di Emilio Quadrelli * Fonte: sinistrainrete
“Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l'idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d'arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per “questo anno”. (K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica)
La posta in palio
Il tema della precarietà, della flessibilità e via dicendo ha conquistato, da tempo, un ruolo predominante dell’attuale scena politica, economica e sociale. La condizione di lavoro precario, inizialmente percepita come semplice “rito di passaggio” per segmenti particolari della forza lavoro salariata, è diventata la condizione di esistenza per lo più abituale per cospicue quote del lavoro subordinato. Da ambito di “nicchia” e per di più estemporanea, così come era stata presentata inizialmente, si è repentinamente imposta come la condizione permanente per quote sempre più ampie di popolazione. Ciò che è stato sbandierato come “stato d’eccezione temporaneo” si è velocemente trasformato in uno “stato d’eccezione permanente”. Questo fatto è sotto agli occhi di tutti. A fronte di ciò, e non poteva essere altrimenti, si è assistito a un graduale ma costante ritiro dello Stato dagli ambiti deputati, attraverso le politiche sociali, a garantire l’inclusione sociale delle masse subalterne. Il Welfare State, la forma statuale messa in forma nel corso del Novecento nel mondo occidentale e soprattutto nella Vecchia Europa, si è pressoché eclissato. Non si tratta di un fatto accidentale poiché la relazione tra la forma “concreta” che assume il lavoro salariato e il modello statuale entro il quale si esplica ha un legame oggettivo che non può essere scisso. Impossibile, pertanto, affrontare sensatamente la questione del lavoro precario e della condizione di esclusione sociale che inevitabilmente si porta appresso senza affrontare la questione della dimensione “concreta” dello stato contemporaneo. Ma come farlo? Attraverso quali strumenti? Di quale bagaglio teorico occorre impossessarsi al fine non solo e semplicemente di lottare, anche perché non è certo la teoria che inventa le lotte, ma di piegare alle esigenze e agli interessi di classe i conflitti oggettivi di cui le nostre società sono gravide? In altri termini attraverso quali strumenti una nuova generazione operaia e proletaria sarà in grado di porsi concretamente sul terreno della conquista del potere politico e dirigere il processo rivoluzionario per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista?
“Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l'idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d'arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per “questo anno”. (K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica)
La posta in palio
Il tema della precarietà, della flessibilità e via dicendo ha conquistato, da tempo, un ruolo predominante dell’attuale scena politica, economica e sociale. La condizione di lavoro precario, inizialmente percepita come semplice “rito di passaggio” per segmenti particolari della forza lavoro salariata, è diventata la condizione di esistenza per lo più abituale per cospicue quote del lavoro subordinato. Da ambito di “nicchia” e per di più estemporanea, così come era stata presentata inizialmente, si è repentinamente imposta come la condizione permanente per quote sempre più ampie di popolazione. Ciò che è stato sbandierato come “stato d’eccezione temporaneo” si è velocemente trasformato in uno “stato d’eccezione permanente”. Questo fatto è sotto agli occhi di tutti. A fronte di ciò, e non poteva essere altrimenti, si è assistito a un graduale ma costante ritiro dello Stato dagli ambiti deputati, attraverso le politiche sociali, a garantire l’inclusione sociale delle masse subalterne. Il Welfare State, la forma statuale messa in forma nel corso del Novecento nel mondo occidentale e soprattutto nella Vecchia Europa, si è pressoché eclissato. Non si tratta di un fatto accidentale poiché la relazione tra la forma “concreta” che assume il lavoro salariato e il modello statuale entro il quale si esplica ha un legame oggettivo che non può essere scisso. Impossibile, pertanto, affrontare sensatamente la questione del lavoro precario e della condizione di esclusione sociale che inevitabilmente si porta appresso senza affrontare la questione della dimensione “concreta” dello stato contemporaneo. Ma come farlo? Attraverso quali strumenti? Di quale bagaglio teorico occorre impossessarsi al fine non solo e semplicemente di lottare, anche perché non è certo la teoria che inventa le lotte, ma di piegare alle esigenze e agli interessi di classe i conflitti oggettivi di cui le nostre società sono gravide? In altri termini attraverso quali strumenti una nuova generazione operaia e proletaria sarà in grado di porsi concretamente sul terreno della conquista del potere politico e dirigere il processo rivoluzionario per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista?