di Emilio Quadrelli * Fonte: sinistrainrete
“Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l'idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d'arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per “questo anno”. (K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica)
La posta in palio
Il tema della precarietà, della flessibilità e via dicendo ha conquistato, da tempo, un ruolo predominante dell’attuale scena politica, economica e sociale. La condizione di lavoro precario, inizialmente percepita come semplice “rito di passaggio” per segmenti particolari della forza lavoro salariata, è diventata la condizione di esistenza per lo più abituale per cospicue quote del lavoro subordinato. Da ambito di “nicchia” e per di più estemporanea, così come era stata presentata inizialmente, si è repentinamente imposta come la condizione permanente per quote sempre più ampie di popolazione. Ciò che è stato sbandierato come “stato d’eccezione temporaneo” si è velocemente trasformato in uno “stato d’eccezione permanente”. Questo fatto è sotto agli occhi di tutti. A fronte di ciò, e non poteva essere altrimenti, si è assistito a un graduale ma costante ritiro dello Stato dagli ambiti deputati, attraverso le politiche sociali, a garantire l’inclusione sociale delle masse subalterne. Il Welfare State, la forma statuale messa in forma nel corso del Novecento nel mondo occidentale e soprattutto nella Vecchia Europa, si è pressoché eclissato. Non si tratta di un fatto accidentale poiché la relazione tra la forma “concreta” che assume il lavoro salariato e il modello statuale entro il quale si esplica ha un legame oggettivo che non può essere scisso. Impossibile, pertanto, affrontare sensatamente la questione del lavoro precario e della condizione di esclusione sociale che inevitabilmente si porta appresso senza affrontare la questione della dimensione “concreta” dello stato contemporaneo. Ma come farlo? Attraverso quali strumenti? Di quale bagaglio teorico occorre impossessarsi al fine non solo e semplicemente di lottare, anche perché non è certo la teoria che inventa le lotte, ma di piegare alle esigenze e agli interessi di classe i conflitti oggettivi di cui le nostre società sono gravide? In altri termini attraverso quali strumenti una nuova generazione operaia e proletaria sarà in grado di porsi concretamente sul terreno della conquista del potere politico e dirigere il processo rivoluzionario per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista? Oggi, e sicuramente la cosa è tutt’altro che disprezzabile, assistiamo al fiorire di lotte di natura “sindacale” certamente non trascurabile ma, non diversamente dal passato, tali lotte non sono in grado, da sole, di emanciparsi dai ristretti ambiti del tradeunionismo. Il problema della teoria rivoluzionaria si pone, pertanto, come questione urgente per tutte quelle forze che, oggi, si pongono concretamente il problema della soggettività politica. Non è rincorrendo i “precari” che si fornisce un qualche servizio alla rivoluzione proletaria ma è nel porsi alla testa di quelle lotte, dando loro uno sbocco e un orizzonte politico, che si pongono i primi tasselli per la costruzione di un’organizzazione politica in grado di misurarsi con l’attuale fase imperialista e la forma stato che la caratterizza. In tale contesto, la formazione di quadri politici complessivi, diventa particolarmente urgente.
Per tali motivi il testo che presentiamo, avendo a mente un pubblico di lettori non specialistico e intellettualizzato ma interessato ad acquisire strumenti conoscitivi indispensabili per svolgere al meglio la propria militanza politica e sindacale, ha come oggetto la “ scienza della storia” e il suo metodo: il materialismo storico e dialettico applicato alla forma Stato. Il motivo di ciò è in fondo semplice. Intere generazioni sono state resettate, attraverso un processo di annichilimento del sapere storico e di annullamento della memoria, così in profondità da rendere loro ignote non solo le basi della teoria marxista ma persino gran parte dei principali eventi della storia nazionale e internazionale. Un processo di neo – analfabetismo di massa scientemente perseguito dalle classi dominanti che va colto in tutto il suo portato politico. A un primo sguardo, infatti, la cosa potrebbe sembrare di poco conto. La semplice messa tra parentesi di un sapere, almeno in apparenza, sostanzialmente erudito, quindi inutile, che trova ben poca applicazione in società governate dal sapere tecnico e operativo. A uno sguardo solo un poco più attento le cose si mostrano in ben altro modo. Che cosa significa, in realtà, considerare la conoscenza della scienza storica [1] superflua, se non un modo per rendere eterno il tempo presente, negando a priori il senso del divenire e con questo il carattere storicamente determinato dei rapporti sociali ed economici contemporanei? Che cosa significa considerare la storia un lusso che, nella migliore delle ipotesi, si riduce a semplice balocco per personaggi vagamente eccentrici e afflitti da un inguaribile infantilismo, se non un modo per affermare che il tempo del presente non è un tempo storicamente determinato ma un tempo eterno e immodificabile? In altre parole che cosa significa azzerare il sapere della storia, insieme alla sua lettura materialistica e dialettica se non sancire, una volta per tutte, che nessun altro mondo è possibile e che la borghesia è l'unica classe legittimata a governarlo? Sotto questa luce, allora, molte cose cominciano a chiarirsi. Se ad intere generazioni proletarie è stato raccontato che la scienza della storia è inutile non è stato fatto per impedir loro di perdere tempo, per indirizzarle verso l'apprendimento di conoscenze più pragmatiche e, in virtù di ciò, maggiormente spendibili e utilizzabili nel mondo contemporaneo, bensì per deprivarle di uno strumento di lotta politica. Annichilire il sapere storico non può che, come corollario immediato, sancire al contempo la fine della memoria. Ma una classe senza passato è una classe priva di futuro la cui esistenza si riduce a semplice fenomeno empirico: una determinazione economica destinata a rimanere eternamente tale.
Molto sinteticamente ci troviamo di fronte a uno scenario in cui il bagaglio teorico delle classi sociali subalterne è stato pressoché azzerato, o per lo meno fortemente amputato. Ciò è facilmente constatabile osservando il grado di conoscenza politica e teorica di quello che possiamo definire il militante medio di tutto quel mondo che, per semplificare, continueremo a chiamare ambito della sinistra. Per certi versi, quindi, si tratta di ripartire da una sorta di ABC della teoria marxista o, per usare il lessico proprio del mondo calcistico, dai fondamentali. Il marxismo, il materialismo storico e dialettico non può essere, almeno sotto il profilo politico, qualcosa che ha a che fare con gli “specialisti”. In altre parole non può essere l'oggetto, al pari di qualunque altra teoria politica, di studi accademici. Ridurlo a ciò significa, oggettivamente, depotenziarlo, inibirlo, in sostanza contraffarlo. Un marxismo per studiosi, indipendentemente dalle buone intenzioni che questi possono vantare, è un marxismo deprivato della sua politicità, del suo essere l'arma della critica attraverso la quale si perviene alla critica con le armi [2] . Un marxismo simile non fa paura a nessuno ma un marxismo che non sappia far aleggiare intorno a sé lo spettro comunista non è marxismo bensì la sua caricatura. Un marxismo inaccessibile alle masse, adatto solo agli studi colti e dottorali, è tutto tranne che una guida per l'azione. La formazione, attraverso l'apprendimento del materialismo storico e dialettico, di quadri operai e proletari era e rimane l'unico uso corretto e legittimo della teoria marxista. In tutto ciò vi è non poco di settario ma è lo stesso settarismo di Lenin che lo porta a dire: La verità è rivoluzionaria [3] In questo senso, quindi, la teoria marxista non può che essere la scienza di una parte contro l'altra [4] . La verità della borghesia non può essere la verità del proletariato e viceversa poiché, se la borghesia ride, il proletariato piange. Vie di mezzo non ne possono sussistere. Non esiste e mai è esistita una teoria e una filosofia storico – politica al di sopra del conflitto di classe anche se, in ogni epoca storica, le classi dominanti hanno presentato le idee dominanti come idee che traevano la loro legittimazione non dai rapporti di forza materiali tra le classi ma da una verità esterna ed estranea alla brutalità del mondo materiale, una verità che, volta per volta, è stata presentata come eterna [5] .
In poche parole, con questa e le altre iniziative da noi messe in cantiere, ci proponiamo di offrire un piccolo ma indispensabile contributo alla formazione teorica e politica per una nuova generazione di militanti comunisti. Sulla scia di Lenin, senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario [6] , riteniamo quanto mai indispensabile impegnarci a fondo anche nel lavoro teorico poiché, come l’intera storia ed esperienza della classe operaia e del proletariato è lì a dimostrare, solo un movimento politico teoricamente saldo è in grado di condurre, senza tentennamenti, uno scontro di classe dalle dimensioni sempre più titaniche. Tutto ciò sembra essere ancora più urgente in un Paese come il nostro dove, anni e anni di egemonia riformista e opportunista, hanno scompaginato sino alla radice ogni minimo barlume di teoria rivoluzionaria. Infine, ma non per ultimo, con il nostro lavoro ci proponiamo di arginare, sin da subito, i palesi tentativi da parte delle classi dominanti di offrire del marxismo una lettura totalmente depotenziata. Una possibilità che, nel presente, si mostra quanto mai probabile. Infatti, benché non si possa parlare di una vera e propria renaissance, l'interesse per il marxismo sta conoscendo, proprio tra l’intellighenzia e gli uomini politici della borghesia, una nuova stagione. L'irrompere della crisi, in un attimo, ha azzerato l'insieme di retoriche che, a partire dall'89 [7] , avevano fatto da sfondo alle più svariate ideologie sorte intorno al cosiddetto capitalismo globale e l'ombra di Marx insieme alla critica dell'economia politica sembra nuovamente pronta ad affermare: Ben scavato, vecchia talpa! Insieme alla “bolla speculativa” sono esplose le “bolle teoriche” che avevano dato fiato alla nuova fase imperialista. Con la recessione, dimostrando ampiamente, come il materialismo storico e dialettico ha sempre sostenuto, l'indissolubile legame tra la struttura economica e sociale e le ideologie che la rappresentano, anche il mondo delle idee è andato a picco. Le sicurezze “scientifiche” attraverso le quali politologi, economisti, sociologi ecc. avevano cantato inni densi di melodia all'eternità dell'era globale hanno da prima stonato e, infine, hanno perso del tutto la voce. Baritoni possenti fino a qualche tempo addietro non sono neppure più stati in grado di ritagliarsi uno spazio tra le voci bianche. Eppure, gonfi e tronfi, sulla scia dei voli di Borsa avevano declamato a destra e a manca tanto che, ai più, la loro ascesa, insieme a quella del modo di produzione capitalista sembrava non avere limiti.
Come un sol uomo, per circa un ventennio, i cani da guardia [8] del modo di produzione capitalista, seppur con declinazioni diverse, si erano trovati sostanzialmente d'accordo su cinque punti fondamentali: primo, la vittoria riportata dal capitalismo sul blocco socialista e la conseguente implosione dell'URSS sancivano in maniera definitiva la vittoria del modo di produzione capitalista; secondo, il capitalismo aveva raggiunto un grado di stabilizzazione tale da archiviare in maniera definitiva lo spettro di una crisi strutturale e sistemica e da qui il proliferare delle retoriche sulla fuoriuscita dal Novecento in quanto secolo segnato dal conflitto oggettivo tra capitale e lavoro salariato; terzo, in tale scenario, il conflitto, nella sua accezione politica, non poteva più manifestarsi e, in virtù di ciò, la dimensione di classe si limitava a una valenza puramente economica e sociale ma priva di qualunque prospettiva storica e politica ; quarto, l'imporsi del mercato globale sanciva anche l'impossibilità di un conflitto interimperialistico poiché, tutti gli attori politici ed economici, si mostravano legati da un intreccio di relazioni e scambi dove oggettivamente impensabili diventavano il delinearsi di momenti di rottura tali da trasformarsi in conflitto politico e militare aperto; quinto, in tale scenario, la guerra, da elemento cardine del politico vedeva mutuarsi in semplice operazione di polizia poiché, in un mondo reso ormai unito e unificato, la presenza del nemico, in quanto hostis [9] , perdeva ogni sua legittimazione. La guerra, pertanto, più che essere parte del politico diventava strumento di polizia [10] . Sul piano internazionale l'uso della forza poteva essere usato e pensato contro quell'insieme di entità politicamente delegittimate, quali gli stati canaglia, che, in virtù del loro essere criminale e banditesco, non potevano trovare cittadinanza nel nuovo ordine mondiale [11] . Sul piano interno il conflitto di classe veniva dichiarato estinto e ogni forma di non allineamento ridotta a fenomeno terroristico, criminale e/o ascrivibile all'ambito della patologia sociale [12] . In poche parole, tutte le retoriche sorte intorno all'era globale, tendevano a concordare sulla natura impolitica della nuova era.
Il cuore politico e teorico di tutta questa operazione trovava la sua giustificazione nell'assunto della fine della storia [13] . Ma cosa significava, in sostanza, decretare la fine della storia? Nient'altro che delegittimare il conflitto politico tra le classi e la possibilità di coltivare l'ipotesi di una rottura storica ed epocale. Sotto tale profilo, il nostro Paese, ha svolto un ruolo di autentica avanguardia e non ha dovuto aspettare il fatidico '89 per mettere a regime, pur con angolazioni diverse, un insieme di argomentazioni che, ridotte all'osso, decretavano una volta per sempre la scomparsa politica del proletariato insieme all'inconsistenza e/o superamento della teoria marxista. Un modo come un altro per sancire la fine del tempo storico [14] e rendere, sotto il profilo concettuale, eterno sia il modo di produzione capitalista sia il dominio della borghesia. In fondo, delegittimare il proletariato in quanto classe in grado di spezzare il dominio della borghesia, considerare il marxismo una teoria politica esauritasi con il Novecento finendo con il ridurre il materialismo storico e dialettico, nella migliore delle ipotesi, a una delle tante opzioni teoriche attraverso cui è stato interpretato il mondo che cosa significava se non riconoscere che non il proletariato ma la borghesia era stata l'ultima classe storica e rivoluzionaria? E, in virtù di ciò, affermare che la storia - intesa come susseguirsi di epoche caratterizzate da modi di produzione diversi ai quali, volta per volta, corrispondeva la dominazione politica di una nuova classe dominante [15] - era giunta al capolinea? Ancor prima della famosa tesi di Fukuyama, nel nostro Paese, il funerale alla storia, e quindi al proletariato, era già stato celebrato.
Che tutto ciò sia accaduto in un paese come l'Italia non deve stupire. La forza politica messa in campo dalla classe operaia e dalle masse proletarie italiane ha una storia che, pur con tutte le rotture di fase che i diversi cicli capitalistici imponevano, ha posto l'ipotesi del potere operaio e proletario e la costruzione di una società socialista continuamente all'ordine del giorno. Una tensione politica lunga un quarantennio. Pur per sommi capi proviamo a ricapitolarla. Sono le lotte operaie, con gli scioperi torinesi del 1943 a dare il via all'opposizione di massa al nazi – fascismo. Intorno alla classe operaia si costruisce l'esercito partigiano che impegna duramente le forze fasciste e naziste tra il 1943 e il 1945 e contribuisce in maniera determinante alla liberazione del Paese. L'insurrezione operaia e partigiana dell'aprile 1945, condotta in gran parte sotto la direzione politica e militare del Partito comunista [16] , crea nel nord Italia una situazione politica per lo meno instabile poiché le masse sono armate e decise a chiudere i conti non solo con i fascisti in camicia nera ma con quelle forze, la grande borghesia monopolista e finanziaria, che del fascismo era stata la principale artefice; le fabbriche del nord, quindi il cuore strategico dell'apparato produttivo nazionale, sono in mano agli operai che ne hanno impedito lo smantellamento da parte delle forze nazifasciste; l'apparato statuale borghese si è in gran parte dissolto lasciando, anche se non del tutto, un ampio vuoto di potere. Le forze politiche che hanno dato vita al CLN possono vantare, sul momento, un peso numerico di poco conto, solo il Partito comunista è in grado di mettere in campo un'organizzazione di massa degna di questo nome e per di più la sua influenza su gran parte degli strati operai e popolari si fa giorno dopo giorno sempre più consistente. A ciò va aggiunto, e non si tratta di un elemento secondario, il prestigio internazionale che l’URSS è in grado di vantare in seguito all’apporto decisivo dato alla guerra contro il nazifascismo. La bandiera rossa issata dai soldati sovietici sulla Cancelleria tedesca non sembra essere un semplice fatto simbolico o un tributo, come parti della storiografia borghese proveranno a sostenere, pagato alla smania di protagonismo di Stalin [17] , perché dietro a quel gesto vi sono, oltre all’enorme forza che è in grado di esercitare l'Armata Rossa, le Democrazie popolari che si vanno formando a est alle quali va aggiunto il successo della rivoluzione popolare cinese insieme all'acuirsi della “questione coloniale”. I “popoli senza storia”, che il Secondo conflitto mondiale ha gettato prepotentemente nel mondo e che in non pochi casi hanno fornito contributi rilevanti nella guerra contro il nazifascismo, si sono messi in marcia. In seguito al tributo di sangue pagato al fianco dell'alleanza delle “democrazie occidentali” contro la tirannia hitleriana rivendicano adesso i tanto decantati diritti universali che le “democrazie occidentali” avevano posto a sigillo del loro impegno bellico. Ma questi diritti, per la natura imperialista delle “democrazie occidentali”, non possono trovare soddisfazione. Finita la guerra l'Occidente imperialista non può che ristabilire lo status quo [18] . Le colonie tornano a essere colonie e gli indigeni “ popoli senza storia”. Solo nel blocco socialista e nel movimento comunista internazionale questi popoli trovano il loro alleato naturale. Il processo di decolonizzazione che si avvia negli anni immediatamente seguenti al 1945 vede i Paesi socialisti in prima linea nel sostenere, politicamente e militarmente, i movimenti di liberazione nazionale [19] . Alla rete delle forze imperialiste internazionali che proprio nei Paesi del Terzo mondo consumeranno le loro più efferate atrocità si contrappone un movimento di solidarietà militante internazionalista capeggiato dai Paesi socialisti. Nell'immediato dopo guerra tutto questo, per essere colto, non ha bisogno del fiuto di analisti particolarmente sagaci ma sta nell'evidenza dei fatti. Un insieme di eventi che lasciano prevedere l’inesauribile forza che il movimento comunista internazionale è in grado di mettere in atto, nei confronti del quale, in piena difensiva, le “democrazie occidentali” si affrettano a instaurare un clima di guerra contro l'URSS e i Paesi socialisti. In tale frangente, il socialismo come tendenza storica ineluttabile cattura, oltre alla classe operaia, gran parte dei ceti popolari del nostro paese. Tra il 1945 e il 1948, la classe operaia italiana dà vita a una sorta di dualismo di poteri il cui punto di mediazione è rappresentato dalla Carta Costituzionale. Al proposito non è secondario ricordare che, nella sua prima stesura, l'articolo 1 della Costituzione recitava: La Repubblica italiana è una repubblica fondata sui lavoratori. Un enunciato i cui richiami alla Repubblica dei Soviet sono sin troppo evidenti. Solo in un secondo momento, proprio per arginare, anche sotto il profilo formale, la forza operaia e partigiana le forze della borghesia interne al CLN impongono, a lavoratori, il più moderato e “polisemico” lavoro. In questo modo, il carattere di classe presente nell'atto costituente, veniva in gran parte diluito e con questo, anche sul piano giuridico – formale, il ridimensionamento della classe operaia in quanto forza essenziale della fase costituente. Un ridimensionamento che prefigura e apre la strada alla controffensiva borghese che, di lì a poco, si scatenerà. Tra il 1948 e la fine degli anni Cinquanta, sotto la reazione borghese e padronale, la classe operaia combatte, completamente isolata, in maniera sostanzialmente difensiva. Pur accerchiata non si disunisce e tanto meno si demoralizza. Nonostante nel Paese si sia aperta, senza troppe remore la caccia ai comunisti e le ingerenze dell'imperialismo statunitense si facciano sempre più esplicite [20] , la classe operaia e il proletariato non si lasciano annichilire. In maniera sotterranea e invisibile, nuovamente sottovoce, i mille rivoli che legano i comunisti alla classe negli anni bui dell'aperta reazione sembrano rinsaldarsi. I fatti del 1960, quando, a partire dai moti del proletariato genovese, l’intera penisola fu scossa da una mobilitazione generale contro il tentativo di instaurare un modello governativo tipicamente da “Stato forte”, ne rappresentano la migliore esemplificazione [21] . La mobilitazione generale della classe operaia e la coagulazione intorno a questa di numerosi settori sociali subalterni obbligano la borghesia a rivedere repentinamente i suoi progetti di aperta reazione. I progetti di restaurazione nelle giornate del luglio '60 naufragano repentinamente. La borghesia è obbligata ad aprire una nuova fase politica maggiormente attenta agli umori e alle esigenze delle masse. Alla forza messa in campo dalla classe operaia la borghesia sogna di poter rispondere inaugurando la stagione del riformismo. Un'illusione che cade ben presto in frantumi e che porta alcune frazioni della borghesia a coltivare, non solo sul piano ipotetico, opzioni golpiste [22] . Nel 1962, con i fatti di Piazza Statuto [23] , quando dopo anni di ripiegamento una nuova classe operaia direttamente figlia del ciclo economico fordista entra rumorosamente sulla scena politica [24] , si apre un nuovo ciclo di offensiva operaia che porterà sino all'Autunno caldo del 1969, segnato in particolare dal protagonismo della classe operaia Fiat [25] e che finirà con il mettere profondamente in crisi il PCI la cui deriva socialdemocratica si farà sempre più marcata. [26] Da quel momento in poi, per un intero decennio, l'ipotesi della rivoluzione operaia diventa quanto mai realista. La rimozione degli “anni '70” o la loro veloce sintesi come “anni di piombo” mostrano come ancora oggi, per la borghesia di ogni colore e frazione, il “decennio insurrezionale” sia qualcosa di impronunciabile. Indipendentemente dalle diverse ipotesi organizzative che l'offensiva di classe assume, a legare le masse in tutte queste fasi storiche è la presenza permanente dell'idea – forza del comunismo, di cui il marxismo è l’arma teorica. Le ricadute sul piano teorico e culturale che fanno da sfondo all'offensiva operaia e proletaria sono quanto mai evidenti. Il panorama politico e culturale di un'intera era è egemonizzato dal marxismo. A pesare in tutto ciò non sono scelte “culturali”: a spostare schiere di intellettuali nel campo della teoria del proletariato vi sono i rapporti di forza materiali tra le classi. Il vento che soffia è il vento dell'est. A questo sembra bene adeguarsi. Con la sconfitta della classe operaia Fiat, maturata nell'autunno del 1980, tutto ciò velocemente evapora [27] .
Proprio sulla scia di quella sconfitta, con il conseguente annichilimento dell'intero corpo della classe che essa si porta appresso, prenderà il via quel processo di aperta controrivoluzione nel quale siamo quanto mai immersi tuttora. Tuttavia anche una disfatta come quella subita dalla classe in quel drammatico contesto è condizione necessaria ma non sufficiente per estirpare l'idra rivoluzionaria dal proscenio storico. Perché tale operazione vada a buon fine occorre che la sconfitta arrivi alle radici. A essere estirpato, pertanto, deve essere il “nucleo teorico” intorno al quale la classe può, politicamente, ricostituirsi [28] . Ed è esattamente in tale frangente che si scatena senza mezze misure l'attacco delle forze borghesi alla teoria del proletario. La borghesia intuisce che, in virtù dei rapporti di forza che è oggettivamente in grado di esercitare, ha l'occasione di chiudere, forse definitivamente, i conti con lo spettro proletario. Ora che il “quarantennio rosso” è solo l'incubo del passato si può legittimamente pensare di andare alla radice del problema ovvero eliminare il materialismo storico e dialettico dalla scena storica. Tutte le forze intellettuali sono chiamate e poste al lavoro. Se il marxismo è la filosofia della storia, la storia deve essere dichiarata estinta; se il marxismo è la teoria della rivoluzione proletaria, la parola rivoluzione deve essere bandita dal lessico politico; se il marxismo è il metodo che consente di leggere e anticipare gli scenari storici e politici, il metodo, in quanto strumento di analisi della realtà, deve essere bandito una volta per sempre. In tale contesto gran parte degli appartenenti al ceto intellettuale repentinamente convertitisi al rango di “liberi pensatori” hanno modo di scatenarsi. Il proletariato e la classe operaia in quanto soggetti storici sono irrisi mentre gli attacchi al marxismo e la sua confutazione diventano il bersaglio quotidiano di filosofi vecchi e nuovi. Quello stesso ceto intellettuale che per anni aveva cavalcato le lotte operaie e su queste aveva maturato postazioni di forza e di prestigio all'interno del panorama culturale nazionale e internazionale, avendo velocemente intuito da quale parte inizia a tirare il vento, si prodiga nell'ammenda. Più si è stati “estremisti” nei decenni precedenti, più l'abiura non deve lasciare ombre di dubbio [29] . Si assiste così alla riscoperta e alla rivalutazione di non pochi filosofi reazionari e fascisti. In particolare Nietzsche e Heidegger [30] e questo non ha nulla di casuale. Soprattutto a essere oggetto di culto è quell'insieme di retoriche e argomentazioni dichiaratamente irrazionaliste che, in Europa, avevano imperversato nel momento in cui il “mondo di ieri” era caduto in frantumi. [31] Ciò non deve stupire poiché, la nuova era liberale, non può neppure alla lontana recuperare il fondo razionalista e progressivo del pensiero classico borghese [32] . In questo senso l'operazione “culturale” che si consuma in Italia immediatamente a ridosso degli anni Settanta ha non poche affinità, almeno sul piano concettuale, con quanto accaduto tra le due guerre mondiali [33] poiché in realtà, il nuovo liberalismo, non è altro che l'involucro ideologico della nuova fase imperialista. Pur con connotazioni diverse e tutt’altro che secondarie la nuova era liberale o più propriamente il neoliberismo è un passaggio che sta tutto dentro all'imperialismo, ne è fase non negazione o superamento.
Quanto accaduto nel nostro Paese a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso non deve quindi stupire. Da un lato l'onda lunga delle lotte operaie si eclissa, dall'altro un intero ciclo capitalistico è in via di esaurimento. Il keynesismo, la forma rivestita dalla fase imperialista a partire dagli anni Trenta del secolo scorso è giunta al capolinea. Ciò che deve essere posto in soffitta è nuovamente il “mondo di ieri”. Se l'attacco al marxismo e al materialismo storico e dialettico rimane pur sempre il cuore strategico dell'operazione “culturale” messa in atto, in contemporanea è il secolo del “cemento e dell'acciaio”, ovvero il “secolo operaio”, che deve essere divelto [34] . Il doppio obiettivo che la borghesia imperialista coltiva è, al contempo, liquidare il proletariato come classe insieme alle sue armi teoriche e dare vita a una “rivoluzione culturale” in grado di plasmare ideologicamente il mondo alle sue nuove esigenze. Questo il passaggio storico di cui il nostro Paese si rende avanguardia e protagonista. Un progetto che, per essere realizzato, non può che attingere a piene mani da non poche suggestioni che il pensiero della crisi gli offre su un piatto d'argento. Del resto non è certo casuale che proprio in quel frangente si torni a parlare di “rivoluzione conservatrice”. Come nella prima fase imperialista le frazioni dominanti della borghesia avevano sovvertito le idee e le istituzioni di cui, sino a un attimo prima, si erano ampiamente servite adesso sono obbligate a liberarsi di tutti gli involucri politici, istituzionali e ideologici del passato non dimenticando ovviamente che, perché tale operazione vada a buon fine, è pur sempre condizione necessaria e sufficiente il totale disarmo della classe proletaria. Pragmatica ed eclettica come sua abitudine la borghesia imperialista scatena una guerra a tutto tondo contro ogni residuo di passato. Il bisogno che una nuova Weltanschauung ordini a sua immagine e somiglianza il mondo risulta un imperativo strategico di prim'ordine. Tenendo a mente ciò molte cose diventano assai più chiare.
La battaglia che si combatte nel mondo delle idee ha una posta in palio enorme in quanto, contrariamente a quanto racconta l'ordine del discorso borghese, questa non è mai il frutto di “riflessioni individuali” ma, indipendentemente dalla coscienza che ne hanno gli individui [35] , è il frutto di postazioni di classe e dei loro interessi oggettivi. [36] L'obiettiva sconfitta subita dalla classe operaia si colloca all'interno di un mutamento complessivo della formazione economica e sociale che segna la fine di una fase imperialista [37] In tale contesto a essere al centro dell’attenzione della classe dominante , insieme agli assetti politici, economici e sociali, sono le retoriche all'interno delle quali la nuova era imperialista prende forma. Per governare la trasformazione a suo favore, la borghesia imperialista, non può che attingere a piene mani da quel nichilismo prodottosi nella prima metà del Novecento che, in virtù della sua indeterminatezza, diventa un vestito buono per tutte le stagioni. Per anni il pensiero decadente della borghesia imperialista aveva dovuto fronteggiare, e con ben scarsi risultati, la forza del marxismo, adesso, su posizioni di forza ben diverse, può pienamente dispiegarsi e sferrare l’attacco al nucleo teorico del suo mortale nemico, al fine di disarmarlo una volta per sempre,. Un obiettivo che, per le classi dominanti, risulta da sempre fondamentale perché è lì che, andando al dunque, si combatte la battaglia definitiva.
Senza le armi della teoria nessuna classe può realisticamente combattere, perciò annientare la teoria del proletariato, sui tempi lunghi, ha un'importanza strategica mille volte superiore a una qualunque vittoria riportata, per quanto ampia possa mostrarsi, momentaneamente sul piano empirico. Gli eserciti, seppur a fatica, possono essere ricostruiti ma, privo di un “pensiero strategico”, nessun esercito è in grado di ricompattarsi. La riscoperta dell'irrazionalismo e la conseguente messa in mora del materialismo storico e dialettico aveva esattamente a mente questo ambizioso progetto. Tramite questa operazione, la realtà politica, economica e sociale viene ridotta a contingenza permanente ma non solo. A modellare e modificare questa realtà, rappresentata come caotica e irriducibile a qualunque principio di razionalità, non sarebbero più le classi ma l'agire scomposto e privo di visione strategica complessiva degli individui. Il mondo, nella visione che ha finito per imporsi, diventa qualcosa di indecifrabile dove l'unica certezza empiricamente riscontrabile è la lotta feroce tra gli individui all'interno di uno scenario di permanente concorrenza. Molto sinteticamente quanto descritto è il quadro teorico che si è delineato nel nostro Paese un attimo dopo della sconfitta operaia consumatasi davanti ai cancelli Fiat. Un ordine discorsivo che ben si collocava nel panorama internazionale dominato dell'offensiva “neoliberista” condotta, in contemporanea, da Reagan e Thatcher.
Tale offensiva trova il suo pieno coronamento nel 1989 quando, con l’implosone del “blocco socialista”, si chiude l’epopea storica aperta dall’Ottobre e l’insieme delle retoriche ideologiche che accompagnano la controrivoluzione neoliberista hanno modo di dispiegarsi a tutto tondo su scala internazionale. È in tale frangente che, la battaglia d’avanguardia combattuta da gran parte del ceto intellettuale nostrano, trova “felici” conferme globali. I cantori della nuova era possono complimentarsi con se stessi. Hanno visto giusto e, attraverso la messa in mora del marxismo, si sono elegantemente smarcati dal peso del passato. Nonostante i tempi siano cambiati, loro sono nuovamente saldamente in sella. La repentina adesione alle retoriche e alle teorie della “nuova era” da parte di non pochi ex compagni di strada è, del resto, facilmente spiegabile con le tradizionali oscillazioni alle quali gli intellettuali, per lo più ascrivibili agli ambiti della piccola e media borghesia, difficilmente possono sottrarsi [38] . Entusiasti ed “estremisti” nelle fasi in cui il movimento della classe è all’offensiva, di fronte ai colpi serrati della controrivoluzione prima sbandano e, il più delle volte, saltano il fosso diventando i migliori difensori dell’ordine imperialista. Servi, ma più vili dei mercenari militari, pur di mantenere qualche spicchio di posto al sole prestano, senza troppe remore, il loro sapere e la loro intelligenza ai fini delle classi dominanti. Per circa un ventennio le cose, almeno in apparenza, andavano in maniera tale da sembrar dar loro ragione. Ma, come sempre, i fatti hanno la testa dura.
L'insieme degli scenari delineati, infatti, si è velocemente frantumato di fronte all'irrompere di una crisi che, in molti, considerano assai più grave e devastante di quella del 1929 [39] . Il modo di produzione capitalista non solo sembra ben lungi dall'aver risolto le sue contraddizioni oggettive ma tende a riprodurle all'ennesima potenza. Allo stesso modo i blocchi imperialisti, ben lontani dalla messa in forma di una “coesistenza pacifica”, non possono far altro che combattersi sempre più accanitamente [40] . In definitiva l'insieme delle retoriche prodotte dalla controrivoluzione neoliberista si ponevano due obiettivi strategici: decretare la fine delle epoche storiche e, con queste, l'assenza di una classe in grado di farsi classe universale. Al di là delle diverse sfumature con le quali le teorie sull'era globale venivano infiocchettate il loro denominatore comune si riduceva a rendere eterno il modo di produzione capitalista e la classe storica su cui questi poggiava. La fine della storia coincideva con la fine delle contraddizioni oggettive proprie del modo di produzione capitalista. I fatti, però, come si è appena ricordato hanno la testa dura. Nonostante i reiterati sforzi compiuti dalla moltitudine dei cani da guardia della borghesia imperialista e loro affini nel giro di nulla di tutto ciò è rimasto poco più che un mucchietto di polvere. La crisi strutturale e sistemica in cui è precipitato il capitalismo globale ha fatto riemergere una serie di questioni e di problemi che, un po' troppo frettolosamente, erano state archiviate nel polveroso faldone storico del Novecento. La storia, lungi dall'essere finita, al pari del conflitto politico che oggettivamente la smuove riacquista appieno la sua legittimità. Se tutto ciò è vero il senso della nostra iniziativa non sembra avere bisogno di eccessive spiegazioni. Non solo la critica dell’economia politica si pone all’ordine del giorno ma, ed è questo il punto, il metodo marxista si mostra l’unico strumento e la sola bussola in grado di leggere in maniera scientifica e oggettiva, in quanto scienza della classe storicamente in ascesa, il caos dentro il quale il mondo delle borghesie imperialiste è precipitato e di fronte al quale, le medesime, non sanno far altro che rispondere attraverso balbettii i quali, andando al sodo, non fanno altro che registrare il limite “storico” di una classe e di un modo di produzione in piena putrefazione. Per questo la necessità di riappropriarsi, a livello di massa, di un metodo di indagine e analisi si pone, come esigenza strategica della classe, dentro la realtà delle cose. Non è infatti sufficiente riconoscere che la storia non è finita e che il conflitto politico non si è estinto ma occorre impossessarsi delle armi teoriche affinché il proletariato possa condurre tale conflitto in maniera vittoriosa.
Privare il proletariato di tale strumento è risultato, più che sensatamente, l'obiettivo delle classi dominanti. La delegittimazione del marxismo e del materialismo storico e dialettico è stato il modo per scongiurare che lo spettro di un nuovo Ottobre aleggiasse per il mondo. Oggi, dentro la crisi e la guerra, l'alternativa socialismo o barbarie, almeno in potenza, si ripropone in tutta la sua reale fattibilità. La crisi profonda in cui versa il modo di produzione capitalista, il dispiegarsi e l'acutizzarsi dei conflitti interimperialistici, il ricorso sempre più abituale all'intervento armato, al fine di conquistare postazioni di forza sotto il profilo economico e militare, testimoniano come si apra di fronte a noi un'era in cui i giochi sono tutt'altro che fatti e scontati. Le contraddizioni della fase imperialista attuale sono tali che, per il proletariato internazionale, l'opportunità di cogliere l'occasione non è velleitaria. Ma il modo di produzione capitalista non crolla automaticamente, anzi. Per il capitalismo la possibilità di prolungare il suo dominio, in effetti, non sono minime. Attraverso il ciclo crisi/guerra/ricostruzione il capitalismo è in grado di prolungare oltre modo il suo regime. La guerra, come gli esempi storici sono lì a ricordare, è la soluzione ideale attraverso la quale il modo di produzione capitalista, distruggendo quantità enormi di merci e forza – lavoro, può far ripartire in continuazione un nuovo ciclo di accumulazione. La crisi, pertanto, offre una potenzialità oggettiva che, di per sé, senza l'intervento di un elemento soggettivo in grado di renderla esplicita è destinata a rimanere tale [41] . L'arma fondamentale e indistruttibile di questo elemento soggettivo non sta nel volume di fuoco che è in grado di sviluppare ma nella sua superiorità teorica di fronte al nemico. Anzi, per non lasciare dubbi di sorta, è solo l'uso di questa arma teorica che consente all'elemento soggettivo di piegare a favore della classe le contraddizioni oggettive che il modo di produzione capitalista non è più in grado di contenere. Dentro la crisi non vi è una soluzione obbligata e scontata ma, molto più realisticamente, è l'aut aut socialismo o barbarie a darsi come scenario concreto. Limitarsi a registrare il dato oggettivo della crisi è cosa che qualunque analista borghese può fare senza troppi patemi. Altra cosa è ricavare dalla crisi gli elementi in grado di permettere la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista. Questo compito può essere risolto solo e unicamente da un elemento soggettivo e cosciente. L'arma del materialismo storico e dialettico è la premessa irrinunciabile al costituirsi di tale elemento. L'antologia qua presentata ne rappresenta un modesto contributo. Senza quest'arma non solo le contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalista sono destinate a risolversi a tutto vantaggio del medesimo ma anche le insorgenze spontanee che le masse subalterne mettono in forma, di per sé, non sono in grado di spezzare in maniera risolutiva il dominio capitalista. Ciò è vero sia per le masse proletarie dei nostri mondi sia per le sterminate masse subalterne esterne al mondo Occidentale o per quelle stesse masse immigrate nelle metropoli occidentali. Un aspetto sul quale appare necessario minimamente soffermarsi.
La battaglia condotta dalla borghesia imperialista contro il marxismo e il materialismo storico e dialettico non ha avuto come palcoscenico solo il mondo Occidentale ma si è articolata su scala globale. Mostrando di aver fatto appieno tesoro delle esperienze storiche novecentesche, la borghesia imperialista ha compreso appieno l'importanza strategica che avrebbe rappresentato lo svuotare l'ex retroterra dell'imperialismo occidentale da ogni ideologia socialista e progressista. Il proliferare dei vari fondamentalismi religiosi sono stati un prodotto costruito in vitreo dalle forze imperialiste occidentali e importati, l'Afghanistan ne rappresenta la migliore esemplificazione, nelle aree dell'ex Terzo mondo al fine di sovvertire i governi progressisti al potere o contrastare il peso delle forze politiche marxiste che conducevano la lotta di resistenza in non poche aree del mondo. Un obiettivo in gran parte raggiunto. [42] Chiunque oggi abbia a che fare con i mondi del proletariato immigrato, e in particolare di quello proveniente dal Continente africano, dal mondo arabo e, almeno in parte, dalle aree geografiche orientali, constata come il marxismo sia stato per lo più letteralmente sradicato da questi territori. Certo, tutto ciò non è stato in grado di risolvere le contraddizioni oggettive che inevitabilmente l'imperialismo si porta appresso ma ha permesso di incanalare le lotte di queste popolazioni all'interno di una cornice in fondo rassicurante quale alla fine si mostrano i movimenti religiosi radicali o meno che siano [43] . La situazione storica attuale obbliga obiettivamente ad aprire un dibattito intorno alla storia e agli strumenti utilizzabili per la sua decifrazione. In tale scenario, il materialismo storico e dialettico torna a essere il punto di riferimento per chiunque voglia coscientemente leggere il divenire storico. Giunti a questo punto è legittimo ipotizzare che, il nostro ipotetico lettore, ci chieda una dimostrazione concreta a riprova di quanto nelle righe pagine precedenti sostenuto. Gli abbiamo promesso, contro un mondo di chiacchiere, l'esistenza di un metodo in grado di leggere e raccontare la realtà senza orpelli e mistificazioni. Siamo pertanto obbligati a dimostrare che non siamo venditori di fumo.
La guerra tra Stati
Al fine di mantenere l'impegno preso ci proponiamo di mettere alla prova il materialismo storico e dialettico applicandolo a un aspetto “concreto” della vita politica. Per farlo sceglieremo la via apparentemente più ostica ossia quella relativa alla forma stato. In questo modo, oltre a mettere alla prova “empiricamente” il metodo cercheremo di spiegare il perché, oggi, lo Stato si ritira dagli ambiti sociali abbandonando ampiamente quel protagonismo, in ambito economico e sociale, coltivato in gran parte del secolo scorso. Ciò che sovente è stato rimproverato al marxismo, e ai marxisti, è il non aver compreso il ruolo assunto dallo stato nelle società a capitalismo avanzato nel corso della sua evoluzione. In poche parole, non solo dai teorici apertamente schierati con la borghesia ma soprattutto da parte della socialdemocrazia e dei riformisti si è contestato ai marxisti di essere rimasti fermi a una visione dello stato interamente ascritto al ruolo di comitato d'affari della borghesia e di non averne colto sia la funzione di mediatore dei conflitti tra le classi, sia il ruolo inclusivo che questo ha avuto nei confronti delle classi sociali subalterne [44] . In tale ottica, lo stato, si sarebbe emancipato e reso autonomo dal ruolo di macchina burocratica e militare finalizzata al dominio di classe per svolgere sempre più una funzione terza o super partes. Lo stato, quindi, come luogo finalizzato ad armonizzare l'esistenza delle classi sociali e a rendere sempre più estesi i diritti di cittadinanza i quali, volta per volta, sono divenuti appannaggio di tutte le classi sociali. Lo stato, per tanto, nella sua evoluzione storica si sarebbe trasformato da apparato di classe in armonizzatore delle classi e del vivere sociale. Tutto ciò, secondo tale ipotesi, mostrerebbe se non proprio l'infondatezza del marxismo, il suo obiettivo superamento e il limite obiettivo del fondamento teorico sul quale esso poggia: il materialismo storico e dialettico. Se, come borghesi dichiarati, socialdemocratici e affini sostengono, lo stato nel corso del Novecento ha cambiato pelle non solo si sono rivelate sbagliate le ipotesi politiche che individuavano nello stato la macchina finalizzata, per eccellenza, al dominio di classe ma era obiettivamente sbagliata o profondamente limitata quella filosofia della storia che vedeva nelle ere storiche il “semplice” affermarsi di interessi di classe particolari legati a un determinato modo di produzione [45] . L'evoluzione novecentesca dello stato rappresenterebbe la migliore esemplificazione degli errori presenti nella teoria marxista. Ciò, in qualche modo, dimostrerebbe l'avvenuta estinzione della borghesia in quanto classe dominante e con essa il venir meno del conflitto di classe inteso come espressione sociale delle contraddizioni proprie delle epoche storiche all'interno delle quali si afferma il dominio di una classe particolare. Se, nelle epoche passate, la guerra tra le classi trovava ampia giustificazione adesso, seguendo la lettura riformista, tale strumento per leggere la realtà si sarebbe fatto obiettivamente obsoleto. Alla teoria della lotta di classe, e alla guerra rivoluzionaria alla quale questa rimanda, va dunque sostituito il principio di civilizzazione [46] e alla tesi dei salti storici violenti propugnata dal marxismo una visione pacifica ed evoluzionista del divenire storico. La configurazione assunta dallo stato proprio là dove più avanzate sono le forze produttive ne rappresenterebbe la migliore conferma. A ben vedere, quindi, la teoria della fine della storia non è poi così nuova. Con parole diverse e argomentazioni persino di maggiore sostanza l'aveva già anticipata la Seconda internazionale [47] .
Il cuore strategico di questa revisione teorica non negava la necessità storica del socialismo ma “rivedeva” il modo attraverso il quale giungervi. In una società non più segnata da raggruppamenti “politici”, la gestione del “bene comune”, del quale era artefice lo stato, non poteva che portare verso un mondo armonico e tendenzialmente giusto ed egualitario. Ad opporsi a questa tendenza obiettiva potevano essere solo forze dichiaratamente reazionarie che guardavano al passato anziché al futuro. Era la limitatezza delle forze produttive a obbligare lo stato nei recinti del dominio di classe non il loro sviluppo. Lo stato moderno, e la sua organizzazione, con il progresso economico diventava giorno dopo giorno lo strumento per eccellenza dello sviluppo dell’intera società . Alla tesi marxista che considerava obbiettivo prioritario e irrinunciabile per la rivoluzione proletaria lo spezzare la macchina burocratica e militare [48] della borghesia si sostituiva l'utilizzo della medesima la quale, nel frattempo, aveva sostanzialmente cambiato insieme alla pelle le sue funzioni. Se tale ragionamento fosse vero, tutta l'impalcatura marxista cadrebbe in frantumi.
A un primo sguardo le cose sembrerebbero stare esattamente come socialdemocratici e riformisti le raccontano. Nel corso del Novecento il ruolo inclusivo che lo stato ha avuto nei confronti della classe operaia e delle masse proletarie è indiscutibile e, come per esempio vedremo meglio nella breve parentesi dedicata al fascismo italiano, questo è stato il frutto di una decisione proveniente dall'alto. Sono state le classi dominanti a decidere di portare le masse dentro lo stato. Tutto ciò è sufficiente per seppellire il marxismo? Tutto ciò significa che lo stato ha perso il suo carattere di classe? Ma soprattutto questo significa che il materialismo storico e dialettico può essere tranquillamente sepolto tra le bizzarrie della storia? Ovviamente non basta rispondere semplicemente no. Il materialismo storico e dialettico non è un atto di fede ma il metodo di analisi scientifico attraverso il quale il proletariato, in quanto classe storica, si appropria del divenire storico. Confutare attraverso gli strumenti metodologici del marxismo le tesi borghesi, socialdemocratiche e riformiste diventa pertanto un passaggio obbligato. Un compito che, nell'epoca attuale, ha delle ricadute pratiche e operative essenziali. Tutti sono in grado di notare come, negli ultimi anni, si sia assistito a un graduale ma costante ritiro dello stato dalla società. Un ritiro che, da parte delle forze riformiste e opportuniste, è stato considerato alla stregua di un autentico tradimento. In questo modo, lo stato, verrebbe meno al suo dovere che, per i riformisti di ogni genere e colore, dovrebbe esplicitarsi mantenendo vivo l'interesse per tutti gli ambiti e le classi sociali. I dibattiti, perennemente senza esito, sulla crisi del modello Welfare ne rappresentano la migliore esemplificazione così come, i reiterati rimpianti per il “modello keynesiano”, sono una litania tanto insulsa quanto ridicola.
Ma perché, oggi, lo stato si ritira dagli ambiti sociali, perché, oggi, lo stato non si fa carico, e sempre meno tende a farlo, dei destini delle classi sociali subalterne? Perché, fatte le tare del caso, assistiamo a qualcosa che rimanda alla mente scenari propri dell'Ottocento piuttosto che del Novecento? Perché quel processo evolutivo, quella civilizzazione forse graduale ma costante tanto cara al riformismo è venuta meno? Perché le classi dominanti, vestendo panni vicini all'anarchismo, hanno dato vita a vere e proprie rivolte contro lo stato e la sua presenza dentro i mondi sociali? A cosa si deve questa sorta di statofobia [49] che si è così ampiamente diffusa nei nostri mondi? Siamo di fronte a un impazzimento generalizzato delle classi dominanti o, come proveremo a discutere nelle pagine seguenti, è l'imporsi di una nuova fase imperialista le cui caratteristiche sono profondamente diverse da quelle dell'era precedente ad avere scatenato la “rivolta antistatuale” da parte delle classi dominanti? Il materialismo storico e dialettico è in grado di spiegare tale passaggio? E ancora: il materialismo storico e dialettico è in grado di spiegare sia la forma stato che ci ha preceduti, sia la sua attuale messa in forma oppure le sue armi sono inutili e spuntate? Ecco che, attraverso l'assunzione di un problema “concreto”, torniamo alle ragioni della nostra introduzione: la questione del metodo nella lettura, interpretazione e anticipazione dei fatti storici. Andiamo quindi al sodo.
Definiamo, per prima cosa, il contesto all'interno del quale lo stato si è radicalmente modificato. L’inizio della grande trasformazione [50] avviene tra il 1914 e il 1918 nel corso del Primo conflitto interimperialistico. A determinarla è la guerra e la sua conduzione [51] . Per quanto il ruolo di cesura storica rappresentato dalla Prima guerra mondiale dovrebbe essere noto, sintetizziamone in poche battute gli aspetti di maggior consistenza. Complessivamente il numero dei soldati mobilitati fu di oltre 65 milioni, 42. 188. 810 tra gli Alleati e 22. 850. 000 tra le potenze centrali. Alla fine del conflitto sul terreno e in fondo al mare erano finiti più di 8, 5 milioni di soldati e circa 6., 5 milioni di civili. Più di 21 milioni di soldati erano rimasti feriti mentre il numero dei civili non è stato possibile stimarlo. A queste cifre si devono aggiungere gli oltre 750.000 tedeschi morti di stenti per effetto del blocco navale imposto dagli Alleati alla Germania e i non secondari numeri di cadaveri legati alle “morti collaterali” come ad esempio il genocidio compiuto verso la popolazione armena o lo sterminio della popolazione serba in fuga dalla loro terra; così come “fuori catalogo” rimangono le morti delle popolazioni indigene, esemplificativo il caso degli arabi [52] , coinvolte a diversi gradi nel conflitto. Infine, sempre tra gli “effetti collaterali”, vanno ricordate le epidemie di influenze che dilagarono nel corso della guerra, provocando tra i civili un numero imprecisato di morti. Questa impressionante sequela di cifre non è casuale ma ha la sua facile spiegazione nel carattere industriale assunto dalla guerra. Il numero dei morti e dei feriti è direttamente proporzionale alla quantità di materiali bellici impiegati nel corso del conflitto. Limitiamoci a fornirne solo qualche dato. All'inizio del conflitto, per i pianificatori militari, i punti di riferimento erano ancora quelli della battaglia di Sedan [53] del 1870 quando l'esercito prussiano aveva sparato 33. 134 colpi. Quel numero di colpi, nel 1914, rappresentava il massimo del volume di fuoco messo in campo da un esercito ma, nel 1916, l'artiglieria inglese da sola sparò circa un milione di colpi nella settimana precedente la battaglia della Somme e siamo solo di fronte a uno dei tanti esempi che si potrebbero portare per indicare quale salto la forma guerra avesse compiuto. Ma ancora. All'inizio del conflitto, i francesi, prevedevano un consumo di circa 10 mila proiettili da 75 mm al giorno e per una durata non superiore ai quattro mesi; già nel 1915, però, erano stati obbligati a produrne 200.000 per tenere testa alle richieste del fronte. In Germania, nel 1914, la produzione di esplosivi raggiungeva le mille tonnellate mensili, nel 1915 era già salita a 6.000. Alla progressione quantitativa si univano i salti qualitativi. Fin dal 1916 gli inglesi avevano messo in campo i primi carri armati, che trovarono la loro definitiva sistematizzazione nel 1917, mentre l'aviazione, che fino a quel momento aveva avuto un ruolo marginale e del tutto subordinato all'Esercito e alla Marina, nel 1918 assumeva un ruolo sempre più importante tanto da diventare ed essere organizzata come forza armata autonoma. Il carattere industriale del conflitto diventava ogni giorno che passava sempre più evidente. Mese dopo mese, ogni paese, dava fondo alle sue riserve umane chiamando al fronte nuove leve. Milioni e milioni di individui, la maggioranza dei quali provenienti dalle file del proletariato, si ritrovarono intruppati in un esercito. L'esercito terrestre britannico, ad esempio, che all'inizio del conflitto non superava le 240.000 unità terminò la guerra con poco meno di 5 milioni di soldati mobilitati. Insieme con le riserve umane ogni blocco imperialista diede fondo alle riserve economiche. Tra il fronte e le retrovie, di fatto, si stabiliva un indissolubile legame. Tutta la popolazione si ritrovava così direttamente coinvolta nel conflitto. Il volto della guerra non si era mai mostrato, al contempo, così feroce e totalizzante. Eppure il 4 agosto 1914 quando le ostilità si erano aperte Governi e Stati Maggiori non immaginavano minimamente di giungere a tanto. Allo stesso tempo nessuno prevedeva che il conflitto si sarebbe prolungato per quattro lunghi e interminabili anni. I più, e in prima persona i militari e le classi dominanti tedesche, pensavano che le ostilità non sarebbero durate oltre i due o tre mesi e ancor meno che tra le caratteristiche del conflitto terrestre vi sarebbe stata quella lunga guerra di posizione che finì con l’immobilizzare nelle trincee milioni e milioni di soldati. Repentinamente quella che, agli inizi, era ancora pensata come uno scontro tra uomini si trasformò in “battaglia dei materiali” e ai retaggi “nobiliari e aristocratici” della guerra si sostituì in tutta fretta la più prosaica ma realistica e moderna guerra industriale [54] . Ma industria significa produzione di massa, tecnica, ricerca scientifica in altre parole una guerra modellata sull'industria deve applicare a questa le stesse regole che la governano. Una guerra condotta dalla borghesia secondo il modo di produzione capitalista non può che essere modellata a immagine e somiglianza del mondo da essi prodotto.
Per quanto sintetiche, queste brevi note sembrano in grado di offrire il quadro obiettivo degli scenari che la forma assunta dalla guerra ha delineato. Diventa facilmente evidente che proprio in virtù delle forme che il conflitto assume nulla può essere come prima. La “guerra totale” obbliga, pertanto, a modificare alla radice i rapporti tra le classi. Si assiste così, almeno in apparenza, a un processo illogico. Mentre le basi del potere politico si restringono, in quanto sono i circoli ristretti della borghesia imperialista legati alla finanza e alla grande industria a dettare, di e nei fatti, le regole del gioco, la necessità di avere le masse dalla propria parte diventa un obiettivo strategico di primaria importanza. A tal fine, passo dopo passo, lo stato ha dovuto adeguarsi. Un passaggio che la borghesia imperialista ha attuato senza averne piena consapevolezza, non certo per mancanza di intelligenza ma per il limite oggettivo in cui la sua condizione di classe la obbliga [55] , e che la socialdemocrazia e il riformismo non hanno minimamente colto. Un passaggio denso di pericoli e contraddizioni per la borghesia imperialista poiché il peso oggettivo che le masse operaie e proletarie, in seguito alle trasformazioni che la guerra impone, sono in grado di esercitare, può in qualunque momento essere rivolto contro di lei. Certo, per la borghesia imperialista, il modo ideale di condurre la guerra sarebbe quello tutto interno agli scenari degli eserciti ottocenteschi ma è la materialità delle cose che rende impossibile la reiterazione di quel modello. Nella guerra che ha preso forma non solo determinante è il numero dei soldati che si possono mobilitare e il coinvolgimento dell'intera società, in particolare delle masse subalterne, alla mobilitazione generale ma è soprattutto il livello qualitativo, nel senso delle capacità tecniche che si possono vantare, del soldato e di chi produce, a diventare di vitale importanza. Paradigmatico, al proposito, è il ruolo decisivo che l'artiglieria ricoprirà dentro il conflitto. Nei combattimenti terrestri questo corpo soppianterà bellamente la fanteria, in quanto arma strategica, assumendo al contempo una dimensione di massa. Ma per usare cannoni e mortai occorre un soldato sufficientemente addentro alle questioni tecniche, occorrono operai capaci e non masse rurali incolte. Così come la sua costruzione sempre più sofisticata presuppone una forza – lavoro mediamente abilmente addestrata e sufficientemente alimentata da reggere i ritmi produttivi. Ma torniamo al fronte. Allo stesso tempo la stessa fanteria, per quanto ancora utilizzata come pura e semplice massa da sacrificare è obbligata a compiere un salto di qualità. Siamo ormai distanti, ed è la natura della guerra ad averlo imposto, dall'epoca in cui l'uso della mitragliatrice era prerogativa di reparti elitari. Quest'arma che solo pochi anni prima era considerata privilegio di pochi corpi scelti adesso è diventata la compagna abituale del fantaccino. Facendosi sempre più tecnica la guerra ha sempre più bisogno di operai. Questi, oltre a combattere, devono essere in grado di gestire tutto ciò a cui il logistico moderno obbliga. Riparazione dei mezzi, costruzioni di infrastrutture, ricambi dei pezzi usurati o danneggiati dal combattimento e così via fanno della guerra un continuum con la fabbrica. Gli operai, pertanto, non possono che essere sempre più protagonisti. Nelle retrovie, rinominate non a caso “fronte interno”, occorre fornire quel minimo di alimentazione e salute alla massa produttiva in modo da garantirsi i livelli produttivi indispensabili alla conduzione della guerra. La guerra della borghesia imperialista dipende sempre più dalla linea di condotta delle masse operaie. Queste masse, pertanto, devono essere, al contempo, sottomettesse e accudite. Sotto tale pressione lo stato è obbligato a modificarsi a farsi sociale ponendo sotto il suo controllo tutte le risorse e occupandosi di distribuirne anche una certa quota ai subalterni. Allo stesso tempo è obbligato ad addestrare al meglio le masse all'uso delle armi. Tutto ciò, ovviamente, non può che dare vita a un equilibrio estremamente precario che, nei mesi conclusivi della guerra, in più punti finirà con lo spezzarsi. Uno scenario che rimase ignoto ai più con una sola significativa eccezione: la frazione marxista del movimento operaio e proletario [56] . Ed è esattamente in tale frangente che la centralità del metodo si impose, non in maniera astratta e dottrinaria, ma in tutta la sua concretezza. Mentre, per anni, i marxisti rivoluzionari erano stati irrisi come dottrinari dai “realisti” e “pragmatici” socialdemocratici insieme ai loro compagni di merende liberali e additati come teorici astratti senza alcun senso pratico, adesso, di fronte alla svolta che la guerra imprime alla storia, sono loro i soli a capire a quale guado si sia approdati e a ricavarne tutte le indicazioni del caso. Di fronte alla storia, una dopo l'altra, tutte le ipotesi coltivate in anni dall'opportunismo e dal riformismo non trovarono più parole per spiegare il mondo. L'unica loro via d'uscita, che in effetti perseguiranno, rimase quella di allinearsi ai disegni militaristi della “propria” borghesia imperialista. Solo i materialisti storici e dialettici, Lenin, i bolscevichi e i piccoli raggruppamenti internazionali riuniti intorno a loro, si sono mostrati in grado di “leggere”, e in largo anticipo, sia le trasformazioni statuali sia le loro conseguenze [57] .
Questi non erano dei geni o degli intellettuali particolarmente brillanti e mai hanno avuto l'idea di esserlo. Non avevano titoli accademici da vantare e nessun salotto colto li considerava anche solo vagamente appetibili. Del resto questi erano assai poco propensi a presentarsi come “individualità”, anzi, loro prerogativa era considerarsi come il prodotto di un ente collettivo, il partito, vero e unico artefice dell'elaborazione teorica e politica [58] . Provenienti, per lo più, dalle file del proletariato e della classe operaia avevano trascorso gran parte della loro esistenza tra l'esilio, la clandestinità, il carcere e la deportazione. La piccola ma efficace struttura militare del partito provvedeva, attraverso gli espropri, a reperire i fondi al fine di mantenere in piedi tutta la parte politica dell’organizzazione, allo stesso modo, l'apparato illegale teneva in vita la stampa bolscevica attrezzando in continuazione tipografie clandestine e modeste cellule di “soldati rossi” organizzavano la difesa e l’offesa operaia attraverso la tattica partigiana. I loro mezzi, se posti a confronto con quelli della borghesia e della socialdemocrazia e utilizzando quel metro di paragone, erano incommensurabilmente inferiori eppure solo quella “piccola pattuglia”, alla prova dei fatti, dimostrò di comprendere ciò che stava bollendo in pentola. Sotto la guida di Lenin, dall'esilio, dalle fabbriche, dai quartieri proletari, tra i marinai e i soldati e in misura minore tra le masse rurali questo piccolo ma compatto esercito di rivoluzionari, per nulla afflitto da romanticismo e ribellismo, fu l'unico in grado di anticipare il divenire della storia e, forte di ciò, di piegarne il destino in favore delle masse operaie e proletarie [59] . A differenza di tutti gli altri attori politici in ballo la “piccola pattuglia” aveva però un vantaggio enorme e incolmabile poiché si era appropriata, sviluppandola ulteriormente, della scienza comunista.
Ma iniziamo citando Marx: “La guerra è sviluppata prima della pace: modo in cui certi rapporti economici come lavoro salariato, macchinismo ecc., sono stati sviluppati dalla guerra e negli eserciti, prima che nell'interno della società borghese. Anche il rapporto tra produttività e rapporti di traffico diviene particolarmente evidente nell'esercito.” [60] . In questo frammento è facile cogliere quanta importanza abbia per il marxismo il modo in cui la guerra viene condotta, ossia il modo attraverso il quale lo stato esercita appieno il suo ruolo politico. L'attenzione costante e continua che Engels e Marx hanno riservato al “militare” è riscontrabile in gran parte delle loro opere. Del resto quanto la guerra sia indissolubilmente legata alla politica e allo sviluppo delle forze produttive e, a partire da ciò, quanto la guerra finisca per “influenzare” l'insieme della formazione economica e sociale nella quale si dipana non è certo cosa che il marxismo ha ignorato. In molti casi, la guerra, diventa autentico volano sia per lo sviluppo delle forze produttive, sia per la trasformazione dell'involucro politico atto a condurre il conflitto. Così come la guerra sviluppa “certi rapporti economici” allo stesso tempo obbliga a sviluppare “certi rapporti politici”. La relazione tra il modo in cui la guerra è condotta e l'organizzazione politica atta alla sua conduzione è un rapporto dialettico, la cui comprensione, il più delle volte, sfugge anche agli attori direttamente coinvolti negli eventi. Dentro la guerra lo stato si modifica ed è obbligato a farlo indipendentemente dai limiti concettuali dei governanti che, in gran parte dei casi, realizzano solo post festum il portato del loro agire [61] . Come il materialismo storico e dialettico aveva abbondantemente argomentato è la base materiale di una società e del suo modo di produzione a definire la forma politica in cui il potere politico dello stato è obbligato a modellarsi. Le trasformazioni statuali novecentesche, pertanto, vanno lette e considerate dentro le strettoie in cui la guerra obbliga lo stato. Queste strettoie sono spiegabili con il materialismo storico e dialettico e non contro di questo.
L'appunto di Marx sopra riportato non poteva essere certo noto a Lenin in quanto i “brogliacci” furono editati [62] per la prima volta molti anni dopo la sua morte eppure, leggendo il testo leniniano sull'imperialismo, la cui complementarietà è data dal testo sullo stato è facile notare come l'assunto marxista vi sia fortemente presente. Che cos'è, infatti, l'analisi leniniana sulla fase imperialista se non una lettura delle trasformazioni radicali che la forma guerra ha apportato alla dimensione della politica? In apparenza il testo di Lenin sull'imperialismo [63] sembra essere una semplice esposizione popolare delle trasformazioni economiche intervenute dentro il modo di produzione capitalista: ruolo egemone del capitale finanziario, centralità dei monopoli, espansione del mercato mondiale, lotta per i mercati e le colonie, ecc. Un'elaborazione più da economista che da politico. In realtà a una lettura neppure troppo attenta il testo leniniano si mostra ben più politico che economico. Centrale nel ragionamento di Lenin sono le conseguenze che il modo in cui la guerra deve essere condotta nella fase imperialista comporta sul terreno della politica. Tra queste fondamentale è la mutazione che subisce la forma stato [64] . La guerra imperialista obbliga a una modificazione radicale della statualità borghese ed è questa trasformazione che sta al centro dell'analisi di Lenin. Quali sono le conseguenze “pratiche” che tale passaggio comporta? Essenzialmente tre: uno, lo stato assume un ruolo accentratore dell'intera formazione economica e sociale poiché la forma guerra obbliga a una mobilitazione totale dell'intera società; due, per condurre a buon fine la guerra occorre “catturare” e “piegare” le masse dentro la forma stato, lo stato è obbligato a farsi anche sociale senza che questo, però, ne intacchi le strutture del comando politico; tre, tutto ciò comporta un mutamento e una scissione dentro la classe dagli effetti devastanti ma anche dalle possibilità illimitate. Partiamo dal terzo punto. Ciò che comunemente è considerato il tradimento della Seconda internazionale [65] in realtà, e su questo l'analisi di Lenin è quanto mai materialista e non moralista [66] , è il frutto di una scissione interna alla classe dove alcuni suoi settori possono vantare quote non secondarie di privilegi e rappresentanza politica e, in virtù di ciò, sono portati oggettivamente a schierarsi con la “propria” borghesia. Nella sua analisi sulla fase imperialista Lenin, avendo a mente il metodo utilizzato da Engels e Marx a proposito del '48 francese e tedesco [67] , si preoccupa di individuare intorno a quali settori proletari è possibile costruire il partito dell'insurrezione. L'organizzazione di classe deve, in prima istanza, organizzare quelle masse proletarie la cui condizione materiale li obbliga a essere contro l'imperialismo. Queste, e solo queste, per Lenin sono i settori di classe in grado di svolgere una funzione direttiva ed egemone dentro la crisi che la guerra imperialista inevitabilmente produrrà. Su tale aspetto non sembra esservi molto da dire. Sono i punti uno e due quelli intorno ai quali è il caso di soffermarsi maggiormente. Due aspetti strettamente correlati tra loro.
Lo stato preimperialista, nella sua essenza, era stato definito da Marx come comitato d'affari della borghesia. A questo tipo di stato le sorti delle masse erano sostanzialmente indifferenti. Certo, alla fine dell'800 e ai primi del '900, le condizioni del proletariato non sono più quelle ampiamente descritte da Engels nel suo lavoro sulla classe operaia inglese [68] ma questo è esattamente il frutto di quanto, con non poca fatica, il proletariato è stato in grado di strappare, attraverso battaglie sanguinose, al comitato d'affari. Il non intervento dello stato nella società, perché quello del non intervento statuale nell'economia è una vera e propria leggenda del pensiero politico liberale [69] , rimane la linea di condotta di tutto un ciclo capitalista. Persino la Germania, il paese dove attraverso l'azione di governo di Bismarck sembra farsi largo un modello di governance ispirato dai principi del “socialismo della cattedra” [70] , la cura delle masse non sembra andare molto oltre a un insieme di provvedimenti sociali dal sapore caritatevole. La polemica di Max Weber, vero e proprio anticipatore della “coscienza di classe” della borghesia imperialista, contro tali provvedimenti che non avevano nel loro orizzonte le condizioni di vita dei sani e dei forti (ovvero della classe operaia) ne rappresenta la migliore esemplificazione. Del resto, e non è certo casuale, le “politiche sociali” di Bismarck sono accompagnate dalle leggi contro i socialisti. Le masse operaie e proletarie, per l'orizzonte borghese dell'epoca, rimangono comunque fuori dagli orizzonti dello stato. La mano libera della società liberale è una mano libera di sfruttare la forza – lavoro sulla base delle proprie esigenze senza che questo comporti, per la forza – lavoro, il riconoscimento di un qualche duraturo diritto. In questa fase l'affermazione di Marx: fra diritti eguali decide la forza [71] , è qualcosa che è possibile riscontrare nella vita quotidiana delle masse. Qualcosa che deve essere giocato in qualunque momento. Lo stato, in quanto comitato d'affari della borghesia, funziona solamente come macchina burocratica e militare finalizzata a garantire gli interessi della classe dominante. Con l'esplosione del primo conflitto interimperialistico tutto cambia. Perché? La risposta l'abbiamo sinteticamente data nelle pagine precedenti quando, pur in maniera estremamente sommaria, abbiamo tratteggiato la forma che la guerra ha assunto e le sue ricadute sull'organizzazione statuale.
Ricapitoliamo. La forza di un blocco imperialista sarà tanto maggiore se tutta la società sarà in grado di essere effettivamente mobilitata allo sforzo bellico. L'imperativo: Tutto per la guerra! risuona dentro ogni stato. Le fabbriche e le campagne si svuotano, le donne entrano prepotentemente dentro il ciclo produttivo, lo stato assume ogni giorno che passa un ruolo sempre più accentratore di tutte le risorse nazionali e diventa l'organizzatore dell'intera vita sociale. La guerra penetra all'interno di tutti gli interstizi sociali i quali, pertanto, devono essere posti sotto l'organizzazione e il controllo degli apparati statuali. La guerra misura, in primo luogo, la capacità produttiva dei blocchi belligeranti e tale capacità produttiva si riversa immediatamente al fronte. La scienza e la tecnica sono continuamente sollecitate non solo a trovare soluzioni ma a compiere veri e propri balzi in avanti. La guerra diventa sempre più un fatto “meccanico” e ciò comporta, tra l'altro, anche una non indifferente modifica nella qualità del soldato. La guerra inizia a cavallo ma termina con i mezzi corazzati, lo strapotere dell'artiglieria, il ruolo decisivo della marina e l'affiorare dell'elemento aereo come forza strategica. Una simile macchina bellica, per funzionare, non può fare affidamento su masse arretrate e sostanzialmente incolte come le masse rurali. Benché queste, nel corso del conflitto, mantengano ancora un certo peso, la forza del numero bruto, il loro peso tende a essere sempre più riequilibrato da masse che, alla forza del numero uniscono il potere qualitativo della tecnica.
In poche parole si può parlare di una vera e propria modifica della “composizione organica” della guerra. Ancora nel corso del conflitto franco – prussiano, nelle sue Note sulla guerra, Engels vi afferma il ruolo strategico fondamentale che la fanteria riveste [72] . Queste parole quarantacinque anni dopo suonano quasi come uno scherzo. Che cosa emerge nel corso della Prima guerra mondiale? Il ruolo centrale che rivestono i rifornimenti quindi la capacità produttiva di un blocco insieme alla possibilità di mantenere sgombere le vie di comunicazione che consentono a questi di giungere in loco. Si possono anche conquistare, con un colpo di mano, territori extra metropolitani ma, per mantenerli e rafforzarli, occorre disporre di vie sicure di rifornimento, altrimenti, in breve tempo, quegli avamposti si trasformeranno in enclavi accerchiate il cui ritorno al padrone precedente è solo questione di tempo. Il dominio dei mari diventa pertanto strategicamente decisivo. Ma sul mare torneremo. Qua ciò che preme mettere in evidenza è l'importanza che assume la Marina militare e, guardando ai combattimenti terrestri, il ruolo che le artiglierie e i reparti corazzati cominciano ad assumere. Marina, artiglieria e truppe corazzate soppiantano, sotto il profilo strategico, la fanteria. Ma da chi è composta questa forza militare che unisce sempre più gli aspetti quantitativi a quelli qualitativi e, in tendenza, a fare di questi ultimi il vero centro strategico? In prevalenza da operai. Se, per lo più, la fanteria rimane appannaggio dei contadini e delle masse rurali le armi strategicamente decisive vedono arruolate nelle loro schiere prevalentemente operai. Sono armi all'interno delle quali l'ilotismo rurale ha ben poca funzionalità e sensatezza. Non è certo un caso che i bolscevichi, all'interno delle forze armate, abbiano costruito i loro principali punti di forza tra i marinai e le truppe dove il livello tecnico e tecnologico era maggiormente avanzato, ovvero dove la dominanza operaia era preponderante. Dentro la crisi che il massacro bellico pone all'ordine del giorno e alla quale la socialità degli stati imperialisti difficilmente riesce a porre argine, mentre, per lo più, le truppe a maggioranza rurale spingono la loro insubordinazione non oltre il piantar a terra le baionette, i reparti dove a prevalere è la composizione operaia guardano apertamente verso l'insurrezione. Quando Lenin lancia la parola d'ordine in cui si sintetizza tutto il programma del bolscevismo e del materialismo storico e dialettico: Trasformare la guerra imperialista in guerra civile ha esattamente a mente il ruolo che il partito dell'insurrezione può svolgere tra i soldati e in particolare tra i marinai e le truppe dove egemone è la provenienza operaia. Non a caso, mentre dichiara senza indugi il programma bolscevico, Lenin irride gli eroi della frase rivoluzionaria che, di fronte alla guerra, lanciano l'infantile e avventuristico programma di: Guerra alla guerra. Lenin, la cui azione è perennemente dentro la classe operaia, guarda al formarsi degli eserciti, agli operai che smettono la tuta per indossare la divisa, coglie il ruolo strategico che la “qualità operaia” è chiamata a rivestire dentro la forma guerra che si è andata delineando. Osserva la contraddizione che la guerra imperialista è obbligata a sviluppare e lì, brandendo il metodo marxista come un’arma, concentra l'azione dei bolscevichi. Nell'agitazione che i bolscevichi svolgono tra le truppe vi è la parola d'ordine della pace e della terra per i contadini, dell'insurrezione e del potere proletario per gli operai. In tutto questo non vi è contraddizione ma, semmai, la migliore esemplificazione pratica dell’uso della dialettica materialista. Non è il programma bolscevico a essere contraddittorio, anzi esso dimostra la capacità di inserirsi dentro le contraddizioni che, a diversi livelli, la guerra fa esplodere. I gradi di coscienza delle masse, come ben hanno argomentato Engels e Marx a partire dai primi testi in cui forgiano l’arma del materialismo storico e dialettico, è sempre il “riflesso” di una condizione oggettiva e materiale. La differenza di coscienza tra l’operaio di fabbrica e il proletario agricolo o il piccolo contadino rimanda esattamente alla diversa postazione che occupano dentro il processo produttivo. Queste differenze non possono che rimandare a gradi di sensibilità e maturità politica diversa. Se la classe operaia e i soldati – operai sono l’asse strategico della rivoluzione, questi, per egemonizzare e dirigere le masse arretrate, devono saper leggere e cogliere dove, con esattezza, anche per queste si situa il punto di non ritorno. Il programma operaio avanzato trascina il programma arretrato contadino e rurale nella sintesi che il partito dell’insurrezione è in grado di elaborare [73] . Marciare divisi per colpire uniti è qualcosa che Lenin e i bolscevichi ancora prima che dai teorici del “pensiero strategico” avevano appreso da Engels e Marx. Ciò che Lenin e i bolscevichi colgono, grazie all'arma del metodo marxista che maneggiano con destrezza, è la contraddizione oggettiva che l'imperialismo produce. Per condurre la sua guerra deve armare e addestrare le masse ma non solo, per ottimizzare le risorse è obbligato a stilare un “piano”, a centralizzare la produzione e, entro certi termini, a socializzarla. Proprio l'analisi delle contraddizioni oggettive che la guerra sarà obbligata a far emergere consente a Lenin di stilare il programma rivoluzionario dei bolscevichi. L’imperialismo stesso, e proprio dentro questo passaggio vi è tutto il metodo del materialismo storico e dialettico [74] , ha posto le condizioni oggettive per il suo superamento storico. La fase imperialista è gravida di una nuova era. Lenin e i bolscevichi, attraverso una sua attenta lettura, si pongono nei panni dell’ostetrica della storia [75] .
Si è precedentemente accennato al ruolo che l'elemento marino viene ad assumere nel Primo conflitto mondiale. Questo sposta, e non poco, la forma costitutiva della guerra. Il salto di “composizione organica” che questo passaggio implica non sembra avere bisogno di molte spiegazioni. Per governare i mari la forza puramente quantitativa è del tutto inessenziale. Gli obiettivi che una moderna flotta navale è in grado di raggiungere non sono neppure comparabili con le più smisurate schiere di fantaccini schierate sul campo. Governo dei mari significa poter attuare un blocco navale pressoché totale e, con ciò, ridurre alla fame un insieme di stati e allo stesso tempo rendere inoperanti interi comparti industriali poiché le materie prime non sono più in grado di arrivare. Ma significa anche, da postazioni di sicurezza pressoché assoluta, cannoneggiare postazioni e città nemiche; appoggiare sbarchi di truppe, rifornire, evitando le insidie sempre presenti sul terreno, le truppe di tutto ciò che gli occorre per mantenere l'offensiva. Mille marinai, ben addestrati e preparati, a bordo di una flotta tecnicamente avanzata valgono, se non più, di centomila soldati appiedati e armati di fucile. In poche parole la forza bruta del numero comincia drasticamente a perdere d’importanza. Per la conduzione della guerra occorrono non semplicemente delle masse ma masse di un certo tipo. Può, la borghesia, dentro uno scenario simile continuare a mantenere la forma stato con le stesse caratteristiche del passato? Evidentemente no. Ciò è vero per le forze armate direttamente operative ma non di meno per la produzione che la guerra deve sostenere. La mobilitazione totale comporta anche un mutamento qualitativo di questa. A essere mobilitate dovranno essere masse, in qualche misura, “partecipi” dell'agire statuale e abbastanza sane, sufficientemente colte e motivate da lavorare per la guerra, direttamente in veste di soldati o attraverso la produzione, con un certo entusiasmo. Lo stato, per tanto, dovrà assolvere anche alla funzione di inclusione, se non politica almeno sociale, delle masse operaie. Certo l'equilibrio che si determina è sempre precario e contraddittorio poiché l'interesse che la borghesia imperialista nutre nei confronti delle masse subalterne non è troppo diverso dalla cura che il padrone di schiavi riversa alla propria fonte di ricchezza nel momento in cui ha estremamente bisogno di questa ma, proprio in virtù di questo bisogno oggettivo, nei confronti delle masse operaie e proletarie occorre agire al fine di averne anche il consenso. Ciò è tanto più vero osservando lo scenario che fuoriesce dal Primo conflitto mondiale.
Lo Stato di guerra
Alle contraddizioni proprie della fase imperialista che hanno innescato il 1914 si aggiunge sulla scena politica internazionale la presenza inquietante della Repubblica dei Soviet e la nascita e il consolidamento della Internazionale comunista [76] . Con l'Ottobre la contraddizione tra capitale e lavoro salariato assume una veste del tutto nuova perché proprio in tale frangente inizia a delinearsi “concretamente” lo scenario della guerra civile internazionale [77] . Adesso la classe operaia, il proletariato e i popoli colonizzati hanno dalla loro un'entità statuale alla quale fare riferimento e un'organizzazione internazionale a questa saldamente legata. Per l'imperialismo, quindi, la lotta contro lo spettro della rivoluzione si concretizza nel potere sovietico che diventa il nemico da battere senza per questo far decadere i conflitti interimperialistici che già nei primi anni Venti del Novecento, seppur sotterraneamente, tendono nuovamente ad acutizzarsi. La “questione delle masse” e la loro gestione diventa il principale problema degli stati imperialisti. Tra le due guerre [78] ciò è particolarmente evidente, basti pensare alla “costituzione del lavoro” attuata dalla Repubblica di Weimar con il dichiarato proposito di giungere, anche sul piano giuridico – formale, a un riconoscimento dell'importanza assunta per lo stato da parte del lavoro – salariato [79] . Questa linea di condotta uniforma, a grandi linee, i comportamenti dei governi borghesi usciti dal primo conflitto mondiale e, in maniera particolare, quelli dove lo spettro della rivoluzione si stava tramutando in carne e sangue. Si è accennato sopra alla Repubblica di Weimar come modello esemplificativo di questa esigenza strategica del potere imperialista ma, con ogni probabilità, è l'Italia il paese a poter essere preso come la miglior esemplificazione di questo sforzo “inclusivo” compiuto dallo stato.
Sotto tale profilo la linea di condotta adottata dal fascismo verso la classe operaia e il proletariato è quanto mai istruttiva e ciò è osservato e analizzato, in presa diretta, con non poca lucidità dal massimo dirigente del Partito comunista d'Italia Palmiro Togliatti [80] . Anche nell'esperienza fascista, a un primo sguardo, sembra di essere dentro a qualcosa di illogico e paradossale. La dittatura del capitale finanziario, della grande industria alleata con gli agrari al fine di seppellire le istanze insurrezionali e soviettiste delle masse operaie, contadine insieme ai malumori della piccola borghesia declassata uscita dalla guerra, a rigore di logica, dovrebbe far tutto tranne che cercare di catturare il consenso di queste. Nei loro confronti sarebbe più naturale pensare che l'unica politica perseguibile sia quella militare piuttosto che quella sociale. Le baionette e poco più. Politica che il fascismo, specialmente nel momento in cui conduceva la sua “rivoluzione” ed era alle prese con il consolidamento del proprio regime, non trascurò certo di adottare ma, come le analisi di Togliatti e dell'Internazionale comunista mettono in particolare evidenza, più ancora che la forza militare e squadrista il fascismo si adoperò per sviluppare una “politica sociale” in grado di egemonizzare e mobilitare ampi strati di masse proletarie. Il che è tutto tranne che illogico e contraddittorio poiché, sullo sfondo dell'azione politica del fascismo, vi è la costante preparazione alla guerra [81] . La borghesia imperialista italiana è tra le più assetate di conquiste. La guerra, fin dall'inizio, è nei suoi orizzonti. Del resto, come tutta la produzione analitica dell'Internazionale comunista a partire dagli anni Venti è lì a dimostrare, l'attenzione per la tendenza alla guerra costitutiva e costituente dell'intera fase imperialista non viene mai meno [82] . Le contraddizioni dell'imperialismo non si sono sopite con il Trattato di Versailles semmai il contrario, e a queste si è aggiunto il bisogno da parte del sistema imperialista internazionale di rimuovere con ogni mezzo necessario dalla scena storica e politica la Repubblica dei Soviet che rappresenta molto di più che una semplice spina nel fianco. I tentativi di destabilizzazione e restaurazione messi in atto tra il 1919 e il 1922 sono naufragati sia per la caparbia resistenza messa in atto dal potere sovietico sia per il rifiuto delle masse operaie internazionali di combattere contro ciò che, in molti, cominciano a individuare come la loro vera patria. Gli ammutinamenti dei soldati, il rifiuto dei marinai uniti alle numerose manifestazioni di solidarietà internazionale da parte degli operai, infiniti i casi di lavoratori portuali che entrano in sciopero rifiutandosi di caricare le navi da guerra in partenza contro la Repubblica dei Soviet, mostrano quanto urgente sia da parte delle classi dominanti attuare una serie di politiche sociali in grado di catturare il consenso degli operai o, per lo meno, non renderli apertamente ostili. Attraverso le politiche sociali il fascismo coniuga due progetti strategici: disinnescare la minaccia rivoluzionaria che classe operaia e proletariato hanno fatto aleggiare in maniera più che concreta e realista; plasmare una massa bellica e produttiva atta a sostenere le sue mire imperialiste e le guerre che queste comportano.
Val la pena, prima di proseguire, far notare come nel panorama politico internazionale, già negli anni successivi alla fine del Primo conflitto mondiale, solo l'Internazionale comunista sia in grado di mettere a fuoco lo scenario che si va prefigurando. Ora, se per cogliere la volontà dell'imperialismo di aggredire la Repubblica dei Soviet non occorreva una particolare lungimiranza o un metodo di analisi particolarmente affinato poiché bastava osservare la banale realtà empirica fatta di continui attacchi, diretti e/o indiretti, al potere sovietico; meno scontata,invece, è fin dal 1924 l'individuazione della tendenza alla guerra come programma obiettivo delle potenze imperialiste. Siamo in anni in cui, in seguito alle ferite ancora aperte dalla Guerra, tutti i governi vestono i panni della pace e dell'armonia. La Società delle Nazioni da un lato, i continui convegni finalizzati al disarmo o alla riduzione degli armamenti al pari del gigantesco lavoro diplomatico attivato per mediare e risolvere per via politica le tensioni interstatuali sembrerebbero raccontare un'altra storia [83] . Solo l'Internazionale comunista coglie la reale tendenza in atto. Anche in questo caso l'anticipazione non è frutto di alcuna individualità particolarmente geniale ma l'esito puntuale dell'applicazione del metodo alla realtà storica con la quale occorre misurarsi. Solo questo consente a quello “intellettuale collettivo” che è l'Internazionale comunista di cogliere nel segno. A questa tendenza non sfugge l'Italia fascista che, al contrario, risulta esserne una delle migliori interpreti. A tale obiettivo, la conduzione della guerra imperialista, essa indirizza e piega la sua politica nei confronti delle masse.
Con ogni probabilità, ai più, è noto il motto fascista: Libro e moschetto, fascista perfetto. Un motto che ha ben poco di propagandistico ma fotografa al meglio il bisogno che il fascismo, pur essendo principalmente il governo del capitale finanziario e della grande industria, ha di disciplinare, plasmare e catturare il consenso delle masse. Il problema è la guerra e la sua conduzione. Come il Primo conflitto ha abbondantemente evidenziato per condurla a buon termine occorre poter disporre di una massa di soldati e dunque di proletari - perché sono essi non certo i borghesi destinati a indossare la divisa - sufficientemente sani, tecnicamente istruiti, ben addestrati. Ma, perché questa massa si lasci plasmare in questo modo e non usi a suo vantaggio gli strumenti che la borghesia è costretta a fornirgli occorre offrire a questa massa anche una certa dose di garanzie. Per questi motivi il fascismo è obbligato ad attuare una politica sociale attraverso i suoi organismi di massa e, del resto, non potrebbe fare altrimenti. Di questo passaggio lo stato è il perno e il centro di tutto. Lo stato entra prepotentemente nella vita sociale, arrivando ad occuparsi anche del tempo libero, dello sport e degli svaghi delle masse al fine di statalizzarle, ma questo, al contempo, non può che rendere sempre più sociale la forma statuale. Il nome, Repubblica Sociale Italiana, che il fascismo assumerà nella fase del suo crepuscolo ne rappresenta con ogni probabilità la migliore esemplificazione. Tutto ciò marcia di pari passo con quella centralizzazione e statalizzazione dell’economia che, per certi versi, non si distingue molto dal New Deal roosveltiano il quale, non a caso, concentrò l’intervento statuale nell’economia con massicci interventi finalizzati a sviluppare la Marina militare e in particolare, mostrando una lungimiranza strategica di ottima fattura, unendo l’elemento marino a quello aereo dando priorità alla costruzione delle portaerei. Gestione della vita sociale delle masse, statalizzazione o, in ogni caso, intervento statale nei comparti strategici della produzione non sono altro che il frutto oggettivo di quella tendenza alla guerra che rappresenta il cuore strategico della fase imperialista. Quando, in prossimità dell’imminente conflitto, Mussolini pone la fatidica domanda retorica e plebiscitaria al contempo: Volete il burro o i cannoni? Che cosa annuncia se non a quale tipo di produzione lo stato darà priorità e, in necessaria complementarietà, a quale tipo di organizzazione sociale tale produzione dovrà necessariamente rimandare? Tutto ciò non è e non può essere il semplice frutto di un’improvvisazione. Quando il fascismo arriva a porre la domanda fatale ha, alle spalle, un’organizzazione statuale che, in anni e anni, ha provveduto a costituire una propria ramificazione sociale, statalizzando le masse e “socializzando” al contempo lo stato. Le non poche affinità che, in diverse circostanze, il fascismo mostrerà di avere con la socialdemocrazia testimoniano come, indipendentemente dalla particolarità politiche che possono assumere, alcune tendenze oggettive della fase imperialista accomunano l’intero spettro delle forze borghesi.
Le accuse di furto che la borghesia riformista e la socialdemocrazia rivolgeranno al fascismo proprio a proposito delle sue politiche sociali, alle quali in alcuni momenti si aggiungono anche i “furti” sul piano della politica internazionale, ne sono una più che esaustiva esemplificazione. Sia la socialdemocrazia e i suoi alleati democratico borghesi sia i partiti nazionalisti e reazionari nel momento in cui diventano governo della fase imperialista non possono che muoversi dentro le strettoie che tale fase impone. Per entrambe, di fatto, le masse operaie e proletarie hanno valore solo e unicamente in quanto capitale variabile mentre a dover essere continuamente esorcizzato è l’altro volto del proletariato in quanto classe storico – politica in grado di lottare per la conquista del potere. Lo stato della borghesia imperialista non può che essere stato in funzione della guerra e chiunque lo governi deve necessariamente modellare lo stato a tale esigenza e, a tal fine, disporre di un capitale variabile prono alle sue esigenze. Ciò, come la documentazione della sua storia è lì a testimoniare, è continuamente nel mirino dell'Internazionale comunista la quale, sbavature a parte, coglie per lo più l'essenza che caratterizza l'involucro politico dell'imperialismo. L'analisi delle modifiche della forma stato, costantemente al centro della sua attenzione, le consentono di individuare con non poca esattezza il tipo di partita che si sta giocando e il tipo di schieramenti messi in campo. Solo le forze comuniste non si dimostreranno stupite di fronte alla “politica sociale” del fascismo perché quelle politiche sono tutte interne alle esigenze oggettive e materiali che la tendenza alla guerra impone. Grazie all'arma del materialismo storico e dialettico la “socializzazione dello stato” è un tema che non crea stupore tra i militanti comunisti.
Tornando al fascismo questi, più che rubare i piani alla socialdemocrazia e ai riformisti, si adegua alle strettoie che l’organizzazione della guerra impone. Di tutto ciò, il metodo marxista, attraverso le analisi di Togliatti e dell’Internazionale comunista, ne offre una puntuale e disincantata analisi nelle lezioni tenute a Mosca nel 1935 ai quadri del Partito. Queste lezioni sono di non poco interesse per l'argomento qua trattato perché forniscono un'esemplificazione chiara e concreta dell'applicazione del metodo marxista nei confronti della forma – stato in una situazione storica e politica determinata. Togliatti, e non va dimenticato che le sue elaborazioni sono il frutto di quel grande “intellettuale collettivo” forgiato dal materialismo storico e dialettico che è l'Internazionale comunista, individua nelle organizzazioni di massa la contraddizione propria del fascismo e per questo, il Partito, deve agire al loro interno. Ma lo deve fare avendo sempre a mente, e da qui l'importanza di saper maneggiare l'arma della dialettica, non in maniera libresca, dottrinaria, intellettualizzata ma come strumento della classe dentro la guerra di classe, le contraddizioni oggettive che dentro quelle realtà vi sono, rendendole sempre più esplicite, così da farle scoppiare al fine di trasformare anche le organizzazioni di massa del fascismo in luoghi dove il Partito estende la sua area di influenza sulla classe. Nonostante dopo il 1945, ad opera soprattutto della borghesia imperialista che cercava di rifarsi una verginità politica e morale dissociandosi dal regime, si sia data dell'epoca fascista una visione tra il comico, il grottesco e il cialtrone il fascismo non è stato nulla di tutto ciò. Semmai, il fascismo, è stato dal punto di vista dell'elaborazione concettuale un movimento sostanzialmente eclettico in grado di attingere idee, progetti e programmi da tutti i movimenti borghesi e in particolar modo dalla socialdemocrazia. Tutto ciò cosa testimonia? Certamente la poca originalità del fascismo e il suo continuo scopiazzare da quanto si trova intorno ma, per altro verso, le non poche affinità che legano fascismo e socialdemocrazia. Non bisogna infatti dimenticare che queste forze, nei confronti della guerra imperialista hanno dimostrato di avere idee non troppo distanti così come, nel momento in cui la guerra imperialista si andava trasformando in guerra civile rivoluzionaria, fascismo e socialdemocrazia hanno bellamente cooperato per stroncare le insorgenze operaie e proletarie [84] . La conduzione della guerra e la partecipazione attiva delle masse a questa, per entrambe, è il cuore della questione.
Proprio in virtù della sua logica imperialista particolarmente aggressiva il fascismo ha a mente il ruolo strategico che le masse proletarie ricoprono e in questo non si differenzia di molto dai partiti borghesi di sinistra, socialdemocrazia in testa. Tutta l'attività del Partito comunista d'Italia, nel corso del Ventennio è un'incessante partita a scacchi con il fascismo, che cattura le masse in quanto capitale variabile, per la loro conquista e trasformazione in classe storico – politica; da parte sua, il fascismo, conduce la più ferrea e spietata repressione contro i militanti comunisti proprio perché, in quanto governo delle classi borghesi più avanzate (capitale finanziario e grande industria), ha pienamente coscienza che il Partito comunista è l'unico vero avversario; l'unico che per la sua funzione storica può diventare il punto di riferimento reale degli operai, dei proletari e delle masse subalterne e abbattere insieme al regime chi l'ha figliato: la borghesia imperialista. Nella guerra che il fascismo, non diversamente dagli altri regimi capitalistici, sta preparando deve fare in modo che la macchina bellica funzioni bene e a pieno regime. La fabbrica deve produrre e l'esercito combattere tutto ciò è possibile solo avendo il consenso del suo capitale variabile. Un ragionamento forse non troppo originale ma non stupido. Quando cade, infatti, il fascismo? Quando perde il controllo della fabbrica e l'esercito si scompagina. A ben vedere non è l'8 settembre, non sono il re e Badoglio a decretare la fine del regime bensì le lotte operaie del 1943 e il ritorno in patria dell'Armata del Don. Gli operai in tuta incrociano le braccia e iniziano, in massa, a guardare verso la forma partigiana che la lotta ha assunto mentre, i proletari in divisa, o piantano le baionette a terra o iniziano a raccogliere le armi per usarle contro il fascismo. Perdendo il controllo sulle masse il fascismo non è più in grado di continuare una guerra il cui paradigma, come si è più volte ricordato, è quello della guerra industriale. Un paradigma che, nel corso della Seconda guerra mondiale, crebbe in maniera esponenziale rispetto a quanto visto nel conflitto precedente.
Per quanto aride le cifre, anche in questo caso, sono in grado di fotografare al meglio l'impatto distruttivo avuto dal conflitto. Gli Alleati contarono 12 milioni di soldati morti dei quali 8,5 di parte sovietica. Le perdite dell'Asse si attestarono su circa 5,5 milioni di militari uccisi. Il numero, per entrambi gli schieramenti, dei militari feriti si aggirò intorno ai 35 milioni mentre, anche in questo caso, non esistono dati sulla quantità di civili vittime, “indirette”, della guerra. Ma il vero dato impressionante riguarda il numero di questi che nel conflitto persero la vita. Complessivamente furono circa 39 milioni di cui 6 milioni di ebrei e 17 milioni di cittadini sovietici sterminati dalla logica della “guerra razziale” attivata dagli stati occidentali dell'Asse e 10 milioni di cinesi massacrati dal fascismo giapponese. In totale oltre 56 milioni di morti, all'incirca tre volte e mezza il numero dei caduti nel corso del Primo conflitto. Una guerra di massa che poteva e doveva essere supportata da un'industria di massa.
Anche in questo caso riportare qualche dato è utile. La produzione bellica toccò punte impensabili diventando, tra l'altro, un vero e proprio toccasana per l'economia statunitense che, tra il 1940 e il 1945 constatò una crescita del 50%. Questa, solo per citare un paio di esempi, fu in grado di produrre 58 mila carri armati M-4 Sherman, estremamente affidabili e di facile manutenzione, che svolsero un ruolo decisivo in non poche battaglie così come, sempre all'industria statunitense, si deve la produzione delle navi da trasporto Liberty, indispensabili per il trasporto dei rifornimenti alle truppe e ai paesi alleati, che iniziarono ben presto a uscire al ritmo di due al giorno dai suoi cantieri. Ma il vero trionfo del paradigma industriale della guerra è rappresentato dal D – Day [85] quando, di fronte alle coste della Normandia, si presentò la più incredibile armata che la storia ricordi. Il solo numero di navi non combattenti ma adibite al trasporto truppe e materiali, 4126, che presero parte all'operazione è sufficiente per evidenziare la “massa produttiva” che l'industria, in gran parte statunitense, fu in grado di sfornare. A queste si devono aggiungere le 1213 navi da guerra che fornivano la copertura al trasporto e, attraverso il cannoneggiamento, avevano il compito di proteggere gli sbarchi. L'apporto aereo, del resto, non è stato da meno. 11.590 sono i veicoli operativi di cui il maresciallo dell'Aria sir Trafford L. Leigh – Mallory può disporre. Mai come in questo caso è evidente come, in fondo, gli uomini della 101° o della 82° aviotrasportate immortalate dalla cinematografia siano, fuor di metafora, i punti terminali di un'unica catena di montaggio. Tutto ciò, infatti, è in gran parte il frutto della grande macchina industriale statunitense e della sua classe operaia la quale, proprio in virtù dello stato di belligeranza e della particolarità che la guerra aveva assunto con l’attacco nazifascista alla Repubblica dei Soviet [86] , decise di porre tra parentesi per l’intero periodo bellico l’obiettivo conflitto tra capitale e lavoro – salariato [87] . Pertanto, ciò che si presenta agli occhi delle truppe d’occupazione naziste in Francia è esattamente il frutto del massimo dispiegamento del potere produttivo dell’industria e della massima capacità operaia di portare sino ai limiti estremi le potenzialità industriali.
Non da meno risultò lo sforzo industriale dell'Unione Sovietica [88] . Immediatamente a ridosso dell'invasione nazista il Partito comunista sovietico organizzò lo smantellamento e il trasferimento dell'intera base industriale del paese oltre gli Urali che, immediatamente dopo, iniziò a funzionare a pieno regime. Anche in questo caso qualche cifra può far comprendere al meglio il tipo di sforzo produttivo che la guerra richiedeva. Quarantadue fabbriche, tra il 1942 e il 1945, produssero 40 mila carri armati T – 34 e 18 mila mezzi blindati pesanti. Una forza impressionante che, secondo analisti disinteressati, risultarono tra gli elementi di svolta del conflitto. L'epica battaglia di carri combattuta a Kursk [89] è infatti considerato l'episodio che fece cambiare il volto alla guerra. Le truppe nazifasciste fallirono l'ultimo attacco a est, uscirono distrutte dalla battaglia e, da quel momento in poi, si trovarono costantemente strategicamente sulla difensiva. Ai blindati va aggiunto un numero pressoché analogo di aerei da combattimento. Infine, con un ritmo di produzione che ancora oggi è comunemente considerato un record, costruirono 40 mila bombardieri d'assalto Iljušin Il – 2 Šturmovik i quali, protetti dai caccia, furono impiegati in grandi formazioni a supporto dell'Armata Rossa che combatteva sul campo. Non è difficile capire, anche solo attraverso questi pochi dati, il ruolo preponderante che, alla fine, risultò avere il “fronte interno” o, meglio ancora, il “fronte industriale”.
A un primo sguardo, sembrerebbe di essere di fronte a un semplice, per quanto esponenziale, innalzamento del medesimo paradigma visto concretizzarsi nel corso del Primo conflitto mondiale ma, in realtà, la Seconda Guerra mondiale fu qualcosa di molto di più. Cominciamo con l’ osservare che cosa accade nel modo della conduzione della guerra. Sotto il profilo della “composizione organica” la Seconda guerra mondiale comporta lo spostamento strategico sull'elemento aereo. Un passaggio denso di ricadute. Proprio tale spostamento è in grado di fornirci il ruolo preponderante che l'industria, la tecnica e la scienza hanno rivestito nel corso della guerra e della sua conduzione. L'Aviazione solo sul finire del Primo conflitto mondiale si era guadagnata i gradi di forza militare autonoma e come tale organizzata anche se il suo peso sugli eventi della guerra rimanevano ancora fortemente contenuti ma adesso, gran parte delle sorti della guerra, dipendono da lei poiché è questa che, da una postazione obiettivamente privilegiata, è in grado di influenzare non poco quanto accade in terra e in mare. Controllare i cieli, nella peggiore delle ipotesi, significa inchiodare l'avversario su un risultato di parità. Ciò è stato quanto mai evidente nella battaglia d'Inghilterra [90] . La supremazia degli Spitfire, dovuta in gran parte alla loro agilità, sui caccia tedeschi unita alla forza degli Hurricane interamente dirottata sui bombardieri tedeschi obbligarono i nazisti a rinviare sine die l'invasione dell'Inghilterra. I caccia britannici non solo salvarono Londra e la Gran Bretagna ma permisero alla medesima di continuare a essere un pericolo costante per le mire imperialiste dell'Asse. Grazie alla superiorità dei suoi caccia le fu infatti possibile scortare numerose formazioni di bombardieri strategici e colpire in continuazione i nodi nevralgici della produzione tedesca, oltre che seminare il panico tra gli abitanti delle principali città germaniche. Ancora in ritirata e spesso in rotta sul terreno la Gran Bretagna fu in grado di mantenere una costante offensiva tattica grazie alla sua Aviazione. In Unione Sovietica, per altro verso, le sorti della guerra cominciarono a modificarsi quando i rapporti di forza tra l'aviazione tedesca e quella sovietica iniziarono a pendere dalla parte di quest'ultima. La stessa battaglia di Stalingrado deve non poco all'Aviazione poiché, la sua superiorità, impedì alle truppe tedesche assedianti di ricevere sempre meno rifornimenti e non essere supportata nelle fasi d'attacco. A rendere possibile l'accerchiamento delle truppe di Paulus è in primo luogo il dominio dell'aria che l'Aviazione sovietica è stata in grado di conquistarsi. Nel corso del D – Day i convogli diretti in Normandia non furono oggetto di alcun attacco aereo poiché le forze aeree tedesche erano ridotte all’osso e, per di più, pesantemente a corto di carburante. Uno dei non secondari frutti che l’incessante martellamento dei bombardieri verso i depositi di carburante e gli impianti industriali attivati per la produzione di benzina sintetica avevano sortito. Tutti questi fatti, però, diventano pressoché inezie se messe a confronto con l’evento che pone fine alla Seconda Guerra mondiale: l’esplosione della prima bomba atomica. Anche in questo caso qualche scarno dato è in grado di rendere al meglio il senso delle nostre affermazioni. Quando alle 8.16 del 6 agosto 1945 la superfortezza volante B – 29 Enola Gay sganciò “Little Boy” su Hiroshima il suo effetto devastante risultò persino superiore a quello che, fino ad allora, era stato considerato il più grande bombardamento aereo mai condotto su una città. Stiamo parlando dell'operazione “Gomorra” lanciata sulla città di Amburgo alla fine del luglio 1943 e condotta congiuntamente dal comando bombardieri della Royal Air Force e dalla VIII flotta aerea statunitense [91] . Per dieci giorni i bombardieri alleati sganciarono su Amburgo 9 mila tonnellate di bombe esplosive e incendiarie compiendo 3.095 incursioni. Una missione che comportò la perdita 86 aerei e il danneggiamento di altri 174, tutto ciò, “Little Boy” lo superò con un solo lancio. Esattamente in quell’istante il paradigma della guerra industriale toccò sicuramente l'apice e allo stesso tempo l'aspetto qualitativo sembrò prendere definitivamente il sopravvento.
Osservata unicamente sotto il profilo delle “forze produttive”, quindi, la Seconda guerra mondiale ha raggiunto l'apice della guerra industriale e di massa, tanto che potrebbe considerarsi esaurita con lei anche quella forma stato che l'aveva sostanziata e organizzata. La bomba atomica e il ruolo strategico dell’aria sembrerebbero infatti rendere inutili gli eserciti di massa e soprattutto la loro dimensione terrestre. Per altro verso, a qualcosa di simile, era giunta anche l’industria nazista. Per quanto ancora in forma rozza e arretrata le V1 e le V2 [92] sono armi in cui l’elemento qualitativo soppianta del tutto quello quantitativo. Anche in Germania, quindi, nel 1945 il paradigma industriale giunge al suo apice. Gli strumenti di cui ora la macchina bellica dispone sembrerebbero rendere inutile il mantenimento di corposi eserciti di massa e relativa produzione industriale a questi connessa. Ma la Seconda guerra mondiale non è solo “battaglia di materiali” e conflitto interimperialistico e quindi una semplice reiterazione, ancorché amplificata, del Primo conflitto poiché, la presenza dell'URSS, ha modificato non poco la scena facendo del conflitto soprattutto un terreno di scontro politico e ideologico. A est la vittoria militare dell’Armata Rossa è stata supportata dall’azione partigiana organizzata in prevalenza dalle formazioni comuniste e nella stessa Europa occidentale, in particolare in Italia e in Francia, il contributo fornito dalla Resistenza, anche questa organizzata in gran parte dalle forze comuniste, non è stato inessenziale. Una Resistenza che, se in forma esplicitamente armata si manifesta a partire dal 1943, ha alle spalle gli anni della Resistenza politica e sindacale condotta in piena clandestinità. Se la Seconda Guerra mondiale è anche guerra di popolo questo è dovuto alla presenza delle forze comuniste che, anche in pieno terrore nazifascista, hanno continuato con caparbietà a mantenere vivo, in forma organizzata, uno spirito di lotta e opposizione. Le masse che a questa lotta hanno partecipato non avevano in mente il semplice ripristino degli scenari politici, economici e sociali prebellici, gli stessi in cui aveva preso piede il conflitto, ma il sogno di edificare sulle macerie della guerra una società socialista. In tale ottica, per le masse proletarie, le truppe anglo – americane erano, fuor di metafora, gli Alleati ma il loro amico effettivo era l’esercito rosso. Dentro la guerra, pertanto, esiste una contraddizione permanente: le democrazie imperialiste occidentali che pianificano a loro immagine e somiglianza il futuro postbellico e le masse che ne ipotizzano uno completamente rovesciato. Non è un caso che le masse proletarie abbiano assunto la battaglia di Stalingrado [93] a loro paradigma. In quell’episodio è concentrata l’essenza politica della guerra che da parte loro veniva combattuta. Stalingrado, nel corso del conflitto, risultò un punto di svolta non solo e unicamente per la sua indubbia valenza militare ma, ancor più, per la plusvalenza politica che fu in grado di esercitare. Quella che, sino al momento, si era presentata come la più possente, efficace ed efficiente armata bellica mai comparsa sul proscenio storico, l’esercito nazista, perse la sua forza propulsiva di fronte a una forma guerra nelle quale l’elemento partigiano e popolare, a lungo, risultarono decisivi. Nella battaglia di Stalingrado si unificano, per intero, la volontà popolare di combattere e resistere, la capacità strategica di un “Quartier generale” in grado di pianificare l’offensiva, la superiorità industriale che, a partire dal dominio dei cieli, riversa sul nazifascismo tutta la sua capacità produttiva. L’elemento che unisce la triade popolo, esercito, industria è il partito politico. È questo che, in fondo, si mostra in grado non solo, come nelle intenzioni dei Governi imperialisti, di tenere unita la triade ma di organizzarla in una sintesi superiore. Stalingrado è una vittoria soprattutto politica e ciò non sfugge a nessuno degli attori in campo. Significativamente tanto i nazisti quanto le democrazie occidentali consideravano la caduta di Stalingrado solo una questione di giorni. Nessun bookmaker, con ogni probabilità, avrebbe accettato una puntata sulla vittoria tedesca. Nell’immaginario collettivo dei subalterni, nel 1945, è il senso politico ed ideologico di quella battaglia che deve informare per intero la ricostruzione .Per le masse proletarie è quella insuperata sintesi prodottasi a Stalingrado a dover gestire il presente.
Ciò che è vero per l’Europa viene amplificato all’ennesima potenza osservando la situazione dei Paesi sotto dominazione coloniale. Il contributo offerto dalle truppe di colore, basti pensare alla battaglia di Cassino [94] , nella liberazione europea non è stato inessenziale così come, in estremo Oriente, gli indigeni hanno svolto un ruolo particolarmente attivo contro l’imperialismo giapponese. Le democrazie occidentali, che di queste forze avevano estremo bisogno, avevano nuovamente fatto albeggiare i temi cari alla borghesia nel corso della sua fase ascendente e rivoluzionaria. Per un certo periodo la borghesia aveva ripreso tra le mani l’ordine del discorso dell’89 francese ma, alla prova dei fatti, tali enunciazioni si mostrarono unicamente propagandistiche. I Governi imperialisti avevano in qualche modo ripreso tra le mani le parole che erano state di Robespierre e Danton e i Diritti dell’Uomo declinati in senso universalistico erano stati nuovamente oggetto della loro propaganda. Il tratto prettamente antifascista assunto dalla guerra dopo il 1941, del resto, lo rendeva anche, in qualche modo, obbligatorio. La presenza e il peso politico - militare dell’URSS dentro l’alleanza, inoltre, consigliavano di non lasciare a questa il solo monopolio della lotta per l’autodeterminazione dei popoli e degli stati. In tale senso la Grande Rivoluzione, che la stessa borghesia imperialista aveva da tempo seppellita e criticata, viene riesumata ma, per la natura stessa dell’imperialismo, in scena non riappare, e del resto neppure lo potrebbe, alcun codino rivoluzionario ma solo la sua parrucca mummificata [95] . Infatti, le potenze coloniali e imperiali, finita la guerra, non mostrarono alcuna intenzione di mollare la presa nei confronti dei popoli colonizzati. Anche nelle colonie, per lo più, la Resistenza al nazifascismo o all’imperialismo nipponico era stata appannaggio dei comunisti o di movimenti da questi fortemente egemonizzati. Nella guerra e nella sua conduzione l’aspetto politico – ideologico ha finito con l’assumere un ruolo centrale. La cessazione delle ostilità non ne placa gli echi, semmai li amplifica. L’alleanza tra le democrazie imperialiste occidentali e il potere sovietico ha avuto un carattere puramente militare, perciò con la fine della guerra il conflitto politico non può che riproporsi in tutta la sua intensità. In altre parole, la Seconda Guerra mondiale, non mette in soffitta la “questione delle masse” semmai la rende più acuta. È all’interno di tale scenario che, allora, diventa facilmente spiegabile l’epopea d’oro conosciuta dal Welfare State tra il 1945 e il 1989.
Il varo formale del Welfare State può essere considerato il National Insurance Act del 1946 ad opera del governo laburista britannico. La base scientifica di tale progetto è il noto “rapporto Beveridge” intitolato Social Insurances and Allied Services. Un monumentale lavoro portato a termine dallo stesso Beveridge nel 1942 quando presiedeva la Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e i servizi affini istituita dal governo di unità nazionale di Churchill. Un programma che si proponeva di intervenire massicciamente nelle “questioni sociali” al fine di garantire una vasta rete di protezioni sociali alla gran massa operaia e proletaria inglese. Il provvedimento è una diretta filiazione dello scenario che lo scoppio della Seconda guerra mondiale ha prodotto. Venutasi a trovare sola a fronteggiare la potenza nazifascista, la Gran Bretagna è obbligata ad elaborare un progetto di “inclusione sociale” superiore a quello messo in atto dai regimi fascisti. Ciò che le occorre non è solo e semplicemente una “mobilitazione totale” ma, quanto più possibile, una “mobilitazione partecipata”. Per questo, il Paese dove storicamente le differenze di classe erano rimaste più marcate e il riconoscimento dei “diritti sociali” dei lavoratori un tema poco caro alle classi dominanti, compie repentinamente un balzo in avanti ponendosi all’avanguardia. Sullo sfondo di tutto ciò vi è il dramma ma anche lo spirito di Dunkerque [96] . Con la disfatta dell’esercito francese, al quale le poche truppe britanniche mandate in soccorso sono solo in grado di offrire un caotico imbarco verso l’Inghilterra, la continuazione della guerra si fa ogni giorno che passa sempre più problematica. All’orizzonte, insieme alla disfatta subita sul Continente e le sue ricadute che si possono facilmente intuire sulle aree coloniali mediterranee e mediorientali, vi è la concreta possibilità che l’isola stessa finisca con l’essere invasa. Per quanto la Marina militare rappresenti un punto di forza della Gran Bretagna questa è impegnata a mantenere il controllo dei possedimenti coloniali che il Giappone le sta contendendo e non può essere bellamente spostata a protezione dell’isola. L’esercito terrestre è poca cosa mentre, la pur efficace ed efficiente aviazione, sul piano quantitativo è ancora lontano da essere competitiva. Per di più la macchina industriale è ben lontana dal girare a pieno regime. L’unica salvezza è nella mobilitazione delle masse. Tutti, con ogni probabilità, ricorderanno le parole con le quali Churchill chiude il suo discorso di risposta al nazismo in procinto di aggredire l’Inghilterra: Noi non ci arrenderemo mai. Non sono parole dette a caso perché quando il gioco si fa duro, non solo i duri cominciano a giocare ma l’astuzia della ragione sembra operare in modo tale che, sul proscenio storico, solo chi è in grado di incarnare lo “spirito del tempo” rimanga in piedi. Personaggi simili non parlano mai per dare aria ai denti. La promessa e la minaccia di Churchill poggiano su basi quanto mai realistiche. Adesso, tutta l’isola, è pronta a difendere ogni metro di terreno e, all’occorrenza, a ritirarsi sino sopra le montagne e da lì continuare a combattere ricorrendo alla tattica della guerriglia. Le masse, correndo ad arruolarsi o, se non idonee, a infoltire i ranghi della milizia territoriale hanno gettato tutto il loro peso dentro la guerra. Così come corrono ad armarsi si affrettano a dare un impulso belligerante alla produzione. Solo ora il Governo di unità nazionale presieduto da Churchill è tale a tutti gli effetti. Tutto ciò non è solo il risultato della messa in mora dei circoli borghesi non troppo distanti dal nazismo e del loro Governo che, sotto la guida di Chamberlain e del suo ministro degli esteri avevano, per dirla con le parole dello stesso Churchill, consegnato l’Inghilterra al disonore in seguito ai “fatti di Monaco” o il semplice effetto di uno spirito patriottico o del “tradizionale” nazionalismo britannico ma la conseguenza di quel “nuovo corso” sociale che il governo Churchill ha inaugurato e di cui il “rapporto Beveridge” ne rappresenterà la più felice concretizzazione.
La disfatta francese, sotto tale aspetto, è particolarmente educativa per il governo britannico. La facilità con cui il nazismo si impadronisce dell’Europa e soprattutto della Francia che ne doveva rappresentare il bastione inespugnabile [97] non è solo o semplicemente il frutto dell’indubbia forza bellica nazifascista e della manifesta incapacità del governo e dei generali francesi a farle fronte ma, in tutto ciò, un aspetto non secondario è dovuto alla scarsa volontà delle masse di battersi. Non bisogna dimenticare che, nel 1940, il carattere della guerra mostra ancora per intero il volto del conflitto tra forze imperialiste e non sembra distinguersi di molto da una reiterazione di quanto accaduto poco più di venti anni prima. La politica “disfattista” perseguita nel frangente dall’Internazionale comunista è quanto mai eloquente e la sua presa sulle masse, in qualche modo, si fa sentire [98] . Con l’attacco all’URSS tutto ciò cambierà ma, al momento, i contorni del conflitto sono tali per cui non esiste alcun motivo per il quale le masse dovrebbero aderirvi. Su questo passaggio occorre minimamente soffermarsi poiché, proprio sotto il profilo della questione del metodo, rappresenta uno snodo tutt’altro che secondario soprattutto perché l’alleanza dell’Unione Sovietica con le “democrazie occidentali” da parte socialdemocratica e riformista ha dato corso a una serie di leggende tra le quali l’esistenza, in senso storico e politico, di una borghesia progressista e di una borghesia reazionaria anche nella fase imperialista.
Da un punto di vista marxista non ha molto senso parlare di borghesia progressista o borghesia reazionaria. Nei suoi scritti storici, non diversamente da Engels, Marx analizza sempre la composizione di classe della società a partire dagli interessi "concreti" che, in un determinato svolto storico, si manifestano. Semmai, per Marx, la borghesia è progressista in quanto classe storica, in quanto classe che, a un determinato grado dello sviluppo storico, è in grado di rappresentare l'interesse universale. La borghesia, cioè, è oggettivamente progressista nei confronti della forma politica preborghese. Nell'era dell'imperialismo, la teoria marxista sviluppata da Lenin, distingue, nei paesi imperialisti, i settori di borghesia diretta emanazione degli interessi finanziari e monopolistici dagli altri settori mentre, nei paesi sottoposti a dominazione coloniale, distingue tra borghesia e proprietari terrieri alleati alle potenze imperialiste e borghesia nazionale avversa sia a questi settori sia, ovviamente, all'imperialismo [99] . In questo senso, nei paesi coloniali, si può parlare di borghesia progressista e, non a caso, in tali circostanze i marxisti e i leninisti hanno sempre applicato la tattica del Fronte unito per la liberazione nazionale spingendo perché, questa lotta, portasse alla formazione di governi di unità nazionale e di classe, dove il ruolo della classe operaia, del proletariato, dei contadini poveri e della piccola borghesia fosse predominante rispetto alle altre classi dell'alleanza [100] . Questo scenario è del tutto inapplicabile nei paesi a dominanza imperialista. La linea di condotta dell’Internazionale comunista intorno a questo assunto si modella. Del resto di quanto poco di progressista vi sia nella borghesia le vicende tedesche degli anni Venti ne offrono un’esemplificazione che anche i ciechi sono in grado di vedere. Tuttavia, tenuto fermo il principio, l’Internazionale comunista è obbligata a fare i conti con la dimensione “concreta” a cui il politico continuamente rimanda. Tutto ciò dà origine, nel corso degli anni Trenta, a due svolte. La prima è il passaggio dalle tesi di "classe contro classe" del V Congresso [101] alla tattica del Fronte popolare del VII [102] , dove viene ricercata l'alleanza sia con i partiti socialdemocratici, sia con quelle formazioni borghesi avverse al fascismo. Ma in quale contesto "concreto", questo è il punto, avviene il passaggio? In Europa, nella prima metà degli anni Trenta, le ipotesi rivoluzionarie sono sconfitte e tramontate mentre, l'ombra della crisi del 1929, oltre a non essersi eclissata è, ogni giorno che passa, sempre più catastrofica. La tendenza alla guerra si fa sempre più reale e concreta. La domanda che l'Internazionale comunista costantemente si pone non è se la guerra scoppierà ma quando e in che direzione. Non pochi indicatori, inoltre, fanno facilmente presagire che l'URSS sarà al centro della contesa e che, come aveva da tempo annunciato nella sua biografia Hitler, a est la Germania avrebbe cercato il suo "spazio vitale". Per di più, Hitler, non faceva mistero di considerare la distruzione del bolscevismo l'equivalente novecentesco delle crociate. È in questo scenario, obiettivamente già bellico, che matura la tattica frontista. Una tattica i cui frutti sono sostanzialmente irrisori poiché, anche dove la sua applicazione sortisce momentanei successi, è ben presto messa in crisi e ripudiata da quelle forze alleate che, in linea di massima, preferiscono trovare una qualche convergenza con il nazionalsocialismo piuttosto che mantenere operativa l’alleanza con i partiti legati all’Internazionale comunista e quindi con il potere sovietico. È la borghesia insieme alla socialdemocrazia che rompono l’alleanza. La ricaduta di ciò si ha con Monaco dove, i governi francesi e britannici, lasciano mano libera alle mire annessioniste naziste nell’Europa orientale [103] Ma Monaco non è solo questo. Monaco, nei progetti coltivati dall’imperialismo francese e britannico, non si limita a offrire a Hiltler solo qualche territorio dell’est Europa ma lo “invita” a puntare decisamente a est a “guardare”, e in tempi brevi, alle possibilità di conquista che l’URSS può offrire. È a questo punto che, leggendo con non poca chiarezza gli obiettivi che le democrazie imperialiste vanno maturando, prende forma il patto "Molotov - Ribbentrop". Non diversamente da quanto aveva fatto Lenin, accettando di firmare una pace di Tlist con l'imperialismo tedesco pur di guadagnare tempo [104] , l'Internazionale Comunista scende a patti con l'imperialismo nazionalsocialista per difendere ciò che, al momento, per il proletariato internazionale è oggettivamente il bene più prezioso: la salvaguardia dell'URSS e il potere sovietico. Con la sola eccezione di Churchill che, con non poca lucidità, aveva individuato la Gran Bretagna come obiettivo oggettivamente strategico per l''imperialismo tedesco, le borghesie imperialiste britanniche e francesi ignoravano sostanzialmente la minaccia e vedevano nella Germania nazista un valido alleato in funzione antioperaia e antibolscevica confidando che le mire naziste si concentrassero unicamente ad est. In questo modo, auspicando un conflitto armato tra Germania e URSS, gli altri imperialismi continentali ne avrebbero, in un futuro neppure distante, colti per intero i frutti. Una guerra sanguinosa e particolarmente distruttiva tra i due paesi avrebbe creato scenari postbellici particolarmente appetibili alle potenze imperialiste rimaste in disparte o entrate nel conflitto quando i contendenti si fossero ormai dissanguati e, fatto per nulla trascurabile, una guerra rovinosa dell'URSS avrebbe offerto su un vassoio d'argento l'opportunità di liquidare definitivamente lo spettro bolscevico. Questa la realtà politica "concreta" in cui prendono le mosse sia il Fronte popolare sia il patto con il nazionalsocialismo tedesco. Il cuore strategico dell'intera operazione è la salvaguardia del potere sovietico, il resto è tattica persino disperata dentro uno scenario che non faceva coltivare troppe illusioni. L'attacco nazista all'URSS rimette in piedi, su basi statuali, la tattica del Fronte popolare attraverso la coalizione anti nazifascista ma questa tattica, come i fatti storici hanno abbondantemente mostrato, si esaurisce nei mesi successivi alla vittoria sul nazifascismo quando, l'alleanza con le forze borghesi antinazifasciste, mostra di essere né più e né meno di un'alleanza militare alla quale, entrambi gli schieramenti non potevano sottrarsi pena la non improbabile sottomissione al dominio nazifascista. Molto di più non c'è.
Questo inciso non è solo una nota dentro al testo ma mostra quanto urgente, per le democrazie imperialiste, sia organizzare uno stato in grado di fare a tutti gli effetti la guerra. Non si tratta, semplicemente, di varare qualche progetto di riarmo, potenziare alcuni settori militari e/o aumentare di qualche leva l’esercito; all’orizzonte c’è ben altro: il pieno dispiegamento dello Stato di guerra. Solo i paesi fascisti, dove il processo di statalizzazione delle masse è andato più avanti, possono vantare una mobilitazione in qualche modo “partecipata”. Avendo a mente lo scenario politico concreto in cui viene a trovarsi la Gran Bretagna, allora, la messa in forma del modello di Welfare State può essere osservata sotto una luce non solo diversa ma molto più realistica. Questi, infatti, più che affondare le sue radici in quel processo di naturale civilizzazione a cui la cultura europea sembrerebbe rimandare deve la sua attivazione alla ben più prosaica e realista necessità di mobilitare le masse dentro la guerra anche se, almeno da parte dei conservatori, questo modello più che essere ispirato a una vera e propria strategia politica di ampio respiro sembra limitarsi alla contingenza eccezionale della situazione, una sorta di “capitalismo di guerra” da abbandonare in tutta fretta, o almeno in gran parte, una volta che le cose saranno tornate al loro corso normale. Una linea politica che sarà pagata duramente in prima persona dallo stesso Churchill che, non a caso, nonostante gli indiscutibili meriti conseguiti in battaglia non vedrà rinnovato il suo mandato nell’immediato dopoguerra. Alla grandezza politica di Churchill fa da contraltare la sua miopia sociale. In lui, la borghesia, ha trovato il grande condottiero politico e militare, il borghese che più di ogni altro ha compreso appieno la natura della guerra capendo, molto prima della stragrande maggioranza della sua classe, che solo declinando il conflitto in chiave antifascista e quindi alleandosi con l’URSS e le masse proletarie che a questa guardavano come vera Patria, poteva ipotizzare di salvare la Gran Bretagna, vincere la guerra e sconfiggere le mire della Germania hitleriana. Ciò che, da conservatore classico quale era, gli diventava impossibile pensare era una dimensione statuale sempre più presente nella vita economica e sociale. Una lezione della quale, come vedremo brevemente tra poco, i conservatori faranno ampiamente tesoro.
Lo Stato in guerra
Ma torniamo al filo del nostro ragionamento. Se questo è vero perché, venuta finalmente la pace, il Welfare State oltre a non essere posto in soffitta è continuamente ampliato e rafforzato tanto da diventare il modello di governo che caratterizzerà, indipendentemente dalle consorterie governative che si alterneranno al potere, tutti i Paesi delle democrazie occidentali e in particolare dell’Europa? Sotto tale aspetto la Gran Bretagna ne offre ancora una volta la migliore esemplificazione mostrando, pur con qualche distinguo, la sostanziale affinità nei confronti della “questione sociale” da parte dei laburisti e dei conservatori. Paradigmatico, al proposito, è il termine Butskellism, che unisce i nomi di Richard Austen Butler, Primo ministro conservatore negli anni 1951 – 1955, e di Hugh Tod Naylor Gaitskell, Primo ministro laburista negli anni 1950 – 1951, coniato in Gran Bretagna per definire il comune sentire delle classi dominanti nei confronti dei subalterni. Un modello che, nella stessa Inghilterra, si è trascinato, in gran parte, fino agli anni Ottanta del secolo scorso e che la stessa Tacther ha solo parzialmente intaccato.
Intervento statale nella società ma non solo. In tutti questi anni si assiste a un sempre più massiccio e consistente intervento statuale nell’economia e non solo in termini di finanziamenti pubblici o gestione diretta della produzione ma dentro una logica di piano e di pianificazione in diretta concorrenza con la pianificazione socialista [105] . In poche parole tutto ciò che abbiamo visto prodursi nella trasformazione dello stato sulla spinta delle esigenze belliche adesso viene continuamente amplificato. La statalizzazione della società e dell’economia sembra farsi inesauribile tanto che, tale presenza, può apparire persino asfissiante. Una forma – stato che recupera appieno il suo tratto inclusivo e che si ripropone come ambito super partes alle classi e non come loro strumento di dominazione. Non a caso proprio la “borghesia progressista” e la socialdemocrazia ne saranno i cantori più entusiasti [106] . Ma in tutto ciò la forma – guerra non gioca più alcuna partita? Il Welfare State è un programma di pace o, tra le sue pieghe, si prefigura in realtà come uno strumento di guerra? Il Welfare State è un progetto di governance che si dipana e autoalimenta in piena autonomia dagli scenari politici internazionali oppure, di questi, ne è filiazione diretta? Il Welfare State, quindi, è il frutto maturo della pace? Pertanto forma stato e forma guerra, con il 1945, si sarebbero scissi tanto da vivere, l’una con l’altra, in piena autonomia o addirittura l’una contro l’altra? La guerra, adesso, sarebbe solo il retaggio di forze retrive e reazionarie che guardano nostalgicamente al passato mentre, come il modello Welfare è lì a dimostrare, il futuro sorgerebbe radioso e prosperoso? E ancora: in tale ottica la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi? Il paradigma di Clausewitz, intorno al quale il marxismo aveva così a lungo ragionato e argomentato, è stato definitivamente posto in soffitta? Alla luce di ciò, il materialismo storico e dialettico deve dichiararsi un’arma ormai spuntata e non più in grado di leggere il movimento storico?
Anche in questo caso non è possibile limitarsi a rispondere negativamente. La forza del materialismo storico e dialettico sta proprio nell’assenza di dogmaticità e nel saper, volta per volta, comprendere, spiegare e argomentare i passaggi reali delle diverse fasi storiche. Proviamo ad affrontare la questione facendo un piccolo passo indietro. Nel 1948, sempre in Gran Bretagna, viene varata la seconda fase del National Insurance Act che prevede corpose estensioni in materia di “diritti sociali” rispetto al già “progressista” Act del 1946 e insieme a questi una significativa aggiunta concernente ambiziosi programmi di edilizia popolare. Le politiche di pace e di progresso “disinteressato” non sembrano avere limiti e la Gran Bretagna ne è indubbiamente all’avanguardia così come, neppure un anno dopo, la si vedrà protagonista nella formalizzazione di un’altro Act anche se, questa volta, dai toni meno pacifici. Nel 1949 si formalizza il “Patto Atlantico” forse più noto attraverso l’acronimo NATO e di questo patto la Gran Bretagna ne è un attore tutt’altro che secondario. Ma cosa significa l’organizzazione militare della NATO se non che la guerra continua a essere l’orizzonte dentro il quale l’imperialismo non può fare a meno di muoversi? Che cos’è la NATO se non il centro strategico politico e militare dell’imperialismo edificato proprio là dove, al termine del Secondo conflitto mondiale, si era posta la linea di confine tra capitalismo e socialismo? È così impensabile, alla luce di ciò, continuare a legare forma stato e forma guerra? Che cosa stanno facendo, nel frattempo, alcuni Paesi che corrono a sottoscrivere il “Patto”? L’Olanda sta combattendo in Indonesia contro le popolazioni locali in lotta per la propria indipendenza. La Francia sta facendo la guerra al popolo vietnamita per impedirgli di raggiungere l’autonomia e l’ indipendenza. L’Inghilterra, la patria del Welfare State e del processo di civilizzazione, combatte a pieno ritmo in Birmania. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sono appena ritirati dalla Cina solo perché costretti dalla resistenza vittoriosa del popolo cinese ma rimangono attivi in Grecia dove stanno combattendo contro l’esercito di liberazione ellenico. In altre parole, avendo a mente la scena della politica internazionale, dopo il 1945 si è veramente instaurata la pace oppure, più realisticamente, la guerra e la sua messa in forma continuano a essere la trama che lega gli assetti post bellici? Non siamo, in realtà, pienamente precipitati, una volta sgomberato il campo dall’imperialismo di marca nazifascista, dentro quella guerra civile internazionale messa in forma da tutte le borghesie imperialiste subito dopo l’Ottobre? La “Guerra fredda” è il nome che, dopo il 1945, questo conflitto assume e il suo centro nevralgico e strategico è proprio l’Europa. Di ciò ne è testimone non poco lucido un militare che ne è stato un protagonista di primo piano :
“.Ogni blocco adottò la strategia della deterrenza, che sfociò nella cosiddetta distruzione reciproca assicurata (MAD, mutually assured destruction): la creazione e il mantenimento del macchinario della guerra industriale, concepito secondo il vecchio paradigma [industriale], da alimentare tramite la leva obbligatoria e anche con la mobilitazione totale se necessario, fino a gettare nella mischia economie di massa e tecnologie d’avanguardia. Ognuno aveva forze considerevoli spiegate lungo la “cortina di ferro” di fronte a quelle avversarie. Le due parti erano perfettamente preparate a passare alla guerra col minimo preavviso, e dunque svilupparono vaste strutture di intelligence e operazioni di sorveglianza per evitare di essere colte di sorpresa. Tutte le forze, di entrambi gli schieramenti, furono organizzate ed equipaggiate sulle basi della guerra industriale; infatti entrambe le potenze avevano messo in conto, se la deterrenza fosse fallita, un periodo di guerra convenzionale nel vecchio stile, sebbene condotta in maniera migliore grazie alla tecnologie e ai sistemi di comunicazione moderni, seguito poi da attacchi nucleari non appena una parte o l’altra avesse cominciato a perdere la battaglia convenzionale: attacchi strategici sul territorio avversario e tattici contro le sue forze” [107]
L’Europa è l’epicentro di tale precario equilibrio e, del resto, quanto centrale sia stato lo scenario europeo per le forze imperialiste è facilmente constatabile proprio attraverso il ruolo che la NATO non ha cessato di rivestire nel corso degli anni. Mentre le altre forme di “cooperazione” multinazionale a dominanza statunitense quali il CENTO (Central Treaty Organization) e la SEATO (Southeast Asia Treaty Organization) finirono con l’essere ridimensionate e formalmente smantellate la NATO non seguì un destino simile. Nonostante lo scenario del conflitto armato si concretizzasse in giro per il mondo e in Europa non si andò mai oltre alla dimensione del confronto, il campo europeo rimase centrale per la cosiddetta Guerra fredda. [108] La guerra non è mai uscita, come tendenza, dallo scacchiere europeo e ne ha fortemente e complessivamente influenzato le forme politiche. Non è stato il processo di civilizzazione a dare fiato al modello del Welfare State bensì la necessità degli stati imperialisti di catturare le “proprie” masse proletarie dentro la permanente forma guerra delineatasi subito dopo il 1945.
Nella messa a regime del Welfare State - modello che, ed è il caso di ricordarlo con forza, ha funzionato solo all'interno di una determinata area geopolitica cioè l'Europa occidentale - un ruolo non secondario è stato giocato quindi dalla cornice bellica venutasi a costituire negli anni immediatamente successivi alla fine del Secondo conflitto mondiale. Le politiche del Welfare hanno avuto come sostanziale obiettivo quello di pacificare, attraverso un non secondario processo estensivo di inclusione e di diritti sociali oltre a un certo innalzamento dei consumi delle classi sociali subalterne, i territori dei paesi NATO europei. Mentre, in giro per il pianeta, l’imperialismo rastrellava superprofitti attraverso politiche apertamente predatorie nei confronti delle masse subalterne delle aree del Terzo mondo, in Europa si assisteva alla piena realizzazione di ciò che può essere definito il “capitalismo dal volto umano”.
Abbiamo portato ad esempio la Gran Bretagna ma, sotto tale aspetto, ancora più indicativo è il caso della Repubblica Federale Tedesca dove il Welfare State ha conosciuto forme di sperimentazione che hanno superato di gran lunga lo stesso modello britannico tanto che, il “capitalismo renano”, è stato sempre preso a modello sia dalle forze politiche riformiste e socialdemocratiche, in virtù del suo sistema di “sicurezze sociali”, sia da parte delle forze politiche centriste e conservatrici che ne hanno sempre apprezzato la sostanziale stabilità e l’indiscutibile produttività ma l’aspetto strategico che ha unito tutte le anime del capitalismo era lo spiccato anticomunismo di massa che la società tedesca della Germania occidentale poteva vantare. Un frutto scientemente coltivato dalle potenze imperialiste che, immediatamente dopo il 1945, trasformano il Paese sconfitto tra i loro migliori alleati. La riorganizzazione dello stato tedesco e l’edificazione del “capitalismo renano” [109] poggiano per intero sulle scelte politiche, persino in apparenza contraddittorie, delle democrazie imperialiste e, tra queste, soprattutto degli USA l’unica potenza imperialista che, dalla guerra, è uscita più forte e soprattutto più ricca. Ciò che l’imperialismo, con non poca lucidità, mette a fuoco è la precisa e netta linea di demarcazione tra sé e il nemico. A partire da ciò agisce. Ben presto, contravvenendo all’abituale convenzione d’ogni fase post bellica, i vincitori rinunciarono alle indennità di guerra che la Germania avrebbe dovuto obiettivamente sborsare e, in virtù della sua postazione strategica per i nuovi scenari bellici delineatesi immediatamente dopo il 1945, questa da nazione debitrice si trasformò, in maniera apparentemente paradossale, in stato creditore. Milioni di dollari [110] , e a più ondate, furono fatti confluire nelle casse del nuovo stato tedesco perfettamente allineato con l’Occidente, mentre la NATO riceveva mano libera per installarvi un’impressionante forza militare. È a partire da questa esigenza politica e militare, quindi dalla configurazione che la forma guerra è venuta ad assumere, che prende le mosse la realizzazione del più avanzato sistema di Welfare State che l’Europa abbia conosciuto. È la guerra, non la pace, a sottendere la realizzazione di questo modello di governance e del modello statuale chiamato a realizzarlo.
Del resto quanto poco di progressista vi sia in questo processo è facilmente osservabile avendo a mente il personale politico e tecnico chiamato a ricostituire il nuovo stato tedesco. Tramontata definitivamente l’era dell’alleanza militare tra le democrazie imperialiste e l’URSS e con questa anche l’aspetto antifascista che aveva fatto da cornice all’alleanza medesima ciò che riappare senza troppe mediazioni è la volontà di tutti gli stati imperialisti di contenere lo spettro dell’Ottobre. A tale scopo tutte le forze anticomuniste insieme ai loro quadri politici, economici e militari sono chiamate a raccolta. In tale ottica lo stesso personale nazista, non eccessivamente compromesso con il passato, viene reintrodotto negli apparati statuali. Sotto la regia dell’imperialismo a dominanza statunitense i due poli della borghesia, fascismo e socialdemocrazia, trovano un fertile terreno di cooperazione nell’edificazione del “capitalismo renano”.
Tutto ciò è un frutto non casuale ma scientemente progettato dalle forze imperialiste internazionali poiché proprio la RFT, nei piani politici e militari della borghesia, doveva presentarsi sia come il principale bastione ideologico anticomunista sia il centro vitale della sua organizzazione militare. Lo spiegamento delle forze armate della NATO e degli USA, e in particolare della XII Divisione corazzata statunitense, sul suo territorio ne sono state una più che esauriente esemplificazione. Tutto ciò, come le parole del Generale britannico sopra riportate dimostrano, è più che evidente. Durante gli anni della "Guerra fredda", nonostante le minacce nucleari, la partita bellica tra est e ovest si era giocata soprattutto intorno alla potenza e al volume di fuoco delle rispettive forze corazzate. Lo scenario predisposto dagli strateghi americani e dai loro alleati della NATO prevedeva, in caso di conflitto, una straordinaria "battaglia di materiali" proprio sulle linee di confine della Germania Ovest. Per questo, gli americani e la NATO, avevano dedicato non poche energie e risorse alla messa a punto di una "macchina bellica" dalla straordinaria potenza che, nei carri, aveva la sua punta di diamante. Ancora nel 1989, la XII, schierava contro le forze del "Patto di Varsavia" gli Abrams m1a1, un'incredibile macchina bellica da settanta tonnellate praticamente invulnerabile e in grado di polverizzare ad un chilometro e mezzo di distanza qualunque avversario. Alle sue esigenze si erano dovute piegare le vie di comunicazione e per questo, intere file di genieri, avevano lavorato incessantemente al fine di rendere agibili e praticabili le vie d'accesso verso l'ipotetico fronte. All'improvviso, quando il "Patto di Varsavia" dichiarò bancarotta, la più temibile forza corazzata del mondo, di colpo, oltre a trovarsi senza nemico divenne superflua. Gli Abrams, infatti, per le loro caratteristiche si mostrano inutilizzabili in altri scenari bellici perché presupporrebbero, anche là dove le condizioni si mostrassero più favorevoli, un tempo di adattamento tale, per il logistico e le infrastrutture, oltre alla lunga, macchinosa e costosa operazione che il loro trasferimento comporterebbe, da sconsigliarne l'utilizzo.
Tutto ciò racconta qualcosa di sostanziale sulle vicende che hanno accompagnato fin dalla nascita, oltre alla RFT, l’intera storia del modello politico ed economico europeo del Secondo dopoguerra. Se le argomentazioni fino ad ora portate si mostrano saldamente ancorate alla realtà dei fatti un dato ne consegue: il metodo marxista è ben lungi dal potersi archiviare ma, al contrario, oltre a mostrare di essere ben vivo e vegeto può vantare di essere l’unico strumento scientifico in grado di leggere i movimenti reali della storia. Dove i borghesi, i socialdemocratici e i riformisti come i reazionari hanno visto un improbabile processo di civilizzazione che metteva in cantina la lotta di classe e il marxismo, il materialismo storico e dialettico ha osservato e denunciato la reale posta in palio. Il “capitalismo dal volto umano” aveva ben poco a che vedere con la pace e la prosperità ma, a tutti gli effetti, era indissolubilmente legato alla forma guerra. Il sistema del Welfare State, con buona pace di nostalgici di varia natura, non si eclissa per la cattiva volontà di un qualche governante con il cuore particolarmente duro ma perché venendo meno quella forma guerra non ha più alcuna funzione. La nuova fase imperialista ha bisogno di un involucro politico, una forma stato, completamente diversa dal passato. Questa è la vera fuoriuscita dal Novecento e a dettarne i ritmi e i tempi sono le esigenze di una nuova fase imperialista. Arriviamo così a tratteggiare i contorni del presente.
Come abbiamo provato ad argomentare sino a questo momento tra forma stato e forma guerra esiste un legame pressoché indissolubile. La guerra non è solo la continuazione della politica con altri mezzi ma è, indipendentemente dal riecheggiare del fragore delle armi, continuamente compresa in essa. Separare la dimensione della guerra da quella statuale è come ipotizzare che, in una squadra di calcio, centrocampo e attacco giochino due partite diverse. Certo, proseguendo con questa metafora, è il centrocampo che riveste sempre il ruolo centrale, decisivo e decisionale ma è altrettanto vero che le caratteristiche degli attaccanti giocano un ruolo non secondario nel modo in cui il centrocampo organizza la trama del gioco. Tutto ciò diventa quanto mai evidente se osserviamo le trasformazioni che la forma stato subisce nel presente. Una trasformazione che, pur con le particolarità che ogni dimensione specifica può assumere, segue una linea di condotta pressoché unitaria in tutti i Paesi imperialisti occidentali. È in tale scenario, quindi, che diventa possibile leggere la crisi del Welfare State. La caduta del "Muro" insieme allo scenario bellico fa cortocircuitare l'intero sistema sociale europeo a dimostrazione di quanto la forma guerra avesse assunto un ruolo predominante nel definire gli scenari che, abitualmente, sono ricondotti nell'alveo impolitico della vita quotidiana. Il mutamento della "cornice strategica", per milioni di operai e proletari, ha comportato la fine del "piatto di pastasciutta" garantito che stava alla base delle logiche di governance dei vari sistemi di Welfare State. In poche parole, ed è questo che ci preme evidenziare con forza, non è pensabile "pensare la politica" ignorando la forma guerra che questa incarna. Un passaggio che, molto realisticamente, solo il materialismo storico e dialettico è in grado di comprendere, ponendo nero su bianco la realtà materiale che tali processi comportano, permettendo, in questo modo, alla classe di affrontare il presente evitando di farsi racchiudere in reiterate maddalene delle quali, onestamente, la lotta di classe non ha mai saputo che farsene. Il metodo marxista mal si sposa con le nostalgie e i rimpianti poiché la scienza comunista è sempre l’arma del presente in grado di anticipare il futuro mai del “mondo di ieri”: il suo uso è qui e ora [111] . Hic et nunc perché la storia, così come non consente vie di fuga, non permette di trovare un qualche rifugio nella saudade ma obbliga tutti i suoi attori alla necessità di starvi dentro e combattere le battaglie che una situazione storicamente determinata ha delineato. È dentro a tale “concretezza” che, allora, va letta la fine di un modello statuale. L'89 segna, a tutti gli effetti, una linea di confine tra due epoche delle quali, la forma guerra, ha continuato a rappresentarne l'elemento paradigmatico per eccellenza.
Lo scenario che aveva iniziato a prendere forma nel 1914 con il crollo dell'URSS repentinamente decade poiché il paradigma della guerra industriale che lo aveva così a lungo caratterizzato viene meno. Non viene certo meno la dimensione della guerra che, al contrario, dal 1991 in poi diventa elemento costitutivo e costituente del nuovo dis – ordine internazionale ma a esserne profondamente modificata è la sua forma. Dentro tale passaggio diventa allora necessario leggere le trasformazioni che hanno investito la forma stato e ciò che comunemente passa come crisi e/o esaurimento del modello Welfare.
Seguendo il filo del ragionamento fin qui tentato abbiamo visto come a caratterizzare fin dai primi anni del Novecento la fase imperialista sia stata la dimensione della guerra industriale e, con questa, il ruolo strategico che per gli eserciti imperialisti rappresentavano le masse. Erano le masse che dovevano combattere e morire così come erano sempre queste a dover portare ai massimi livelli le capacità produttive dei diversi blocchi che, volta per volta, si affrontavano per il dominio sulla scena internazionale. Repentinamente tutto ciò evapora. Nel momento in cui il nemico storico dell'Occidente implode, nel giro di nulla, si assiste a una drastica ridefinizione delle forze armate e insieme a queste la messa al bando da parte di tutti i Governi imperialisti occidentali dei sistemi di governance incentrati sul Welfare State. Velocemente si è passati dagli eserciti di massa agli eserciti professionali e dalle politiche incentrate a foraggiare la spesa pubblica, ossia la spesa sociale, a politiche cosiddette di rigore. Le ricadute di ciò non sono secondarie. Il servizio militare obbligatorio comportava non solo l'obbligo alla noia della naia ma, ed è l'aspetto fondamentale, anche il diritto da parte delle masse subalterne a portare le armi ed esserne addestrate all'uso. Nelle pagine precedenti abbiamo visto come proprio questa condizione, una contraddizione insormontabile per gli eserciti imperialisti di massa, sia stata alla base, il più delle volte, dell’attuazione di una fase insurrezionale e rivoluzionaria. In poche parole l'obbligo a morire per la borghesia imperialista poteva trasformarsi nel diritto a rovesciare, armi alla mano, quella stessa borghesia. Allo stesso tempo abbiamo osservato come, i salti di “composizione organica” della guerra, obbligassero le classi dominanti a dotarsi di masse subordinate oltre che sufficientemente sane e tecnicamente non sprovvedute. Per i governi imperialisti, quindi, il controllo e in una certa misura la cura delle masse ha rappresentato un obiettivo strategico di non secondaria importanza. Ma cosa accade se, all'improvviso, queste masse diventano per lo più inessenziali allo sviluppo e al consolidamento della potenza di un blocco imperialista? Semplicemente che le sorti di queste masse non rappresentano più un’importanza strategica e che quella necessità “inclusiva” che aveva segnato l’iniziativa statuale per gran parte del Novecento viene meno. In poche parole le masse diventano inessenziali alle politiche di potenza dei blocchi imperialisti.
Ecco che allora, utilizzando il metodo marxista, molti nodi cominciano a sciogliersi e la crisi del Welfare appare di non difficile comprensione. Se per un arco di tempo consistente a caratterizzare l'azione di governo delle classi dominanti è stata la logica del far vivere oggi, a prevalere, sembra essere piuttosto quella del lasciar morire [112] . La fine del paradigma industriale della guerra ha reso, da un punto di vista strategico, inessenziali le masse e con ciò la perdita di interesse da parte delle borghesie imperialiste nei loro confronti. Il ritiro dello stato dalla società molto banalmente non è altro che l'adeguamento del medesimo alle condizioni materiali, concrete e oggettive all'attuale fase imperialista. Non diversamente, anche se di segno completamente rovesciato, da quanto accaduto nei primi anni del Novecento l'involucro politico si plasma intorno alle basi strutturali che lo sostanziano. In tale ottica, quindi, l'ottocentesco comitato d'affari della borghesia diventa il modello pienamente dispiegato dell'era contemporanea. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie poiché l'intera strategia operaia e proletaria non può, pena il rimanere fuori dalla realtà concreta in cui si trova ad agire, che pensare la prassi avendo chiaramente a mente lo scenario oggettivo in cui si trova. In questo senso, quindi, più che inseguire i fantasmi del passato come la rimessa in circolo di un modello di Welfare, incompatibile con le logiche dell'attuale fase imperialista, diventa opportuno comprendere i tratti propri di questa. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare è il ruolo “pratico” che il materialismo storico e dialettico riveste e quanto indispensabile sia appropriarsene per intervenire concretamente dentro la storia. Nel modo in cui lo abbiamo usato per aggredire la forma stato non ci siamo lasciati irretire da alcun accademismo o intellettualismo di sorta ma, augurandoci di esservi riusciti, abbiamo posto nero su bianco e senza fronzoli un insieme di passaggi pratici e materiali che hanno fatto da sfondo alle esistenze di milioni di operai e proletari. In poche parole abbiamo cercato di dimostrare come il rapporto tra scienza comunista e classe sia, per la prassi, una relazione indissolubile.
L’irrompere della crisi ne offre un’eccellente occasione. È dentro di questa che, infatti, va giocata per intero l’arma del materialismo storico e dialettico cogliendo gli aspetti politici che questa comporta evitando, in nome di una scientificità tanto asettica quanto inconcludente, di darne una lettura oggettivista ed economicista. L’operazione che occorre tentare non è diversa da quella portata a termine da Lenin dentro la crisi e la guerra che fanno da sfondo al Primo conflitto mondiale: leggere le trasformazioni politiche proprie della fase imperialista nella quale si è immessi e tutti i balzi che questa comporta. Per farlo, pur in maniera molto sintetica, cominciamo con il mettere a confronto il modo in cui gli stati imperialisti hanno affrontato le ricadute del giovedì nero del 1929 e quello messo a regime dopo il settembre – ottobre 2008. Dopo il crollo del ’29, gli stati imperialisti cominciano ad intervenire pesantemente nell’economia attraverso investimenti pubblici al fine di rimettere in moto la macchina produttiva. Al contempo iniziano a dare vita a sostanziosi programmi sociali finalizzati a neutralizzare gli effetti più devastanti che la crisi stava riversando sulle masse subalterne. Intervento nell’economia e intervento nella società, in che modo? Gli Stati Uniti e la Germania ne rappresentano l’elemento paradigmatico per eccellenza. In entrambi i Paesi la fuoriuscita, almeno momentanea, dalla crisi avviene attraverso massicci investimenti statuali nella produzione bellica. Gli Stati Uniti gettano le basi per la loro supremazia aero – navale mentre la Germania inizia a sviluppare quell’esercito che metterà a ferro e fuoco l’Europa e non solo. Si preparano le armi e si allevano al meglio quelle masse che, da lì a poco, saranno chiamate a vestire la divisa. A fare argine alla crisi non è altro che la preparazione alla guerra il cui paradigma industriale obbliga a catturare, almeno in parte, anche il consenso delle masse. Gli anni Trenta del secolo scorso vedono, al contempo, svilupparsi gli interventi statali nell’economia e nel sociale al fine di preparare la guerra. La centralità che le condizioni di vita delle masse rappresentano è sotto agli occhi di tutti. La richiesta di un intervento statale, finalizzato a risolvere la loro indigenza, viene sollecitata, in prima persona, dai circoli esclusivi della borghesia imperialista. La nota affermazione del Presidente degli Stati Uniti Frank Delano Roosevelt: Il New Deal ha salvato il capitalismo da se stesso, rappresenta qualcosa di più di una battuta di spirito. Tutto ciò, seguendo il filo del nostro ragionamento, non deve stupire. Le risposte che gli stati danno alla crisi sono tutte interne a quella tendenza alla guerra a cui quella determinata fase imperialista obbliga. Sullo sfondo di tali politiche è difficile, e quanto sostenuto nelle pagine precedenti dovrebbe averlo ampiamente dimostrato, non vedere quanto peso giochi la forma guerra. Veniamo al presente. Le risposte statuali all’irrompere della crisi non sono state certo di poco peso. L’indebitamento degli stati ha raggiunto cifre stratosferiche ma con limitati effetti sulla ripresa della produzione industriale e ricadute pressoché nulle sulle condizioni materiali delle classi sociali subalterne le quali, dentro la crisi, precipitano ogni giorno che passa sempre più in basso. La miriade di fondi pubblici è stata utilizzata per ridare fiato all’economia finanziaria, saldare e parare i suoi debiti e i suoi guasti, rimettere in circolazione una massa di denaro attraverso la quale far ripartire le transazioni finanziare il tutto, questo è il punto, mirando a contenere, ridurre e se possibile azzerare la spesa sociale. In poche parole, per le masse, non ci sono né euro, né, dollari, né altro. Negli Anni Trenta, al contrario, anche andando contro e senza mezze misure a corpose quote di borghesia che, in virtù della loro miopia, si opponevano alla realizzazione dei programmi propri dello stato sociale il cervello della borghesia imperialista non si faceva problemi a lottare anche contro la propria classe al fine di porre delle solide basi alla sua politica di potenza. Questo scenario è oggi riproponibile? Assolutamente no anzi, come chiunque può facilmente constatare osservando con un minimo di realismo il mondo che ci circonda, il presente racconta qualcosa di diametralmente opposto. Forse perché viviamo dentro il sogno kantiano della pace perpetua? Evidentemente no ma la guerra, la sua forma, la sua conduzione e i suoi obiettivi si sono radicalmente modificati rispetto a quel paradigma che ha imperversato lungo gran parte del Novecento. Questo il nodo che occorre sciogliere.
Nelle epoche passate la messa in forma della guerra, come abbiamo visto, presupponeva la costituzione di un blocco statuale il più unito e compatto possibile, assolutamente pacificato e a vari gradi consenziente. Lo Stato di guerra presupponeva una sostanziale condizione di pace interna. La guerra doveva essere sempre al di fuori dei confini politici dello stato. Gli eventuali rovesci militari, con la conseguente occupazione di territori nazionali, non inficiavano la rigida separazione tra interno ed esterno, semmai il contrario. Lo Stato di guerra, anche in ripiegamento e ritirata, doveva ancor più contare sul carattere granitico e monolitico della sua legittimità politica e militare. Le sorti della guerra potevano ridurre lo spazio geografico di uno stato non il suo peso politico. Quando la guerra entrava dentro i confini politici dello stato non poteva che assumere immediatamente i tratti della guerra civile rivoluzionaria. Tutte le politiche sociali degli stati imperialisti avevano come obiettivo scongiurare tale evento. Perdere il controllo delle masse significava non avere più soldati e quindi non riuscire più a condurre la guerra imperialista; non avere più operai e quindi essere deprivati di quella indispensabile produzione finalizzata ad alimentare e sostenere i combattimenti; infine, ma non per ultimo, correre il concreto rischio di essere spodestati dalla classe operaia e dal proletariato a cui la stessa guerra imperialista ha dovuto consegnare le armi e, in qualche modo, le fabbriche. Per le classi dominanti era assolutamente necessario che alla guerra esterna corrispondesse la più solida pace interna. Oggi, al contrario, la forma guerra si dispiega, pur con intensità diverse, sia all’interno che all’esterno. Non vi è più, da un punto di vista statuale, un interno e un esterno ma un unico campo di battaglia dove si giocano gradi e modalità di un medesimo conflitto. Il paradigma contemporaneo assunto dalla forma guerra è quello della guerra nelle città o guerra tra la gente un contesto che non ha alcun metro di paragone col Novecentesco paradigma industriale. Ma tutto ciò cosa significa? Quale tipo di guerra si sta oggi combattendo? L’unico modello che sembra avvicinarsi agli scenari bellici in corso ha molto a che vedere con le guerre coloniali. Ciò che le potenze imperialiste stanno attuando in gran parte del mondo, dall’Iraq, all’Africa, dai Balcani all’Afghanistan ricorda assai da vicino la politica della “porta aperta” attraverso la quale gli imperialismi cercarono di spartirsi la Cina [113] In queste guerre non si combatte contro un esercito ma contro la popolazione. Non vi sono campi di battaglia ma, il più delle volte, lo scenario bellico è rappresentato dalle città o da alcune sue zone. A combattere per l’imperialismo sono o truppe di volontari o mercenari veri e propri mentre, contro l’imperialismo si mobilitano forze partigiane la cui strategia è riconducibile alla guerra asimmetrica [114] . A cosa mira, l’imperialismo, attraverso queste guerre? Oltre agli obiettivi come dire classici che hanno fatto da sfondo a ogni epopea coloniale oggi queste guerre mirano a porre sotto controllo quote non secondarie di popolazione al fine di metterle al lavoro, in condizioni non distanti dal lavoro servile e coatto, alle dirette dipendenze delle imprese multinazionali e degli stati che queste controllano. Quella che comunemente è chiamata delocalizzazione della produzione non è altro che l’impianto di enormi comparti industriali all’interno di territori dove, il capitalismo, al “patto sociale” preferisce di gran lunga la frusta e le baionette. Un modello che, per le borghesie imperialiste, ha valenza universale e che, una volta sperimentato fuori dai propri confini metropolitani, in questi viene reimportato. Se, come ricorda Marx, è dall’uomo che si ricava la scimmia allora è dove più alto è l’estrazione di plusvalore che occorre partire per comprendere in quale modello politico e sociale siamo precipitati. A tracciare la storia, sempre come ricorda Marx, è il suo lato cattivo [115] . Sono le fabbriche rumene, albanesi, irachene, le enclavi israeliane destinate ad ospitare la forza lavoro arabo palestinese e così via a tracciare le vie dell’attuale fase imperialista e, a partire da ciò, a modellare per intero la formazione economica e sociale dell’attuale ciclo capitalista. Ma se questo è il modello trainante della produzione, e conseguentemente il “cuore politico” della fase imperialista, che cosa ne è della forza – lavoro insidiata nelle aree metropolitane imperialiste? Se non c’è più un “dentro” e un “fuori” perché, in contemporanea, “dentro” e “fuori” convivono fianco a fianco in ogni contesto, è possibile una politica “inclusiva” da parte degli stati imperialisti nei confronti delle proprie masse? Anche il più modesto degli indicatori sembra in grado di dare una risposta negativa. Se, a partire dal 1914 sino al 1989, per le stesse forze imperialiste dare un volto politico e sociale alle masse rappresentava una strettoia obbligata oggi, al contrario, le pratiche in atto sembrano raccontare qualcosa di decisamente rovesciato: la condizione delle masse è sempre più quella della massa senza volto. Anche in questo caso, un breve confronto con quanto accaduto dopo il fatidico giovedì nero, è quanto mai utile. Combattendo le non secondarie resistenze di una parte delle forze borghesi il New Deal, nel 1933, tenne a battesimo il National Industrial Recovery Act il cui punto di svolta dal punto di vista politico e sociale era rappresentato dal paragrafo (A) della sezione 7 dove si sanciva, per legge, il diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva. Un passaggio quanto mai esplicativo. Di fronte all’irrompere della crisi il Paese che si pone come il punto più alto dello sviluppo, e delle contraddizioni del capitalismo, risponde dando un volto giuridico – formale alle masse proletarie. In questo modo ne riconosce e ne formalizza l’esistenza. Per l’imperialismo è essenziale mettere a regime tutte le condizioni perché il “fronte interno” o “fronte industriale” sia pronto a sostenere la propria politica di potenza. Quelle masse dovranno combattere per lui e non contro di lui. Il modello che si esplicita, quindi, è quello della pace interna in funzione della guerra esterna. Al contrario, oggi, l’imperialismo non sembra avere alcuna necessità di un qualche “fronte interno” anzi all’interno, nei confronti delle masse, a prevalere sono le “politiche di guerra” non certo quelle di pace. È a questa esigenza che si piega l’involucro politico contemporaneo.
Nel momento in cui, dopo l’89, si è potuto appieno dispiegare quel fenomeno comunemente noto come capitalismo globale il mondo si è fatto veramente uno, nel senso che il rapporto tra capitale e lavoro – salariato non ha più dovuto essere mediato da un insieme di esigenze politiche e militari come negli anni precedenti. Molto prosaicamente l’era del capitalismo globale non ha fatto altro che universalizzare in basso, almeno in tendenza, le condizioni delle masse proletarie. Per molti versi, oggi, assistiamo alla definitiva cesura storica con l’epoca di Weimar. Se, in quello svolto storico, la formalizzazione giuridica del lavoro – salariato (nazionale) era al centro degli interessi imperialistici oggi si assiste al suo esatto rovesciamento. Le trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro sono in grado di parlare da sole. La nuova era non universalizza i diritti del Welfare State ma la condizione di “massa senza volto” a cui l’imperialismo aveva deputato i subalterni del cosiddetto Terzo mondo. Un processo che gradualmente ma inesorabilmente ha marciato a pieno ritmo.
Un paio di decenni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino nei nostri mondi a nessuno poteva venire in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte considerevole delle masse salariate europee. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In poche parole la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte cotte con lo strutto sulle nostre tavole, oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettive che, a molti, più che criticabili si mostravano appetibili. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini, le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano essere molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti, quella presenza culturalmente così diversa e in fondo, ma in realtà solo in apparenza, pre – globale non faceva altro che rendere più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni ormai “marginali” ma ancora fastidiosamente presenti in quella che veniva chiamata tarda modernità alludendo con ciò alla residualità del lavoro materiale a fronte di un mondo, secondo retoriche particolarmente in voga in quegli anni, in piena corsa verso la dimensione immateriale del lavoro. Mentre le nostre società entravano nell’era del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.
Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense con prodotti
al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drammaticamente “scoperto” che il capitalismo globale, per essere tale, non può far altro che, in tendenza, creare le condizioni d’esistenza d’una forza – lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante ha trovato la sua migliore esemplificazione, ha finito con il modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori [116] a basso costo posti nella condizione di non nuocere, il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa facile comprendere le attuali trasformazioni della forma stato.
Il problema per l’attuale forma stato non è portare le masse dentro la cornice statuale, semmai buttarle fuori. In questo passaggio è condensata l’intera eclissi del Welfare State. Forma stato e forma guerra continuano a vivere in unità dialettica ma questa dialettica, adesso, sposta il centro del discorso dallo Stato di guerra allo Stato in guerra e questa guerra non ha più confini perché, in prima istanza, è una guerra che deve essere combattuta contro le masse. In questo senso, allora, si può rimettere in gioco il modello della guerra coloniale come contenitore contemporaneo della forma guerra, con una differenza rispetto al passato non secondaria perché, oggi, le “colonie”, sono anche - e la banlieue e le sue vicende ne sono forse tra le sue migliori esemplificazioni - entro i territori metropolitani dei Paesi imperialisti. Il fatto che, oggi, una struttura come quella della NATO dedichi gran parte del suo tempo e delle sue risorse a mettere a punto le strategie più idonee per condurre la “guerra tra la gente” racconta esattamente il tipo di scenario politico – militare con cui ci troviamo ad interagire e quale forma stato è legittimo aspettarsi [117] . Certo, queste modeste note non possono pretendere di aver esaurito il lavoro che la scienza comunista, sulla lettura del presente, è obbligata a compiere ma, del resto, non era il suo compito. Sullo sfondo di questo lavoro vi è la questione del metodo e la sua applicazione. Ciò che si è provato a fare è stato utilizzare il materialismo storico e dialettico per analizzare un aspetto “concreto” della vita politica. Abbiamo provato, attraverso lo strumento della scienza comunista, a leggere il passato e in parte il presente della forma stato al fine di mostrare il senso “pratico” del marxismo, emancipandolo in questo modo da ogni possibile malinteso “scientista” e “intellettuale”. Ci siamo ripromessi un ruolo didattico ma tenendo sempre a mente che doveva trattarsi di didattica di classe. A una nuova generazione di avanguardie uscite dalle lotte spetta il compito di prendere tra le loro mani il metodo e usarlo per affinare le armi della critica.
Didattica di classe
Nei paragrafi precedenti abbiamo provato a mostrare perché e in quale modo il materialismo storico e dialettico non sia una semplice opzione teorica ma il punto di vista della nuova classe storica che, a un dato punto dello sviluppo delle forze produttive, si costituisce in quanto arma critica della nuova classe rivoluzionaria. Per farlo lo abbiamo messo alla prova concretamente mostrando come il suo uso sia strettamente legato e collegato alla prassi. Non un semplice esercizio intellettuale ma arma indispensabile alla conduzione della guerra di classe. In questo modo dovrebbe essere risultato sufficientemente chiaro come questo corpo teorico sia qualcosa di vivo e non un insieme di argomentazioni da utilizzare quando, messo tra parentesi il mondo reale, si può tranquillamente navigare tra il mondo delle idee ma esattamente il contrario. Affrontando la questione della forma stato nel corso del Novecento e tratteggiandone i caratteri attuali pensiamo di aver rimosso ogni dubbio al proposito. L’uso del marxismo trova la sua unica e vera applicazione solo dentro il mondo reale. La relazione forma stato – forma guerra, attraverso la quale abbiamo letto le trasformazioni statuali, dovrebbe essere di per sé sufficiente a mostrare quanto lo scopo del materialismo storico e dialettico sia fornire una guida per l’azione alla linea di condotta della classe e non un balocco teoretico. In quest’ultima parte, pertanto, ci limiteremo a fornire una breve disamina di alcuni testi “classici”, continuamente presenti nei paragrafi precedenti, dei quali, a nostro avviso, ne è consigliabile la lettura. Una sequenza non cronologica ma costruita per “aree tematiche” in grado di fornire strumenti attuali e utili alle giovani avanguardie nate dentro le lotte. In questo modo ci sembra che il senso didattico dell’operazione trovi una sua migliore sistematizzazione.
