di Giulietto Chiesa. Fonte: megachipdue
Accadde a luglio del 2011, alla vigilia del vertice del G-20. Il mondo del mainstream, istruito per farci vedere il varieté, ci raccontò gl’incontri dei grandi e dei meno grandi, ma non ci disse niente in prima pagina sul posto dove quelle loro - si fa per dire - decisioni erano state prese, prima che costoro si riunissero.
Soprattutto si è guardato bene dal dirci “chi” erano quelli che le avevano prese, e poi, opportunamente confezionate, le avevano fatte servire agl’ignari abitanti di Matrix.
Il luogo fu Basilea, la città cui è toccato di scandire, con la precisione degli orologi svizzeri, il cambio d’epoca cui siamo forzati ad assistere. Si chiamano “Basilea 1”, “Basilea 2”, “Basilea 3” (in fieri) , le tappe in cui i regolamenti finanziari sono stati definiti negli scorsi anni. Basilea non per un capriccio del destino, ma perché è la sede della Bank for International Settlements, cioè la superbanca delle superbanche, il luogo dove si decidono le regole delle banche, cioè ormai degli Stati (dal momento che questi ultimi sono dei nani al servizio dei ciclopi); il tempio dove si stabilisce il grado di libertà che le superbanche intendono riservarsi nel loro agire.
A luglio 2010 non si tenne una “Basilea 3” definitiva, ma di sicuro quella riunione resterà nella storia del capitalismo finanziario mondiale, perché fu là che si misurarono i rapporti di forza tra i potenti del pianeta, per meglio dire tra i potenti dell’Occidente, perché fu tra di loro che si regolarono - provvisoriamente - i conti. Erano sei mesi fa e, a occhio e croce, si può dire che quella partita è già finita e se ne stanno aprendo altre, probabilmente assi più dure di quella.
Saranno scontri violentissimi, perché violenti sono gl’interessi che collidono. Questo anche per dire - a un considerevole numero di illusi, che continuano a ripetere questo luogo comune - che non esiste a tutt’oggi alcun “ordine mondiale” e che, anzi siamo in pieno caos mondiale, in cui i veri detentori del potere, i “proprietari universali” sono impegnati in lotte senza quartiere, per stabilire chi sopravviverà e chi dovrà morire, chi resisterà e chi sarà travolto.
I partecipanti erano in 50 , in rappresentanza di 27 paesi dell’occidente. Scrivo “in rappresentanza” non perché qualcuno di voi, lettori, li abbia indicati come suoi rappresentanti. Si sono rappresentati da sé, non hanno bisogno di voi e di noi. Sono quelli che davvero contano, sono quelli che decidono, dopo essersi accoltellati fraternamente.
I loro nomi, salvo quelli di alcuni, non sono importanti. La loro forza è l’anonimato. Compaiono raramente sulle prime pagine dei giornali, sono, a loro modo, figure di secondo piano. Ma alle riunioni del Bilderberg, dove non si fanno fotografie, siedono nelle primissime file e, a conferma della loro importanza, anche i loro conti bancari sono superlativi e le loro proprietà sono introvabili sebbene siano sterminate.
Conta dunque sapere piuttosto “chi rappresentavano”. Conta sapere “cosa” rappresentavano.
Erano, sono i “i rappresentanti del capitale finanziario dell’Occidente”, i gestori del denaro. La crema del denaro. E, a quell’incontro, partecipavano simultaneamente i banchieri globali e i controllori globali dei banchieri globali. Tutti insieme. Poiché, sia chiaro, i controllori globali non possono controllare un bel niente se non c’è il consenso dei controllati. Che quindi non si vede bene come possano essere controllati, visto che possono - se occorre - mandare a spasso anche i controllori, nominandone altri disponibili a controllare meno e a condividere di più.
Questa è la regola del loro club. Che non ha nulla a che vedere né con le regole giuridiche che valgono per i comuni mortali, né con quelle del mercato internazionale. Ecco perché a Basilea non c’erano i maggiordomi della politica internazionale, quelli che poi si sarebbero incontrati al G-20. Quelli non contano quasi niente, quelli servono il caffè.
Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 7 gennaio 2012
Eurogendfor, la nuova polizia europea con poteri illimitati
Fonte: senzassoste
Praticamente non ne ha parlato nessuno. Praticamente la ratifica di Camera e Senato è avvenuta all’unanimità. Praticamente stiamo per finire nelle mani di una superpolizia dai poteri pressoché illimitati. Che sulla carta è europea, ma che nei fatti è sotto la supervisione statunitense. Tanto è vero che la sede centrale si trova a Vicenza, la stessa città dove c’è il famigerato Camp Ederle delle truppe USA
Alzi la mano chi sa cos’è il trattato di Velsen. Domanda retorica: nessuno. Eppure in questa piccola città olandese è stato posto in calce un tassello decisivo nel mosaico del nuovo ordine europeo e mondiale. Una tappa del processo di smantellamento della sovranità nazionale, portato avanti di nascosto, nel silenzio tipico dei ladri e delle canaglie.
Il Trattato Eurogendfor venne firmato a Velsen il 18 ottobre 2007 da Francia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo e Italia. L’acronimo sta per Forza di Gendarmeria Europea (EGF): in sostanza è la futura polizia militare d’Europa. E non solo. Per capire esattamente che cos’è, leggiamone qualche passo. I compiti: «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici» (art. 4). Il raggio d’azione: «EUROGENDFOR potrà essere messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche» (art. 5). La sede e la cabina di comando: «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero - l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR» (art. 3).
Ricapitolando: la Gendarmeria europea assume tutte le funzioni delle normali forze dell’ordine (carabinieri e polizia), indagini e arresti compresi; la Nato, cioè gli Stati Uniti, avranno voce in capitolo nella sua gestione operativa; il nuovo corpo risponde esclusivamente a un comitato interministeriale, composto dai ministri degli Esteri e della Difesa dei paesi firmatari. In pratica, significa che avremo per le strade poliziotti veri e propri, che non si limitano a missioni militari, sottoposti alla supervisione di un’organizzazione sovranazionale in mano a una potenza extraeuropea cioè gli Usa, e che, come se non bastasse, è svincolata dal controllo del governo e del parlamento nazionali.
Praticamente non ne ha parlato nessuno. Praticamente la ratifica di Camera e Senato è avvenuta all’unanimità. Praticamente stiamo per finire nelle mani di una superpolizia dai poteri pressoché illimitati. Che sulla carta è europea, ma che nei fatti è sotto la supervisione statunitense. Tanto è vero che la sede centrale si trova a Vicenza, la stessa città dove c’è il famigerato Camp Ederle delle truppe USA
Alzi la mano chi sa cos’è il trattato di Velsen. Domanda retorica: nessuno. Eppure in questa piccola città olandese è stato posto in calce un tassello decisivo nel mosaico del nuovo ordine europeo e mondiale. Una tappa del processo di smantellamento della sovranità nazionale, portato avanti di nascosto, nel silenzio tipico dei ladri e delle canaglie.
Il Trattato Eurogendfor venne firmato a Velsen il 18 ottobre 2007 da Francia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo e Italia. L’acronimo sta per Forza di Gendarmeria Europea (EGF): in sostanza è la futura polizia militare d’Europa. E non solo. Per capire esattamente che cos’è, leggiamone qualche passo. I compiti: «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici» (art. 4). Il raggio d’azione: «EUROGENDFOR potrà essere messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche» (art. 5). La sede e la cabina di comando: «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero - l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR» (art. 3).
Ricapitolando: la Gendarmeria europea assume tutte le funzioni delle normali forze dell’ordine (carabinieri e polizia), indagini e arresti compresi; la Nato, cioè gli Stati Uniti, avranno voce in capitolo nella sua gestione operativa; il nuovo corpo risponde esclusivamente a un comitato interministeriale, composto dai ministri degli Esteri e della Difesa dei paesi firmatari. In pratica, significa che avremo per le strade poliziotti veri e propri, che non si limitano a missioni militari, sottoposti alla supervisione di un’organizzazione sovranazionale in mano a una potenza extraeuropea cioè gli Usa, e che, come se non bastasse, è svincolata dal controllo del governo e del parlamento nazionali.
L'Italia è il paese dei licenziamenti facili. Lo dice l'Ocse.
Fonte: fanpage
Mentre si cerca un accordo tra governo e parti sociali sull'articolo 18, dall'Ocse arriva un rapporto dal cui emerge che l’Italia è uno dei paesi più flessibili al mondo per quel che riguarda il lavoro e il licenziamento. Va molto meglio ai lavoratori del Nord Europa e della "solita" Germania.
In Italia mandare a casa un lavoratore non è poi così difficile, a differenza di quanto invece accade in altri parti d'Europa come la Germania e i paesi a Nord del Vecchio Continente. Il rapporto dell’Ocse sulla flessibilità del lavoro a livello internazionale si incastra a pennello con la discussione che infiamma da qualche settimana tra sindacati e governo sulla riforma del lavoro e sulla modifica dell’articolo 18.
Diciamo subito che i numeri provenienti dall' Organisation for Economic Co-operation and Development e riportati in un articolo di Repubblica, vanno ad appoggiare la causa delle parti sociali italiane. L'Italia infatti ha un indice di flessibilità di 1,77 (per i lavoratori a tempo indeterminato) ben al di sotto della media mondiale (2,11). In altre parole nel nostro Paese licenziare è cosa semplice. E ci viene subito da pensare al caso delle 239 operaie della Omsa licenziate con un fax, per le quali il web si è già mobilitato.
In Germania si può licenziare solo con una giusta causa
La Germania è la nazione dove è più difficile cacciare i propri dipendenti (l'indice di flessibilità è il più alto: 3.0) Negli Stati Uniti, invece, un imprenditore può mandare via i suoi dipendenti senza alcun problema e non ha alcun obbligo di riassunzione. Negli States,infatti, l' indice è praticamente inesistente con appena uno 0,17.
Nello specifico gli industriali teutonici possono allontanare i loro stipendiati solo se vi è una giusta causa. In caso contrario il lavoratore ritornerà al suo posto. L’obbligo di reintegro è uno dei fondamenti del mercato del lavoro tedesco: l'eventuale licenziamento va prima comunicato al consiglio di azienda. Se i sindacati ritengono che il provvedimento è infondato il lavoratore mandato via sarà reintegrato fino alla conclusione del contenzioso. Sarà infatti un giudice a stabilire se l'allontanamento è giusto o meno. In quest'ultimo caso il dipendente sarà riassunto.
I licenziamenti negli altri Paesi del mondo
In Francia un dipendente che viene licenziato senza un valido motivo ha diritto ad un risarcimento. In Cina invece lo scioglimento del contratto di lavoro è possibile solo se il principale è in grado di presentare una giustificazione plausibile; e la regola vale anche per i “tirocinanti”. In ogni caso è vietato cacciare un lavoratore «in caso di malattie dovute all'attività professionale presso l'azienda o quando il lavoratore sia dipendente da almeno quindici anni presso la stessa società e gli manchino meno di 5 anni alla pensione», scrive Repubblica. Infine, come detto c'è il caso americano che prevede licenziamenti “indiscriminati”, invocato da molti liberisti europei. Ma a ben vedere negli anni vi sono stati vari accorgimenti atti a limare la norma: è illegittimo dare il benservito ad un lavoratore che si sia rifiutato di andare contro la legge, o un licenziamento avente carattere discriminatorio per motivi razziali, religiosi, di salute o di cittadinanza.In tutti questi casi il lavoratore può rivolgersi alla legge per ottenere una sentenza di risarcimento, ma il reintegro in azienda non è previsto.
Mentre si cerca un accordo tra governo e parti sociali sull'articolo 18, dall'Ocse arriva un rapporto dal cui emerge che l’Italia è uno dei paesi più flessibili al mondo per quel che riguarda il lavoro e il licenziamento. Va molto meglio ai lavoratori del Nord Europa e della "solita" Germania.
In Italia mandare a casa un lavoratore non è poi così difficile, a differenza di quanto invece accade in altri parti d'Europa come la Germania e i paesi a Nord del Vecchio Continente. Il rapporto dell’Ocse sulla flessibilità del lavoro a livello internazionale si incastra a pennello con la discussione che infiamma da qualche settimana tra sindacati e governo sulla riforma del lavoro e sulla modifica dell’articolo 18.
Diciamo subito che i numeri provenienti dall' Organisation for Economic Co-operation and Development e riportati in un articolo di Repubblica, vanno ad appoggiare la causa delle parti sociali italiane. L'Italia infatti ha un indice di flessibilità di 1,77 (per i lavoratori a tempo indeterminato) ben al di sotto della media mondiale (2,11). In altre parole nel nostro Paese licenziare è cosa semplice. E ci viene subito da pensare al caso delle 239 operaie della Omsa licenziate con un fax, per le quali il web si è già mobilitato.
In Germania si può licenziare solo con una giusta causa
La Germania è la nazione dove è più difficile cacciare i propri dipendenti (l'indice di flessibilità è il più alto: 3.0) Negli Stati Uniti, invece, un imprenditore può mandare via i suoi dipendenti senza alcun problema e non ha alcun obbligo di riassunzione. Negli States,infatti, l' indice è praticamente inesistente con appena uno 0,17.
Nello specifico gli industriali teutonici possono allontanare i loro stipendiati solo se vi è una giusta causa. In caso contrario il lavoratore ritornerà al suo posto. L’obbligo di reintegro è uno dei fondamenti del mercato del lavoro tedesco: l'eventuale licenziamento va prima comunicato al consiglio di azienda. Se i sindacati ritengono che il provvedimento è infondato il lavoratore mandato via sarà reintegrato fino alla conclusione del contenzioso. Sarà infatti un giudice a stabilire se l'allontanamento è giusto o meno. In quest'ultimo caso il dipendente sarà riassunto.
I licenziamenti negli altri Paesi del mondo
In Francia un dipendente che viene licenziato senza un valido motivo ha diritto ad un risarcimento. In Cina invece lo scioglimento del contratto di lavoro è possibile solo se il principale è in grado di presentare una giustificazione plausibile; e la regola vale anche per i “tirocinanti”. In ogni caso è vietato cacciare un lavoratore «in caso di malattie dovute all'attività professionale presso l'azienda o quando il lavoratore sia dipendente da almeno quindici anni presso la stessa società e gli manchino meno di 5 anni alla pensione», scrive Repubblica. Infine, come detto c'è il caso americano che prevede licenziamenti “indiscriminati”, invocato da molti liberisti europei. Ma a ben vedere negli anni vi sono stati vari accorgimenti atti a limare la norma: è illegittimo dare il benservito ad un lavoratore che si sia rifiutato di andare contro la legge, o un licenziamento avente carattere discriminatorio per motivi razziali, religiosi, di salute o di cittadinanza.In tutti questi casi il lavoratore può rivolgersi alla legge per ottenere una sentenza di risarcimento, ma il reintegro in azienda non è previsto.
venerdì 6 gennaio 2012
Mario Monicelli : a una Italia senza dignità, serve una rivoluzione..
pubblicata da Nonna Annarella il giorno mercoledì 16 marzo 2011 - Fonte Qui
Gli italiani, gli intellettuali, gli artisti, sono poco coraggiosi? Sì, lo sono sempre stati. Sono stati vent’anni sotto un governo fascista, ridicolo, con un pagliaccio che stava lassù. Avete visto quello che ha combinato. Ci ha mandato l’Impero, le falangi romane lungo Via dell’Impero; ha fatto le guerre coloniali, ci ha mandato in guerra. Eravamo tutti contenti, che c’era uno che guidava lui, pensava lui, “Mussolini ha sempre ragione”, tutti stavano “bòni e zitti”. Adesso il grande imprenditore ha detto: «Lasciatemi governare, votatemi, perché io mi sono fatto da solo, sono un lavoratore, sono diventato miliardario, vi farò diventare tutti milionari».
Benissimo, hai voglia: sono 15 anni che aspettano e credono. Gli italiani sono fatti così: vogliono che uno pensi per loro. Se va bene, va bene. Se va male, poi lo impiccano a testa sotto. Questo è l’italiano. Gassman e Sordi ne “La Grande Guerra”? Avevano una loro spinta personale, un orgoglio, una dignità della persona che noi abbiamo perso, completamente.
Ormai nessuno si dimette, siamo tutti pronti a chinare il capo pur di mantenere il posto, di guadagnare. Pronti a sopraffarci, a intrallazzare. Uno la prima cosa che fa è di mettersi d’accordo con un altro per superare le difficoltà. Non c’è nessuna dignità, da nessuna parte. E’ proprio la generazione che è corrotta, malata, che va spazzata via. Non so da che cosa, non so da chi. O meglio: lo saprei. Ma lasciamo andare.continua
La speranza è una trappola. Una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni, quelli che ti dicono «state buoni, zitti, pregate, che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà, perciò adesso state buoni, tornate a casa – sì, siete dei precari, ma tanto fra 2-3 mesi vi assumiamo ancora, vi daremo un posto. State buoni, abbiate speranza». Mai avere la speranza. La speranza è una trappola, è una cosa infame, inventata da chi comanda.
Come finisce questo film? Non lo so. Io spero che finisca con quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una bella rivoluzione. C’è stata in Inghilterra, in Francia, in Russia, in Germania, dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, che è trecent’anni che è schiavo di tutti. Se vuole riscattarsi, il riscatto non è una cosa semplice. E’ doloroso, esige anche dei sacrifici. Se no, vada alla malora – che è dove sta andando, ormai da tre generazioni.
Mario Monicelli
Gli italiani, gli intellettuali, gli artisti, sono poco coraggiosi? Sì, lo sono sempre stati. Sono stati vent’anni sotto un governo fascista, ridicolo, con un pagliaccio che stava lassù. Avete visto quello che ha combinato. Ci ha mandato l’Impero, le falangi romane lungo Via dell’Impero; ha fatto le guerre coloniali, ci ha mandato in guerra. Eravamo tutti contenti, che c’era uno che guidava lui, pensava lui, “Mussolini ha sempre ragione”, tutti stavano “bòni e zitti”. Adesso il grande imprenditore ha detto: «Lasciatemi governare, votatemi, perché io mi sono fatto da solo, sono un lavoratore, sono diventato miliardario, vi farò diventare tutti milionari».
Benissimo, hai voglia: sono 15 anni che aspettano e credono. Gli italiani sono fatti così: vogliono che uno pensi per loro. Se va bene, va bene. Se va male, poi lo impiccano a testa sotto. Questo è l’italiano. Gassman e Sordi ne “La Grande Guerra”? Avevano una loro spinta personale, un orgoglio, una dignità della persona che noi abbiamo perso, completamente.
Ormai nessuno si dimette, siamo tutti pronti a chinare il capo pur di mantenere il posto, di guadagnare. Pronti a sopraffarci, a intrallazzare. Uno la prima cosa che fa è di mettersi d’accordo con un altro per superare le difficoltà. Non c’è nessuna dignità, da nessuna parte. E’ proprio la generazione che è corrotta, malata, che va spazzata via. Non so da che cosa, non so da chi. O meglio: lo saprei. Ma lasciamo andare.continua
La speranza è una trappola. Una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni, quelli che ti dicono «state buoni, zitti, pregate, che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà, perciò adesso state buoni, tornate a casa – sì, siete dei precari, ma tanto fra 2-3 mesi vi assumiamo ancora, vi daremo un posto. State buoni, abbiate speranza». Mai avere la speranza. La speranza è una trappola, è una cosa infame, inventata da chi comanda.
Come finisce questo film? Non lo so. Io spero che finisca con quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una bella rivoluzione. C’è stata in Inghilterra, in Francia, in Russia, in Germania, dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, che è trecent’anni che è schiavo di tutti. Se vuole riscattarsi, il riscatto non è una cosa semplice. E’ doloroso, esige anche dei sacrifici. Se no, vada alla malora – che è dove sta andando, ormai da tre generazioni.
Mario Monicelli
L'audit, uno strumento essenziale per rivelare le origini del "debito" negli Stati Uniti e in Europa
Maria Lucia Fattorelli, Fonte: rivoltaildebito
Questo è il testo di riferimento della relazione presentata dall’autrice al Seminario sull’audit del debito organizzato a Liegi il 12 e 13 dicembre scorso dal CADTM, il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (www.cadtm.org). Il testo è stato tradotto da Aldo Zanchetta per la Campagna del congelamento del debito ed è disponibile anche sul sito della campagna: http://cnms.it/campagna_congelamento_debito. I riquadri e alcune note sono opera del traduttore come pure le sottolineature.
-----------------
La recente crisi del debito negli Stati Uniti e le nuove informazioni sugli attuali problemi economici dei paesi europei rivelano il modo in cui il debito pubblico è stato utilizzato a beneficio del settore bancario e finanziario.
E’ necessario innanzi tutto sottolineare che il debito pubblico non è in sé un fatto negativo. Infatti dovrebbe trattarsi di un importante strumento di finanziamento delle politiche pubbliche, una delle ragioni per le quali gli Stati sono autorizzati a contrarre dei debiti, evidentemente sotto certi limiti e condizioni. I prestiti devono consentire di ottenere dei fondi che, sommati alle altre entrate fiscali, consentono al governo di svolgere il proprio ruolo soddisfacendo i bisogni di base della popolazione.
Tuttavia molti studi, audit e inchieste hanno già rivelato che invece di contribuire al progresso delle politiche pubbliche, certe somme significative registrate come debito pubblico non corrispondono a denaro ottenuto mediante prestiti. Inoltre una gran parte del debito sovrano viene utilizzato per pagare interessi e ammortamenti di debiti precedenti la cui contropartita non è nota.
AUDIT: Attività atta a determinare tramite indagine l’adeguatezza ed aderenza di un processo o organizzazione a stabilite procedure, istruzioni operative, specifiche, standard ed altri requisiti funzionali e a verificarne l’applicazione.
Definizione redatta da Monica Dongili su Tesionline
Si può identificare facilmente il problema principale: lo strumento del debito pubblico si trasforma in un mezzo di distrazione di risorse pubbliche. La mancanza di trasparenza in questi processi e la grande quantità di privilegi –sia a livello giuridico che finanziario, con numerose ramificazioni- consente di affermare che questo modello funziona come un “sistema debito” a beneficio di un settore ristretto dei mercati finanziari.
Il “sistema debito” è un affare molto redditizio. Il sistema finanziario privato è un complesso di attori depositari di una serie di privilegi giuridici, politici, finanziari e economici. Questi attori sono grandi imprese con alla loro testa grandi banche e potenti agenzie di rating.
Negli Stati uniti questo sistema si è recentemente mobilitato per salvare le banche dall’imminente rischio di fallimento. La dimensione di questo piano di salvataggio è stata rivelata il 21 luglio scorso dal senatore Bernie Sander1 che ha presentato i risultati di un audit realizzato dal Government Accountability Office2 (commissione di inchiesta del Congresso incaricata dell’esame della contabilità pubblica). Questo rapporto dimostra che la Federal Riserve (FED) fra il dicembre 2007 e il giugno 2010 ha speso circa 16.000 miliardi di dollari per i piani di salvataggio, ammontare trasferito direttamente (e segretamente ndt) alle banche e alle grandi imprese applicando un tasso di interesse vicino allo zero.
Le rivelazioni di questo rapporto di audit governativo forniscono sicuramente uno degli esempi più rimarchevoli dei privilegi del settore finanziario la cui crisi ha costituito il primo passo dell’attuale crisi del debito sovrano non solo negli Stati uniti ma anche in Europa. Queste somme erogate dalla FED superano il totale del debito pubblico statunitense (stimato attualmente in 14.500 miliardi di dollari) e del prodotto nazionale lordo (14.300 miliardi di dollari nel 2010).
L’audit di questa operazione deve proseguire perchè mostra chiaramente come immensi debiti privati vengono trasformati in debiti pubblici. I principali beneficiari di queste erogazioni della FED sono, secondo il rapporto:
Citigroup : 2 500 milliardi di dollari (2 500 000 000 000)
Morgan Stanley : 2 040 “ “ (2 040 000 000 000)
Merrill Lynch : 1 949 “ “ (1 949 000 000 000)
Bank of America : 1 344 “ “ (1 344 000 000 000)
Barclays PLC (GB) : 868 “ “ (868 000 000 000)
Bear Sterns : 853 “ “ (853 000 000 000)
Goldman Sachs : 814 “ “ (814 000 000 000)
Royal Bank of Scotland (GB) : 541 “ “ (541 000 000 000)
JP Morgan Chase : 391 “ “ (391 000 000 000)
Deutsche Bank (Germania) : 354 „ „ (354 000 000 000)
UBS (Suisse) : 287 „ „ (287 000 000 000)
Crédit Suisse (CH) : 262 “ “ (262 000 000 000)
Lehman Brothers : 183 “ “ (183 000 000 000)
Bank of Scotland (GB) : 181 “ “ (181 000 000 000)
BNP Paribas (France) : 175 “ “ (175 000 000 000)
Queste somme mostrano i privilegi del settore finanziario il quale, oltre a questi enormi prestiti della FED, ha ricevuto altre somme significative dal Tesoro sia direttamente che tramite altri piani di salvataggio i quali hanno utilizzato una parte consistente delle entrate fiscali. Questo mentre i contribuenti subivano una crescente disoccupazione, una riduzione dei programmi sanitari e tagli in altri settori della sicurezza sociale che, tutti assieme, rimodellano la struttura sociale e conducono all’aggravio delle condizioni sociali con disuguaglianze ben più gravi di quelle nel corso degli ultimi decenni. Questo può spiegare perché manifestazioni del tipo di “Occupy Wall Street” guadagnano terreno.
Questo è il testo di riferimento della relazione presentata dall’autrice al Seminario sull’audit del debito organizzato a Liegi il 12 e 13 dicembre scorso dal CADTM, il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (www.cadtm.org). Il testo è stato tradotto da Aldo Zanchetta per la Campagna del congelamento del debito ed è disponibile anche sul sito della campagna: http://cnms.it/campagna_congelamento_debito. I riquadri e alcune note sono opera del traduttore come pure le sottolineature.
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La recente crisi del debito negli Stati Uniti e le nuove informazioni sugli attuali problemi economici dei paesi europei rivelano il modo in cui il debito pubblico è stato utilizzato a beneficio del settore bancario e finanziario.
E’ necessario innanzi tutto sottolineare che il debito pubblico non è in sé un fatto negativo. Infatti dovrebbe trattarsi di un importante strumento di finanziamento delle politiche pubbliche, una delle ragioni per le quali gli Stati sono autorizzati a contrarre dei debiti, evidentemente sotto certi limiti e condizioni. I prestiti devono consentire di ottenere dei fondi che, sommati alle altre entrate fiscali, consentono al governo di svolgere il proprio ruolo soddisfacendo i bisogni di base della popolazione.
Tuttavia molti studi, audit e inchieste hanno già rivelato che invece di contribuire al progresso delle politiche pubbliche, certe somme significative registrate come debito pubblico non corrispondono a denaro ottenuto mediante prestiti. Inoltre una gran parte del debito sovrano viene utilizzato per pagare interessi e ammortamenti di debiti precedenti la cui contropartita non è nota.
AUDIT: Attività atta a determinare tramite indagine l’adeguatezza ed aderenza di un processo o organizzazione a stabilite procedure, istruzioni operative, specifiche, standard ed altri requisiti funzionali e a verificarne l’applicazione.
Definizione redatta da Monica Dongili su Tesionline
Si può identificare facilmente il problema principale: lo strumento del debito pubblico si trasforma in un mezzo di distrazione di risorse pubbliche. La mancanza di trasparenza in questi processi e la grande quantità di privilegi –sia a livello giuridico che finanziario, con numerose ramificazioni- consente di affermare che questo modello funziona come un “sistema debito” a beneficio di un settore ristretto dei mercati finanziari.
Il “sistema debito” è un affare molto redditizio. Il sistema finanziario privato è un complesso di attori depositari di una serie di privilegi giuridici, politici, finanziari e economici. Questi attori sono grandi imprese con alla loro testa grandi banche e potenti agenzie di rating.
Negli Stati uniti questo sistema si è recentemente mobilitato per salvare le banche dall’imminente rischio di fallimento. La dimensione di questo piano di salvataggio è stata rivelata il 21 luglio scorso dal senatore Bernie Sander1 che ha presentato i risultati di un audit realizzato dal Government Accountability Office2 (commissione di inchiesta del Congresso incaricata dell’esame della contabilità pubblica). Questo rapporto dimostra che la Federal Riserve (FED) fra il dicembre 2007 e il giugno 2010 ha speso circa 16.000 miliardi di dollari per i piani di salvataggio, ammontare trasferito direttamente (e segretamente ndt) alle banche e alle grandi imprese applicando un tasso di interesse vicino allo zero.
Le rivelazioni di questo rapporto di audit governativo forniscono sicuramente uno degli esempi più rimarchevoli dei privilegi del settore finanziario la cui crisi ha costituito il primo passo dell’attuale crisi del debito sovrano non solo negli Stati uniti ma anche in Europa. Queste somme erogate dalla FED superano il totale del debito pubblico statunitense (stimato attualmente in 14.500 miliardi di dollari) e del prodotto nazionale lordo (14.300 miliardi di dollari nel 2010).
L’audit di questa operazione deve proseguire perchè mostra chiaramente come immensi debiti privati vengono trasformati in debiti pubblici. I principali beneficiari di queste erogazioni della FED sono, secondo il rapporto:
Citigroup : 2 500 milliardi di dollari (2 500 000 000 000)
Morgan Stanley : 2 040 “ “ (2 040 000 000 000)
Merrill Lynch : 1 949 “ “ (1 949 000 000 000)
Bank of America : 1 344 “ “ (1 344 000 000 000)
Barclays PLC (GB) : 868 “ “ (868 000 000 000)
Bear Sterns : 853 “ “ (853 000 000 000)
Goldman Sachs : 814 “ “ (814 000 000 000)
Royal Bank of Scotland (GB) : 541 “ “ (541 000 000 000)
JP Morgan Chase : 391 “ “ (391 000 000 000)
Deutsche Bank (Germania) : 354 „ „ (354 000 000 000)
UBS (Suisse) : 287 „ „ (287 000 000 000)
Crédit Suisse (CH) : 262 “ “ (262 000 000 000)
Lehman Brothers : 183 “ “ (183 000 000 000)
Bank of Scotland (GB) : 181 “ “ (181 000 000 000)
BNP Paribas (France) : 175 “ “ (175 000 000 000)
Queste somme mostrano i privilegi del settore finanziario il quale, oltre a questi enormi prestiti della FED, ha ricevuto altre somme significative dal Tesoro sia direttamente che tramite altri piani di salvataggio i quali hanno utilizzato una parte consistente delle entrate fiscali. Questo mentre i contribuenti subivano una crescente disoccupazione, una riduzione dei programmi sanitari e tagli in altri settori della sicurezza sociale che, tutti assieme, rimodellano la struttura sociale e conducono all’aggravio delle condizioni sociali con disuguaglianze ben più gravi di quelle nel corso degli ultimi decenni. Questo può spiegare perché manifestazioni del tipo di “Occupy Wall Street” guadagnano terreno.
Un Audit sul debito anche in Italia
di Salvatore Cannavò. Fonte: ilfattoquotidiano
Se si guardano i presidenti del Consiglio degli anni di maggior picco nella formazione del debito pubblico italiano, i responsabili della situazione hanno il nome e cognome degli uomini della nomenklatura democristiana, e poi socialista, che ha retto il paese per circa cinquant’anni. E che il debito pubblico abbia radici clientelari e truffaldine è indubbio. Ma la dilatazione dei debiti è stata anche una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi dieci-quindici anni che hanno visto l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private.
La spesa sociale in rapporto al Pil, infatti, in Italia è in linea con le entrate fiscali tra il 1980 e il 1990 e poi addirittura si riduce. Se nel 1960 la spesa per sanità era il 10,5 del Pil nel 1994 sale al 10,7, cioè resta ferma. La spesa per Istruzione scende dal 10,9 al 9 per cento mentre la famigerata spesa pensionistica passa dal 32,9 per cento del 1960 al 33,6 per cento del ’94. Se si fa la somma dalle manovra varate dal governo Amato del 1992 in poi, si supera la soglia dei 500 miliardi di euro. Di tagli e “sacrifici”.
Contestualmente, abbiamo assistito a una miriade di finanziamenti a pioggia, di incentivi, defiscalizzazioni che Marco Cobianchi nel saggio “Mani bucate” (Chiarelettere, 2011) ha stimato in 30-40 miliardi l’anno. Altro che spesa per le pensioni o per lo stato sociale.
Poi la politica fiscale. Secondo i dati Eurostat, dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. Se la pressione complessiva in Italia è rimasta più o meno stabile, riducendosi solo dello 0,3 per cento in dieci anni – e, comunque, destinata ad aumentare per effetto delle manovre economiche dell’ultimo governo Berlusconi - quella sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento.
Se si guardano i presidenti del Consiglio degli anni di maggior picco nella formazione del debito pubblico italiano, i responsabili della situazione hanno il nome e cognome degli uomini della nomenklatura democristiana, e poi socialista, che ha retto il paese per circa cinquant’anni. E che il debito pubblico abbia radici clientelari e truffaldine è indubbio. Ma la dilatazione dei debiti è stata anche una precisa scelta delle politiche compiute in Europa negli ultimi dieci-quindici anni che hanno visto l’applicazione di politiche neoliberiste basate su ipotesi di riduzione della pressione fiscale con la diminuzione delle tasse verso gli strati più alti della società o verso le società private.
La spesa sociale in rapporto al Pil, infatti, in Italia è in linea con le entrate fiscali tra il 1980 e il 1990 e poi addirittura si riduce. Se nel 1960 la spesa per sanità era il 10,5 del Pil nel 1994 sale al 10,7, cioè resta ferma. La spesa per Istruzione scende dal 10,9 al 9 per cento mentre la famigerata spesa pensionistica passa dal 32,9 per cento del 1960 al 33,6 per cento del ’94. Se si fa la somma dalle manovra varate dal governo Amato del 1992 in poi, si supera la soglia dei 500 miliardi di euro. Di tagli e “sacrifici”.
Contestualmente, abbiamo assistito a una miriade di finanziamenti a pioggia, di incentivi, defiscalizzazioni che Marco Cobianchi nel saggio “Mani bucate” (Chiarelettere, 2011) ha stimato in 30-40 miliardi l’anno. Altro che spesa per le pensioni o per lo stato sociale.
Poi la politica fiscale. Secondo i dati Eurostat, dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. Se la pressione complessiva in Italia è rimasta più o meno stabile, riducendosi solo dello 0,3 per cento in dieci anni – e, comunque, destinata ad aumentare per effetto delle manovre economiche dell’ultimo governo Berlusconi - quella sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento.
USA al 94° posto nella classifica della disuguaglianza. Lo dice la CIA
Autore: Maurizio Acerbo. Fonte: controlacrisi
Il blog di Michael Moore, impegnatissimo fin dall'inizio nel movimento Occupy, è una miniera per antiliberisti in cerca di informazioni.
Oggi campeggiava sulla homepage la copertina di Shock Economy, il libro di Naomi Klein.
Moore ironizza per la sorpresa che membri dell'establishment repubblicano mostrano di fronte a dati sulle conseguenze di un trentennio di liberismo sulla società americana.
SCIOCCATO
Anche persone come John Bridgeland, ex assistente di George W. Bush, si stanno risvegliando sul fatto che gli Stati Uniti hanno meno mobilità economica della maggior parte del resto del mondo (come si poteva leggere in un articolo del New York Times linkato).
Poi Moore prosegue:
Forse questa cosa ha qualcosa a che fare con questa?
Secondo la Cia, gli Stati Uniti hanno una maggiore disuguaglianza economica di 94 su 134 paesi ... tra cui Uzbekistan, India e Iran.
Ovviamente con il link al sito della famigerata CIA
Con una battuta Michael Moore mostra la correlazione tra crisi di uno dei miti americani per eccellenza, quello della diffusa opportunità di ascesa individuale nella scala sociale, e la crescita dela disuguaglianza indotta dalle politiche liberiste.
In Italia governo, tv e grande stampa, centrodestra e centrosinistra continuano a ripeterci le virtù delle liberismo di cui gli Stati Uniti sono stati il laboratorio più avanzato da Reagan in poi nascondendoci il fatto che si tratta di un clamoroso fallimento.
Se il sogno americano è diventato per pochi lo pseudo-riformismo bipartisan italiota è una fregatura per tutti.
Il blog di Michael Moore, impegnatissimo fin dall'inizio nel movimento Occupy, è una miniera per antiliberisti in cerca di informazioni.
Oggi campeggiava sulla homepage la copertina di Shock Economy, il libro di Naomi Klein.
Moore ironizza per la sorpresa che membri dell'establishment repubblicano mostrano di fronte a dati sulle conseguenze di un trentennio di liberismo sulla società americana.
SCIOCCATO
Anche persone come John Bridgeland, ex assistente di George W. Bush, si stanno risvegliando sul fatto che gli Stati Uniti hanno meno mobilità economica della maggior parte del resto del mondo (come si poteva leggere in un articolo del New York Times linkato).
Poi Moore prosegue:
Forse questa cosa ha qualcosa a che fare con questa?
Secondo la Cia, gli Stati Uniti hanno una maggiore disuguaglianza economica di 94 su 134 paesi ... tra cui Uzbekistan, India e Iran.
Ovviamente con il link al sito della famigerata CIA
Con una battuta Michael Moore mostra la correlazione tra crisi di uno dei miti americani per eccellenza, quello della diffusa opportunità di ascesa individuale nella scala sociale, e la crescita dela disuguaglianza indotta dalle politiche liberiste.
In Italia governo, tv e grande stampa, centrodestra e centrosinistra continuano a ripeterci le virtù delle liberismo di cui gli Stati Uniti sono stati il laboratorio più avanzato da Reagan in poi nascondendoci il fatto che si tratta di un clamoroso fallimento.
Se il sogno americano è diventato per pochi lo pseudo-riformismo bipartisan italiota è una fregatura per tutti.
