da il manifesto. Fonte: controlacrisi
di Antonio Lettieri
Nel programma del governo Monti, dopo l’austerità e le pensioni, è il momento della riforma del mercato del lavoro, la madre di tutte le riforme di struttura. In altre parole, la cancellazione più o meno mascherata dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Un tentativo che non riuscì al governo di Silvio Berlusconi nel 2003, ma che la destra italiana spera possa essere replicato, questa volta con successo, da un governo “tecnico”, in realtà eminentemente politico. Il vantaggio è che il tentativo è sostenuto dalle autorità europee e soprattutto potrebbe essere favorito dalla crisi, in nome della quale le operazioni più odiose e impopolari sembrano diventare finalmente possibili. Anche se l’art.18 non ha nulla a che vedere con i problemi del debito e dei mercati finanziari, se non nel senso di aggravarli aprendo una nuova fase del conflitto sociale. Ma proviamo a stabilire alcuni elementi di fatto, diradando la nebbia ideologica che falsifica il dibattito.
La protezione contro i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo precede l’art. 18, essendo già in atto prima dello Statuto dei lavoratori. Del resto è un principio in varie forme presente nei paesi europei, e sancito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il valore dell’art. 18 sta nel rendere effettivo una protezione che il datore di lavoro tranquillamente aggirava, dal momento che, ricorrendo al risarcimento monetario, poteva legittimare il licenziamento, anche se, in sede giurisdizionale, ne veniva acclarata l’illegittimità. In altri termini, si trattava di una tutela del lavoro inconsistente in quanto priva di effettività. L’art.18 fornisce questa effettività, stabilendo per le imprese con più di quindici dipendenti, il diritto al reintegro (o la facoltà conferita al lavoratore di scambiare il reintegro con una congrua indennizzazione, fissata dalla legge in 18 mensilità).
Si afferma che dalla libertà di licenziare deriverebbero vantaggi per l’occupazione e, in particolare, per i giovani. Ma si tratta di un argomento puramente ideologico, contraddetto dai fatti che raccontano una storia diversa.
In Italia, nel periodo 2000-2008 (l’anno in cui si manifesta la crisi) l’occupazione passa da circa 21,2 a circa 23,4 milioni con un aumento di quasi 2,2 milioni di unità. Un aumento nettamente superiore a quello che nello stesso periodo si realizza in Francia (1,6 milioni), e leggermente superiore a quello che si registra in Germania (2,1 milioni). In parallelo, la disoccupazione scende in Italia fino al 6,8 per cento (un punto in meno rispetto alla media dell’eurozona). Dove sarebbe l’effetto negativo dell’art.18 sull’occupazione e la disoccupazione? Poi, come era prevedibile la disoccupazione torna a crescere durante la crisi.
Ora consideriamo l’esperienza americana segnata dalla libertà di licenziare, rivendicata dalla destra e assecondate da alcune frange della sinistra. Negli Stati Uniti la crisi ha effetti devastanti proprio sull’occupazone. Nonostante nel 2009 l’amministrazione Obama stanzi per il rilancio dell’economia e della lotta alla disoccupazione 800 miliardi di dollari – come dire in Italia novanta miliardi di euro – la disoccupazione raddoppia passando da sette a oltre 14 milioni di lavoratori e lavoratrici, ovvero da meno del 5 al 9 per cento (ottobre 2011). Le imprese, libere di licenziare, fanno strage dell’occupazione e realizzano aumenti record dei profitti.
Al contrario, la Germania adotta una politica rovesciata. La parola d’ordine è: non licenziare. La linea concordata fra governo, imprese e sindacati è la riduzione dell’orario di lavoro temporanea per tutti i lavoratori delle imprese in difficoltà – la Kurzarbeit che prevede un’integrazione salariale a carico dello Stato per compensare la perdita dovuta alla riduzione dell’orario di lavoro. I risultati sono stupefacenti. Il tasso di disoccupazione del 7,5 per cento nel 2008, data d’inizio della crisi in Europa, si riduce a ottobre del 2011 al 5,5 per cento, e l’occupazione totale raggiunge il livello più alto degli ultimi due decenni. Due modi diversi di affrontare la crisi. Da un lato, il modello Marchionne basato sull’abrogazione dei diritti dei lavoratori e la rottura dei sindacati, dall’altro quello che potremmo definire il “modello Volkswagen” che porta l’industria automobilistica tedesca al primo posto nel mondo.