Ci sono almeno tre modi di rapportarsi ai testi. Il primo è tipico dello studente che, per quanto bravo e diligente sia, proprio in virtù della cornice in cui è imprigionato, li leggerà in maniera scolastica. Dopo averli appresi sarà con ogni probabilità in grado di esporli al meglio considerandoli però come qualcosa che rimane lì sulla carta e che come tale, una volta sparito dalla cattedra del docente può bellamente essere accantonato. Sono serviti per un esame, per un’interrogazione e a quel punto la loro funzione è terminata. Un secondo modo è quello tipico dello “specialista”. Questi userà i testi per studiarli, li farà diventare scienza “in generale” e, non di rado, su di questi scriverà il “suo” punto di vista. Quindi, con ogni probabilità, lo metterà in relazione con gli studi di altri specialisti con i quali avrà un nutrito scambio di idee e opinioni. Un uso dottorale e accademico che vale per il materialismo storico e dialettico non diversamente da un ricettario di nouvelle cousine. In entrambi i casi si tratta certamente di usi legittimi ma distanti dal nostro intento. Infine vi è un terzo approccio quello che possiamo definire politico/militante. In questo caso i testi saranno letti e studiati al fine di impossessarsi di uno strumento d’analisi attraverso il quale raccontare non semplicemente le vicende del passato ma decifrare quelle del presente e anticipare i possibili scenari futuri. Questo non è un punto di vista sul materialismo storico e dialettico. Questo è il materialismo storico e dialettico. Fatta questa doverosa raccomandazione entriamo nel merito delle cose.
Cominciamo con Engels e il suo lavoro giovanile sulla classe operaia inglese. Un testo sorprendentemente attuale che merita di essere ri – letto con particolare attenzione. La concorrenza tra gli operai, l’individuazione del “nemico” nel lavoratore straniero [118] , l’individualismo sfrenato, l’assenza di coesione sociale, il volto alienante della metropoli e l’isolamento sociale che questa comporta sono temi che Engels tratta con non poco acume in questo scritto del 1845. Per certi versi, quindi, nulla di nuovo sotto al sole. In quello scritto, però, mentre fotografa con non poca lucidità ciò che fuoriesce dai mondi sociali, Engels, coglie anche le contraddizioni materiali che tale situazione produce, i conflitti, pur confusi e incoscienti, che si sviluppano e, aspetto decisivo, a partire da quel dato materiale, ipotizza gli strumenti teorici, politici e organizzativi in grado di rovesciare la situazione. Nonostante l’apparente disastro che gli si pone di fronte agli occhi nel suo testo non vi è un grammo di pessimismo e/o rinuncia. Siamo di fronte a un’inguaribile ottimista o a uno dei tanti acchiappa nuvole che, in ogni epoca, hanno calcato la scena storica per poi repentinamente scomparire? Certamente no. Ma che cosa rende Engels così “fiducioso”? Per quale motivo dove in molti colgono solo disperazione, ignoranza, degrado, tanto da considerare l’Esercito della salvezza, l’unica realtà in grado di porre freno a tanto scempio e i più registrano una situazione semplicemente frutto di una condizione oggettiva eterna e immodificabile, Engels, al contrario, senza dipingere la realtà più rosea di quella che sia, individua proprio nelle “masse senza volto” la materia prima e indispensabile di quella classe che sarà in grado di abolire lo stato di cose presenti? Ad animare Engels non sono fantasticherie di un qualche tipo e neppure il facile entusiasmo per le rivolte e le ribellioni spontanee e disorganizzate che, periodicamente, animano queste “masse senza volto”. Anzi, pur non sottovalutando i moti “nichilisti” ai quali non di rado queste masse pervengono [119] , Engels è ben lontano da prenderli ad esempio, piuttosto in questi vede l’oggettività del conflitto e la necessità di dar loro una veste teorica, politica e organizzata; ciò che sostanzia la fiducia e l’ottimismo engelsiano è dato dal metodo attraverso il quale legge la storia del presente e del suo divenire senza però, ed è questo il punto, limitarsi a interpretare, pur in maniera diversa, ciò che gli sta attorno. Anticipando di un qualche decennio Lenin, Engels ha perfettamente chiaro che il materialismo storico e dialettico non è un dogma ma una guida per l’azione. La scienza comunista è in primo luogo praxis. Per questo non si limita a leggere e ad anticipare la realtà, il suo non è il freddo e anodino lavoro dell’analista privo di coinvolgimento nei fatti ma l’agire militante dentro la storia. Ciò che Engels coglie, in quello scenario postmoderno che è la Londra e l’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, è continuamente il lato cattivo della storia ossia le contraddizioni che quel ciclo di accumulazione capitalista non può fare a meno che amplificare ed è esattamente lì che ipotizza concretamente la possibilità di far invertire la rotta degli eventi. Gli operai sono soli, isolati, individualizzati e alle prese con la quotidiana lotta per mettere insieme il pranzo con la cena. Il loro livello culturale e intellettuale è di infimo ordine, gran parte del loro scarno salario finisce nelle bettole. L’esercizio di una sessualità ben poco raffinata sembra essere l’unico orizzonte in grado di scuotere le loro meste esistenze. I reportage che testimoniano il dilagare della prostituzione e dell’alcolismo tra le donne proletarie riempiono intere biblioteche, la gioventù operaia e proletaria cresce senza educazione ed è velocemente posta alla catena del lavoro di fabbrica. Queste masse proletarie sembrano, ogni giorno, non far altro che rendere omaggio a Hobbes, la guerra di tutti contro tutti regna sovrana. Ma cosa definisce questa fotografia se non le masse in quanto capitale variabile? Che cos’è questa condizione se non quella di pura e semplice appendice della macchina? È pensabile, rimanendo imprigionati in tale frame, ipotizzare una condizione diversa? Non è forse questa la condizione a cui le ha prima costrette e poi ridotte il modo di produzione capitalista? [120] Ma, ed è qua che si gioca per intero la forza del metodo, questa condizione ha due volti: da un lato quello della “massa senza volto” abbruttita e priva di legami sociali, semplice appendice del processo di valorizzazione del capitale ma, dall’altra, questa stessa “massa senza volto” è anche classe storica e lo è in virtù di una condizione storicamente determinata [121] . Questa stessa massa, inconsapevolmente, sta già lottando, si tratta di dare a queste lotte una coscienza e una prospettiva, si tratta, in poche parole, di rendere esplicito ciò che, al momento, vive solo in potenza: la dimensione di classe in senso storico – politico che il proletariato racchiude in sé. Per questi motivi, una volta esaminati a fondo tutti i lati della questione, Engels non può che farsi “ottimista”. Se la condizione di capitale variabile non può che portare alle angosce di un individualismo senza speranze, la condizione di classe storica non può che portare verso un futuro collettivo gravido di aspettative. Alla condizione di “massa senza volto” , la cui declinazione empirica si manifesta in un individualismo disperato e disperante, Engels contrappone il lato cattivo delle masse, quello della loro esistenza storica. In tutto ciò si mostra la forza della scienza comunista che consente di porre, dentro la realtà dei rapporti materiali tra le classi, l’idea – forza del comunismo. Non si tratta di un semplice lavoro da propagandista poiché ad Engels è estremamente chiaro quanto, una volta diventata di massa, un’ideologia si faccia forza materiale.
Oggi, nel momento in cui il volto statuale si ripresenta appieno nella veste di comitato d’affari della classe dominante e i mondi sociali sembrano vivere, anche se non pochi indicatori vanno in direzione esattamente opposta, una condizione di sostanziale inerzia, occorre armarsi dello stesso “ottimismo” di Engels: appropriarsi delle armi della critica è il solo passaggio che ne consente l’evoluzione e il rovesciamento.
La situazione della classe operaia in Inghilterra esce a Lipsia nel maggio del 1845. In quella data Engels ha venticinque anni e con Marx ha già iniziato a intessere quella fitta relazione che, sul piano pubblico, li porterà ad essere una medesima persona. Nel testo, a grandi linee, sono già comprese le basi del materialismo storico e dialettico che, di lì a poco, verranno maggiormente sviluppate attraverso la “resa dei conti” finale con la filosofia classica tedesca. Ma i brani engelsiani, sotto molti aspetti, rappresentano un testo a sé poiché possono essere considerati materiali di carattere più sociologico che storico o politico. Ciò che Engels ci consegna, infatti, è un grande affresco di quella vita metropolitana che lo sviluppo del modo di produzione capitalista porrà costantemente all’ordine del giorno. Un insieme di conflitti e contraddizioni che, avendo a mente la realtà che ci circonda, si mostrano quanto mai attuali. La Londra di Engels è quella di un mercato del lavoro completamente privo di regole dove le masse proletarie passano con sostanziale indifferenza da un ambito produttivo all’altro, a dimostrazione di come la flessibilità e la deregulation non siano fenomeni così innovativi ma affondino le loro radici nella necessità del modo di produzione capitalista di esercitare appieno il dominio sul lavoro vivo. Il tutto all’interno di uno scenario permanentemente instabile, poiché a periodi di lavoro e sfruttamento piuttosto intensi si alternano fasi di disoccupazione o di lavoro part time, una condizione palesemente non così distante da quella precarietà alla quale, oggi, sono ascritte corpose quote di forza lavoro e che in molti sembrano scoprire come novità assoluta
Ciò che Engels descrive, in poche battute, è lo stato di eccezione permanente [122] in cui versa l’esistenza del proletariato. A caratterizzare tale condizione è la costante concorrenza tra i lavoratori mentre la cornice individualizzata e individualizzante che fa da sfondo alla vita metropolitana londinese ha, come sua conseguenza non secondaria, la continua ricerca di una soluzione individuale alla propria sopravvivenza. Uno scenario che, una volta depurato dei suoi tratti filosofici e culturali (la lotta incessante per l’affermazione del più adatto e l’imporsi dei sani e dei forti), non si riduce ad altro che a un “volontario” abbassamento del salario e a un altrettanto “volontario” allungamento della giornata lavorativa. In che modo, infatti, la forza – lavoro può rendersi appetibile e competitiva se non riducendo al limite le esigenze per la propria riproduzione e “decidendo” di offrire all’acquirente la maggior quantità possibile del proprio tempo a un prezzo estremamente contenuto? Una storia che sembra avere ben poco di Ottocentesco ma fotografa appieno la condizione di quote non indifferenti di proletariato contemporaneo. Non diversamente da oggi, alla concorrenza tra i singoli individui operai, si aggiunge la concorrenza tra operai di “razza” diversa. Nella Londra di Engels sono gli operai irlandesi, gli stomaci [123] dei quali sembrano avere caratteristiche diverse da quelli degli operai inglesi, a costituire un ulteriore fronte concorrenziale. Sul mercato del lavoro questi si “offrono” a prezzi particolarmente vantaggiosi per gli imprenditori poiché la miseria dalla quale sono attanagliati, figlia diretta del colonialismo britannico, ha ridotto quasi al nulla le loro esigenze. La loro comparsa sul mercato inglese abbassa ulteriormente le condizioni di vita medie della classe operaia indigena la cui prima reazione è di tipo dichiaratamente xenofobo. Per l’operaio inglese il nemico diventa l’operaio irlandese. Forse, alla luce di tale scenario, la post modernità ha origini ben più arcaiche di quanto possa sembrare ai suoi odierni teorici. Di tutto ciò il testo di Engels ne offre una disamina quanto mai efficace ed efficiente e per questo a diventare non poco interessante è il suo confronto con gran parte della letteratura critica contemporanea. Poniamo, l’uno di fronte all’altro, Engels e Bauman il quale tra le schiere degli “intellettuali critici”contemporanei è sicuramente tra i più onesti e intelligenti. Senza alcun dubbio i testi di Bauman [124] sono in grado di fornire una fotografia quanto mai esaustiva delle società contemporanee poiché, come ben argomenta nell’insieme della sua saggistica l’autore, i nostri mondi sono segnati da un profondo individualismo, dall’assenza di solidarietà, l’appartenenza di classe è andata bellamente in frantumi mentre l’odio e la repulsione verso chiunque stia un gradino più in basso di noi, e quindi verso gli immigrati che per condizioni oggettive stanno sul fondo della scala sociale ed economica, è qualcosa di talmente ovvio ed evidente che non ha neppure bisogno di essere argomentato. Allo stesso tempo l’alienazione attraverso la ricerca e la rincorsa a un consumismo dai tratti compulsivi [125] è una realtà che può essere colta da chiunque. Difficile mettere in discussione ciò che, più che una fine analisi, si mostra come l’esatta fotografia del mondo contemporaneo ma, tutto ciò, ha anche un limite poiché ogni fotografia, anche la meglio riuscita, non è in grado di cogliere almeno due fattori: primo, di cosa è frutto ciò che viene immortalato dallo scatto; secondo, la fotografia, per sua natura, non può vedere il movimento e la contraddizione che oggettivamente il modo di produzione capitalista inevitabilmente si porta appresso. In altre parole, lo scatto, fissa un’immagine che rende eterna e priva di dinamiche una situazione che, al contrario, è storicamente determinata e proprio in virtù di ciò continuamente attraversata da conflitti e contraddizioni le cui origini sono riconducibili, sempre, ai rapporti tra le classi e alla lotta inevitabile in cui la loro relazione è obiettivamente ascritta. Ciò che “sfugge” a Bauman, al pari di tutti i teorici della borghesia, è la dialettica che segna il divenire della storia. Cosa ci raccontano, andando al sodo, gli scatti analitici di Bauman se non che il mondo attuale, oltre a essere eterno, è cattivo, che uomini di poco cuore lo governano e che tutto ciò provoca sofferenze indicibili? Ma, soprattutto, quale soluzione offre Bauman se non quella di consegnare il governo della società a intellettuali illuminati e pieni di buoni sentimenti come se, questi, non fossero a loro volta frutto ed espressione delle condizioni e dei rapporti di forza tra le classe storicamente determinati ma, reiterando il vecchio assioma della cesura tra sapere e potere, una sorta di elite esterna ed estranea alle dinamiche, alle necessità e alle esigenze del potere e, anzi, perennemente in conflitto con queste? Che cosa racconta questa ipotesi se non il vecchio desiderio dei philosophes di farsi ceto di governo [126] ? Arrivando al dunque la montagna ha partorito il più classico dei topolini. Che cosa, al contrario, vede e mette in moto Engels partendo da una fotografia per lunghi tratti simile? È qua che si mostra per intero la differenza tra la sociologia borghese e la teoria marxista ed è una partita, questo è il passaggio centrale, che non si gioca sul piano delle idee bensì della materialità storica. La differenza tra Engels e Bauman non sta tra due sistemi di pensiero diversi ma nella differente postazione di classe che questi rivestono. A parlare, in Engels, è il movimento storico della classe in ascesa mentre, le parole di Bauman sono pur sempre enunciati, per quanto critici, della classe dominante la quale, anche se in offensiva tattica nel presente, sul piano storico si trova pur sempre in difensiva strategica. In Bauman, al contrario che in Engels, non albeggia mai la possibilità di una rottura storica per mano di una nuova classe ma la partita, nel bene e nel male, può essere giocata solo dentro alla borghesia. Bauman non coglie, perché li ritiene inessenziali, i movimenti interni alle masse e, al contempo, sembra del tutto disinteressato a prendere in considerazione le contraddizioni e i conflitti presenti tra i blocchi imperialisti poiché, dalla sua postazione di classe, considera il modo di produzione capitalista forse modificabile ma non superabile. Ad animare Engels è esattamente l’opposto. Sono le masse, in virtù della postazione che oggettivamente occupano dentro il modo di produzione capitalista, a essere le vere protagoniste della scena storica. Sono i “tre operai” [127] che cessano di ubriacarsi e si pongono sul terreno dell’organizzazione e della politica a rappresentare la classe. È l’aspetto cosciente, quindi qualitativo, a diventare non solo essenziale ma determinante. Nella società capitalista sarà sempre per lo più maggiore il numero di operai che, in quanto singoli, continueranno a percepirsi come capitale variabile piuttosto che classe in senso storico – politico come, del resto, era accaduto alla stessa borghesia ma in virtù dell’oggettività del moto storico è la parte cosciente della classe ad essere storicamente protagonista. In qualche modo, e ciò non vale solo per il proletariato ma anche per le classi che lo hanno preceduto in quanto attori attivi del moto storico, è sempre una minoranza di massa a manifestarsi in quanto coscienza dell’epoca mentre, per lo più, il resto della popolazione segue, con modi e tempi diversi, l’affermarsi e il dipanarsi della nuova era. Nella storia a essere sempre determinante è una maggioranza politica e non il banale dato quantitativo [128] . Anzi, il più delle volte, le ere passate, in virtù della “forza dell’abitudine”, sono in grado di gettare la loro ombra, e quindi condizionare le rappresentazioni ideologiche degli uomini, ancora per lunghi anni dentro un mondo la cui base strutturale si è già bellamente modificata [129] . Per altro verso, i conflitti interni al campo borghese, mostrano come ben difficilmente la realtà sia riconducibile a un insieme di fotogrammi fissi. È dentro a questo movimento permanente, il cui moto continua a prodursi anche quando sembra che tutto sia immobile, che l’idea – forza del comunismo impara a muoversi ed è in grado di farlo perché, dalla sua, ha l’arma del materialismo storico e dialettico. Su questa scia Engels si muove. Di qua l’importanza, avendo a mente gli attuali scenari metropolitani, di una sua nuova lettura.
In seconda battuta ci pare opportuno suggerire le seguenti letture: K. Marx – F. Engels , da L’ideologia tedesca [130] la sezione dedicata a Feuerbach; K., Marx, Introduzione del '57 [131] ; F. Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; F. Engels, Prefazione del 1892 [132]
Con queste entriamo propriamente nel cuore del metodo. Come testo iniziale proponiamo la corposa sezione dedicata a Feuerbach con la quale si apre L’ideologia tedesca scritta tra il maggio e l’autunno del 1846 e che, in vita gli autori, non venne mai pubblicata. La sua prima edizione integrale, infatti, risale solo al 1932 all’interno della Marx – Engels – Gesamtausgabe curata da V. Adoratskij. È in questo testo che Engels e Marx chiudono i conti con l’intero movimento filosofico contemporaneo dal quale, proprio nelle pagine di questo lavoro, prendono definitivamente congedo. L’alba del 1848 [133] e di tutto ciò che questa si porterà appresso è storicamente ancora distante e le battaglie che di lì a poco si concretizzeranno nelle insurrezioni di gran parte delle capitali europee sembrano consumarsi solo nei ristretti cenacoli intellettuali. Sotto tale profilo la Germania, attraverso Kant, Fichte, Shelling, Hegel e infine Feuerbach, può considerarsi il Paese dove le dispute teoriche e filosofiche hanno raggiunto il punto d’approdo più alto e sistematico del pensiero borghese. Se l’Inghilterra è stata la culla della rivoluzione economica e la Francia di quella politica della borghesia, la Germania, che l’arretratezza delle forme economiche e sociali esistenti consegnava a una sorta di immobilismo storico, è il Paese all’interno del quale la gestazione della nuova era borghese è stata pensata con maggiore intensità e lucidità. L’idealismo di Hegel e la critica materialista, ancorché limitata nell’orizzonte della critica alla religione , ne rappresentano i punti di sviluppo maggiormente elevati. A questa scuola Engels e Marx si sono abbeverati attingendone quanto di positivo e soprattutto di storicamente progressivo in questi sistemi di pensiero era presente [134] . Tutto ciò, e in particolare per quanto concerne Marx, risulta evidente nella sua produzione giovanile dalla quale, proprio nello scritto qua proposto, si emanciperà definitivamente [135] . Di ciò se ne ha una buona esemplificazione osservando soprattutto il passaggio politico di Marx. Fino a quando l’ombra di Hegel continua a sovrastare la sua “visione del mondo” il suo punto di vista politico rimane, per quanto radicale, tutto interno al movimento della democrazia borghese e il suo orizzonte non oltrepassa l’umanesimo del socialismo prescientifico. Solo nel momento in cui il materialismo storico e dialettico inizia a prendere forma i limiti del radicalismo borghese, che nell’umanesimo avevano trovato la loro forma compiuta, potranno lasciare definitivamente alla teoria comunista propria della classe storica in ascesa [136] . L’ideologia tedesca e in particolare la sezione dedicata a Feurbach segnano esattamente questo passaggio. A diventare centrale è il mondo materiale e il suo divenire. Mentre, sino a ieri, il proscenio storico era occupato dalle idee e dagli individui adesso, attraverso quell’autentica rivoluzione copernicana operata dal materialismo storico e dialettico, il centro della scena è occupato dalla produzione materiale dell’esistenza che informa l’intera formazione economica e sociale e dalle classi che, all’interno di una formazione economica e sociale storicamente determinata, si combattono. Le battaglie delle idee, che sino ad allora sembravano essere il volano del mutamento storico e con queste gli individui che le proclamavano, si mostrano in realtà lotte le cui ragioni affondano nelle contraddizioni oggettive che un determinato sviluppo delle forze produttive ha sedimentato.
L’applicazione del metodo lo troviamo nella nota Introduzione del ’57. Scritta da Marx tra l’agosto e il settembre 1857, inizialmente doveva servire da introduzione all’opera Per la critica dell’economia politica ma, in seguito, Marx rinunciò a pubblicarla perché riteneva che anticipasse dei risultati ancora da dimostrare. Lo scritto venne poi ritrovato tra le carte di Marx nel 1902 e pubblicato, ma con numerose varianti rispetto all’originale, nel 1903 in Die Neue Zeit. Solo nel 1939, ad opera dell’Istituto Marx – Engels – Lenin di Mosca, venne ripubblicato nella sua versione integrale e originale. Si tratta di un testo “didattico” all’interno del quale Marx mostra, in maniera assolutamente chiara e precisa, sia le procedure attraverso le quali operare per osservare scientificamente il mondo reale sia gli errori, frutto del limite storico a cui la loro postazione di classe li obbligava, degli economisti e dei filosofi borghesi. Proprio queste pagine, all’apparenza così teoretiche e astratte, mostrano come per Marx non vi sia nulla di più distante e insensato dalle generalizzazioni all’interno delle quali, come nella notte, tutti i gatti finiscono con l’essere bigi. Un insegnamento quanto mai prezioso in un’epoca, come l’attuale, dove assai diffusa è la propensione alle facili generalizzazioni che si traducono, il più delle volte, in un insieme di parole in libertà è quanto mai reiterata [137] . Il cuore del testo è rappresentato dal concetto di storicità continuamente giocato in contrapposizione all’imperante tendenza dell’epoca a considerare eterni e immutabili gli elementi che fanno da sfondo alla produzione. In seconda battuta particolare oggetto della critica marxiana diventano le cornici culturali, tutte incentrate sull’individualità e l’individualismo, proprie del mondo borghese. Vi è uno stretto legame tra queste, a ulteriore dimostrazione di come il mondo delle idee sia l’esatto contenitore non di idee eterne ma di idee particolari proprie delle classi dominanti, e il modo di produzione che si è fatto egemone. Per l’economia borghese è l’individuo, solo e isolato, a essere il centro del mondo e proprio a partir da ciò essa considera la produzione come qualcosa di sostanzialmente asociale. Andando al sodo, per l’economia politica borghese, la società in fondo non esiste ma, ciò che comunemente si chiama società non è altro che la sommatoria di tanti Robinson che, non diversamente da questi, vivono in perfetto isolamento e solitudine. Ciò che il pensiero economico borghese non riesce a cogliere è il carattere immediatamente sociale della produzione e il processo di cooperazione di cui è frutto. Se ciò è vero, evidentemente l’intero castello ideologico della borghesia crolla poiché, la produzione, è qualcosa che poggia su uno sfondo storico determinato all’interno del quale, le azioni individuali, non possono che essere il risultato di queste medesime condizioni. Non l’eterna lotta tra individui e il primeggiare dei migliori, come le ideologie borghesi sostengono, determina il ruolo dei singoli dentro la produzione bensì la postazione che i singoli, in quanto prodotti storici delle classi sedimentate dallo sviluppo delle forze produttive, possono vantare. In altre parole Marx mostra come ciò che per la borghesia è eterno, in realtà, non è altro che il frutto di una situazione storica determinata. Paradigmatici, in particolare, sono le questioni relative al denaro e al lavoro. In qualche modo denaro (tralasciamo al proposito l’era del comunismo primitivo) e lavoro sono sempre esistiti ma, ed è questo il punto, solo in determinate condizioni storiche particolari il denaro diventa capitale così come, solo in un particolare contesto il lavoro si trasforma in lavoro salariato. Ma questo cosa significa se non che anche quella particolare forma di lavoro, frutto di un rapporto di forza tra classi dominanti e classi dominate, è storicamente determinato e pertanto storicamente superabile? Veniamo così al nucleo radicale della teoria di Marx quella in cui a essere preso di mira è la forma salario. La critica rivolta ai riformatori e riformisti dell’epoca non lascia spazio ad ambiguità. Per questi il problema non era la produzione bensì la distribuzione. La contraddizione non risiedeva nel modo in cui si produce ma nell’accesso al consumo. Una sorta di “politica dei redditi” ante litteram. Marx mostra esattamente la relazione dialettica tra produzione e consumo e come non sia possibile modificare l’uno senza abolire l’altra. Ma ciò che, con ogni probabilità, dentro la ricchezza di questo testo va colto per intero è l’osservazione del moto storico del proletariato e del suo divenire classe universale in quanto classe che, in sé, racchiude la storia e le esperienze di tutte le ere precedenti e che, liberando se stessa, è in grado di compiere l’ultimo atto di classe della storia. Questo frutto ha avuto una lunga gestazione ed è ora giunto, anche sul piano concettuale, a piena maturazione. Non a caso abbiamo inserito come lettura conclusiva di questa seconda parte L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza e la Prefazione del 1892, dove sono raccolti tre capitoli dello scritto polemico del 1878 scritto da Engels per confutare le teorie, allora particolarmente in auge, di Eugen Dühring ma che, oltre a ciò, possono considerarsi anche come giudizio definitivo del materialismo storico e dialettico sul mondo delle idee che lo ha preceduto. Engels ripercorre per intero, attraverso uno stringente corpo a corpo con il pensiero borghese, le tappe che hanno portato all’elaborazione del materialismo storico e dialettico mostrando come questo sia esattamente il frutto maturo delle forze che la stessa società capitalista ha generato. Con questo testo si chiude il cerchio aperto con l’inedito del 1845. Nel 1859 Marx, nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica nei confronti del suddetto si era espresso nella maniera seguente:
“ Friedrich Engels, col quale, dopo la pubblicazione (nei Deutschfranzӧsische Jahrbücher ) del suo geniale schizzo di critica delle categorie economiche mantenni per iscritto un continuo scambio di idee, era arrivato per altra via (si confronti la sua Situazione della classe operaia in Inghilterra), allo stesso risultato cui ero arrivato io, e quando nella primavera del 1845 si stabilì egli pure a Bruxelles, decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era vedere chiaro in noi stessi”. [138]
Con il testo engelsiano il corpo teorico del materialismo storico e dialettico può dirsi giunto a piena maturazione. Nelle pagine seguenti ne vedremo la sua applicazione ed elaborazione “dentro” alcuni frammenti storici.