Se passa il modello americano
da il manifesto. Fonte: controlacrisi
di Antonio Lettieri
Nel programma del governo Monti, dopo l’austerità e le pensioni, è il momento della riforma del mercato del lavoro, la madre di tutte le riforme di struttura. In altre parole, la cancellazione più o meno mascherata dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Un tentativo che non riuscì al governo di Silvio Berlusconi nel 2003, ma che la destra italiana spera possa essere replicato, questa volta con successo, da un governo “tecnico”, in realtà eminentemente politico. Il vantaggio è che il tentativo è sostenuto dalle autorità europee e soprattutto potrebbe essere favorito dalla crisi, in nome della quale le operazioni più odiose e impopolari sembrano diventare finalmente possibili. Anche se l’art.18 non ha nulla a che vedere con i problemi del debito e dei mercati finanziari, se non nel senso di aggravarli aprendo una nuova fase del conflitto sociale. Ma proviamo a stabilire alcuni elementi di fatto, diradando la nebbia ideologica che falsifica il dibattito.
La protezione contro i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo precede l’art. 18, essendo già in atto prima dello Statuto dei lavoratori. Del resto è un principio in varie forme presente nei paesi europei, e sancito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il valore dell’art. 18 sta nel rendere effettivo una protezione che il datore di lavoro tranquillamente aggirava, dal momento che, ricorrendo al risarcimento monetario, poteva legittimare il licenziamento, anche se, in sede giurisdizionale, ne veniva acclarata l’illegittimità. In altri termini, si trattava di una tutela del lavoro inconsistente in quanto priva di effettività. L’art.18 fornisce questa effettività, stabilendo per le imprese con più di quindici dipendenti, il diritto al reintegro (o la facoltà conferita al lavoratore di scambiare il reintegro con una congrua indennizzazione, fissata dalla legge in 18 mensilità).
Si afferma che dalla libertà di licenziare deriverebbero vantaggi per l’occupazione e, in particolare, per i giovani. Ma si tratta di un argomento puramente ideologico, contraddetto dai fatti che raccontano una storia diversa.
In Italia, nel periodo 2000-2008 (l’anno in cui si manifesta la crisi) l’occupazione passa da circa 21,2 a circa 23,4 milioni con un aumento di quasi 2,2 milioni di unità. Un aumento nettamente superiore a quello che nello stesso periodo si realizza in Francia (1,6 milioni), e leggermente superiore a quello che si registra in Germania (2,1 milioni). In parallelo, la disoccupazione scende in Italia fino al 6,8 per cento (un punto in meno rispetto alla media dell’eurozona). Dove sarebbe l’effetto negativo dell’art.18 sull’occupazione e la disoccupazione? Poi, come era prevedibile la disoccupazione torna a crescere durante la crisi.
Nel programma del governo Monti, dopo l’austerità e le pensioni, è il momento della riforma del mercato del lavoro, la madre di tutte le riforme di struttura. In altre parole, la cancellazione più o meno mascherata dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Un tentativo che non riuscì al governo di Silvio Berlusconi nel 2003, ma che la destra italiana spera possa essere replicato, questa volta con successo, da un governo “tecnico”, in realtà eminentemente politico. Il vantaggio è che il tentativo è sostenuto dalle autorità europee e soprattutto potrebbe essere favorito dalla crisi, in nome della quale le operazioni più odiose e impopolari sembrano diventare finalmente possibili. Anche se l’art.18 non ha nulla a che vedere con i problemi del debito e dei mercati finanziari, se non nel senso di aggravarli aprendo una nuova fase del conflitto sociale. Ma proviamo a stabilire alcuni elementi di fatto, diradando la nebbia ideologica che falsifica il dibattito.
La protezione contro i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo precede l’art. 18, essendo già in atto prima dello Statuto dei lavoratori. Del resto è un principio in varie forme presente nei paesi europei, e sancito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il valore dell’art. 18 sta nel rendere effettivo una protezione che il datore di lavoro tranquillamente aggirava, dal momento che, ricorrendo al risarcimento monetario, poteva legittimare il licenziamento, anche se, in sede giurisdizionale, ne veniva acclarata l’illegittimità. In altri termini, si trattava di una tutela del lavoro inconsistente in quanto priva di effettività. L’art.18 fornisce questa effettività, stabilendo per le imprese con più di quindici dipendenti, il diritto al reintegro (o la facoltà conferita al lavoratore di scambiare il reintegro con una congrua indennizzazione, fissata dalla legge in 18 mensilità).
Si afferma che dalla libertà di licenziare deriverebbero vantaggi per l’occupazione e, in particolare, per i giovani. Ma si tratta di un argomento puramente ideologico, contraddetto dai fatti che raccontano una storia diversa.
In Italia, nel periodo 2000-2008 (l’anno in cui si manifesta la crisi) l’occupazione passa da circa 21,2 a circa 23,4 milioni con un aumento di quasi 2,2 milioni di unità. Un aumento nettamente superiore a quello che nello stesso periodo si realizza in Francia (1,6 milioni), e leggermente superiore a quello che si registra in Germania (2,1 milioni). In parallelo, la disoccupazione scende in Italia fino al 6,8 per cento (un punto in meno rispetto alla media dell’eurozona). Dove sarebbe l’effetto negativo dell’art.18 sull’occupazione e la disoccupazione? Poi, come era prevedibile la disoccupazione torna a crescere durante la crisi.
Robert Reich: il bene pubblico è in agonia
Secondo l'economista “stiamo perdendo i beni pubblici fruibili da tutti, pagati dalle tasse di tutti e soprattutto dei più ricchi. Al loro posto abbiamo beni privati fruibili dai molto ricchi e pagati da tutti noi” DI ENRICO GALANTINI
di Enrico Galantini. Fonte: rassegnait
Ieri sul suo sito, Robert Reich, già ministro del Lavoro con Bill Clinton, ha pubblicato un lungo e interessante post sul “declino del bene pubblico”. Un tema che riguarda gli Usa in campagna elettorale, certamente, ma che parla anche a tutti noi.
Il punto di partenza del suo ragionamento è l’evidente declino negli Stati Uniti di tutto ciò che si può definire bene pubblico: scuole, università, ospedali, strade, parchi, campi sportivi. “Molto di ciò che viene definito pubblico è sempre più un bene privato pagato da chi lo utilizza”, dice Reich. Di contro, “gran parte del resto di ciò che è considerato pubblico è divenuto così di bassa qualità che chi può cerca di trovare alternative private”.
Come è successo tutto ciò, in una nazione in cui all’inizio del 900 si puntò proprio sul pubblico per favorire il progresso della nazione? “Eccellenti scuole, strade, parchi, campi sportivi e sistemi di viabilità avrebbero unificato la nuova società industriale, creato cittadini migliori e generato prosperità diffusa. L’educazione, ad esempio, era meno un investimento personale di quanto non fosse un bene pubblico – in grado di portare vantaggi all’intera comunità e in ultima analisi alla nazione”. E questo puntare sul pubblico aumentò anche con la Grande depressione, la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda, nota Reich: “Forti istituzioni pubbliche erano un argine contro, volta per volta, la povertà di massa, il fascismo e poi il comunismo. Il bene pubblico era tangibile: eravamo davvero una società tenuta assieme da bisogni comuni e comuni minacce”.
Ora evidentemente non è più così: Perché? La crisi economica è ovviamente una ragione. Certo non la sola. “La deriva – osserva Reich – in realtà è iniziata più di tre decenni fa con la cosiddetta ‘rivolta fiscale’ di una classe media i cui redditi avevano smesso di crescere sebbene l’economia continuasse ad andare bene”. La concentrazione della ricchezza e dei profitti nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone ha fatto il resto, “instaurando un circolo vizioso di risorse in diminuzione e qualità in peggioramento, che creava ulteriore fuga dalle istituzioni pubbliche”.
di Enrico Galantini. Fonte: rassegnait
Ieri sul suo sito, Robert Reich, già ministro del Lavoro con Bill Clinton, ha pubblicato un lungo e interessante post sul “declino del bene pubblico”. Un tema che riguarda gli Usa in campagna elettorale, certamente, ma che parla anche a tutti noi.
Il punto di partenza del suo ragionamento è l’evidente declino negli Stati Uniti di tutto ciò che si può definire bene pubblico: scuole, università, ospedali, strade, parchi, campi sportivi. “Molto di ciò che viene definito pubblico è sempre più un bene privato pagato da chi lo utilizza”, dice Reich. Di contro, “gran parte del resto di ciò che è considerato pubblico è divenuto così di bassa qualità che chi può cerca di trovare alternative private”.
Come è successo tutto ciò, in una nazione in cui all’inizio del 900 si puntò proprio sul pubblico per favorire il progresso della nazione? “Eccellenti scuole, strade, parchi, campi sportivi e sistemi di viabilità avrebbero unificato la nuova società industriale, creato cittadini migliori e generato prosperità diffusa. L’educazione, ad esempio, era meno un investimento personale di quanto non fosse un bene pubblico – in grado di portare vantaggi all’intera comunità e in ultima analisi alla nazione”. E questo puntare sul pubblico aumentò anche con la Grande depressione, la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda, nota Reich: “Forti istituzioni pubbliche erano un argine contro, volta per volta, la povertà di massa, il fascismo e poi il comunismo. Il bene pubblico era tangibile: eravamo davvero una società tenuta assieme da bisogni comuni e comuni minacce”.
Ora evidentemente non è più così: Perché? La crisi economica è ovviamente una ragione. Certo non la sola. “La deriva – osserva Reich – in realtà è iniziata più di tre decenni fa con la cosiddetta ‘rivolta fiscale’ di una classe media i cui redditi avevano smesso di crescere sebbene l’economia continuasse ad andare bene”. La concentrazione della ricchezza e dei profitti nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone ha fatto il resto, “instaurando un circolo vizioso di risorse in diminuzione e qualità in peggioramento, che creava ulteriore fuga dalle istituzioni pubbliche”.
giovedì 5 gennaio 2012
Tra Berlino e Washington
di Marco d'Eramo. Fonte: ilmanifesto
Commettiamo un errore di prospettiva quando scrutiamo la politica della Germania in un'ottica tutta europea. Nel senso che europeo è il terreno di manovra, ma mondiale è la posta in gioco. Lo si può constatare meglio se l'andamento della crisi lo si osserva non da Roma o Parigi (o persino da Londra), bensì da Washington. Gli Stati uniti non hanno infatti dimenticato la mancata adesione tedesca, questa primavera, alla campagna Nato contro la Libia. All'epoca nessuno provò a riflettere su cosa implicasse quel gesto che nel passato sarebbe stato inimmaginabile. È vero che nel 2003 Gerhard Schröder si era dissociato dall'invasione dell'Iraq, ma lo aveva fatto insieme alla Francia, in nome di una posizione comune. Stavolta invece la Germania di Angela Merkel si smarcava proprio dai suoi partner europei.
Quel gesto lasciò trapelare, per la prima volta in modo palese, la nuova assertività della Cancelleria tedesca. Mostrò altresì che le critiche che i responsabili tedeschi da due anni non risparmiavano al capitalismo statunitense, non erano le solite ostentazioni da primo della classe che alza la mano per dire alla maestra che lui lo sapeva già. O almeno non erano solo questo.
Certo, Berlino è stata presa alla sprovvista dalla crisi finanziaria quanto tutte le altre capitali, e lo dimostrano i massicci aiuti di cui necessitarono le banche tedesche a cavallo del 2008-2009. Ma a poco a poco sulla Sprea ci si convinse che la crisi poteva essere sfruttata per conseguire infine quel che, dalla caduta del muro di Berlino (1989), rimane l'obiettivo primario di tutti i cancellieri tedeschi, quale che sia il loro colore politico perché su questo punto l'accordo dell'establishment politico tedesco è totale, e bipartisan. L'obiettivo è la reinserzione a pieno titolo della Germania nel novero delle grandi potenze planetarie, ovvero l'abrogazione totale dell'ordine uscito dalla seconda guerra mondiale e dagli accordi di Potsdam (1945).
Infatti, per capire la gestione tedesca dell'attuale crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», bisogna tenere a mente che se oggi c'è l'euro è perché nel 1990 François Mitterrand lo pose come condizione per consentire alla riunificazione tedesca: l'euro è cioè l'ultima espressione dell'ordine mondiale post-bellico.
Una Germania unita e sganciata dall'Europa era troppo potente e troppo pericolosa per i suoi vicini. Il presidente francese pensava perciò di imprigionarla in una forzosa solidarietà europea, nella camicia di forza di una moneta comune. Ma che i tedeschi avessero una propria agenda lo si vide fin dai primi anni '90 dalla fretta (a volte improvvida) con cui Berlino spinse per l'allargamento a est dell'Unione europea, come per crearsi un hinterland con cui bilanciare il resto dell'Europa.
Perciò non dimentichiamo mai che l'euro è sentito dalla Germania come l'ultimo diktat derivato dalla sconfitta, come una prigione, cioè proprio quello per cui era stato pensato. Non è difficile perciò immaginare che i tedeschi provino una vera e propria Schadenfreude (termine che meravigliosamente sintetizza la 'gioia provata per le disavventure altrui') quando l'euro si ritorce contro chi l'aveva imposto e da camicia di forza della potenza tedesca diventa invece l'arma di punta del suo arsenale economico-finanziario.
Commettiamo un errore di prospettiva quando scrutiamo la politica della Germania in un'ottica tutta europea. Nel senso che europeo è il terreno di manovra, ma mondiale è la posta in gioco. Lo si può constatare meglio se l'andamento della crisi lo si osserva non da Roma o Parigi (o persino da Londra), bensì da Washington. Gli Stati uniti non hanno infatti dimenticato la mancata adesione tedesca, questa primavera, alla campagna Nato contro la Libia. All'epoca nessuno provò a riflettere su cosa implicasse quel gesto che nel passato sarebbe stato inimmaginabile. È vero che nel 2003 Gerhard Schröder si era dissociato dall'invasione dell'Iraq, ma lo aveva fatto insieme alla Francia, in nome di una posizione comune. Stavolta invece la Germania di Angela Merkel si smarcava proprio dai suoi partner europei.
Quel gesto lasciò trapelare, per la prima volta in modo palese, la nuova assertività della Cancelleria tedesca. Mostrò altresì che le critiche che i responsabili tedeschi da due anni non risparmiavano al capitalismo statunitense, non erano le solite ostentazioni da primo della classe che alza la mano per dire alla maestra che lui lo sapeva già. O almeno non erano solo questo.
Certo, Berlino è stata presa alla sprovvista dalla crisi finanziaria quanto tutte le altre capitali, e lo dimostrano i massicci aiuti di cui necessitarono le banche tedesche a cavallo del 2008-2009. Ma a poco a poco sulla Sprea ci si convinse che la crisi poteva essere sfruttata per conseguire infine quel che, dalla caduta del muro di Berlino (1989), rimane l'obiettivo primario di tutti i cancellieri tedeschi, quale che sia il loro colore politico perché su questo punto l'accordo dell'establishment politico tedesco è totale, e bipartisan. L'obiettivo è la reinserzione a pieno titolo della Germania nel novero delle grandi potenze planetarie, ovvero l'abrogazione totale dell'ordine uscito dalla seconda guerra mondiale e dagli accordi di Potsdam (1945).
Infatti, per capire la gestione tedesca dell'attuale crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», bisogna tenere a mente che se oggi c'è l'euro è perché nel 1990 François Mitterrand lo pose come condizione per consentire alla riunificazione tedesca: l'euro è cioè l'ultima espressione dell'ordine mondiale post-bellico.
Una Germania unita e sganciata dall'Europa era troppo potente e troppo pericolosa per i suoi vicini. Il presidente francese pensava perciò di imprigionarla in una forzosa solidarietà europea, nella camicia di forza di una moneta comune. Ma che i tedeschi avessero una propria agenda lo si vide fin dai primi anni '90 dalla fretta (a volte improvvida) con cui Berlino spinse per l'allargamento a est dell'Unione europea, come per crearsi un hinterland con cui bilanciare il resto dell'Europa.
Perciò non dimentichiamo mai che l'euro è sentito dalla Germania come l'ultimo diktat derivato dalla sconfitta, come una prigione, cioè proprio quello per cui era stato pensato. Non è difficile perciò immaginare che i tedeschi provino una vera e propria Schadenfreude (termine che meravigliosamente sintetizza la 'gioia provata per le disavventure altrui') quando l'euro si ritorce contro chi l'aveva imposto e da camicia di forza della potenza tedesca diventa invece l'arma di punta del suo arsenale economico-finanziario.
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Sguardi cinesi – ovvero, la Cina come metodo
di Sandro Mezzadra e Gigi Roggero.
Fonte: sinistrainrete
If these factory strikes continue, China may have to go communist
(William Pesek, Mainland Workers Flex Their Muscles,
in «South China Morning Post», Hong Kong, June 29, 2010)
1. Molti sguardi si rivolgono oggi alla Cina. In Italia come negli Stati Uniti questi sguardi sono del resto, e ormai da anni, parte dello scontro politico interno: mentre al di là dell’Atlantico, nella corsa verso le elezioni mid term di inizio novembre, governatori e politici repubblicani e democratici hanno fatto a gara nel proporre misure protezionistiche in funzione anti-cinese, in Italia siamo da tempo abituati alle sortite di leghisti e “tremontiani” contro la minaccia che viene da Oriente. Sullo sfondo, c’è il duro scontro sul valore del renminbi e sul protagonismo globale dei fondi sovrani e di altri attori economici cinesi. Tutto ciò non ha impedito, evidentemente, la corsa di imprenditori “occidentali” ad approfittare dell’“apertura” dei mercati cinesi e soprattutto del lavoro cinese. Per limitarci a una battuta: esisterebbero l’Ipod, l’Iphone e l’Ipad senza gli stabilimenti della Foxconn nelle zone economiche speciali del Sud della Cina? C’è da dubitarne… Neppure ha impedito, del resto, la corsa di Paesi, regioni e città a occupare un posto all’Expo di Shanghai, dove la Repubblica Popolare Cinese ha messo a punto (con risultati di immagine migliori rispetto alle Olimpiadi del 2008) lo sguardo che essa stessa rivolge al mondo. Ed è uno sguardo ammiccante e suadente, impregnato di modernità e tradizione. Better city, better life era lo slogan dell’Expo. E chi non sarebbe d’accordo? Guardando i palazzi del “Bund” (vera e propria esposizione universale dell’architettura modernista europea di inizio Novecento) specchiarsi, oltre le acque del fiume Huangpu, nelle pareti degli avveniristici grattacieli di Pudong (l’area in cui si è concentrata l’espansione urbanistica della città negli ultimi vent’anni), più di un visitatore avrà anzi pensato che Shanghai abbia le carte in regola per candidarsi a divenire il paradigma della «città migliore» del futuro globale.
In questo articolo presentiamo alcune note: note di viaggio di uno di noi, che ha trascorso tre settimane in Cina nel giugno di quest’anno, note di ricerca e di riflessione politica di entrambi.
L’obiettivo che ci proponiamo è sostanzialmente di metodo, ed è in questo senso che utilizziamo la categoria di sguardo che abbiamo inserito nel titolo. La domanda che guida le nostre considerazioni potrebbe essere formulata pressappoco in questi termini: che tipo di sguardo è oggi opportuno e politicamente produttivo rivolgere alla Cina per quanti, in Italia e in Europa, hanno a cuore le ragioni della critica radicale del modo di produzione capitalistico e della costruzione, qui e ora, di un altro mondo possibile? Cercheremo in primo luogo di estrapolare, dall’ampia letteratura critica internazionale sulla Cina contemporanea, quelli che ci sembrano gli approcci più interessanti, con cui è a nostro giudizio essenziale dialogare. Ci concentreremo quindi su una breve cronaca delle formidabili lotte operaie che, partendo dallo stabilimento Honda di Foshan (nella provincia meridionale del Guangdong), hanno coinvolto centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori tra la primavera e l’estate di quest’anno – fino a conquistarsi una apposita voce su Wikipedia1. E cercheremo nelle caratteristiche di queste lotte, nella composizione di classe che ne è stata protagonista, gli elementi fondamentali che devono orientare il nostro sguardo sulla Cina.
Un’osservazione preliminare è necessaria. La rassegna di approcci alla Cina contemporanea che proporremo è ovviamente tutt’altro che esaustiva. Ha soltanto l’obiettivo di offrire un primo orientamento. Vi sono tuttavia due “discorsi” sulla Cina che terremo certo presenti sullo sfondo del nostro ragionamento, ma da cui consapevolmente scegliamo di prendere le distanze. Il primo è quello “ufficiale” della leadership cinese, che non manca di trovare sparuti sostenitori anche dalle nostre parti: è un discorso che si caratterizza per l’enfasi sulla costruzione del socialismo, sul nuovo equilibrio tra città e campagna, sulla perequazione sociale che la stessa “apertura” della Cina con l’inizio dell’età delle «riforme» avrebbe reso possibile. Si badi, non crediamo che si tratti semplicemente di “propaganda”: al di sotto di questo discorso c’è senz’altro un’idea di governo dello sviluppo che si tratta di cogliere e analizzare per quello che è. Ma certo la propaganda abbonda nelle parole dei dirigenti cinesi: basta salire di sera su uno dei citati grattacieli di Pudong per constatare che il più delle volte non si vede letteralmente nulla, si è avvolti in una densa coltre di smog che ci parla degli immani costi ambientali dello sviluppo cinese; così come basta addentrarsi nella sconfinata periferia di Pechino per arrivare al distretto di Daxing, dove sono sorte negli ultimi due anni 15 aree recintate in cui vivono in condizioni di vera e propria cattività migliaia di migranti poveri provenienti dalle campagne, per avere un’idea dei costi sociali di quello stesso sviluppo. E tutto il mondo è paese, verrebbe da dire scoprendo che questi 15 “villaggi recintati” sono stati istituiti, nell’ambito di un progetto municipale chiamato «management in stile comunitario», per contrastare la «criminalità» di cui i migranti sarebbero portatori
If these factory strikes continue, China may have to go communist
(William Pesek, Mainland Workers Flex Their Muscles,
in «South China Morning Post», Hong Kong, June 29, 2010)
1. Molti sguardi si rivolgono oggi alla Cina. In Italia come negli Stati Uniti questi sguardi sono del resto, e ormai da anni, parte dello scontro politico interno: mentre al di là dell’Atlantico, nella corsa verso le elezioni mid term di inizio novembre, governatori e politici repubblicani e democratici hanno fatto a gara nel proporre misure protezionistiche in funzione anti-cinese, in Italia siamo da tempo abituati alle sortite di leghisti e “tremontiani” contro la minaccia che viene da Oriente. Sullo sfondo, c’è il duro scontro sul valore del renminbi e sul protagonismo globale dei fondi sovrani e di altri attori economici cinesi. Tutto ciò non ha impedito, evidentemente, la corsa di imprenditori “occidentali” ad approfittare dell’“apertura” dei mercati cinesi e soprattutto del lavoro cinese. Per limitarci a una battuta: esisterebbero l’Ipod, l’Iphone e l’Ipad senza gli stabilimenti della Foxconn nelle zone economiche speciali del Sud della Cina? C’è da dubitarne… Neppure ha impedito, del resto, la corsa di Paesi, regioni e città a occupare un posto all’Expo di Shanghai, dove la Repubblica Popolare Cinese ha messo a punto (con risultati di immagine migliori rispetto alle Olimpiadi del 2008) lo sguardo che essa stessa rivolge al mondo. Ed è uno sguardo ammiccante e suadente, impregnato di modernità e tradizione. Better city, better life era lo slogan dell’Expo. E chi non sarebbe d’accordo? Guardando i palazzi del “Bund” (vera e propria esposizione universale dell’architettura modernista europea di inizio Novecento) specchiarsi, oltre le acque del fiume Huangpu, nelle pareti degli avveniristici grattacieli di Pudong (l’area in cui si è concentrata l’espansione urbanistica della città negli ultimi vent’anni), più di un visitatore avrà anzi pensato che Shanghai abbia le carte in regola per candidarsi a divenire il paradigma della «città migliore» del futuro globale.
In questo articolo presentiamo alcune note: note di viaggio di uno di noi, che ha trascorso tre settimane in Cina nel giugno di quest’anno, note di ricerca e di riflessione politica di entrambi.
L’obiettivo che ci proponiamo è sostanzialmente di metodo, ed è in questo senso che utilizziamo la categoria di sguardo che abbiamo inserito nel titolo. La domanda che guida le nostre considerazioni potrebbe essere formulata pressappoco in questi termini: che tipo di sguardo è oggi opportuno e politicamente produttivo rivolgere alla Cina per quanti, in Italia e in Europa, hanno a cuore le ragioni della critica radicale del modo di produzione capitalistico e della costruzione, qui e ora, di un altro mondo possibile? Cercheremo in primo luogo di estrapolare, dall’ampia letteratura critica internazionale sulla Cina contemporanea, quelli che ci sembrano gli approcci più interessanti, con cui è a nostro giudizio essenziale dialogare. Ci concentreremo quindi su una breve cronaca delle formidabili lotte operaie che, partendo dallo stabilimento Honda di Foshan (nella provincia meridionale del Guangdong), hanno coinvolto centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori tra la primavera e l’estate di quest’anno – fino a conquistarsi una apposita voce su Wikipedia1. E cercheremo nelle caratteristiche di queste lotte, nella composizione di classe che ne è stata protagonista, gli elementi fondamentali che devono orientare il nostro sguardo sulla Cina.
Un’osservazione preliminare è necessaria. La rassegna di approcci alla Cina contemporanea che proporremo è ovviamente tutt’altro che esaustiva. Ha soltanto l’obiettivo di offrire un primo orientamento. Vi sono tuttavia due “discorsi” sulla Cina che terremo certo presenti sullo sfondo del nostro ragionamento, ma da cui consapevolmente scegliamo di prendere le distanze. Il primo è quello “ufficiale” della leadership cinese, che non manca di trovare sparuti sostenitori anche dalle nostre parti: è un discorso che si caratterizza per l’enfasi sulla costruzione del socialismo, sul nuovo equilibrio tra città e campagna, sulla perequazione sociale che la stessa “apertura” della Cina con l’inizio dell’età delle «riforme» avrebbe reso possibile. Si badi, non crediamo che si tratti semplicemente di “propaganda”: al di sotto di questo discorso c’è senz’altro un’idea di governo dello sviluppo che si tratta di cogliere e analizzare per quello che è. Ma certo la propaganda abbonda nelle parole dei dirigenti cinesi: basta salire di sera su uno dei citati grattacieli di Pudong per constatare che il più delle volte non si vede letteralmente nulla, si è avvolti in una densa coltre di smog che ci parla degli immani costi ambientali dello sviluppo cinese; così come basta addentrarsi nella sconfinata periferia di Pechino per arrivare al distretto di Daxing, dove sono sorte negli ultimi due anni 15 aree recintate in cui vivono in condizioni di vera e propria cattività migliaia di migranti poveri provenienti dalle campagne, per avere un’idea dei costi sociali di quello stesso sviluppo. E tutto il mondo è paese, verrebbe da dire scoprendo che questi 15 “villaggi recintati” sono stati istituiti, nell’ambito di un progetto municipale chiamato «management in stile comunitario», per contrastare la «criminalità» di cui i migranti sarebbero portatori
O la Costituzione della Repubblica Italiana o l’Unione Europea
di Stefano D'Andrea*. Fonte: appelloalpopolo
1. Breve premessa.
L’Unione Europea è una organizzazione internazionale. Ad essa si è dato vita mediante la stipulazione di Trattati internazionali.
I Trattati prevedono materie di competenza della UE e organi destinati ad emanare norme vincolanti ora per gli Stati ora per i cittadini degli Stati membri. Le materie di competenze della UE sono in espansione continua, man mano che i Trattati sono modificati. Al di là delle precise previsioni dei Trattati, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, alla quale è riservata la decisione ultima sulle competenze della UE, tende da sempre ad espandere le competenze degli organi UE, ben al di là dei limiti, semantici e logico-giuridici, che discenderebbero dalle disposizioni dei Trattati.
Le (sempre più) ampie competenze della UE non tolgono che quest’ultima sia e resti fondata su accordi internazionali e pertanto abbia natura internazionalistica. L’UE esiste perché gli Stati membri vogliono questa forma di cooperazione. Gli Stati membri restano (formalmente) sovrani. La Corte Costituzionale tedesca in una sentenza del 2003 ha affermato con chiarezza che gli Stati membri sono i “padroni dei trattati”; e ha ribadito il concetto nella sentenza del 30 giugno 2009, pronunciata con riguardo alla legge tedesca di esecuzione del trattato di Lisbona.
Fino a quando uno Stato membro non esce dai trattati europei, il diritto dei trattati e quello “derivato”, emanato dagli organi previsti nei trattati medesimi, prevalgono sul diritto degli Stati membri, comprese le norme costituzionali (o meglio, comprese le norme costituzionali che disciplinano i rapporti economici). Il diritto della UE prevale sul diritto interno. Oggi, in seguito alla modifica dell’art. 117 della Costituzione (voluta e introdotta dal centro-sinistra), le norme di tutti i trattati internazionali ai quali sia stata data attuazione, e in particolare le norme di “diritto comunitario” (specificamente menzionato nell’art. 117 Cost.), prevalgono su quelle contenute in leggi ordinarie, sia anteriori che successive (Corte Cost. 348/2007; e Corte Cost. 349/2007), senza che sia più necessario porre in essere le piroette logico-giuridiche compiute in precedenza per giustificare soluzioni che, sotto il profilo tecnico, non stavano né in cielo né in terra. La possibile e necessaria interpretazione restrittiva dell’art. 117, suggerita da autorevoli dottrine, non nega quanto ho appena affermato.
Insomma, oggi è indubbio che il Parlamento italiano non può derogare ad una norma dei Trattati europei o a una norma introdotta dagli organi europei nemmeno all’unanimità. Uscire dai trattai europei o soggiacere; questa è l’alternativa a nostra disposizione. Il diritto interno contrario al diritto della UE o deve essere disapplicato dai giudici nazionali o comporta sanzioni per lo Stato italiano, comminate dalla UE. La modifica dei trattati, invece, non è nella nostra possibilità. Le modifiche richiedono il consenso di tutti gli Stati che hanno stipulato i trattati (ciò è vero anche per le “procedure di revisione semplificate”, perché esse prevedono la possibilità di atti di dissenso dei Parlamenti nazionali: art. 48 TUE).
2. Il diritto della UE e il diritto costituzionale italiano
Come ho accennato, la prevalenza del diritto europeo sul diritto italiano riguarda anche il diritto costituzionale italiano, sia pure con taluni limiti.
La Corte Costituzionale Italiana ha da lungo tempo affermato e più volte ribadito che la prevalenza del diritto dell’Unione Europea trova un limite “nell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” (dopo l’introduzione del nuovo art. 117, 1° co., cost., si veda Corte Cost. 348/2007; in altre precedenti sentenze il limite era enunciato con diversa formula: “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”). La Corte Costituzionale, in questa materia, si riserva di giudicare costituzionalmente illegittima una norma UE contraria a “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”.
1. Breve premessa.
L’Unione Europea è una organizzazione internazionale. Ad essa si è dato vita mediante la stipulazione di Trattati internazionali.
I Trattati prevedono materie di competenza della UE e organi destinati ad emanare norme vincolanti ora per gli Stati ora per i cittadini degli Stati membri. Le materie di competenze della UE sono in espansione continua, man mano che i Trattati sono modificati. Al di là delle precise previsioni dei Trattati, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, alla quale è riservata la decisione ultima sulle competenze della UE, tende da sempre ad espandere le competenze degli organi UE, ben al di là dei limiti, semantici e logico-giuridici, che discenderebbero dalle disposizioni dei Trattati.
Le (sempre più) ampie competenze della UE non tolgono che quest’ultima sia e resti fondata su accordi internazionali e pertanto abbia natura internazionalistica. L’UE esiste perché gli Stati membri vogliono questa forma di cooperazione. Gli Stati membri restano (formalmente) sovrani. La Corte Costituzionale tedesca in una sentenza del 2003 ha affermato con chiarezza che gli Stati membri sono i “padroni dei trattati”; e ha ribadito il concetto nella sentenza del 30 giugno 2009, pronunciata con riguardo alla legge tedesca di esecuzione del trattato di Lisbona.
Fino a quando uno Stato membro non esce dai trattati europei, il diritto dei trattati e quello “derivato”, emanato dagli organi previsti nei trattati medesimi, prevalgono sul diritto degli Stati membri, comprese le norme costituzionali (o meglio, comprese le norme costituzionali che disciplinano i rapporti economici). Il diritto della UE prevale sul diritto interno. Oggi, in seguito alla modifica dell’art. 117 della Costituzione (voluta e introdotta dal centro-sinistra), le norme di tutti i trattati internazionali ai quali sia stata data attuazione, e in particolare le norme di “diritto comunitario” (specificamente menzionato nell’art. 117 Cost.), prevalgono su quelle contenute in leggi ordinarie, sia anteriori che successive (Corte Cost. 348/2007; e Corte Cost. 349/2007), senza che sia più necessario porre in essere le piroette logico-giuridiche compiute in precedenza per giustificare soluzioni che, sotto il profilo tecnico, non stavano né in cielo né in terra. La possibile e necessaria interpretazione restrittiva dell’art. 117, suggerita da autorevoli dottrine, non nega quanto ho appena affermato.
Insomma, oggi è indubbio che il Parlamento italiano non può derogare ad una norma dei Trattati europei o a una norma introdotta dagli organi europei nemmeno all’unanimità. Uscire dai trattai europei o soggiacere; questa è l’alternativa a nostra disposizione. Il diritto interno contrario al diritto della UE o deve essere disapplicato dai giudici nazionali o comporta sanzioni per lo Stato italiano, comminate dalla UE. La modifica dei trattati, invece, non è nella nostra possibilità. Le modifiche richiedono il consenso di tutti gli Stati che hanno stipulato i trattati (ciò è vero anche per le “procedure di revisione semplificate”, perché esse prevedono la possibilità di atti di dissenso dei Parlamenti nazionali: art. 48 TUE).
2. Il diritto della UE e il diritto costituzionale italiano
Come ho accennato, la prevalenza del diritto europeo sul diritto italiano riguarda anche il diritto costituzionale italiano, sia pure con taluni limiti.
La Corte Costituzionale Italiana ha da lungo tempo affermato e più volte ribadito che la prevalenza del diritto dell’Unione Europea trova un limite “nell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” (dopo l’introduzione del nuovo art. 117, 1° co., cost., si veda Corte Cost. 348/2007; in altre precedenti sentenze il limite era enunciato con diversa formula: “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”). La Corte Costituzionale, in questa materia, si riserva di giudicare costituzionalmente illegittima una norma UE contraria a “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”.
Occupy Wall Street e la politica della moralità finanziaria
di Frances Fox Piven. Fonte: sinistrainrete
Siamo in guerra ormai da decenni, non solo in Afghanistan e Iraq, ,a proprio qui, a casa nostra. In patria si è tratta di una guerra contro i poveri, ma non è sorprendente se non ci avete fatto caso. Non avreste trovato i dati sulle perdite per questo particolare conflitto nel vostro giornale locale o nei notiziari televisivi della notte. Per quanto devastante sia stata, la guerra contro i poveri è stata ampiamente ignorata, sino ad ora.
Il movimento Occupy Wall Street (OWS) [Occupiamo Wall Street] ha già fatto della concentrazione della ricchezza ai vertici di questa società un tema centrale della politica statunitense. Ora promette di fare qualcosa di simile per quel che riguarda la realtà della povertà in questo paese.
Facendo di Wall Street il suo bersaglio simbolico e definendosi come un movimento del 99%, OWS ha reindirizzato l’attenzione del pubblico verso il tema dell’estrema diseguaglianza che ha ridefinito come, essenzialmente, un problema morale. Solo sino a non tanto tempo fa, il tema della “morale” in politica era limitato alla correttezza delle preferenze sessuali, del comportamento riproduttivo, o del comportamento personale dei presidenti. La politica economica, compresi i tagli alle tasse per i ricchi, le sovvenzioni e la protezione del governo alle compagnie assicurative e farmaceutiche, e la deregolamentazione finanziaria, è stata velata da una nuvola di propaganda o semplicemente considerata troppo difficile da capire per il cittadino statunitense comune.
Ora, in quel che sembra un attimo, la nebbia si è sollevata e il tema sul tavolo dovunque sembra essere la moralità del capitalismo finanziario contemporaneo.
I dimostranti hanno ottenuto questo principalmente grazie al potere simbolico delle loro azioni: chiamando nemica Wall Street, il cuore del capitalismo finanziario, e accogliendo i senzatetto e gli emarginati nei luoghi della loro occupazione. E naturalmente lo slogan “noi siamo il 99%” ha ripetuto il messaggio che quasi tutti noi stiamo soffrendo per lo sconsiderato sciacallaggio di un minuscolo gruppo. (Di fatto non vanno lontano: l’aumento dei redditi dell’1% al vertice negli scorsi tre decenni è quasi pari alle perdite dell’80% che sta più in basso.)
Il richiamo morale del movimento ricorda momenti storici anteriori quando le rivolte popolari evocavano idee di una “economia morale” per giustificare le rivendicazioni di pane, grano o salari e cioè di una giustizia economica. Gli storici solitamente attribuiscono le idee popolari di una economia morale agli usi e alla tradizione, come quando lo storico inglese E.P.Thompson fa risalire agli statuti elisabettiani, allora già vecchi di secoli, l’idea di un “prezzo giusto” per gli alimenti di base, invocato dai rivoltosi inglesi per il cibo del diciottesimo secolo. Ma i poveri che si ribellano non sono mai stati semplicemente dei tradizionalisti. Di fronte alle violazioni di quelli che consideravano diritti consuetudinari, non hanno atteso che agissero i magistrati, ma spesso si sono fatti carico di far rispettare quello che ritenevano essere il fondamento di una economia morale giusta.
Siamo in guerra ormai da decenni, non solo in Afghanistan e Iraq, ,a proprio qui, a casa nostra. In patria si è tratta di una guerra contro i poveri, ma non è sorprendente se non ci avete fatto caso. Non avreste trovato i dati sulle perdite per questo particolare conflitto nel vostro giornale locale o nei notiziari televisivi della notte. Per quanto devastante sia stata, la guerra contro i poveri è stata ampiamente ignorata, sino ad ora.
Il movimento Occupy Wall Street (OWS) [Occupiamo Wall Street] ha già fatto della concentrazione della ricchezza ai vertici di questa società un tema centrale della politica statunitense. Ora promette di fare qualcosa di simile per quel che riguarda la realtà della povertà in questo paese.
Facendo di Wall Street il suo bersaglio simbolico e definendosi come un movimento del 99%, OWS ha reindirizzato l’attenzione del pubblico verso il tema dell’estrema diseguaglianza che ha ridefinito come, essenzialmente, un problema morale. Solo sino a non tanto tempo fa, il tema della “morale” in politica era limitato alla correttezza delle preferenze sessuali, del comportamento riproduttivo, o del comportamento personale dei presidenti. La politica economica, compresi i tagli alle tasse per i ricchi, le sovvenzioni e la protezione del governo alle compagnie assicurative e farmaceutiche, e la deregolamentazione finanziaria, è stata velata da una nuvola di propaganda o semplicemente considerata troppo difficile da capire per il cittadino statunitense comune.
Ora, in quel che sembra un attimo, la nebbia si è sollevata e il tema sul tavolo dovunque sembra essere la moralità del capitalismo finanziario contemporaneo.
I dimostranti hanno ottenuto questo principalmente grazie al potere simbolico delle loro azioni: chiamando nemica Wall Street, il cuore del capitalismo finanziario, e accogliendo i senzatetto e gli emarginati nei luoghi della loro occupazione. E naturalmente lo slogan “noi siamo il 99%” ha ripetuto il messaggio che quasi tutti noi stiamo soffrendo per lo sconsiderato sciacallaggio di un minuscolo gruppo. (Di fatto non vanno lontano: l’aumento dei redditi dell’1% al vertice negli scorsi tre decenni è quasi pari alle perdite dell’80% che sta più in basso.)
Il richiamo morale del movimento ricorda momenti storici anteriori quando le rivolte popolari evocavano idee di una “economia morale” per giustificare le rivendicazioni di pane, grano o salari e cioè di una giustizia economica. Gli storici solitamente attribuiscono le idee popolari di una economia morale agli usi e alla tradizione, come quando lo storico inglese E.P.Thompson fa risalire agli statuti elisabettiani, allora già vecchi di secoli, l’idea di un “prezzo giusto” per gli alimenti di base, invocato dai rivoltosi inglesi per il cibo del diciottesimo secolo. Ma i poveri che si ribellano non sono mai stati semplicemente dei tradizionalisti. Di fronte alle violazioni di quelli che consideravano diritti consuetudinari, non hanno atteso che agissero i magistrati, ma spesso si sono fatti carico di far rispettare quello che ritenevano essere il fondamento di una economia morale giusta.
mercoledì 4 gennaio 2012
Se non ora, quando?
di Guido Viale. Fonte: guidoviale
L'Italia ha imboccato la stessa strada della Grecia. L'unica possibilitΰ che abbiamo per un'alternativa θ quella di condizionare il governo con la mobilitazione sociale. L'importante θ cominciare. Al piω presto.
Il decreto "Salvaitalia" non salverΰ l'Italia e il decreto "Crescitalia" non la farΰ crescere. Sembra - quest'ultimo - il nome di un formaggio. Il sobrio Monti ha ereditato da Tremonti il gusto di sostituire espressioni consolatorie alla dura osticitΰ delle cose; com'era la famigerata "Robinhood tax", nome che Tremonti aveva dato a due o tre cose diverse e mai realizzate; o «i conti sono stati messi in sicurezza» (e non lo sono): giaculatoria che Monti ha ripreso tal quale dal precedente ministro. Θ piω probabile invece che da quei due decreti l'Italia esca ulteriormente depressa. Il paese non sta andando a nord-ovest (verso Bruxelles) come sostiene Monti; ma, per usare i suoi riferimenti logistici, a sud-est (verso la Grecia). Le misure adottate dal governo greco, prima e dopo il cambio della guardia, non l'hanno salvata da un primo default - anche se nessuno lo ha chiamato con il suo vero nome - e non la salveranno dal prossimo. E nessun economista serio vede come l'economia della Grecia, sottoposta a quella cura da cavallo, possa risollevarsi nel giro dei prossimi dieci e piω anni. Ma l'Italia ha imboccato la stessa strada; che θ poi quella "suggerita", cioθ imposta, dalla Bce. Quanto all'equitΰ, questa sμ, verrΰ realizzata: equiparando al livello piω basso lavoro fisso e precario e superando cosμ «l'apartheid» che li divide (bella espressione, «apartheid»: come se i lavoratori a tempo indeterminato - e non i padroni, che in questi mesi li stanno mettendo entrambi sul lastrico a bizzeffe - avessero rinchiuso i precari dietro una cortina di filo spinato). Anche le "riforme" si faranno, dato che sia questo termine che "modernizzazione" vengono ormai usati solo per indicare la sottomissione totale dei lavoratori alle imprese; e di queste alle banche; e delle banche - con i buoni uffici dei governi e della Bce - alla finanza ombra che domina l'economia globale. Quanto al "rigore" tanto caro al governo, non θ che il rigor mortis di una compagine che al carnevale berlusconiano ha sostituito la "sobrietΰ", per continuare l'aggressione spietata contro chi lavora, chi θ disoccupato, e chi lavora senza guadagnare; senza molto discostarsi da chi li ha preceduti. «Non ci occupiamo solo di questo», ha aggiunto Monti durante la conferenza stampa di fine anno, dato che aveva parlato solo di tassi, spread , debito, conti, bilanci, tagli, tasse. E ha precisato: «Sappiamo che gli uomini sono fatti di carne, ossa e...("anima", avrebbe detto qualcuno di voi; "spirito", o "mente", avrebbe pensato qualcun altro. No)... e denaro» ha concluso il premier. Ecco: per Monti siamo fatti di denaro ("carne e ossa" sono incidenti di percorso); e, ovviamente, ciascuno conta per il denaro che ha; di cui "θ fatto". Scava e scava: tutta la filosofia del liberismo, e soprattutto la sua "prassi", finiscono lμ. Prendete Draghi, che lavora in tandem con Monti - e con molti altri - alla salvezza dell'Italia e dell'euro; cioθ di chi gli euro li detiene. Ne sta distribuendo miliardi alle banche a man bassa (come Ben Bernanke ha distribuito e continua a distribuire alle banche, anche europee, miliardi di dollari; spiegando che se fosse necessario glieli farebbe anche piovere addosso - alle banche; non ai comuni mortali - gettandoli da un elicottero). E perchι? Per «metterle in salvo». E da chi? Da se stesse: dal fatto che hanno assunto, speculando, troppi rischi; sono piene di titoli tossici (in Italia, piω provinciali, di immobili: di Ligresti, Zunino, don Verzι e compagnia); sono ingrassate con i titoli di Stato piω redditizi, che ora perdono valore, e di cui non riescono a sbarazzarsi in tempo. E poi? Devono ancora decidere se piazzare quei miliardi in titoli di stato (magari al 7 per cento), o in crediti alle imprese (in Italia al 12-15 per cento), o prestandoli a chi specula in azioni, valute, materie prime o derrate alimentari (con guadagni ancora maggiori), avendoli presi in prestito all'1 per cento (con garanzia dei rispettivi Stati, a cui la Bce perς non presta un euro perchι sono "inaffidabili").
L'Italia ha imboccato la stessa strada della Grecia. L'unica possibilitΰ che abbiamo per un'alternativa θ quella di condizionare il governo con la mobilitazione sociale. L'importante θ cominciare. Al piω presto.
Il decreto "Salvaitalia" non salverΰ l'Italia e il decreto "Crescitalia" non la farΰ crescere. Sembra - quest'ultimo - il nome di un formaggio. Il sobrio Monti ha ereditato da Tremonti il gusto di sostituire espressioni consolatorie alla dura osticitΰ delle cose; com'era la famigerata "Robinhood tax", nome che Tremonti aveva dato a due o tre cose diverse e mai realizzate; o «i conti sono stati messi in sicurezza» (e non lo sono): giaculatoria che Monti ha ripreso tal quale dal precedente ministro. Θ piω probabile invece che da quei due decreti l'Italia esca ulteriormente depressa. Il paese non sta andando a nord-ovest (verso Bruxelles) come sostiene Monti; ma, per usare i suoi riferimenti logistici, a sud-est (verso la Grecia). Le misure adottate dal governo greco, prima e dopo il cambio della guardia, non l'hanno salvata da un primo default - anche se nessuno lo ha chiamato con il suo vero nome - e non la salveranno dal prossimo. E nessun economista serio vede come l'economia della Grecia, sottoposta a quella cura da cavallo, possa risollevarsi nel giro dei prossimi dieci e piω anni. Ma l'Italia ha imboccato la stessa strada; che θ poi quella "suggerita", cioθ imposta, dalla Bce. Quanto all'equitΰ, questa sμ, verrΰ realizzata: equiparando al livello piω basso lavoro fisso e precario e superando cosμ «l'apartheid» che li divide (bella espressione, «apartheid»: come se i lavoratori a tempo indeterminato - e non i padroni, che in questi mesi li stanno mettendo entrambi sul lastrico a bizzeffe - avessero rinchiuso i precari dietro una cortina di filo spinato). Anche le "riforme" si faranno, dato che sia questo termine che "modernizzazione" vengono ormai usati solo per indicare la sottomissione totale dei lavoratori alle imprese; e di queste alle banche; e delle banche - con i buoni uffici dei governi e della Bce - alla finanza ombra che domina l'economia globale. Quanto al "rigore" tanto caro al governo, non θ che il rigor mortis di una compagine che al carnevale berlusconiano ha sostituito la "sobrietΰ", per continuare l'aggressione spietata contro chi lavora, chi θ disoccupato, e chi lavora senza guadagnare; senza molto discostarsi da chi li ha preceduti. «Non ci occupiamo solo di questo», ha aggiunto Monti durante la conferenza stampa di fine anno, dato che aveva parlato solo di tassi, spread , debito, conti, bilanci, tagli, tasse. E ha precisato: «Sappiamo che gli uomini sono fatti di carne, ossa e...("anima", avrebbe detto qualcuno di voi; "spirito", o "mente", avrebbe pensato qualcun altro. No)... e denaro» ha concluso il premier. Ecco: per Monti siamo fatti di denaro ("carne e ossa" sono incidenti di percorso); e, ovviamente, ciascuno conta per il denaro che ha; di cui "θ fatto". Scava e scava: tutta la filosofia del liberismo, e soprattutto la sua "prassi", finiscono lμ. Prendete Draghi, che lavora in tandem con Monti - e con molti altri - alla salvezza dell'Italia e dell'euro; cioθ di chi gli euro li detiene. Ne sta distribuendo miliardi alle banche a man bassa (come Ben Bernanke ha distribuito e continua a distribuire alle banche, anche europee, miliardi di dollari; spiegando che se fosse necessario glieli farebbe anche piovere addosso - alle banche; non ai comuni mortali - gettandoli da un elicottero). E perchι? Per «metterle in salvo». E da chi? Da se stesse: dal fatto che hanno assunto, speculando, troppi rischi; sono piene di titoli tossici (in Italia, piω provinciali, di immobili: di Ligresti, Zunino, don Verzι e compagnia); sono ingrassate con i titoli di Stato piω redditizi, che ora perdono valore, e di cui non riescono a sbarazzarsi in tempo. E poi? Devono ancora decidere se piazzare quei miliardi in titoli di stato (magari al 7 per cento), o in crediti alle imprese (in Italia al 12-15 per cento), o prestandoli a chi specula in azioni, valute, materie prime o derrate alimentari (con guadagni ancora maggiori), avendoli presi in prestito all'1 per cento (con garanzia dei rispettivi Stati, a cui la Bce perς non presta un euro perchι sono "inaffidabili").
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senza "ideologie" ma analizzando solo dal puro piano tecnico.
di Zag. la Vecchia Talpa. Fonte: listasinistra
Ora senza "ideologie" ma analizzando solo dal puro piano tecnico , le misure e gli effetti che queste avranno , credo, dovrebbe essere chiaro che ancora una volta dicono delle cose , ma l'obbiettivo è un altro.
Le conclusioni da una attenta esamina dei provvedimenti annunciati e di quelli già presi è chiaro che ci stiamo incamminando verso la risoluzione di quella che negli altri pesi europei è una anomalia italiana, in campo del mondo del lavoro e dei diritti del lavoro, ma senza ricevere in cambio nemmeno uno degli aspetti positivi relativi al welfare e alla sicurezza sociale degli altri paesi europei.
Prendiamo quello che oggi è diventato il tema del giorno " il contratto unico".
In questi anni, dal pacchetto Treu e dalla teorizzazioni del prof Biagi fino ad oggi, i tipi di contratti precari sono oltre 40. Il datore di lavoro non ha che l'imbarazzo della scelta tanto che anche gli stessi consulenti del lavoro non hanno che l'imbarazzo della scelta nel consigliare quale tipo di contratto proporre, quello che più "veste" meglio le esigenze del datore di lavoro. Addirittura esiste un tipo di contratto di condivisione del posto di lavoro. Due lavoratori che si contendono e si spartiscono lo stesso posto di lavoro. Ma il datore di lavoro conosce , giuridicamente, un solo lavoratore.
E tutto legalizzato.
Esiste il voucer del lavoro. Lavori per me ed io ti pago attraverso un voucer appunto, una specie da cachet, un ticket omnicomprensivo, senza che dichiari nulla a nessuno!
Tutto legale.
Quindi non è la flessibilità che manca sia in entrata che in uscita. Si può assumere e licenziare al giorno, al mese, al trimestre e così via. E quindi non si può certo dire che la mancata crescita dipenda dalla mancanza di flessibilità sia in entrata che in uscita.
Ma è solo una questione di giustizia sociale. Ci dicono. Una disparità fra garantiti e precari.
Vero! Verissimo! A chi lo dici! Ma a logica verrebbe da dire, " non solo è quello che i lavoratori stanno dicendo da anni, ma cosa si aspetta quindi a dare più diritti, più garanzie di sicurezza sociale a chi non c'è l'ha? In fondo la legislazione che consente questo tipo di sfruttamento dei diritti è li pronta ad essere modificata. Fatta non per volontà o per difesa di privilegi,
"ma solo per compatibilità con la "modernità" e le "nuove esigenze del mercato",
dicevano i vari Biagi, Treu, Sacconi, Ichino e via di questo passo.
Cosa vieta quindi che si stracciano tutte le forme di contratti "atipici" lasciandone due o al massimo tre di "primo ingresso" o "per stagionalità" o "per esigenze di andamento di mercato" o "per apprendistato" e garantendo però un salario più alto e garanzie maggiori per questi lavoratori tale da garantire che non vengano fatti "abusi" , come è avvenuto in questi anni da parte dei datori di lavoro.
Cioè che si faccia come si fa in Danimarca o in Germania, ma non partendo dalla libertà di licenziare, ma garantendo welfare e garanzie sociali , salario di cittadinanza, diritti alla madri lavoratrici e via di questo passo!
Si garantirebbe così reale flessibilità nel mondo del lavoro, libertà da parte dei datori di lavoro e diritto alla sopravvivenza per i giovani e i disoccupati. Garanzia di diritti
Ma la domanda sorge spontanea? Chi paga? Tutto questo ha un costo sociale, chi sovvenziona?
Questi costi , diciamo sociali, non devono cadere direttamente sul datore di lavoro, sulle piccole e medie aziende. I costi sociali devo ricadere sulla socialità Come? Ma aprendo capitoli di entrate che mai si sono aperte. Vogliamo parlare delle spese militari, le guerre spacciate per missioni umanitarie, dei costi dei parlamentari ( solo diminuendo il 50% le auto blu si risparmierebbero dai 2 ai 3 miliardi di euro all'anno) e poi la patrimoniale, l'ICI degli immobili spacciati per centri di culto, l'evasione fiscale. Queste cose si son dette milioni di volte, ma mai fatte
Insomma se si vogliono trovare i danari per finanziare tutto ciò senza che ricada sui soliti noti si trovano.
Ma in realtà quello che viene spacciato come volontà di riforma del mercato del lavoro è in realtà solo macelleria sociale, è ricondurre l'anomalia italiana e l'ex forza dei lavoratori a meno della forma di schiavismo.
Ritorniamo , reintroducete, lo schiavismo, almeno avrete l'obbligo di sfamarci e di sostenerci. Con questa vostra libertà anche quest'onere è a carico dei lavoratori!
--
Zag(c)
Ora senza "ideologie" ma analizzando solo dal puro piano tecnico , le misure e gli effetti che queste avranno , credo, dovrebbe essere chiaro che ancora una volta dicono delle cose , ma l'obbiettivo è un altro.
Le conclusioni da una attenta esamina dei provvedimenti annunciati e di quelli già presi è chiaro che ci stiamo incamminando verso la risoluzione di quella che negli altri pesi europei è una anomalia italiana, in campo del mondo del lavoro e dei diritti del lavoro, ma senza ricevere in cambio nemmeno uno degli aspetti positivi relativi al welfare e alla sicurezza sociale degli altri paesi europei.
Prendiamo quello che oggi è diventato il tema del giorno " il contratto unico".
In questi anni, dal pacchetto Treu e dalla teorizzazioni del prof Biagi fino ad oggi, i tipi di contratti precari sono oltre 40. Il datore di lavoro non ha che l'imbarazzo della scelta tanto che anche gli stessi consulenti del lavoro non hanno che l'imbarazzo della scelta nel consigliare quale tipo di contratto proporre, quello che più "veste" meglio le esigenze del datore di lavoro. Addirittura esiste un tipo di contratto di condivisione del posto di lavoro. Due lavoratori che si contendono e si spartiscono lo stesso posto di lavoro. Ma il datore di lavoro conosce , giuridicamente, un solo lavoratore.
E tutto legalizzato.
Esiste il voucer del lavoro. Lavori per me ed io ti pago attraverso un voucer appunto, una specie da cachet, un ticket omnicomprensivo, senza che dichiari nulla a nessuno!
Tutto legale.
Quindi non è la flessibilità che manca sia in entrata che in uscita. Si può assumere e licenziare al giorno, al mese, al trimestre e così via. E quindi non si può certo dire che la mancata crescita dipenda dalla mancanza di flessibilità sia in entrata che in uscita.
Ma è solo una questione di giustizia sociale. Ci dicono. Una disparità fra garantiti e precari.