Tornando all’Italia, chiunque può ragionevolmente affermare che, senza l’art.18, un’aggiunta di licenziamenti individuali per ragioni economiche, produttive e organizzative – peraltro motivate dalla crisi – avrebbe trasformato una parte di Cassa integrazione in licenziamenti, accrescendo il numero dei disoccupati. (Ovviamente senza vantaggio per i giovani e certamente a svantaggio dei padri!).
Ma secondo l’ingannevole retorica del governo, la cancellazione dell’art.18 è un antidoto alla precarietà, eliminando il dualismo fra “protetti” e “non protetti”. E il “contratto unico” realizzerebbe questo obiettivo, eliminando la distinzione fra contratti a termine e contratti a tempo indeterminato.
Una tesi artificiosa diretta a oscurare il fatto che la ragione della precarietà non sta nell’esistenza di contratti a termine – che sono previsti in tutti gli ordinamenti europei nella misura in cui riflettono ragioni oggettive di organizzazione del lavoro – ma nel loro abuso, quando, come accade nella proliferazione delle loro tipologie in Italia, sono privi di una decente e trasparente regolazione di tipo legislativo e contrattuale. Concentrare il lavoro a termine in un’unica tipologia contrattuale, per l’appunto il “contratto unico”, non risolve il problema del lavoro precario, se non nella misura (paradossale) in cui lo maschera, assorbendolo in un quadro di precarizzazione generalizzata del lavoro, nel quale tutti diventano licenziabili sulla base di scelte insindacabili dell’impresa.
Ma la cancellazione, si dice, potrebbe essere parziale, nel senso di essere applicata solo ai nuovi assunti. Qui il risultato per i giovani sarebbe grottesco se non fosse una vera e propria truffa operata proprio in loro nome. I lavoratori più giovani sarebbero, infatti, costretti a lavorare fianco a fianco con i compagni di lavoro più anziani, trovandosi nella condizione di essere i primi a essere licenziati per ragioni “oggettive”, in caso di difficoltà indotte dagli andamenti della congiuntura e dei mercati.
Siamo di fronte alla minaccia di “americanizzazione” dei rapporti di lavoro secondo la filosofia di Marchionne, che aveva trovato una sponda nell’art.8 di Sacconi, e che oggi ne cerca una più radicale nella cancellazione dell’art.18 secondo la linea Fornero. Come dire che un governo di professori dal volto umano può recare a lungo termine più danni di un governo apertamente di destra.
Nel programma del governo Monti, dopo l’austerità e le pensioni, è il momento della riforma del mercato del lavoro, la madre di tutte le riforme di struttura. In altre parole, la cancellazione più o meno mascherata dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Un tentativo che non riuscì al governo di Silvio Berlusconi nel 2003, ma che la destra italiana spera possa essere replicato, questa volta con successo, da un governo “tecnico”, in realtà eminentemente politico. Il vantaggio è che il tentativo è sostenuto dalle autorità europee e soprattutto potrebbe essere favorito dalla crisi, in nome della quale le operazioni più odiose e impopolari sembrano diventare finalmente possibili. Anche se l’art.18 non ha nulla a che vedere con i problemi del debito e dei mercati finanziari, se non nel senso di aggravarli aprendo una nuova fase del conflitto sociale. Ma proviamo a stabilire alcuni elementi di fatto, diradando la nebbia ideologica che falsifica il dibattito.
La protezione contro i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo precede l’art. 18, essendo già in atto prima dello Statuto dei lavoratori. Del resto è un principio in varie forme presente nei paesi europei, e sancito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il valore dell’art. 18 sta nel rendere effettivo una protezione che il datore di lavoro tranquillamente aggirava, dal momento che, ricorrendo al risarcimento monetario, poteva legittimare il licenziamento, anche se, in sede giurisdizionale, ne veniva acclarata l’illegittimità. In altri termini, si trattava di una tutela del lavoro inconsistente in quanto priva di effettività. L’art.18 fornisce questa effettività, stabilendo per le imprese con più di quindici dipendenti, il diritto al reintegro (o la facoltà conferita al lavoratore di scambiare il reintegro con una congrua indennizzazione, fissata dalla legge in 18 mensilità).
Si afferma che dalla libertà di licenziare deriverebbero vantaggi per l’occupazione e, in particolare, per i giovani. Ma si tratta di un argomento puramente ideologico, contraddetto dai fatti che raccontano una storia diversa.
