260 mila dollari all’anno, in Germania 231 mila e in Gran Bretagna 348 mila. Negli Stati Uniti, la retribuzione media è di 275 mila dollari.
Nel rapporto “Government at a Glance 2013″, l’Ocse nota inoltre che le misure di austerità adottate da molti Paesi dopo la crisi economica hanno eroso la fiducia dei cittadini nei loro governanti, scesa dal 2007 al 2012 dal 45% al 40%, “rendendo difficile per le autorità nazionali a mobilitare il sostegno per le necessarie riforme”. Il giudizio è netto: “Serve un nuovo approccio al governo pubblico, dal momento che i governi sono chiamati a soddisfare le aspettative dei cittadini con mezzi limitati. Un approccio costruito intorno alla creazione di capacità strategica, istituzioni forti, strumenti efficaci e risultati misurabili in modo chiaro”. In quanto a fiducia, l’Italia è in fondo alla graduatoria: solo il 28% degli italiani ha espresso fiducia nel governo nazionale, contro l’80% degli svizzeri e il 12% dei greci.

Enrico Letta, il coniglio mannaro

    
Enrico Letta, il coniglio mannaro

Pubblicato il 14 nov 2013 - rifondazione -

- dal blog di Paolo Ferrero sul fattoquotidiano.it – Dopo la luce in fondo al tunnel che Monti ci aveva segnalato senza ottenere molto ascolto, Enrico Letta continua giornalmente a spargere segnali di rassicurazione riguardo al futuro del Paese. La migliore degli ultimi giorni è l’affermazione secondo cui la ripresa è a portata di mano, “anche se i segnali ancora non si vedono”. Il punto è che la ripresa non c’è e sono proprio le politiche fatte sotto dettatura della Merkel da Tremonti, Monti e Letta a impedirla. La compressione della domanda interna prodotta attraverso i tagli della spesa pubblica e l’aumento della disoccupazione e della precarietà, ha prodotto in Italia una vera e propria deflazione.
Non a caso i consumi continuano a calare e l’inflazione non è mai stata così bassa. La stessa riduzione dei tassi d’interesse da parte della Bce non produrrà effetti in Italia per due ragioni: i tassi di interesse che applicano le banche sono altissimi e non hanno più alcun rapporto con il tasso di interesse ufficiale deciso dalla Bce. I tassi di interesse reale quindi non scenderanno. In secondo luogo l’origine di fondo della crisi italiana è provocata proprio dalla caduta dei consumi interni e quindi o si risollevano quelli – con una forte redistribuzione del reddito dall’alto in basso e per questo proponiamo la patrimoniale sulle grandi ricchezze – oppure l’economia non riparte.
La seconda considerazione è che se anche nel prossimo anno il Pil dovesse crescere di qualche decimale di punto, questo con interromperebbe per nulla la crescita della disoccupazione, per il semplice motivo che gli aumenti di produttività delle imprese che dentro la crisi si sono ristrutturate, sono maggiori della possibile lieve crescita. In questo contesto parlare di uscita dalla crisi è quindi una evidente menzogna, una bugia di cui Letta è certamente consapevole. La questione da porsi riguarda allora il perché Letta sparga questi messaggi mielosi e rassicuranti? Salta agli occhi la differenza con il governo Monti che invece faceva del terrore – seminato a piene mani nel corso del suo governo – il suo principale codice comunicativo.
La mia opinione è che questa differenza di atteggiamento e di comunicazione non avvenga per un diverso disegno politico di Letta rispetto a Monti ma perché Letta sta gestendo il secondo tempo della partita cominciata da Monti. Più precisamente io penso che Monti ha volutamente spaventato il popolo italiano e ha utilizzato il terrore seminato nelle “fila avversarie” al fine di giustificare tagli draconiani al welfare e porcherie enormi come la manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e l’allungamento infinito dell’età per andare in pensione. Monti ha fatto una applicazione da manuale di quella che Naomi Klein chiama “Shock economy”, il cui primo esperimentatore è stato il golpista Augusto Pinochet, il dittatore cileno. Attraverso il terrore e la benedizione dell’Unione Europea, Monti ha fatto passare provvedimenti che altrimenti non sarebbero mai potuti passare.
Oggi Letta ha un altro compito. Non più tagliare brutalmente – il grosso dei tagli è stato fatto da Monti - ma piuttosto di convincere gli italiani che i tagli sono serviti: abbiamo fatto i sacrifici, ma adesso ci sarà la ripresa. Il primo obiettivo è quindi consolatorio e risarcitorio, fatto con la consueta maestria democristiana. Il secondo obiettivo, più di fondo, è che Letta ha due grandi opere da realizzare per terminare l’azione devastatrice di Monti. La prima è la privatizzazione di tutto quanto è rimasto di pubblico in Italia e la seconda è lo scardinamento della Costituzione italiana, trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. La rassicurazione lettiana è quindi finalizzata a distogliere il paese dalla gravità degli attacchi che il suo governo sta portando alla democrazia costituzionale ed economica.
Da questo punto di vista il quadro diventa chiaro: Monti ha seminato il terrore per scardinare le conquiste sociali e Letta usa la rassicurazione per far tirare un sospiro di sollievo al paese e poter fare in santa pace la distruzione della Costituzione nata dalla resistenza e svendere i gioielli di famiglia tra cui la parte rimante di apparato industriale pubblico. Monti e Letta, il terrore e la rassicurazione, sono le due facce della stessa medaglia: la distruzione di quanto di buono era stato fatto in Italia dopo la seconda guerra mondiale in termini di democrazia, diritti sociali e del lavoro, presenza pubblica nell’economia. Letta non meno di Monti – così come i partiti che li appoggiano – sono i protagonisti di una vera e propria restaurazione neoliberista, di un peggioramento strutturale delle condizioni di vita del popolo italiano e della svendita dell’Italia ai poteri forti – economici e finanziari – europei e mondiali. Contro questa vera e propria guerra scatenata contro il popolo italiano occorre ribellarsi.

mercoledì 13 novembre 2013

Grecia, l'orrore dell'austerity raccontato da Laura Boldrini

Autore: fabio sebastiani - controlacrisi
                 
Il presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini è stata recentemente in Grecia, dove ha anche incontrato Alexis Tsipras, in qualità di vice-presidente del parlamento ellenico. Dal viaggio ha ricavato un taccuino che ieri sera ha raccontato, senza omettere particolari scabrosi, alla trasmissione Ballarò.

"Con i greci rilanciamo una Europa del Mediterraneo"
Un quadro realistico e drammatico che spinge Boldrini a proporre alle istituzioni greche di fare una conferenza a Roma durante il loro semestre prima delle elezioni europee, “proprio per rilanciare da Roma insieme agli amici greci, una dimensione europea che sia basata anche sulle istanze che vengono dal Mediterraneo”.

"I diabetici preferiscono farsi tagliare gli arti"
"Ho visto un paese veramente in crisi – ha detto Boldrini - . Un paese in cui a detta degli operatori, dei medici, ci sono seri problemi per tutti. Ad esempio c'e' il 30% della popolazione che non ha piu' accesso alle cure sanitarie gratuite, il che significa che se una giovane disoccupata deve partorire e va in ospedale, deve pagare almeno mille euro per avere il certificato medico e per il certificato di nascita del bambino. Questo crea molti problemi evidentemente", ha aggiunto. "Ci parlano di malati di diabete che arrivano in ospedale per farsi tagliare gli arti perche' non avevano i soldi per le cure. Ci parlano di malattie che erano sparite e che oggi, purtroppo, sono ritornate- racconta ancora Boldrini- le malattie della poverta'. Cosi' come e' aumentato molto il numero dei bambini abbandonati: nel giro di un anno c'e' stato un raddoppio, come ci hanno detto i responsabili degli orfanatrofi. Abbiamo una fotografia di un paese che sta pagando un prezzo altissimo e io ritengo che nel concepire oggi l'Europa del futuro, noi dovremmo partire dagli ospedali e dagli orfanatrofi della Grecia. Da qui bisogna ripartire per pensare l'Europa". Questa, spiega la presidente della Camera, "e' una crisi che non colpisce solo le fasce piu' vulnerabili. Questa e' una crisi che colpisce vivamente anche il ceto medio.Si vede proprio un calo drastico nello stile di vita, negli standards. Basta andare nelle citta' e si vedono moltissimi negozi chiusi. Quindi c'e' stato proprio un radicale impoverimento della societa' greca".
Bisogna cercare una risposta strutturale
Per Boldrini non servono interventi di emergenza, "qui – dice - il problema qui e' strutturale. Certo si vive un momento duro, grave ma non e' la risposta emergenziale che bisogna cercare. Qui bisogna cercare una risposta strutturale, riuscire ad affiancare alle misure di austerity le misure della crescita, il rilancio dell'occupazione specialmente quella giovanile. Parliamo di un paese come la Grecia dove la disoccupazione giovanile e' del 65% e quella generale del 27%. Questi sono dati veramente allarmanti. Allora io credo che per riuscire ad influenzare le istituzioni europee sia necessario oggi fare un fronte comune. Paesi che hanno piu' o meno le stesse istanze possano fare in modo che queste istanze vengano fatte presenti con forza e anche tenute nella dovuta considerazione".

Politica monetaria della BCE e dinamiche finanziarie: è possibile un “occupy BCE?” – di Andrea Fumagalli

Pubblicato il a da cri


La decisione della BCE di abbassare il tasso d’interesse di rifinanziamento (Tre) è stata salutata come una “decisione storica”, precondizione per poter avviare una politica di crescita economica per l’Europa. E soprattutto è stato rilevato come tale politica monetaria sia volta ad acquisire una propria autonomia decisionale rispetto alle dinamiche finanziarie, sino al punto di poter aprire uno spazio per una nuova governance economica europea. L’opposizione della Germania e dei paesi suoi alleati potrebbero confermare questa ipotesi. Ma è proprio così? E che spazi, se fosse così, si potrebbero aprire per le iniziative dei movimenti? Con questo articolo, scritto da A. Fumagalli, ma anche frutto di un dibattito collettivo interno ad Effimera (con la partecipazione di O. Costantini, G. Giannelli, S. Lucarelli, C. Marazzi e C. Vercellone), si cerca di fare il punto della situazione.
* * * * *
La Banca Centrale Europa in questi giorni è stata al centro dell’iniziativa economica e, seppur in modo minore, di un dibattito che ha interessato il pensiero critico eterodosso all’interno dei movimenti, pro e contro Euro.
La notizia della decisione di Draghi di ridurre il tasso d’interesse di rifinanziamento europeo dallo 0,5 allo 0,25 è stata accolta dai media mainstream e dagli analisti principali come inattesa ma che va nella direzione giusta. Nella direzione giusta perché, secondo la logica new keynesian (divenuta dominante, dopo la crisi economica finanziaria che ha anche significato la crisi dell’ortodossia liberista), una riduzione dei tassi d’interesse è precondizione per stimolare la crescita economica nel breve periodo. E Dio solo sa quanto i governi abbiamo bisogno di crescita non solo per fini elettoralistici (vedi Merkel) ma soprattutto per giustificare quelle politiche di austerity che tanto hanno contribuito a spostare ingenti somme di reddito dai ceti meno abbienti a ceti più ricchi, di cui gli stessi governi sono portavoce. La presunta riduzione del costo del denaro, infatti, dovrebbe stimolare gli investimenti, rendere meno oneroso l’attuale indebitamento pubblico e quindi favorire una maggior stabilità dell’economia reale agevolando l’uscita dalla recessione. Non stupiscono i peana alzati dai vari Letta di molti paesi europei.
Purtroppo tali rosee prospettive non sembrano oggi all’orizzonte. In un’economia finanziaria di produzione, dove le gerarchie dei mercati finanziari rappresentano il vero centro decisionale della valorizzazione del bio-capitalismo cognitivo di oggi, le scelte di politica monetaria non sono più dettate dall’obiettivo della crescita economica (leggasi profitto, come nel fordismo) ma sempre più finalizzate a accompagnare le dinamiche finanziarie, cercando il più possibile di minimizzare l’intrinseca instabilità strutturale, a mo’ di “ammortizzatore finanziario” (sicuramente non “sociale”!). Per comprendere quindi le ragioni vere che hanno portato la Bce a diminuire il tasso d’interesse, occorre analizzare i trend oggi in atto nei mercati finanziari.
Al momento attuale, due sembrano gli ambiti[1] nei quali si concentrano le strategie speculative dei grandi investitori multinazionali, tra loro strettamente interdipendenti.
Il primo, come già ricordato nell’articolo di S. Lucarelli riguarda la dinamica del mercato valutario. All’adozione di una politica monetaria espansiva da parte del governo giapponese di Abe più di un anno fa (con l’obiettivo di una svalutazione controllata dello yen per favorire la crescita dell’export e così fuoriuscire dalle sacche della recessione) ha risposto in modo similare la Federal Reserve Usa, innescando così una competizione valutaria al ribasso tra le due monete e una rivalutazione contemporanea dell’euro e della sterlina inglese. L’esito è stato un’accelerazione della politica espansiva monetaria già in atto, ma sino ad allora finalizzata a ripianare i bilanci patrimoniali delle banche e a favorire l’acquisto dei titoli di Stato dei paesi maggiormente indebitati (da parte delle stesse banche). Non stupisce quindi che tra aprile e fine ottobre 2013, il cambio sul dollaro-euro sia salito di dieci punti, da 1,28 a 1,38, con un accelerazione a partire dall’agosto scorso. Rispetto alle principali valute, l’apprezzamento dell’euro è stato del 7,2 per cento. Si tratta di una dinamica che oggi rischia di diventare insostenibile per la già precaria economia europea, con il rischio (minimo) di annacquare i timidi segnali di ripresa che si intravvedono per il 2014 ma soprattutto di aumentare i gap commerciali intra-europei tra l’area tedesca e le economie periferiche . Nel corso di quest’anno, infatti il surplus commerciale tedesco non solo si è consolidato nei paesi extra-europei[2] ma è fortemente aumentato sino a toccare il record di un avanzo di quasi 20 miliardi di euro – quasi il 7% del Pil – con il rischio di incorrere nelle sanzioni europee per elevato surplus commerciale. Per la Germania, ciò significa un aumento della liquidità interna che si somma a quella creata dalla Bce, tutta a vantaggio dei paesi europei più indebitati e quindi penalizzante i paesi virtuosi, tanto virtuosi da avere risultati lusinghieri nella bilancia commerciale. Oltre a essere psicologicamente contraria a qualunque politica che possa alimentare l’inflazione (anche se siamo a rischio di deflazione), la posizione negativa della Germania e dei paesi satelliti (Austria, Slovenia e Olanda) si spiega soprattutto nel nome del proprio interesse economico e nella necessità di mantenere la leadership nella governance europea fondata sul ricatto del debito e dell’austerity[3].
Da questo punto di vista, infatti, se si considera che, secondo i calcoli Unicredit, “un apprezzamento del 10 per cento equivale ad un rincaro di 0,5-1 punto dei tassi di interesse che, a loro volta, tagliano la crescita del Pil dello 0,8 per cento in due anni”, si può facilmente capire come la manovra di riduzione del tasso Bce abbia lo scopo non tanto di promuovere la crescita dei paesi europei periferici (che appaiono condannati dall’assenza di un’adeguata politica industriale) ma di consolidare gli spread e la gestione del debito pubblico europeo – soprattutto dei paesi periferici, da un lato, e limitare il rischio che la bolla speculativa valutaria continui a gonfiarsi, dall’altro[4].
E’ questo l’obiettivo a cui si oppone la Germania, preoccupata anche dal peggioramento dei bilanci di alcune grandi banche (come la Commerzbank), in seguito a forti e rischiose esposizioni sul mercato globale, soprattutto nel settore dello shipping[5].
Il secondo ambito di speculazione finanziari deriva proprio dal fatto che tale instabilità dei mercati valutari ha in parte modificato la traiettoria dei movimenti internazionali dei capitali. Essi infatti hanno cominciato nel corso del 2013 a re-indirizzarsi verso il mercato anglosassone (Usa e Uk), favoriti sia dalle forti iniezioni di liquidità effettuate dalla Federal Reserve che dalla necessità di finanziare il crescente debito pubblico americano, oltre che dalla maggior instabilità di alcune economie dei Bric, in particolare l’India (segnata da una forte svalutazione della rupia, che ha interrotto il flusso di capitali verso quel paese) e il Brasile (in seguito all’aumento della conflittualità sociale interna). La stessa situazione economica cinese mostra alcuni segnali di instabilità dovuti al crescente indebitamento delle imprese cinesi (al riguardo, oltre al già citato articolo di Lucarelli, si veda l’intervista a C. Marazzi). Il risultato di tutto ciò è stato il forte consolidamento delle borse mondiali, guidate ancora una volta da Wall Street a ovest e da Tokio a est, che, negli ultimi mesi, si sono riportate ai valori pre-crisi, trascinando con sé l’aumento dei profitti delle grandi imprese multinazionali, trainati dalla stessa rendita e dall’export (come nel caso Toyota).
Dal punto di vista della valorizzazione capitalistica mondiale, la situazione sembra dunque essere ritornata quella della metà del decennio scorso, prima dello scoppio dei sub-prime[6].
I mercati finanziari, in un’economia finanziaria di produzione, sono tuttavia strutturalmente instabili. La possibilità di una governance stabile poggia sul fatto che l’estorsione di plus-valore all’origine delle due potenziali bolle speculative in atto (quella valutaria e quella relativa alla concentrazione dei movimenti di capitali Usa) sia tale da essere compatibile con una certa dinamica della domanda mondiale, ovvero con un certo livello di distribuzione del reddito. Nonostante le varie situazioni conflittuali oggi presenti (dalla Cina, al Brasile, dalla logistica, ai servizi e all’industria, che destabilizzano il commercio mondiale), tale equilibrio è del tutto impossibile.
Negli Usa, i recenti dati pubblicati da E. Saez mostrano che nel periodo 2009-2012 (dopo la crisi dei sub-prime) il reddito dell’1% della popolazione più ricca ha avuto un incremento del 31,4%, mentre per il restante 99% il reddito è cresciuto solo dello 0,4%. La concentrazione dei redditi è così ulteriormente aumentata dopo la crisi del 2007-08. La stessa situazione vige in Europa, esito del processo di saccheggio attuato dalle politiche di austerity e dalla precarizzazione del lavoro negli ultimi anni. Non dimentichiamoci che Usa e Europa coprono oltre il 60% della domanda mondiale.
E’ questo il quadro internazionale che sta alla base delle scelte della Bce. E appare evidente che la decisione di ridurre il tasso d’interesse si inserisce in questa logica: il tentativo, in ultima istanza, di inseguire i movimenti dei mercati finanziari, con l’obiettivo di rimandare (ma non di evitare) il possibile scoppio di una delle due bolle speculative ora ricordate.
Tale analisi viene inoltre suffragata dalla considerazione che una riduzione di un quarto di punto dei tasso d’interesse, soprattutto quando si approssimano allo zero, ha effetti pressoché nulli sulla dinamica degli investimenti, senza contare che, proprio per questo, la scelta di investire oggi dipende sempre più dalle aspettative sulla domanda futura e non sulle sue variabili di costo (lavoro e capitale, oggi ai minimi storici).
* * * * *
La situazione così descritta ci invita ad alcune riflessioni, sia teoriche che politiche.
Da un punto di vista teorico, ci troviamo di fronte ad una situazione nuova. Le politiche new keynesian in merito alla possibile efficacia di una politica monetaria espansiva in grado di favorire la crescita economica vengono del tutto disattese. Al riguardo, occorre ritornare al pensiero stesso di Keynes, quando affermava che una politica monetaria espansiva può avere effetto positivo sulla dinamica del Pil e dell’occupazione solo a patto che venga accettata e sostenuta dai mercati finanziari. Al tempo di Keynes (il tempo del fordismo), i mercati finanziari svolgevano esclusivamente il ruolo di ri-allocazione di liquidità già creata (cioè in circolazione) dall’attività di accumulazione: una riallocazione di liquidità tra gli operatori che godevano di saldi finanziari positivi (le famiglie e le banche) a favore di chi strutturalmente si trovava in situazione di indebitamento (le imprese e lo Stato). All’epoca i mercati finanziari avevano una sorte di “diritto di veto” (al pari dei consumatori, se non consumavano) relativamente alla sola fase della realizzazione monetaria del profitto, una volta definito il processo di accumulazione e di sfruttamento del lavoro. Oggi i mercati finanziari svolgono anche la funzione di determinare i processi di finanziamento dell’accumulazione del bio-capitalismo cognitivo e di intervenire pesantemente nella distribuzione del reddito in modo diretto (tramite le plusvalenze distribuite) o indiretto (tramite il ruolo di assicuratore privato dei servizi sociali in seguito allo smantellamento dei sistemi di welfare). Di conseguenza, nel momento stesso in cui sono i mercati finanziari nella versione oligarchica di oggi, a influire decisamente sulla creazione di liquidità e, dopo il crollo di Bretton Woods, a determinare di fatto il valore delle valute (a decidere, cioè, i tassi di cambio[7]), le scelte di politica monetaria sono necessariamente dipendenti dalle convenzioni dominanti che le stesse oligarchie finanziarie definiscono nel loro proprio interesse.
Ma se le politiche new keynesian non hanno efficacia, peggio stanno le ricette monetariste di derivazione ordoliberista che vedevano nell’inflazione lo spauracchio da sconfiggere grazie a politiche di controllo della liquidità (attraverso la fissazione del tasso di sconto). Negli ultimi due-tre anni, abbiamo assistito ad una creazione di moneta – a livello mondiale – senza precedenti, come mai si è verificata nella storia del capitalismo. Una creazione di moneta che non si è tradotta (nel breve periodo) né in un aumento della produzione e dell’occupazione, né (nel lungo periodo) in un aumento dell’inflazione, ma che è stata assorbita – a mo’ di carburante – per dare linfa alla produzione di rendite finanziarie e profitti multinazionali. Siamo oggi in presenza di una fase di effettiva deflazione (attutita dall’andamento dei prezzi energetici), dal momento che la maggior parte della liquidità monetaria creata dalle Banche Centrali viene assorbita dall’attività speculativa, in grado di far sì – come si evince dai dati sopracitati riguardo la distribuzione del reddito in Usa – che l’1% si appropri del 95% della ricchezza sociale prodotta e lasci solo il 5% al 99% rimanente (E. Saez).