Vero! Verissimo! A chi lo dici! Ma a logica verrebbe da dire, " non solo è quello che i lavoratori stanno dicendo da anni, ma cosa si aspetta quindi a dare più diritti, più garanzie di sicurezza sociale a chi non c'è l'ha? In fondo la legislazione che consente questo tipo di sfruttamento dei diritti è li pronta ad essere modificata. Fatta non per volontà o per difesa di privilegi,
"ma solo per compatibilità con la "modernità" e le "nuove esigenze del mercato",
dicevano i vari Biagi, Treu, Sacconi, Ichino e via di questo passo.
Cosa vieta quindi che si stracciano tutte le forme di contratti "atipici" lasciandone due o al massimo tre di "primo ingresso" o "per stagionalità" o "per esigenze di andamento di mercato" o "per apprendistato" e garantendo però un salario più alto e garanzie maggiori per questi lavoratori tale da garantire che non vengano fatti "abusi" , come è avvenuto in questi anni da parte dei datori di lavoro.
Cioè che si faccia come si fa in Danimarca o in Germania, ma non partendo dalla libertà di licenziare, ma garantendo welfare e garanzie sociali , salario di cittadinanza, diritti alla madri lavoratrici e via di questo passo!
Si garantirebbe così reale flessibilità nel mondo del lavoro, libertà da parte dei datori di lavoro e diritto alla sopravvivenza per i giovani e i disoccupati. Garanzia di diritti
Ma la domanda sorge spontanea? Chi paga? Tutto questo ha un costo sociale, chi sovvenziona?
Questi costi , diciamo sociali, non devono cadere direttamente sul datore di lavoro, sulle piccole e medie aziende. I costi sociali devo ricadere sulla socialità Come? Ma aprendo capitoli di entrate che mai si sono aperte. Vogliamo parlare delle spese militari, le guerre spacciate per missioni umanitarie, dei costi dei parlamentari ( solo diminuendo il 50% le auto blu si risparmierebbero dai 2 ai 3 miliardi di euro all'anno) e poi la patrimoniale, l'ICI degli immobili spacciati per centri di culto, l'evasione fiscale. Queste cose si son dette milioni di volte, ma mai fatte
Insomma se si vogliono trovare i danari per finanziare tutto ciò senza che ricada sui soliti noti si trovano.
Ma in realtà quello che viene spacciato come volontà di riforma del mercato del lavoro è in realtà solo macelleria sociale, è ricondurre l'anomalia italiana e l'ex forza dei lavoratori a meno della forma di schiavismo.
Ritorniamo , reintroducete, lo schiavismo, almeno avrete l'obbligo di sfamarci e di sostenerci. Con questa vostra libertà anche quest'onere è a carico dei lavoratori!
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Zag(c)
Quattro domande a Napolitano
Loris Campetti. Fonte: Ilmanifesto
Il presidente Giorgio Napolitano conosce bene i problemi del lavoro ed ha un'antica frequentazione con le persone in carne ed ossa che l'hanno trasformato da schiavitù in occasione di socialità, solidarietà ed emancipazione. La sua tradizione, comunista e migliorista, ha saputo individuare nei rapporti di lavoro e nel loro cambiamento attraverso l'azione sindacale e il conflitto, linfa vitale per la battaglia politica democratica.
Il presidente Giorgio Napolitano conosce bene i problemi del lavoro ed ha un'antica frequentazione con le persone in carne ed ossa che l'hanno trasformato da schiavitù in occasione di socialità, solidarietà ed emancipazione. La sua tradizione, comunista e migliorista, ha saputo individuare nei rapporti di lavoro e nel loro cambiamento attraverso l'azione sindacale e il conflitto, linfa vitale per la battaglia politica democratica.
Dunque, quando nel discorso di fine anno oppure ieri a Napoli ne parla, riesce a entrare in medias res. Le sue parole indicano come riferimenti il Piano del lavoro di «Peppino» Di Vittorio e la svolta dell'Eur di Luciano Lama. Il primo nasceva dall'analisi di una sconfitta alla Fiat negli anni Cinquanta, dentro una prospettiva di straordinario sviluppo, con il boom economico che si profilava all'orizzonte. La seconda, a cavallo tra il '77 e il '78, arrivava verso la conclusione (e finalizzata alla conclusione) di uno straordinario ciclo di lotta segnato da un'inedita autonomia del movimento operaio italiano.
I suoi richiami sono interessanti e utili, vanno presi sul serio. Meritano dunque di essere valutati criticamente, proprio per il rispetto dovuto alla storia e alla cultura del presidente. Il riferimento al Piano del lavoro rimanda a una scelta strategica e a un'analisi dei cambiamenti in atto tese a riportare il sindacato - la Fiom e la Cgil - dentro le fabbriche e nei posti di lavoro.
I primi anni del Dopoguerra erano stati segnati dalla prevalenza del ruolo politico della Cgil: solo per fare un esempio, ricordiamo gli scioperi contro l'aggressione nordamericana alla Corea. La Fiom era stata sconfitta al rinnovo delle commissioni interne, vittima dell'epurazione dei comunisti ordinata al ragionier Vittorio Valletta dall'ambasciatrice americana Clare Luce, ma anche di una perdita di rapporto con le condizioni materiali dei lavoratori.
Oggi al posto di Valletta c'è Sergio Marchionne, anch'egli impegnato nell'epurazione del dissenso dalle fabbriche Fiat, ma la Fiom ora è fortissimamente radicata nelle fabbriche e la sua azione sindacale è incentrata sulla difesa delle condizioni materiali e della dignità dei lavoratori.
Più consono è invece il richiamo di Napolitano alla politica dei sacrifici cara al Lama dell'Eur. Luoghi comuni del tipo «siamo tutti sulla stessa barca», o la riduzione del conflitto da risorsa per la crescita collettiva - anche dell'economia, anche della democrazia - a problema, possono legittimare il richiamo presidenziale. Lama voleva chiudere la stagione di lotta degli anni Settanta, Napolitano («oggettivamente», si sarebbe detto ai tempi della Terza internazionale) entra nel cuore delle differenze interne alla Cgil, proprio alla vigilia di un importante direttivo nazionale: attraverso i suoi appelli alla «coesione» sociale e all'unità sindacale punta i riflettori, per chi voglia intendere, sulle anomalie.
La Fiom che non accetta il ricatto «lavoro in cambio dei diritti», non firma il contratto Fiat e si batte contro la cancellazione del contratto nazionale di lavoro, è l'anomalia. Anche se il discorso potrebbe essere allargato all'intera Cgil che forse merita, nella visione del Colle, un richiamo a una maggiore disponibilità nei confronti degli «sforzi» di un governo che non sarà unto dal Signore, ma certo fortemente voluto e protetto dal Gotha della finanza e dal Quirinale stesso.
Vorremmo rispettosamente esprimere alcune perplessità al presidente Giorgio Napolitano. Lei chiede «coesione sociale» e vede nell'accordo tra capitale e lavoro la conditio sine qua non per uscire dalla crisi e far ripartire il Paese. Ma come si può chiedere «coesione» a un operaio della Fiat, che guadagna 500 volte meno del suo amministratore delegato?
Ai tempi di Di Vittorio da lei richiamati, il feroce Valletta guadagnava 20 volte di più dei suoi operai. Oltre che alle forze del lavoro e alla loro «etica», forse presidente dovrebbe rivolgere la sua moral suasion all'«etica» dell'impesa.
Lei chiede di ripartire dall'accordo confederale del 28 giugno 2011, siglato con la Confindustria oltre che da Cisl e Uil anche dalla Cgil, ma contestato dalla Fiom. Quell'accordo apre la strada delle deroghe al contratto nazionale, poi spianata dall'articolo 8 della manovra ferragostana di Tremonti. Lei sa meglio di chiunque altro il valore generale del contratto nazionale che è lo strumento della solidarietà generale, così come non le sfugge la conquista democratica rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, sempre più oggetto di attacchi strumentali.
Il richiamo alla «responsabilità» di chi lavora dovrebbe forse essere accompagnato da un richiamo ai diritti e alle pratiche democratiche. È o non è ingiusto che ai lavoratori sia impedito di votare accordi e contratti che riguardino la loro vita e il loro lavoro? È o non è ingiusto che non venga democraticamente certificato il consenso che i singoli sindacati raccolgono nei posti di lavoro? È o non è ingiusto che senza mandati e senza verifiche alcune organizzazioni sindacali possano decidere per tutti, persino quando rappresentano una minoranza di lavoratori? È o non è inaccettabile che un sindacato non firmatario di un accordo o di un contratto venga «espulso», cancellato, impedito di svolgere attività nelle fabbriche e negli uffici? Secondo la magistratura, che a Torino si espressa in modo chiaro, si tratta di un comportamento antisindacale. Secondo lei, e secondo il governo Monti, che per il Quirinale sarebbe meritorio del sostegno di tutti?
I suoi richiami sono interessanti e utili, vanno presi sul serio. Meritano dunque di essere valutati criticamente, proprio per il rispetto dovuto alla storia e alla cultura del presidente. Il riferimento al Piano del lavoro rimanda a una scelta strategica e a un'analisi dei cambiamenti in atto tese a riportare il sindacato - la Fiom e la Cgil - dentro le fabbriche e nei posti di lavoro.
I primi anni del Dopoguerra erano stati segnati dalla prevalenza del ruolo politico della Cgil: solo per fare un esempio, ricordiamo gli scioperi contro l'aggressione nordamericana alla Corea. La Fiom era stata sconfitta al rinnovo delle commissioni interne, vittima dell'epurazione dei comunisti ordinata al ragionier Vittorio Valletta dall'ambasciatrice americana Clare Luce, ma anche di una perdita di rapporto con le condizioni materiali dei lavoratori.
Oggi al posto di Valletta c'è Sergio Marchionne, anch'egli impegnato nell'epurazione del dissenso dalle fabbriche Fiat, ma la Fiom ora è fortissimamente radicata nelle fabbriche e la sua azione sindacale è incentrata sulla difesa delle condizioni materiali e della dignità dei lavoratori.
Più consono è invece il richiamo di Napolitano alla politica dei sacrifici cara al Lama dell'Eur. Luoghi comuni del tipo «siamo tutti sulla stessa barca», o la riduzione del conflitto da risorsa per la crescita collettiva - anche dell'economia, anche della democrazia - a problema, possono legittimare il richiamo presidenziale. Lama voleva chiudere la stagione di lotta degli anni Settanta, Napolitano («oggettivamente», si sarebbe detto ai tempi della Terza internazionale) entra nel cuore delle differenze interne alla Cgil, proprio alla vigilia di un importante direttivo nazionale: attraverso i suoi appelli alla «coesione» sociale e all'unità sindacale punta i riflettori, per chi voglia intendere, sulle anomalie.
La Fiom che non accetta il ricatto «lavoro in cambio dei diritti», non firma il contratto Fiat e si batte contro la cancellazione del contratto nazionale di lavoro, è l'anomalia. Anche se il discorso potrebbe essere allargato all'intera Cgil che forse merita, nella visione del Colle, un richiamo a una maggiore disponibilità nei confronti degli «sforzi» di un governo che non sarà unto dal Signore, ma certo fortemente voluto e protetto dal Gotha della finanza e dal Quirinale stesso.
Vorremmo rispettosamente esprimere alcune perplessità al presidente Giorgio Napolitano. Lei chiede «coesione sociale» e vede nell'accordo tra capitale e lavoro la conditio sine qua non per uscire dalla crisi e far ripartire il Paese. Ma come si può chiedere «coesione» a un operaio della Fiat, che guadagna 500 volte meno del suo amministratore delegato?
Ai tempi di Di Vittorio da lei richiamati, il feroce Valletta guadagnava 20 volte di più dei suoi operai. Oltre che alle forze del lavoro e alla loro «etica», forse presidente dovrebbe rivolgere la sua moral suasion all'«etica» dell'impesa.
Lei chiede di ripartire dall'accordo confederale del 28 giugno 2011, siglato con la Confindustria oltre che da Cisl e Uil anche dalla Cgil, ma contestato dalla Fiom. Quell'accordo apre la strada delle deroghe al contratto nazionale, poi spianata dall'articolo 8 della manovra ferragostana di Tremonti. Lei sa meglio di chiunque altro il valore generale del contratto nazionale che è lo strumento della solidarietà generale, così come non le sfugge la conquista democratica rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, sempre più oggetto di attacchi strumentali.
Il richiamo alla «responsabilità» di chi lavora dovrebbe forse essere accompagnato da un richiamo ai diritti e alle pratiche democratiche. È o non è ingiusto che ai lavoratori sia impedito di votare accordi e contratti che riguardino la loro vita e il loro lavoro? È o non è ingiusto che non venga democraticamente certificato il consenso che i singoli sindacati raccolgono nei posti di lavoro? È o non è ingiusto che senza mandati e senza verifiche alcune organizzazioni sindacali possano decidere per tutti, persino quando rappresentano una minoranza di lavoratori? È o non è inaccettabile che un sindacato non firmatario di un accordo o di un contratto venga «espulso», cancellato, impedito di svolgere attività nelle fabbriche e negli uffici? Secondo la magistratura, che a Torino si espressa in modo chiaro, si tratta di un comportamento antisindacale. Secondo lei, e secondo il governo Monti, che per il Quirinale sarebbe meritorio del sostegno di tutti?
Gli accordi separati sicuramente non piacciono a Napolitano, che ha buona memoria dei citati anni Cinquanta. Ma è possibile che l'unico modo per evitarli sia l'obbligo a firmare qualsiasi accordo, magari ritenuto lesivo dei principi della Costituzione? Vorremmo capire meglio il pensiero di Giorgio Napolitano, che certo non può essere banalizzato o strumentalizzato, ma che pure ci lascia perplessi.
Niente è come prima
di Francesco Indovina. Fonte: sinistrainrete
La ripetizione che niente è, e sarà, come prima non corrisponde alla consapevolezza che la formazione sociale capitalistica è cambiata. Il capitalismo pare abbia concluso la sua fase «rivoluzionaria», e come l’apprendista stregone non riesce a governare le forze che ha evocato.
Questione che può essere affrontata da diversi punti di vista e che qui si affronta, in forma molto semplificata, dal punto di vista della trasformazione del denaro in capitale (Marx, Il Capitale, Libro primo).
Dal «Sole 24 Ore» del 6 agosto si ricavano i seguenti dati di valore riferiti al 2010 del sistema mondo:
– Pil 74.000 miliardi;
– borse 50.000 miliardi;
– obbligazioni 95.000 miliardi;
– «altri» strumenti finanziaria 466.000 miliardi.
La produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari (economia di carta), tenendo fuori da questo calcolo il valore delle Borse che, ci si può illudere, hanno riferimento con l’economia reale. Detto in altro modo, quello che uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della «ricchezza» finanziaria che circola.
Si tratta del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, un tema non nuovissimo (già esplorato da Hilferding nel 1910) ma che negli ultimi trent’anni ha avuto un’esplosione e si è reso autonomo rispetto al capitale produttivo. È proprio la sua dimensione e la sua autonomia che rende teso e, apparentemente, conflittuale il legame tra apparati dello Stato e capitale finanziario.
I dati precedenti non possono scandalizzarci, ma non sono indifferenti; essi indicano una trasformazione di fondo del capitalismo.
Il processo di trasformazione del denaro in capitale si fonda sul processo di trasformazione del denaro in merce e quindi in denaro (in formula marxiana: D-M-D*; dove D* è maggiore di D). Questa relazione ha costituito il tratto «rivoluzionario» del capitale (inteso come rapporto sociale); essa sussiste ancora (riguarda la produzione di merci e servizi, anche con forti trasformazioni), ma è largamente sovrastata da un processo che possiamo descrivere come basato su D-D-D (denaro-denaro-denaro). Nel processo definito dalla relazione D-M-D* era implicito, come è noto, il rapporto di sfruttamento, che storicamente i lavoratori hanno contrastato. Il capitale nella sua azione «creava» un antagonista che gli sottraeva risorse ma che era anche uno stimolo al raggiungimento di nuove frontiere di sviluppo, di avanzamenti tecnologici e organizzativi. Nello stesso tempo questo «antagonista» riusciva attraverso la sua azione sindacale e politica a conquistare diritti di cittadinanza sempre più estesi. Questa dinamica, che è stata positiva per lungo tempo, si avvantaggiava di una relazione triangolare capitale-lavoro-Stato nella quale la pressione del «lavoro», sia a livello sindacale che politico, sebbene spesso differenziata, esprimeva la rivendicazione del «diritto» a una società migliore e dove il «capitale» accollava allo Stato detti miglioramenti per alleggerire la pressione del lavoro su di sé.
La ripetizione che niente è, e sarà, come prima non corrisponde alla consapevolezza che la formazione sociale capitalistica è cambiata. Il capitalismo pare abbia concluso la sua fase «rivoluzionaria», e come l’apprendista stregone non riesce a governare le forze che ha evocato.
Questione che può essere affrontata da diversi punti di vista e che qui si affronta, in forma molto semplificata, dal punto di vista della trasformazione del denaro in capitale (Marx, Il Capitale, Libro primo).
Dal «Sole 24 Ore» del 6 agosto si ricavano i seguenti dati di valore riferiti al 2010 del sistema mondo:
– Pil 74.000 miliardi;
– borse 50.000 miliardi;
– obbligazioni 95.000 miliardi;
– «altri» strumenti finanziaria 466.000 miliardi.
La produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari (economia di carta), tenendo fuori da questo calcolo il valore delle Borse che, ci si può illudere, hanno riferimento con l’economia reale. Detto in altro modo, quello che uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della «ricchezza» finanziaria che circola.
Si tratta del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, un tema non nuovissimo (già esplorato da Hilferding nel 1910) ma che negli ultimi trent’anni ha avuto un’esplosione e si è reso autonomo rispetto al capitale produttivo. È proprio la sua dimensione e la sua autonomia che rende teso e, apparentemente, conflittuale il legame tra apparati dello Stato e capitale finanziario.
I dati precedenti non possono scandalizzarci, ma non sono indifferenti; essi indicano una trasformazione di fondo del capitalismo.
Il processo di trasformazione del denaro in capitale si fonda sul processo di trasformazione del denaro in merce e quindi in denaro (in formula marxiana: D-M-D*; dove D* è maggiore di D). Questa relazione ha costituito il tratto «rivoluzionario» del capitale (inteso come rapporto sociale); essa sussiste ancora (riguarda la produzione di merci e servizi, anche con forti trasformazioni), ma è largamente sovrastata da un processo che possiamo descrivere come basato su D-D-D (denaro-denaro-denaro). Nel processo definito dalla relazione D-M-D* era implicito, come è noto, il rapporto di sfruttamento, che storicamente i lavoratori hanno contrastato. Il capitale nella sua azione «creava» un antagonista che gli sottraeva risorse ma che era anche uno stimolo al raggiungimento di nuove frontiere di sviluppo, di avanzamenti tecnologici e organizzativi. Nello stesso tempo questo «antagonista» riusciva attraverso la sua azione sindacale e politica a conquistare diritti di cittadinanza sempre più estesi. Questa dinamica, che è stata positiva per lungo tempo, si avvantaggiava di una relazione triangolare capitale-lavoro-Stato nella quale la pressione del «lavoro», sia a livello sindacale che politico, sebbene spesso differenziata, esprimeva la rivendicazione del «diritto» a una società migliore e dove il «capitale» accollava allo Stato detti miglioramenti per alleggerire la pressione del lavoro su di sé.
“La recessione, i tagli e la lezione di Keynes” (Paul Krugman).
Fonte: wordpress
“Il momento giusto per l´austerità al Tesoro è l´espansione, non la recessione”: così dichiarò nel 1937 John Maynard Keynes, proprio quando da lì a poco Franklin Delano Roosevelt avrebbe dimostrato la correttezza di questo suo dogma cercando di rimettere in sesto il budget troppo presto e spingendo in una profonda recessione l´economia che fino a quel momento si stava riprendendo con continuità. Tagliare la spesa pubblica in un´economia depressa deprime ancor più l´economia. Per l´austerità si dovrebbe attendere che sia già ben in corso una forte ripresa.
Purtroppo, alla fine del 2010 e all´inizio del 2011, le autorità e i politici di buona parte del mondo occidentale hanno creduto di sapere il fatto loro, di doversi concentrare sui deficit e non sull´occupazione, quantunque le loro economie avessero a stento iniziato a riprendersi dalla depressione che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria. E seguendo questo principio anti-keynesiano ancora una volta hanno dimostrato che Keynes aveva ragione.
Dichiarando confermato il dogma economico keynesiano, vado naturalmente contro l´opinione dei più. A Washington, in particolare, il fallimento del pacchetto di stimoli messo a punto da Obama per creare un boom occupazionale in linea generale pare aver dimostrato che la spesa pubblica non può creare posti di lavoro. Coloro tra noi che avevano fatto bene i calcoli, però, si sono resi conto fin dall´inizio che il Recovery and Reinvestment Act del 2009 (oltre un terzo del quale, tra l´altro, ha assunto la forma di tagli fiscali relativamente inefficaci) era di troppa esigua entità, data la gravità della recessione, e avevano in aggiunta anticipato le ripercussioni politiche che ne sarebbero derivate.
Per tutto ciò la vera riconferma della validità dell´economia keynesiana non è arrivata dai poco determinati tentativi del governo federale statunitense di dare nuovo impulso all´economia – tentativi oltretutto in buona parte vanificati dai tagli a livello statale e locale –, ma è arrivata dalle nazioni europee come la Grecia e l´Irlanda costrette a imporre una draconiana austerità fiscale come presupposto per ottenere prestiti d´emergenza. Entrambi questi paesi hanno subito recessioni economiche di considerevole entità, equiparabile alla Grande Depressione, e un calo a doppia cifra del rispettivo Pil.
Non era previsto che le cose dovessero andare così, secondo l´ideologia prevalente nel nostro dibattito politico. Nel marzo 2011 lo staff repubblicano del Congress Joint Economic Committee ha reso noto un rapporto intitolato “Spend less, owe less, grow the economy” (spendi meno, fai meno debiti, fai crescere l´economia), che minimizzava le preoccupazioni di chi era convinto che i tagli alla spesa pubblica in periodo di recessione avrebbero soltanto aggravato quest´ultima, e sosteneva al contrario che tagliare la spesa avrebbe migliorato la fiducia dei consumatori e delle imprese e che ciò avrebbe portato inevitabilmente a una crescita più rapida, non più lenta.
“Il momento giusto per l´austerità al Tesoro è l´espansione, non la recessione”: così dichiarò nel 1937 John Maynard Keynes, proprio quando da lì a poco Franklin Delano Roosevelt avrebbe dimostrato la correttezza di questo suo dogma cercando di rimettere in sesto il budget troppo presto e spingendo in una profonda recessione l´economia che fino a quel momento si stava riprendendo con continuità. Tagliare la spesa pubblica in un´economia depressa deprime ancor più l´economia. Per l´austerità si dovrebbe attendere che sia già ben in corso una forte ripresa.
Purtroppo, alla fine del 2010 e all´inizio del 2011, le autorità e i politici di buona parte del mondo occidentale hanno creduto di sapere il fatto loro, di doversi concentrare sui deficit e non sull´occupazione, quantunque le loro economie avessero a stento iniziato a riprendersi dalla depressione che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria. E seguendo questo principio anti-keynesiano ancora una volta hanno dimostrato che Keynes aveva ragione.
Dichiarando confermato il dogma economico keynesiano, vado naturalmente contro l´opinione dei più. A Washington, in particolare, il fallimento del pacchetto di stimoli messo a punto da Obama per creare un boom occupazionale in linea generale pare aver dimostrato che la spesa pubblica non può creare posti di lavoro. Coloro tra noi che avevano fatto bene i calcoli, però, si sono resi conto fin dall´inizio che il Recovery and Reinvestment Act del 2009 (oltre un terzo del quale, tra l´altro, ha assunto la forma di tagli fiscali relativamente inefficaci) era di troppa esigua entità, data la gravità della recessione, e avevano in aggiunta anticipato le ripercussioni politiche che ne sarebbero derivate.
Per tutto ciò la vera riconferma della validità dell´economia keynesiana non è arrivata dai poco determinati tentativi del governo federale statunitense di dare nuovo impulso all´economia – tentativi oltretutto in buona parte vanificati dai tagli a livello statale e locale –, ma è arrivata dalle nazioni europee come la Grecia e l´Irlanda costrette a imporre una draconiana austerità fiscale come presupposto per ottenere prestiti d´emergenza. Entrambi questi paesi hanno subito recessioni economiche di considerevole entità, equiparabile alla Grande Depressione, e un calo a doppia cifra del rispettivo Pil.
Non era previsto che le cose dovessero andare così, secondo l´ideologia prevalente nel nostro dibattito politico. Nel marzo 2011 lo staff repubblicano del Congress Joint Economic Committee ha reso noto un rapporto intitolato “Spend less, owe less, grow the economy” (spendi meno, fai meno debiti, fai crescere l´economia), che minimizzava le preoccupazioni di chi era convinto che i tagli alla spesa pubblica in periodo di recessione avrebbero soltanto aggravato quest´ultima, e sosteneva al contrario che tagliare la spesa avrebbe migliorato la fiducia dei consumatori e delle imprese e che ciò avrebbe portato inevitabilmente a una crescita più rapida, non più lenta.
"Le armi della critica" di Alberto Asor Rosa, una raccolta di scritti e saggi degli anni 60
Fonte: controlacrisi
Ci era sfuggita l'uscita dell'ultimo libro di Alberto Asor Rosa. Trattasi di una raccolta degli scritti del periodo operaista (anni '60) durante i quali Asor Rosa fu uno dei protagonisti delle esperienze dei Quaderni Rossi, Classe Operaia, Contropiano. Vi proponiamo le recensioni di Marco Revelli, Pino Bevilacqua, Tonino Bucci.
Segnaliamo anche l'audio di una lezione sull'operaismo italiano degli anni '60 da Quaderni Rossi a Classe Operaia che Asor Rosa ha tenuto a Roma nel 2009 (anche se fa riferimento a un altro libro, il volumone di Giuseppe Trotta e Fabio Milana edito da Derive Approdi nel 2009).
Quando la classe era operaia
Marco Revelli
Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.
Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli "anni Sessanta", quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua "tradizione", compiendo "la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi". Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.
Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso "operaista"), può scrivere oggi che "agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle". Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.
Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro "integrato", o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico "controllo borghese" del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.
Ci era sfuggita l'uscita dell'ultimo libro di Alberto Asor Rosa. Trattasi di una raccolta degli scritti del periodo operaista (anni '60) durante i quali Asor Rosa fu uno dei protagonisti delle esperienze dei Quaderni Rossi, Classe Operaia, Contropiano. Vi proponiamo le recensioni di Marco Revelli, Pino Bevilacqua, Tonino Bucci.
Segnaliamo anche l'audio di una lezione sull'operaismo italiano degli anni '60 da Quaderni Rossi a Classe Operaia che Asor Rosa ha tenuto a Roma nel 2009 (anche se fa riferimento a un altro libro, il volumone di Giuseppe Trotta e Fabio Milana edito da Derive Approdi nel 2009).
Quando la classe era operaia
Marco Revelli
Le armi della critica di Alberto Asor Rosa è una raccolta di saggi di critica letteraria di grande potenza analitica. Ma è anche una fonte storica: un´autobiografia culturale in cui l´autore si fa testimone del tempo, aiutandoci a capire l´Italia com´è stata e com´è diventata con molta maggior efficacia di tanta storiografia e sociologia professionali. Per la statura del suo autore, intellettuale che non si è rassegnato al silenzio. E per il carattere dei contributi qui riproposti.
Intanto per il periodo su cui i testi sono focalizzati: sono stati pubblicati tutti tra il 1960 e il 1970. Ci portano cioè in un punto seminale del nostro tempo, gli "anni Sessanta", quando l´Italia diventò quello che sarà, con uno strappo colossale e lacerante rispetto alla sua "tradizione", compiendo "la più ciclopica trasformazione… dai tempi della caduta dell´Impero romano in poi". Sono gli anni del passaggio, spaventosamente repentino, dall´arretratezza semi-agraria al neo-capitalismo della grande industria. Gli anni della migrazione biblica dalle estreme periferie del sud e della crescita impetuosa della classe operaia, giunta per la prima volta a una presa di parola autonoma. Sono dunque gli anni in cui conflittualità e sviluppo marciano insieme. Un concetto oggi inimmaginabile, in tempi in cui la rimozione del conflitto sociale dall´orizzonte mentale si accompagna al ristagno dell´economia.
Sono d´altra parte gli anni della grande crisi della sinistra comunista, quelli che seguono il XX Congresso del Pcus, l´invasione dell´Ungheria, la sconfitta della Fiom alla Fiat, l´estenuazione dell´egemonia togliattiana. Per questo Asor Rosa, allora venticinquenne (come buona parte dei giovani che parteciperanno del suo stesso percorso "operaista"), può scrivere oggi che "agli anni ´60 mi presentai, ci presentammo nudi e crudi, con un mondo immenso davanti ma senza granché alle spalle". Con la sensazione, cioè, della necessità di un taglio netto se si voleva stare dentro le cose, senza esser risucchiati nelle spire della modernizzazione integratrice cui il centro sinistra alludeva.
Ma gli anni Sessanta non sono solo questo. Sono anche gli anni della grande metamorfosi del lavoro intellettuale: della minaccia più radicale alla sua residua (e in parte illusoria) autonomia, con la riduzione della produzione culturale a lavoro "integrato", o comunque a funzione incasellata nel complesso sistema di ruoli predeterminati e formalizzati. Sono cioè gli anni in cui si estingue, definitivamente, la posizione autonoma della critica letteraria. O, meglio, il ruolo critico della letteratura, travolto dall´onnipotenza dell´industria culturale e da un più forte e sistematico "controllo borghese" del proprio mondo. E in questo sta il secondo elemento di interesse di questi scritti. Essi rappresentano infatti il resoconto fedele, perché generatosi in medias res, della riflessione di un gruppo di intellettuali sulla natura del proprio lavoro e sul destino di esso nel pieno di una cesura storica e sociale che ne decretava un cambiamento di stato tanto radicale da prospettarne la fine.
martedì 3 gennaio 2012
Una buona notizia: i giovani americani preferiscono il socialismo
Autore: MAURIZIO ACERBO Fonte: controlacrisi
E’ bene cominciare l’anno con una buona notizia. Un articolo dello scorso 29 dicembre su The Huffington Post riferisce di un sondaggio secondo il quale la maggioranza dei giovani americani preferirebbe il socialismo al capitalismo. Il tutto in conseguenza del duro impatto delle politiche economiche neoliberiste e del mutamento nel dibattito pubblico prodotto dal movimento Occupy Wall Street. E’ davvero una buona notizia visto che viene dal cuore dell’Impero, dal paese del maccartismo e del programma Cointelpro. Come lamentava Michael Franti in Television the drug of the nation dei Disposable Heroes of Hipoprisy, per il senso comune dominante negli Stati Uniti ”Socialism means unamerican”. In realtà il socialismo ha una lunga e orgogliosa storia americana. Lo ricorda John Nichols in un libro che spero venga tradotto in italiano. Una tradizione dimenticata che andrebbe recuperata come scriveva nel maggio 2011 lo storico Paul Buhle: “I Democratici hanno portato il liberalismo storico a qualcosa di simile al suo punto finale. Ora abbiamo bisogno di alternative.Dovremmo chiamare queste alternative socialiste? Nel momento in cui la destra considera ogni misura di sicurezza pubblica, la protezione delle forniture d’acqua, persino l’esistenza della previdenza sociale e delle scuole pubbliche (oops, “governative”), come manifestazioni del demoniaco socialismo , forse la parola e l’idea più grande possono essere recuperate”. Eccovi la traduzione dell’articolo dal The Huffington Post:
Giovani più propensi a favore del socialismo che del capitalismo
Alexander Eichler
I giovani – la folla di studenti dei college e post-universitari, che hanno partecipato come la faccia più visibile del movimento di Occupy Wall Street – potrebbero trovarsi sempre più a loro agio con il socialismo. Questo è il sorprendente risultato di un sondaggio Pew Research Center che si propone di misurare i sentimenti americani verso le diverse etichette politiche.
Il sondaggio, pubblicato mercoledì, ha scoperto che mentre gli americani tendono complessivamente ad opporsi al socialismo con un margine forte – il 60 per cento dicono di avere una visione negativa di esso, contro appena il 31 per cento che dichiarano di avere una visione positiva – il socialismo ha più fan che avversari nella fascia di età tra i 18-29 anni. Quarantanove per cento delle persone in quella fascia di età dichiara di aver una visione positiva del socialismo, solo il 43 per cento dice di avere una visione negativa.
E mentre questi numeri non sono molto distanti, è degno di nota che sono stati invertiti appena 20 mesi fa, quando Pew ha condotto un sondaggio simile. In questo studio, pubblicato maggio 2010, 43 per cento delle persone di età tra i 18-29 anni aveva dichiarato di avere una visione positiva del socialismo, e il 49 per cento aveva dichiarato che il proprio parere era negativo.
Non è chiaro perché i giovani hanno evidentemente cominciato a cambiare il loro pensiero sul socialismo. Negli ultimi anni, l’economia, povera ha avuto una serie di effetti sui giovani adulti – tenendoli a casa con i genitori, rendendo difficile per loro trovare un lavoro, e probabilmente deprimendo il loro potenziale di guadagno per gli anni a venire – che potrebbero avere smorzato l’entusiasmo per il libero mercato in questo gruppo.
Infatti, il sondaggio Pew ha anche rilevato che solo il 46 per cento delle persone di età tra i 18-29 anni ha una visione positiva del capitalismo, e il 47 per cento ha opinioni negative – facendo di questa fascia di età la sola in cui sostegno per al socialismo supera il sostegno per il capitalismo.
I giovani sono stati anche tra i più coinvolti nel movimento a livello nazionale Occupy, i cui membri hanno mosso acute critiche verso l’etica capitalista e spesso rivendicato una più equa distribuzione della ricchezza americana.
In generale, la disuguaglianza di reddito – che un rapporto Ufficio Bilancio del Congresso ha recentemente sottolineato essere a livelli storici – ha ricevuto sempre più attenzione nella politica e dai media a partire dall’inizio del movimento Occupy a metà settembre. L’uso del termine è aumentato drammaticamente nella copertura mediatica dopo l’inizio delle proteste, e i politici dal leader della maggioranza al Senato Harry Reid al presidente Barack Obama hanno usato il linguaggio del movimento per descrivere le divisioni nel pubblico americano.
Tuttavia, nonostante la diffusione a livello nazionale delle dimostrazioni di Occupy , il socialismo non segna molto bene in altre fasce di età nel sondaggio Pew, o attraverso altre categorie demografiche.
Pew ha suddiviso i suoi risultati per età, razza, reddito e appartenenza politica, così come per il supporto ai movimenti di Occupy Wall Street e dei Tea Party. C’erano solo due altri gruppi tra i quali i favorevoli al socialismo superavano suoi detrattori – i neri che dicono di preferire il socialismo con un 55 a 36 per cento, e Democratici liberal , che si dicono favorevoli al socialismo con un 59 a 39 per cento. Questi erano anche gli unici due gruppi a mostrare favore netto per il socialismo nel sondaggio 2010.
………………………….
Dopo aver perso tempo a rabberciare questa traduzione mi sono accorto che la notizia era uscita sul sito de Il Fatto con alcune significative informazioni su come la destra americana sta rimodulando il suo vocabolario(leggi articolo). Non mi sembra che altri quotidiani italiani sempre pronti a inseguire gli orientamenti dell’opinione pubblica americana abbiano riferito del sondaggio.
E’ bene cominciare l’anno con una buona notizia. Un articolo dello scorso 29 dicembre su The Huffington Post riferisce di un sondaggio secondo il quale la maggioranza dei giovani americani preferirebbe il socialismo al capitalismo. Il tutto in conseguenza del duro impatto delle politiche economiche neoliberiste e del mutamento nel dibattito pubblico prodotto dal movimento Occupy Wall Street. E’ davvero una buona notizia visto che viene dal cuore dell’Impero, dal paese del maccartismo e del programma Cointelpro. Come lamentava Michael Franti in Television the drug of the nation dei Disposable Heroes of Hipoprisy, per il senso comune dominante negli Stati Uniti ”Socialism means unamerican”. In realtà il socialismo ha una lunga e orgogliosa storia americana. Lo ricorda John Nichols in un libro che spero venga tradotto in italiano. Una tradizione dimenticata che andrebbe recuperata come scriveva nel maggio 2011 lo storico Paul Buhle: “I Democratici hanno portato il liberalismo storico a qualcosa di simile al suo punto finale. Ora abbiamo bisogno di alternative.Dovremmo chiamare queste alternative socialiste? Nel momento in cui la destra considera ogni misura di sicurezza pubblica, la protezione delle forniture d’acqua, persino l’esistenza della previdenza sociale e delle scuole pubbliche (oops, “governative”), come manifestazioni del demoniaco socialismo , forse la parola e l’idea più grande possono essere recuperate”. Eccovi la traduzione dell’articolo dal The Huffington Post:
Giovani più propensi a favore del socialismo che del capitalismo
Alexander Eichler
I giovani – la folla di studenti dei college e post-universitari, che hanno partecipato come la faccia più visibile del movimento di Occupy Wall Street – potrebbero trovarsi sempre più a loro agio con il socialismo. Questo è il sorprendente risultato di un sondaggio Pew Research Center che si propone di misurare i sentimenti americani verso le diverse etichette politiche.
Il sondaggio, pubblicato mercoledì, ha scoperto che mentre gli americani tendono complessivamente ad opporsi al socialismo con un margine forte – il 60 per cento dicono di avere una visione negativa di esso, contro appena il 31 per cento che dichiarano di avere una visione positiva – il socialismo ha più fan che avversari nella fascia di età tra i 18-29 anni. Quarantanove per cento delle persone in quella fascia di età dichiara di aver una visione positiva del socialismo, solo il 43 per cento dice di avere una visione negativa.