In Italia, nel periodo 2000-2008 (l’anno in cui si manifesta la crisi) l’occupazione passa da circa 21,2 a circa 23,4 milioni con un aumento di quasi 2,2 milioni di unità. Un aumento nettamente superiore a quello che nello stesso periodo si realizza in Francia (1,6 milioni), e leggermente superiore a quello che si registra in Germania (2,1 milioni). In parallelo, la disoccupazione scende in Italia fino al 6,8 per cento (un punto in meno rispetto alla media dell’eurozona). Dove sarebbe l’effetto negativo dell’art.18 sull’occupazione e la disoccupazione? Poi, come era prevedibile la disoccupazione torna a crescere durante la crisi.
Ora consideriamo l’esperienza americana segnata dalla libertà di licenziare, rivendicata dalla destra e assecondate da alcune frange della sinistra. Negli Stati Uniti la crisi ha effetti devastanti proprio sull’occupazone. Nonostante nel 2009 l’amministrazione Obama stanzi per il rilancio dell’economia e della lotta alla disoccupazione 800 miliardi di dollari – come dire in Italia novanta miliardi di euro – la disoccupazione raddoppia passando da sette a oltre 14 milioni di lavoratori e lavoratrici, ovvero da meno del 5 al 9 per cento (ottobre 2011). Le imprese, libere di licenziare, fanno strage dell’occupazione e realizzano aumenti record dei profitti.
Al contrario, la Germania adotta una politica rovesciata. La parola d’ordine è: non licenziare. La linea concordata fra governo, imprese e sindacati è la riduzione dell’orario di lavoro temporanea per tutti i lavoratori delle imprese in difficoltà – la Kurzarbeit che prevede un’integrazione salariale a carico dello Stato per compensare la perdita dovuta alla riduzione dell’orario di lavoro. I risultati sono stupefacenti. Il tasso di disoccupazione del 7,5 per cento nel 2008, data d’inizio della crisi in Europa, si riduce a ottobre del 2011 al 5,5 per cento, e l’occupazione totale raggiunge il livello più alto degli ultimi due decenni. Due modi diversi di affrontare la crisi. Da un lato, il modello Marchionne basato sull’abrogazione dei diritti dei lavoratori e la rottura dei sindacati, dall’altro quello che potremmo definire il “modello Volkswagen” che porta l’industria automobilistica tedesca al primo posto nel mondo.
Tornando all’Italia, chiunque può ragionevolmente affermare che, senza l’art.18, un’aggiunta di licenziamenti individuali per ragioni economiche, produttive e organizzative – peraltro motivate dalla crisi – avrebbe trasformato una parte di Cassa integrazione in licenziamenti, accrescendo il numero dei disoccupati. (Ovviamente senza vantaggio per i giovani e certamente a svantaggio dei padri!).
Ma secondo l’ingannevole retorica del governo, la cancellazione dell’art.18 è un antidoto alla precarietà, eliminando il dualismo fra “protetti” e “non protetti”. E il “contratto unico” realizzerebbe questo obiettivo, eliminando la distinzione fra contratti a termine e contratti a tempo indeterminato.
Una tesi artificiosa diretta a oscurare il fatto che la ragione della precarietà non sta nell’esistenza di contratti a termine – che sono previsti in tutti gli ordinamenti europei nella misura in cui riflettono ragioni oggettive di organizzazione del lavoro – ma nel loro abuso, quando, come accade nella proliferazione delle loro tipologie in Italia, sono privi di una decente e trasparente regolazione di tipo legislativo e contrattuale. Concentrare il lavoro a termine in un’unica tipologia contrattuale, per l’appunto il “contratto unico”, non risolve il problema del lavoro precario, se non nella misura (paradossale) in cui lo maschera, assorbendolo in un quadro di precarizzazione generalizzata del lavoro, nel quale tutti diventano licenziabili sulla base di scelte insindacabili dell’impresa.
Ma la cancellazione, si dice, potrebbe essere parziale, nel senso di essere applicata solo ai nuovi assunti. Qui il risultato per i giovani sarebbe grottesco se non fosse una vera e propria truffa operata proprio in loro nome. I lavoratori più giovani sarebbero, infatti, costretti a lavorare fianco a fianco con i compagni di lavoro più anziani, trovandosi nella condizione di essere i primi a essere licenziati per ragioni “oggettive”, in caso di difficoltà indotte dagli andamenti della congiuntura e dei mercati.
Siamo di fronte alla minaccia di “americanizzazione” dei rapporti di lavoro secondo la filosofia di Marchionne, che aveva trovato una sponda nell’art.8 di Sacconi, e che oggi ne cerca una più radicale nella cancellazione dell’art.18 secondo la linea Fornero. Come dire che un governo di professori dal volto umano può recare a lungo termine più danni di un governo apertamente di destra.
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