Crediamo che sia in questo contesto che si debba aprire una riflessione “politica” sul ruolo della Bce e sull’Euro. Ne Il Manifesto del 7 novembre scorso, C. Marazzi, recensendo il libro di M. De Cecco (“Ma che cosa è questa crisi?”, Roma, 2013), discute dell’indipendenza della Bce nello scacchiere mondiale e quindi di un suo impossibile ruolo istituzionale di “mediatore” all’interno dell’instabilità valutaria e dei movimenti dei capitale sopra ricordate.
Scrive Marazzi:
“Così come oggi è, l’Euro è un disastro, vero dispositivo di deriva economica e di sofferenza umana e sociale. La sua spaccatura, in qualsiasi forma la si voglia, sarebbe altrettanto un disastro, perché ci porterebbe diritti al nazionalismo, specie se si tiene conto della tendenza in atto su scala mondiale alla deglobalizzazione indotta dal netto calo del commercio mondiale e dalla tentazione protezionistica presente un po’ ovunque. L’opzione Draghi, l’americanizazzione della politica monetaria europea, non può d’altra parte ignorare i suoi forti limiti, che sono quelli di una politica monetaria di fatto a sostegno di un sistema bancario legato a doppio filo al debito sovrano. Una politica che non induce affatto crescita reale, in cui la disoccupazione e le disuguaglianze aumentano a dismisura, mentre la liquidità iniettata in grandi quantità rimane nei circuiti finanziari, non sgocciola laddove dovrebbe, alimentando inevitabilmente rischi di bolla […] Una nuova tattica per una nuova strategia è dunque necessaria. Né con la destra sfascista, né con la sinistra sovranista. Questa è la provocazione, non proprio implicita, di De Cecco che va colta pensando non tanto a Draghi, ma alla costruzione di un ciclo di lotte sul terreno della moneta del comune, un sistema monetario che sappia garantire una ridistribuzione del reddito sulla base di diritti assoluti di cittadinanza”.
Qui, a parere di chi scrive, si gioca la partita: è possibile un ruolo diverso della Bce, un ruolo che, autonomizzandosi dai poteri finanziari di cui finora è stata portavoce, sia in grado di sviluppare una “nuova politica monetaria”, in grado di liberarsi dai lacci e laccioli dell’art. 105 del Trattato di Masstricht, ovvero dall’obbligo per la Bce (che si voleva costituzionalizzare a livello europeo) di perseguire come unico obiettivo il controllo dell’inflazione, paravento per poter far compiere, (neo)liberamente, il saccheggio e l’espropriazione di quella cooperazione sociale e “comune” che oggi sta alla base della valorizzazione capitalistica? E’ possibile, cioè, un “Occupy BCE”?
Allo stato attuale ci pare impensabile. Nutriamo forti dubbi anche sulla scelta sovranista dell’uscita dall’Euro, auspicata dal populismo di destra e proposta ricorrendo ad analisi anche raffinate per esempio da F. Lordon e J. Sapir[8].
Preso atto che oggi l’Euro, anche grazie a Draghi e alla sua politica monetaria espansiva (di fatto in contraddizione con i suoi stessi principi costituzionali) non sembra correre il rischio di un’immediata estinzione, si pone il problema di istituire un processo costituente di una finanza alternativa, in grado di consentire la riappropriazione di quel “comune” che oggi sta alla base della valorizzazione delle nostre vite.
Nel 1971, G. Deleuze, anticipando i nostri giorni, affermava che era in corso il passaggio “dall’uomo recluso (quello disciplinato dall’etica fordista e del lavoro, ndr.), all’uomo indebitato”. Oggi, è necessario passare “dall’uomo indebitato” (schiavo della finanza e disciplinato dalle politiche securitarie e dalla precarietà) a ciò a cui abbiamo sempre aspirato, ovvero all’”uomo libero”, libero di scegliere il proprio destino, primus inter pares, e di autodeterminarsi.
E’ tempo di iniziare a pensare a circuiti finanziari alternativi in grado di generare una moneta del “comune”, liberi dal comando del debito e dai potentati finanziari, alla rivoluzione culturale di un reddito incondizionato come remunerazione della nostra vita attiva, alla costruzione di processi vita e di comune capaci di liberare tempo per noi stessi.
Sono questi i punti di base su cui imbastire una discussione in futuro e su queste stesse pagine.