E mentre questi numeri non sono molto distanti, è degno di nota che sono stati invertiti appena 20 mesi fa, quando Pew ha condotto un sondaggio simile. In questo studio, pubblicato maggio 2010, 43 per cento delle persone di età tra i 18-29 anni aveva dichiarato di avere una visione positiva del socialismo, e il 49 per cento aveva dichiarato che il proprio parere era negativo.
Non è chiaro perché i giovani hanno evidentemente cominciato a cambiare il loro pensiero sul socialismo. Negli ultimi anni, l’economia, povera ha avuto una serie di effetti sui giovani adulti – tenendoli a casa con i genitori, rendendo difficile per loro trovare un lavoro, e probabilmente deprimendo il loro potenziale di guadagno per gli anni a venire – che potrebbero avere smorzato l’entusiasmo per il libero mercato in questo gruppo.
Infatti, il sondaggio Pew ha anche rilevato che solo il 46 per cento delle persone di età tra i 18-29 anni ha una visione positiva del capitalismo, e il 47 per cento ha opinioni negative – facendo di questa fascia di età la sola in cui sostegno per al socialismo supera il sostegno per il capitalismo.
I giovani sono stati anche tra i più coinvolti nel movimento a livello nazionale Occupy, i cui membri hanno mosso acute critiche verso l’etica capitalista e spesso rivendicato una più equa distribuzione della ricchezza americana.
In generale, la disuguaglianza di reddito – che un rapporto Ufficio Bilancio del Congresso ha recentemente sottolineato essere a livelli storici – ha ricevuto sempre più attenzione nella politica e dai media a partire dall’inizio del movimento Occupy a metà settembre. L’uso del termine è aumentato drammaticamente nella copertura mediatica dopo l’inizio delle proteste, e i politici dal leader della maggioranza al Senato Harry Reid al presidente Barack Obama hanno usato il linguaggio del movimento per descrivere le divisioni nel pubblico americano.
Tuttavia, nonostante la diffusione a livello nazionale delle dimostrazioni di Occupy , il socialismo non segna molto bene in altre fasce di età nel sondaggio Pew, o attraverso altre categorie demografiche.
Pew ha suddiviso i suoi risultati per età, razza, reddito e appartenenza politica, così come per il supporto ai movimenti di Occupy Wall Street e dei Tea Party. C’erano solo due altri gruppi tra i quali i favorevoli al socialismo superavano suoi detrattori – i neri che dicono di preferire il socialismo con un 55 a 36 per cento, e Democratici liberal , che si dicono favorevoli al socialismo con un 59 a 39 per cento. Questi erano anche gli unici due gruppi a mostrare favore netto per il socialismo nel sondaggio 2010.
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Dopo aver perso tempo a rabberciare questa traduzione mi sono accorto che la notizia era uscita sul sito de Il Fatto con alcune significative informazioni su come la destra americana sta rimodulando il suo vocabolario(leggi articolo). Non mi sembra che altri quotidiani italiani sempre pronti a inseguire gli orientamenti dell’opinione pubblica americana abbiano riferito del sondaggio.
L’anno che verrà - Un 2012 a scelta
di Alessandro Robecchi - pubblicato in Il Manifesto
Anche quest’anno vi siete dimenticati di spedire la raccomandata. Il diritto di recesso per la fornitura dell’anno nuovo scadeva ieri, quindi vi beccate il 2012 e zitti. Del resto nessuno sarebbe stato così folle da tenersi il 2011 per altri dodici mesi. In compenso, avete diritto di sapere quale 2012 vi aspetta. Consapevoli che meritate più di un’opzione, vi proponiamo un’ampia scelta di possibilità. Grazie per aver comprato un altro anno da noi.
2012 Tecnico – Fornito nella comoda scatola di montaggio, potrete costruirlo comodamente durante l’anno e vi resterà molto tempo libero per cercarvi qualche lavoro precario in cambio di quello fisso che avete perso. Purtroppo, le istruzioni sono in tedesco e la traduzione in italiano vi costerà un paio d’anni di pensione. Cercate di non perdere i pezzi, potreste trovarvi sul più bello senza il sacchettino di lacrime della signora Fornero, e finire per pensare che chi ci governa non ha niente di umano.
2012 Modello Danese – Sentirete ripetere spesso durante tutto l’anno che dovete diventare come i danesi, cioè licenziabili in ogni momento, ma con un sistema di welfare veramente notevole. Per ora sarà possibile realizzare soltanto la prima parte del piano (licenziabili in ogni momento), e quanto alla seconda fase (un welfare veramente notevole)… amici, dove cazzo credete di essere, in Danimarca? In ogni caso i danesi sono sei milioni e per attuare una simile riforma sarebbe necessario sterminare circa 54 milioni di italiani. Purtroppo Sergio Marchionne è impegnato a Detroit, altrimenti glielo chiederebbero.
2012 Maya Edition – Ma tu metti – dico per assurdo – che si stringe la cinghia tutto l’anno, si paga di più tutto quanto, si va in pensione più tardi, si perdono diritti, si scioglie nell’acido il contratto nazionale di lavoro, aumenta la benzina, l’autostrada, il gas… e poi viene fuori che avevano ragione i Maya. Dico questo per convincervi che Mario Monti è un male minore rispetto alla fine del mondo. Del resto, non avete pensato per qualche minuto, due mesi fa, che era un male minore anche rispetto a Berlusconi?
2012 a comando vocale – Per la prima volta un anno sarà dotato della nuova tecnologia a comando vocale che qualcuno ha già sul suo telefono. Provate a pronunciare, scandendole bene, le parole: “diritti acquisiti” e vedrete comparire sul calendario una simpatica animazione che mima il gesto dell’ombrello. Provate a pronunciare la parola “equità” per sentire una sonora risata. Pronunciando la frase “redistribuzione della ricchezza” non succede niente, ma in fondo lo sapevate, no?
2012 War Time – Questa speciale edizione dell’anno nuovo è particolarmente indicata a chi ha letto qualche libro di storia e sa che in nove casi su dieci si esce dalla recessione con un considerevole sforzo bellico. In pratica, si potrebbe scoprire che per stare meglio a Busto Arsizio o a Caserta conviene bombardare Teheran con la scusa dello stretto di Hormuz. Milioni di persone che non sanno nemmeno dov’è Hormuz potrebbero all’improvviso trasformarsi in esperti di geopolitica. Perché vi stupite? E’ successo lo stesso quando milioni di italiani che faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena si sono inteneriti per i grafici di Borsa di Unicredit e Banca Intesa: un chiaro caso di ipnosi. Alternative: la guerra dei ghiacci per la conquista del Polo Nord, o un conflitto Pakistan-Groenlandia. Avendo comprato 130 cacciabombardieri, conviene pensare a come ammortizzarli, no? Sul fronte interno, qualche porcata dei servizi e un po’ di strategia della tensione funziona sempre.
2012 Fabbrica Italia – Coraggio, sarà l’anno dei nuovi modelli. La Fiat varerà sessanta nuove versioni della 500, tra cui quella col riscaldamento automatico di serie, che va a fuoco quando si mette la terza. La Panda verrà declinata in vari modi: ci sarà quella costruita in Polonia, quella costruita in Brasile e quella Survivor Edition, costruita dagli operai di Pomigliano sopravvissuti alla cura Marchionne. Purtroppo, le nuove Fiat di alta gamma non si vedranno durante il 2012 perché al Lingotto trovano troppo innovativo comprare delle vecchie Audi e metterci il marchio Fiat come hanno fatto con la Freemont e le nuove Lancia, che sembrano Chrysler, però brutte.
Anche quest’anno vi siete dimenticati di spedire la raccomandata. Il diritto di recesso per la fornitura dell’anno nuovo scadeva ieri, quindi vi beccate il 2012 e zitti. Del resto nessuno sarebbe stato così folle da tenersi il 2011 per altri dodici mesi. In compenso, avete diritto di sapere quale 2012 vi aspetta. Consapevoli che meritate più di un’opzione, vi proponiamo un’ampia scelta di possibilità. Grazie per aver comprato un altro anno da noi.
2012 Tecnico – Fornito nella comoda scatola di montaggio, potrete costruirlo comodamente durante l’anno e vi resterà molto tempo libero per cercarvi qualche lavoro precario in cambio di quello fisso che avete perso. Purtroppo, le istruzioni sono in tedesco e la traduzione in italiano vi costerà un paio d’anni di pensione. Cercate di non perdere i pezzi, potreste trovarvi sul più bello senza il sacchettino di lacrime della signora Fornero, e finire per pensare che chi ci governa non ha niente di umano.
2012 Modello Danese – Sentirete ripetere spesso durante tutto l’anno che dovete diventare come i danesi, cioè licenziabili in ogni momento, ma con un sistema di welfare veramente notevole. Per ora sarà possibile realizzare soltanto la prima parte del piano (licenziabili in ogni momento), e quanto alla seconda fase (un welfare veramente notevole)… amici, dove cazzo credete di essere, in Danimarca? In ogni caso i danesi sono sei milioni e per attuare una simile riforma sarebbe necessario sterminare circa 54 milioni di italiani. Purtroppo Sergio Marchionne è impegnato a Detroit, altrimenti glielo chiederebbero.
2012 Maya Edition – Ma tu metti – dico per assurdo – che si stringe la cinghia tutto l’anno, si paga di più tutto quanto, si va in pensione più tardi, si perdono diritti, si scioglie nell’acido il contratto nazionale di lavoro, aumenta la benzina, l’autostrada, il gas… e poi viene fuori che avevano ragione i Maya. Dico questo per convincervi che Mario Monti è un male minore rispetto alla fine del mondo. Del resto, non avete pensato per qualche minuto, due mesi fa, che era un male minore anche rispetto a Berlusconi?
2012 a comando vocale – Per la prima volta un anno sarà dotato della nuova tecnologia a comando vocale che qualcuno ha già sul suo telefono. Provate a pronunciare, scandendole bene, le parole: “diritti acquisiti” e vedrete comparire sul calendario una simpatica animazione che mima il gesto dell’ombrello. Provate a pronunciare la parola “equità” per sentire una sonora risata. Pronunciando la frase “redistribuzione della ricchezza” non succede niente, ma in fondo lo sapevate, no?
2012 War Time – Questa speciale edizione dell’anno nuovo è particolarmente indicata a chi ha letto qualche libro di storia e sa che in nove casi su dieci si esce dalla recessione con un considerevole sforzo bellico. In pratica, si potrebbe scoprire che per stare meglio a Busto Arsizio o a Caserta conviene bombardare Teheran con la scusa dello stretto di Hormuz. Milioni di persone che non sanno nemmeno dov’è Hormuz potrebbero all’improvviso trasformarsi in esperti di geopolitica. Perché vi stupite? E’ successo lo stesso quando milioni di italiani che faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena si sono inteneriti per i grafici di Borsa di Unicredit e Banca Intesa: un chiaro caso di ipnosi. Alternative: la guerra dei ghiacci per la conquista del Polo Nord, o un conflitto Pakistan-Groenlandia. Avendo comprato 130 cacciabombardieri, conviene pensare a come ammortizzarli, no? Sul fronte interno, qualche porcata dei servizi e un po’ di strategia della tensione funziona sempre.
2012 Fabbrica Italia – Coraggio, sarà l’anno dei nuovi modelli. La Fiat varerà sessanta nuove versioni della 500, tra cui quella col riscaldamento automatico di serie, che va a fuoco quando si mette la terza. La Panda verrà declinata in vari modi: ci sarà quella costruita in Polonia, quella costruita in Brasile e quella Survivor Edition, costruita dagli operai di Pomigliano sopravvissuti alla cura Marchionne. Purtroppo, le nuove Fiat di alta gamma non si vedranno durante il 2012 perché al Lingotto trovano troppo innovativo comprare delle vecchie Audi e metterci il marchio Fiat come hanno fatto con la Freemont e le nuove Lancia, che sembrano Chrysler, però brutte.
La generalizzazione della precarietà come meccanismo di de-integrazione di classe?
Alcuni compagni/e di CONNESSIONI. Fonte: sinistrainrete
“Insomma, chi vede soltanto la superficie, direbbe che tutto si riduce alla confusione, alle liti e alla baruffa tra persone. Il movimento al contrario prosegue sotto la superficie, si allarga e si approfondisce guadagnando sempre nuovi ceti e soprattutto le masse stagnanti, più basse, che –ed il giorno non è lontano- ritrovano improvvisamente se stesse nel momento in cui sono colpite dall’illuminazione che proprio loro costituiscono questa colossale massa in movimento, e questo giorno segna la fine di tutti i vigliacchi e della sterile confusione” (Engels a Sorge, 1890).
Gli attuali meccanismi della crisi non contrappongono, come invece spesso si legge nella pubblicistica di sinistra, la produzione alla finanzia, ma la stagnazione al boom speculativo, che con una diversa dinamica, ma percorrendo la medesima strada si incamminano verso un burrone, in un capitalismo che a forza di drogarsi rischia un overdose. Il fenomeno costante in tutte le crisi, generali o parziali, di sovrapproduzione, è dato anzitutto da un arresto nella crescita dell’indice di produzione industriale espressa in dati fisici, poi –secondo la gravita della crisi- dalla sua flessione e dalla sua brusca caduta. La semplice differenza qualitativa dà la misura del’ampiezza del male. Il meccanismo finanziario in atto, accelerato dentro gli attuali processi di crisi, diventa un vero e proprio virus, che potenzia la droga del capitale e di cui non ne può più fare a meno.
Esiste, ormai, una difficoltà crescente del capitale non tanto a incrementare la forza-lavoro sfruttabile, ma a fare il contrario. E’ ovvio che il capitalismo non può più svilupparsi se in assoluto è esaurita la forza lavoro disponibile, ma non all’opposto, ovvero se continuerà ad esserci forza-lavoro il capitalismo continuerà a svilupparsi. Necessita quindi di una massa sempre maggiore di esercito industriale di riserva, di sempre più masse in eccedenza.
Gli stessi benefici provocati dall’aumento della produttività verranno sempre più assorbiti dalla accanita concorrenza per accaparrarsi i profitti sempre minori della produzione mondiale ampliando ancora la forbice sociale. La stessa previsione di Marx, l’aver preconizzato l’aumento della miseria nel corso dell’accumulazione capitalista, è stata ampiamente confermata, e solo circoscrivendo il campo a limitate statistiche salariali di pochi paesi si è potuto vedere una controtendenza a questo meccanismo, che oggi investe tuttavia anche gli stessi paesi delle moderne democrazie industriali o post-industriali.
Paradossalmente gli stessi livelli elevati di benessere raggiunti da larghi strati di lavoratori nei paesi delle democrazie industriali e post-industriali sono diventati limite stesso all’espansione capitalista. Infatti, il mantenimento di tali livelli in condizioni di decrescente redditività richiede un continuo aumento di produzione non redditizia e spiega la stessa parabola finanziaria oggi in atto. A sua volta questo implica il bisogno di aumentare continuamente la produttività del lavoro, e questo nelle condizioni attuali significa continuo aumento dell’esercito industriale di riserva, sia nel suo tratto di assenza del lavoro, sia nella sua dimensione precaria (gli working poor). L’esigenza di provvedere socialmente a questi settori, per quanto espulsi e gentrificati, crea un aumento di spesa che porta a durissima prova le capacità economiche e tecniche del sistema stesso.
L’aumento vertiginoso e costante dell’esercito industriale di riserva (una massa sempre crescente inghiottita dentro la precarietà sociale) acuisce inevitabilmente la percezione di insicurezza sociale, ed investe sia i moderni dannati della metropoli sia i lavoratori garantiti, mentre il margine tra questi due settori si assottiglia sempre di più.
“Insomma, chi vede soltanto la superficie, direbbe che tutto si riduce alla confusione, alle liti e alla baruffa tra persone. Il movimento al contrario prosegue sotto la superficie, si allarga e si approfondisce guadagnando sempre nuovi ceti e soprattutto le masse stagnanti, più basse, che –ed il giorno non è lontano- ritrovano improvvisamente se stesse nel momento in cui sono colpite dall’illuminazione che proprio loro costituiscono questa colossale massa in movimento, e questo giorno segna la fine di tutti i vigliacchi e della sterile confusione” (Engels a Sorge, 1890).
Gli attuali meccanismi della crisi non contrappongono, come invece spesso si legge nella pubblicistica di sinistra, la produzione alla finanzia, ma la stagnazione al boom speculativo, che con una diversa dinamica, ma percorrendo la medesima strada si incamminano verso un burrone, in un capitalismo che a forza di drogarsi rischia un overdose. Il fenomeno costante in tutte le crisi, generali o parziali, di sovrapproduzione, è dato anzitutto da un arresto nella crescita dell’indice di produzione industriale espressa in dati fisici, poi –secondo la gravita della crisi- dalla sua flessione e dalla sua brusca caduta. La semplice differenza qualitativa dà la misura del’ampiezza del male. Il meccanismo finanziario in atto, accelerato dentro gli attuali processi di crisi, diventa un vero e proprio virus, che potenzia la droga del capitale e di cui non ne può più fare a meno.
Esiste, ormai, una difficoltà crescente del capitale non tanto a incrementare la forza-lavoro sfruttabile, ma a fare il contrario. E’ ovvio che il capitalismo non può più svilupparsi se in assoluto è esaurita la forza lavoro disponibile, ma non all’opposto, ovvero se continuerà ad esserci forza-lavoro il capitalismo continuerà a svilupparsi. Necessita quindi di una massa sempre maggiore di esercito industriale di riserva, di sempre più masse in eccedenza.
Gli stessi benefici provocati dall’aumento della produttività verranno sempre più assorbiti dalla accanita concorrenza per accaparrarsi i profitti sempre minori della produzione mondiale ampliando ancora la forbice sociale. La stessa previsione di Marx, l’aver preconizzato l’aumento della miseria nel corso dell’accumulazione capitalista, è stata ampiamente confermata, e solo circoscrivendo il campo a limitate statistiche salariali di pochi paesi si è potuto vedere una controtendenza a questo meccanismo, che oggi investe tuttavia anche gli stessi paesi delle moderne democrazie industriali o post-industriali.
Paradossalmente gli stessi livelli elevati di benessere raggiunti da larghi strati di lavoratori nei paesi delle democrazie industriali e post-industriali sono diventati limite stesso all’espansione capitalista. Infatti, il mantenimento di tali livelli in condizioni di decrescente redditività richiede un continuo aumento di produzione non redditizia e spiega la stessa parabola finanziaria oggi in atto. A sua volta questo implica il bisogno di aumentare continuamente la produttività del lavoro, e questo nelle condizioni attuali significa continuo aumento dell’esercito industriale di riserva, sia nel suo tratto di assenza del lavoro, sia nella sua dimensione precaria (gli working poor). L’esigenza di provvedere socialmente a questi settori, per quanto espulsi e gentrificati, crea un aumento di spesa che porta a durissima prova le capacità economiche e tecniche del sistema stesso.
L’aumento vertiginoso e costante dell’esercito industriale di riserva (una massa sempre crescente inghiottita dentro la precarietà sociale) acuisce inevitabilmente la percezione di insicurezza sociale, ed investe sia i moderni dannati della metropoli sia i lavoratori garantiti, mentre il margine tra questi due settori si assottiglia sempre di più.
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