[1] Parliamo di “ambiti” e non di vere e proprie “convenzioni” finanziarie, perché al momento attuale non ci sembrano che essi abbiano assunto quella rilevanza di medio periodo in grado di far convergere la dinamica speculativa in modo univoco.
[2] Nel corso degli ultimi anni, le esportazioni tedesche, a fronte del ristagno (se non calo) della domanda dei paesi europei, principale sbocco della produzione della Germania, si sono sempre più indirizzate verso i paesi Bric, in particolare verso Cina e India.
[3] Per approfondimenti si rimanda all’intervista di C. Marazzi: http://www.wallstreetitalia.com/article/1641990/le-interviste-di-wsi/germania-nasconde-una-grave-crisi-bancaria.aspx
[4] Secondo gli analisti finanziari (cfr. Bloomberg), la decisione della BCE era attesa solo dal 25% degli operatori finanziari e ha preso di contropiede gli hedge funds che avevano puntato 12 miliardi di dollari che stavano speculando su un ulteriore rialzo dell’euro e li ha costretti a liquidare affannosamente le loro posizioni.
[5] Al riguardo, i tempi lunghi in corso (tre mesi!) per la formazione del nuovo governo di Grosse Koalition tra Spd e Cdu dipendono principalmente dal dibattito in corso tra la strategia di sostenere la domanda interna oppure perseguire con un crescita trainata dall’export. A favore della prima di colloca la proposta da parte del Spd di introdurre un salario minimo orario (di 8,5 euro all’ora) in opposizione alla strategia padronale e della Cdu di continuare a mantenere i salari bassi e il lavoro precario per aumentare la competitività di prezzo pro export.
[6] Tale situazione, con buone probabilità, rimarrà invariata almeno sino a febbraio 2014, quando, come è successo nello scorso ottobre, si riproporrà il tema del finanziamento del debito pubblico Usa, con la necessità di ottenere un accordo tra repubblicani e democratici per alzare il limite costituzionale al tetto massimo dello stesso debito.
[7] A riprova di ciò, è paradigmatico che nel processo di costruzione della Bce, volutamente ci si è sottratti da qualunque obbligo di poter adottare una politica valutaria dell’Euro, nel nome della credenza della libera circolazione dei capitali, a conferma della sudditanza della stessa Bce a mercati finanziari. La scelta (relativa alla costruzione dell’Euro all’epoca e oggi al Fiscal Compact, con l’obbligo di bilancio pubblico in pareggio nel dettame costituzionale) è tutta politica, niente affatto economica, come si vuole far credere.
[8] Ovvero, come scrive Marazzi, “una riforma monetaria tipo Sme con la creazione di un eurobancor, anch’essa nel nome di una riconquistata sovranità democratica nazionale”.
Questa voce è stata pubblicata in Critiche della crisi e contrassegnata con , , , , . Contrassegna il permalink.

Blog curato da ...

Blog curato da ...
Mob. 0039 3248181172 - adakilismanis@gmail.com - akilis@otenet.gr
free counters