In un terzo blocco di letture abbiamo inserito: K., Marx, dal terzo libro de Il Capitale, Cenni storici sul capitale commerciale [139] ; K., Marx , Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850 [140] ; K., Marx , Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte [141] ; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania; F. Engels, da L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato [142] ,IX capitolo, Barbarie e civiltà
In questa parte a primeggiare sono gli scritti propriamente storici. I testi selezionati hanno il compito di mostrare la “scientificità” del marxismo ossia la sua capacità di leggere il moto storico a partire da un “modello concettuale” in grado di spiegare e anticipare le tendenze che nel mondo storico si manifestano. Questa è la base scientifica del metodo. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 raccolgono gli scritti londinesi di Marx redatti tra il gennaio e il marzo 1850 per conto della Neue Rheinisce Zeitung e hanno come oggetto gli avvenimenti rivoluzionari francesi che fecero di questo Paese l’epicentro e il punto più avanzato del conflitto di classe che attraversò, intorno alla metà dell’Ottocento, l’intero Vecchio Continente. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte prende le mosse dal colpo di stato del 2 dicembre 1951 ad opera di Luigi Bonaparte ed è stato scritto da Marx tra il dicembre 1851 e il marzo 1852. Il saggio venne pubblicato per la prima volta nel 1852 sulla rivista tedesca Die Revolution diretta da Joseph Weydemeyer. Rivoluzione e controrivoluzione in Germania raccolgono una serie di articoli scritti a Londra da Engels, tra l’agosto del 1851 e il settembre 1852, per conto della New York Daily Tribune. Le vicende di questi scritti meritano di essere raccontate. Inizialmente gli articoli uscirono firmati da Marx poiché a lui il New York Daily Tribune aveva commissionato il lavoro. Oberato dagli impegni, in questo periodo Marx stava già lavorando assiduamente sui materiali che gli consentiranno di editare Il Capitale, chiese a Engels di sobbarcarsi il lavoro. Solo nel 1913, dal carteggio tra Marx ed Engels, si scoprì che l’autore degli articoli era Engels e non Marx. L’episodio potrebbe apparire come un semplice escamotage messo in atto dai due amici per non perdere una commessa, della quale Marx aveva non poco bisogno, e mantenere così fede agli impegni lavorativi assunti. Se così fosse non vi sarebbe veramente nulla da commentare. In realtà, il piccolo episodio commerciale, racconta assai di più. Non solo il saldo legame tra Engels e Marx e la palese sintonia metodologica tra i due ma, ed è questo l’aspetto che deve essere veramente colto in tutto il suo portato, la “rottura epocale” che il marxismo comporta e di cui il metodo non ne rappresenta solo la migliore esemplificazione ma ne è presupposto fondamentale. Che cosa ci racconta, infatti, il piccolo evento? Principalmente una cosa: il passaggio dall’io al noi. Fin dal suo apparire, e la lettura dei testi raccolti nel secondo blocco dovrebbero averlo chiarito a sufficienza, la teoria del proletariato sposta l’attenzione dal mondo delle idee al mondo materiale e dall’attività dei singoli a quella delle masse. Sono le classi, le loro lotte e i loro movimenti, all’interno di una condizione storicamente determinata, a fare la storia anche se, a raccontarla, sono sempre dei singoli i quali la raccontano assumendo, per lo più, il punto di vista delle classi dominanti. In questo caso il lavoro intellettuale non è mai considerato il frutto oggettivo di un processo di cooperazione ma il risultato dell’intelligenza del singolo come se, l’intellettuale, vivesse solo e isolato dal mondo e non fosse anche lui frutto sia di una postazione sociale storicamente determinata sia l’oggettivo crocevia di processi e dinamiche storiche concrete e materiali. In tale ottica, il lavoro intellettuale, è unicamente un prodotto individuale del quale, il singolo, ne detiene a pieno diritto l’intera proprietà. In realtà, ed è il materialismo storico dialettico a fornirne la dimostrazione, ancor più di qualunque altro prodotto, il lavoro intellettuale non può essere altro che il frutto, più o meno maturo, di un processo di cooperazione e socializzazione la cui attribuzione individuale è del tutto casuale. Non si può scrivere la storia dell’industria aerospaziale nella Londra del 1600 così come non si sarebbe potuta tentare una “sociologia del centro commerciale” nelle campagne germaniche del 1300 o della conflittualità operaia nella Parigi del 1500. In poche parole non si può scrivere e pensare fuori dal contesto dei rapporti sociali di produzione ma questi rapporti non sono, né hanno alcuna possibilità di esserlo, qualcosa di indipendente, autonomo ed estraneo dagli innumerevoli intrecci materiali che compongono la dimensione sociale ed economica dei quali ognuno, intellettuale o no, ne è il prodotto. Tutto ciò sembra essere tanto ovvio da sfiorare la banalità eppure il modo di produzione capitalista astrae la produzione intellettuale dal determinato contesto di interazioni materiali di cui è prodotto. È stato il marxismo a rovesciare completamente tale prospettiva e a considerare il lavoro, e quindi anche il lavoro intellettuale, come frutto della cooperazione sociale. Ma questo cosa comporta? Perché Engels può, indipendentemente dal grado di amicizia che nutre nei confronti di Marx, scrivere al suo posto e farlo senza che nessuno se ne accorga? Perché, questo piccolo espediente dettato da una contingenza, è in grado di raccontarci qualcosa di essenziale del materialismo storico e dialettico? Per due motivi. Primo, il metodo obbliga a interpretare i fatti dentro una cornice che difficilmente si può eludere. Leggere gli eventi storici alla luce del materialismo storico e dialettico non può, pertanto, che portare verso una direzione. Se, come il materialismo storico e dialettico sostiene, non esistono punti di vista individuali ma solo punti di vista di classe allora le opzioni che di fronte al singolo si pongono non sono molte poiché, andando al sodo, queste non saranno altro che la forma più o meno cosciente e più o meno ben elaborata e articolata di una delle classi agenti in una determinata formazione economica e sociale presenti e attive sulla scena storica “concreta”. Come nell’Atene di Pericle non è pensabile un’opzione teorico – politica frutto del punto di vista dell’operaio – massa o nella Roma repubblicana il punto di vista del precario di Torpignattara, allo stesso modo, nella Berlino del 2011, non è pensabile cogliere l’influenza politica e culturale degli Junker prussiani o nella banlieue parigina del 2005 le retoriche culturali che fanno da sfondo all’incoronazione di Carlo Magno. Anche quando, in determinate circostanze, gli eventi del presente si rivestono degli allori del passato, come nel caso della Rivoluzione francese che inizialmente prese a prestito le retoriche della Roma Repubblicana, ben presto tali nostalgie sono obbligate a lasciare il passo non solo agli eroi, grandi e piccoli che siano, del presente ma devono modellare i propri costumi alle esigenze e necessità che un determinato grado di sviluppo delle forze produttive richiede. La Francia rivoluzionaria è un Paese prevalentemente di piccoli e medi contadini e non può riprodurre in vitro l’economia della Roma repubblicana insieme a tutti i suoi attori sociali in carne ed ossa. E non può neppure, se non per un breve tratto del suo percorso, reintrodurre per legge i costumi e la morale dell’epoca alla quale si è inspirata. Ben presto, e indipendentemente dai buoni propositi degli uomini politici migliori che cavalcano la scena pubblica, i “costumi” propri delle forze produttive, liberate dagli impedimenti di una formula politica caduta in disarmo, reclamano i loro “diritti”. Il Termidoro non Robespierre portano a termine il primo tratto della rivoluzione borghese in Francia [143] .
Ma proseguiamo nelle nostre considerazioni intorno al metodo. Di fronte al medesimo fatto è impensabile che esistano punti di vista uguali e omogenei. Ben difficilmente, ad esempio, un’associazione padronale considererà una riduzione della giornata lavorativa insieme al contemporaneo aumento del salario alla stregua delle associazioni operaie così come, un popolo colonizzato, difficilmente avrà verso il colonialismo il medesimo approccio dei coloni. Allo stesso modo è difficile immaginare che di fronte a una tassazione progressiva del reddito i liberi professionisti, i capitalisti finanziari, gli impiegati pubblici e i salariati abbiano punti di vista identici così come a fronte di una condizione lavorativa priva di diritti e garanzie il venditore della forza – lavoro e l’acquirente possano mostrare il medesimo entusiasmo. Ma tutto ciò cosa significa se non che, una volta depurate dei loro fronzoli, le idee e quindi gli intellettuali che sono a tutti gli effetti gli ingegneri delle coscienze di classe presenti dentro una società storicamente determinata non possono essere altro che espressione di una materialità economica e sociale politicamente organizzata? Pertanto, ciò che il mondo della borghesia ama definire come scambio di opinioni individuali, del quale il parlamentarismo ne sarebbe la migliore esemplificazione, in realtà non è altro che il campo di battaglia di postazioni segnate dall’inimicizia. Se ciò è vero, ed è obiettivamente difficile non riconoscerlo, non è difficile capire come Engels si sia potuto tranquillamente “sostituire” a Marx. Negli scritti sul ’48 tedesco ciò che è in ballo non sono né Marx, né Engels ma il punto di vista del proletariato dentro la rivoluzione. Questo è quanto ci consegnano gli “scritti storici” di Engels e Marx. L’applicazione del metodo a un insieme di “frammenti” di eventi storici concreti. Proprio in tale frangente, e di qua l’importanza che tali scritti rivestono al di là della contingenza per i quali hanno visto la luce, a essere messo concretamente alla prova è il metodo come strumento pratico di analisi. Non astrazione teoretica ma praxis finalizzata alle battaglie della classe. Sotto tale aspetto, allora, questi scritti rappresentano per intero una cesura storica poiché, per la prima volta, di fronte a eventi concreti non compare un punto di vista critico che rimanda al mondo dell’utopia, al mondo di come dovrebbero andare le cose, non siamo di fronte all’elaborazione di qualche sognatore particolarmente propenso ad acchiappare le nuvole ma a un metodo che trae la sua forza e legittimità da un moto storico dove, per la prima volta, una classe si mostra in tutta la sua autonomia politica e teorica. Una rottura a trecentosessanta gradi che segna un intero passaggio storico. A emergere è esattamente lo scarto tra la funzione dell’intellettuale come singolo e lo “intellettuale collettivo” della classe rivoluzionaria. In tale ottica, quindi, l’importanza del conducente diventa in fondo di secondaria importanza. Proprio dentro questo “effimero” episodio a diventare centrale è l’idea del lavoro intellettuale, inteso come “lavoro di partito”, frutto non di singoli ma di quello “intellettuale collettivo” che il partito politico del proletariato a tutti gli effetti è [144] . Un passaggio non secondario poiché proprio da qui è possibile cogliere la piena rottura che lo stile di lavoro del partito del proletariato inaugura nei confronti del mondo che lo circonda. Frutto di un processo storico il materialismo storico e dialettico è la scienza che sovverte alle radici anche le rappresentazioni culturali della borghesia. All’intellettuale individuale della borghesia contrappone l’intellettuale collettivo del proletariato. Frutto storico della classe il materialismo storico e dialettico non può che vivere come forma di pensiero collettivo della classe. Non si tratta solo e semplicemente di negare la proprietà privata intellettuale perché, posta in questi termini, la cosa potrebbe apparire un semplice atto “volontaristico”o persino un vezzo naif ma di assumere uno stile di lavoro e una linea di condotta che metta al centro ciò che, in realtà, sta già dentro la materialità delle cose che lo stesso capitalismo ha sviluppato: la cooperazione sociale.
Detto ciò torniamo ai testi. I tre manoscritti propriamente storici devono essere introdotti dal capitolo venti tratto dal Terzo libro de Il Capitale, Cenni storici sul capitale commerciale la cui edizione avvenne, a cura di Engels, nel 1894. Suggerire la lettura di questo testo come una sorta di introduzione ci è parso utile avendo a mente il contesto storico in cui si situano gli eventi trattati. Nel 1848, dentro il modo di produzione capitalista, sono presenti diverse ere storiche del capitale le quali organizzano, sulla scena politica, frazioni diverse della borghesia alle quali corrispondono interessi materiali diversi. Se, sullo sfondo, il conflitto tra proletariato e borghesia, in quanto conflitto storicamente principale si è già ampiamente delineato, all’interno della stessa borghesia i giochi sono del tutto aperti. Con puntigliosità Marx descrive le contraddizioni tra borghesia industriale e borghesia finanziaria, tra la borghesia commerciale e i contadini mostrando come, dentro ogni era capitalista, non pochi retaggi delle ere precedenti continuino a vivere e a occupare spazi economici e sociali di una qualche notevole consistenza. Nelle poche pagine del capitolo Marx, esaminando la formazione, lo sviluppo e le modifiche a cui è pervenuto il capitale commerciale, ci offre un piccolo e insuperato saggio di come il materialismo storico e dialettico affronta il mutuare della formazione economica e sociale. Ma tutto ciò ha, per il proletariato, delle ricadute politiche e pratiche non indifferenti. Perché? Che cosa significa per il proletariato avere lucidamente a mente il tipo di formazione economica e sociale in cui si trova ad agire? Qual è la lezione che occorre trarre? Una innanzi tutto: nell’esaminare le situazioni “concrete” non bisogna mai farsi prendere la mano dalle facili generalizzazioni. Questo, per il proletariato, è un errore fatale poiché significa considerare le classi sociali come pura astrazione e non coglierle nella loro concreta materialità. Ma compiere un simile errore non è solo indice di superficialità perché significa non essere in grado di cogliere la complessità che ogni formazione economica e sociale si porta appresso, non vedere gli elementi di contraddizione in grado di disunire il fronte avversario, non essere in grado di svolgere il ruolo di forza egemone delle masse le quali non possono essere semplicemente racchiuse dentro la conflittualità padrone – operaio. Nel descrivere il ruolo storico del capitale commerciale e delle sue trasformazioni Marx mette esattamente a fuoco le sfaccettature che caratterizzano il modo di produzione capitalista e la molteplicità di attori che recitano sul suo palcoscenico. Ciò a cui Marx e quindi il materialismo storico e dialettico invitano è esattamente a quella necessaria complessità, che starà al centro dell’elaborazione leniniana [145] , della quale il proletariato è obbligato a farsi carico. Sia Marx che Engels, negli scritti sulle rivoluzioni francesi e tedesche, prendono continuamente in esame tutte le classi sociali e i rapporti che queste mantengono con il proletariato così come, dentro al proletariato, individuano con precisione i diversi suoi segmenti e, a partire da ciò, le diverse funzioni che sono a richiamati a ricoprire. Ogni volta e in ogni passaggio, per Marx ed Engels, le classi sociali sono tutto tranne che vuote astrazioni ma, a primeggiare, è sempre la loro carne e il loro sangue. Ciò che vale per gli attori civili vale, non da meno, per gli attori militari. In ogni contesto, Engels e Marx, si preoccupano di analizzare a fondo i vari tipi di forze armate la loro composizione sociale, le retoriche “culturali” che fanno da sfondo ai diversi tipi di raggruppamenti, i loro retaggi e bagagli storici così come una particolare cura dedicano alle ricadute che, una modifica del loro armamento, comporta. Come per l’operaio, un salto di “composizione organica”, ossia le modifiche che le trasformazioni tecniche sono in grado di apportare nella produzione, modifica la sua relazione con la fabbrica allo stesso modo, la tecnicizzazione di un ramo dell’esercito, può trasformare un corpo da baluardo delle reazione a possibile alleato della rivoluzione o viceversa. Tale attenzione alle “questioni militari” mostra quanto distanti i due fossero dalla dimensione propria dell’intellettuale borghese. Proprio l’esercito e le forze di polizia, nei momenti di maggiore conflittualità politica e sociale, sono chiamati a rivestire un ruolo essenziale nelle vicende storiche. Coloro che, a ragione, possono essere considerati il punto più alto della coscienza di classe, con tutti gli oneri e i pochi onori che ciò comporta, non possono ignorare gli eserciti. Con o contro questi la classe operaia dovrà fare i conti. Del resto, come il lettore potrà facilmente constatare attraverso la lettura dei testi ricordati, i comportamenti delle varie forze armate giocarono un ruolo preponderante nelle vicende quarantottesche. Per questi motivi gli aspetti militari sono osservati in maniera quasi maniacale. Un esercito o un corpo militare formato da operai di città non può essere la stessa cosa di un esercito di contadini così come un corpo di polizia arruolato tra gli strati in putrefazione della società non è uguale a una “Guardia nazionale” figlia di un moto rivoluzionario. Tutto questo da Marx ed Engels non è assunto come pura cronaca, come semplice descrizione di una “dato di fatto” ma, ed è qui che si mostra appieno la funzione rivoluzionaria che il metodo rappresenta, essi osservano le contraddizioni proprie di ogni situazione “concreta”, il divenire di queste e le possibilità che, a partire da ciò, si possono delineare e creare. Il tutto, e se pensiamo che si tratta di scritti di metà Ottocento non è certo cosa da poco, tenendo continuamente a mente gli scenari locali insieme a quelli internazionali. Nonostante fossimo ancora lontani dall’epoca in cui a farsi egemone è la scena internazionale [146] , Marx ed Engels hanno perfettamente a mente l’intreccio ormai saldo tra politica nazionale e politica internazionale e ciò, negli scritti ricordati, è continuamente posto in evidenza.
Infine vale la pena di spendere alcune parole in merito a Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Mentre tutti gli attori sociali e politici dell’epoca focalizzano lo sguardo su Bonaparte, finendo così per vedere l’albero e non cogliere la foresta, Marx rovescia completamente la prospettiva. Ciò che lo interessa non sono le furberie di Bonaparte ma le condizioni obiettive e materiali che hanno consentito a un uomo di modesta levatura quale era Luigi Bonaparte di assurgere a tale ruolo storico. A essere stupefacente non è tanto il colpo di stato che ha posto fine, insieme alla rivoluzione, anche alla Repubblica ma che a compierlo sia stato una nullità storica quale Luigi. Ma Bonaparte è il frutto di un intero ciclo controrivoluzionario ed è a partire dal senso di questa controrivoluzione che Marx “spiega” Bonaparte e non viceversa. Una metodologia di analisi storica e politica della quale, oggi, ben pochi sembrano in grado di tenere conto. Basti pensare alle vicende italiane e alla “questione Berlusconi” o alle vicende internazionali e alla “questione Bush”. Entrambi, e proprio dai loro nemici, sono stati, immortalità a parte, innalzati alla stregua di dei malvagi in grado di sovvertire, in quanto caimani, il “naturale ordine delle cose”. Invece di vedere, rimanendo alle “questioni italiane”, in Berlusconi colui che riforma lo stato in funzione delle esigenze dell’attuale fase imperialista e modifica, esattamente come la fase richiede, la politica al modello – azienda, ne evidenziano continuamente gli aspetti “immorali” e “plebei”. Al proposito, una lettura neppure troppo attenta del testo marxiano relativo a Luigi Bonaparte, appare più attuale della serie infinta di scoop giornalistici i quali, in fondo, non riescono a dirci altro che i gusti e gli stili di vita della grande borghesia sono del tutto identici a quelli del sottoproletariato. Ciò, proprio in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, prendendo ad esempio la “Brigata dei Macellai” lo aveva tra le righe sottolineato Marx, con la sola e non piccola differenza che, per Marx, queste osservazioni di costume non erano altro che una nota di colore e il cuore della questione era il dispiegarsi della controrivoluzione e le conseguenze che questa comportava per il movimento operaio e le nazionalità oppresse, mentre, oggi, l’unico problema vero sembrano essere le reiterate frequentazioni di escort del premier e l’eccessiva visibilità pubblica di alcune cortigiane come se, tutto ciò, non facesse propriamente parte del bagaglio culturale storico della borghesia al pari della sua reiterata abitudine a vivere di “atti disonesti”. Ma, se passiamo dalle vicende italiane a quelle internazionali, lo scenario si fa se possibile ancora più grottesco. Invece di cogliere nella tendenza alla guerra, nella forma che abbiamo provato a definire nel paragrafo precedente, la tendenza oggettiva dell’imperialismo, ci si è accaniti sulla figura di Bush in quanto reazionario dal cranio particolarmente ottuso. Quando, alla Casa Bianca, è entrato l’abbronzato Obama in molti hanno tirato un sospiro di sollievo: con alla guida dell’amministrazione a stelle e strisce un democratico e per di più dalla pelle scura gli Stati Uniti avrebbero sicuramente cambiato rotta. In un certo senso ciò ha corrisposto al vero: l’amministrazione democratica ha intensificato le operazioni contro i governi popolari e democratici del sud America che l’amministrazione repubblicana aveva momentaneamente trascurato. Con Obama gli Stati Uniti sono diventati ancora più aggressivi il che, anche in questo caso, ha ben poco a che vedere con una qualche particolare inclinazione alla pratica del dominio dell’attuale Presidente ma, più realisticamente, è il frutto della disperata battaglia che gli USA stanno conducendo per provare a venire a capo del loro declino. Fatti nuovi, sicuramente distanti dalle vicende presenti nei testi, in confronto ai quali, però, solo attraverso l’applicazione di quel metodo è possibile venirne a capo.
La terza ipotetica sezione di letture si chiude con il capitolo engelsiano sullo stato moderno tratto da L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. Il testo uscì a Zurigo nel 1884 ed ebbe una rapida fortuna. Tra il 1886 e il 1889 due nuove edizioni videro la luce a Stoccarda. Nel 1894 erano diventate sei le edizioni in lingua tedesca mentre il testo conosceva una felice distribuzione anche in numerose altre lingue tra le quali l’italiano, il rumeno e il danese. Il manoscritto, alla cui stesura aveva non poco lavorato anche Marx, prende le mosse dai lavori dell’etnologo americano Lewis Henry Morgan che, applicando un metodo di indagine storica assai affine al materialismo storico e dialettico, aveva studiato a fondo le forme sociali e politiche degli Indiani dell’America del Nord offrendo un’autentica svolta negli studi sull’antica società fondata su unioni gentilizie e il modo attraverso il quale a questo modello societario privo di stato e proprietà è subentrato la famiglia monogamica, la proprietà privata individuale e un’organizzazione armata separata dalla società qual è lo stato. Nel suo scritto, Engels, attraversa le varie fasi dell’organizzazione statuale e delle forme che la proprietà assume, giunge così a prendere in esame lo stato moderno e la sua funzione di apparato di classe finalizzato a perpetuare il dominio della borghesia. Si tratta di un capitolo decisivo nella storia del materialismo storico e dialettico poiché rappresenta il punto di approdo dell’intera elaborazione marxista in quanto l’intreccio continuo e costante tra la formazione economica e sociale e il suo involucro politico è posta nella massima evidenza. Ben lungi dal rappresentare un corpo a sé, distante ed estraneo alla società, lo stato entra continuamente in gioco nel rapporto tra le classi e, in virtù delle forze e delle risorse materiali di cui è in grado di disporre, modella la e le politiche in funzione degli interessi della classe della quale esercita gli interessi. Una storia che ha attraversato per intero tutta la gestazione della formazione economica e sociale del capitalismo e che, nella società moderna, trova la sua piena realizzazione. Di ciò gli scritti propriamente storici sopra ricordati ne offrono un’esauriente esemplificazione. Il testo sullo stato, di questi, ne rappresenta il corollario e la sintesi e inoltre porta con sé altre tre questioni: la violenza, della quale la forma statuale ne rappresenta la migliore esemplificazione; la legittimità e la legittimazione storica dell’esercizio e dell’uso della violenza; la forma politica, in quanto lato negativo della formazione economica e sociale storicamente determinata, in grado di superare e abolire dialetticamente lo stato delle cose presenti. Tre ordini di problemi che i testi suggeriti nella sezione seguente affrontano di petto.
Vediamoli: K. Marx, da Miseria della filosofia [147] , capitolo secondo, La metafisica dell'economia politica; K., Marx, dal primo libro de Il Capitale [148] , La cosiddetta accumulazione originaria
Miseria della filosofia uscì a Parigi nel 1847 vent’anni dopo, nel luglio del 1867, usciva il primo volume dell’opera fondamentale di Marx e con lei il capitolo qua riproposto. A legare i due testi è sostanzialmente la vena polemica contro la visione al contempo idilliaca ed eterna che caratterizza, secondo i più svariati pensatori, il mondo dell’economia politica capitalista. Non per caso abbiamo chiuso la sezione precedente invitando alla lettura del testo di Engels sullo stato moderno. Non l’idillio ma la violenza, che la classe dominante esercita attraverso la macchina statuale della quale ne detiene le leve di comando, regna sovrana nel mondo dell’economia politica. Di ciò il materialismo storico e dialettico ne offre una disamina difficilmente contestabile sulla quale vi è ben poco da aggiungere. L’intero rapporto tra le classi, in virtù della contraddizione oggettiva che fa da sfondo al modo di produzione capitalista, non può che dare vita a una relazione belligerante dentro la quale, le diverse classi sociali, mettono mano agli strumenti che, realisticamente, sono in grado di attivare. Il dibattito sulla violenza, quindi, al pari di quello relativo alla forma guerra non può che essere di costante attualità poiché la violenza attraversa e sedimenta per intero tutta la formazione economica e sociale capitalista. Ma qual è il principale obiettivo della moderna economia politica? Ancor prima che la produzione è la definizione dello scenario oggettivo, le basi materiali, all’interno delle quali un determinato modo di produzione può dispiegarsi al meglio. Ancor prima che produrre occorre quindi che, sul mercato, siano presenti i produttori. L’intero capitolo ventiquattro descrive attraverso quali violenze legittime si sono create le condizioni per far sì che una quota della popolazione non avesse altra soluzione che vendere l’unica ricchezza in suo possesso: la forza – lavoro. In altre parole l’oggetto del capitolo è la formazione della moderna classe operaia e il ruolo che lo stato ha ricoperto per rendere possibile che una parte della popolazione venisse spogliata di tutto e si trovasse obbligata a offrire le sue qualità lavorative a chi, in virtù del capitale a disposizione, fosse in grado di acquistarla. Perché il modo di produzione capitalista si potesse fare egemone, sul mercato, doveva presentarsi qualcuno la cui configurazione socio – economica fosse quella del produttore e ciò è stato possibile solo attraverso una serie di misure costrittive la cui messa in opera è stata per intero a carico dello stato. Si delinea proprio in questo capitolo la stretta relazione tra forma stato e modo di produzione e la funzione statuale in quanto apparato di classe finalizzato a disciplinare, modellare e irreggimentare la forza – lavoro. Nel capitolo ventiquattro non è solo la messa in primo piano della violenza come atto continuamente fondante e costitutivo del modo di produzione capitalista a essere posta in primo piano ma sono le forme e gli strumenti attraverso cui la violenza è costantemente e legittimamente utilizzata e soprattutto organizzata. Sullo sfondo della cosiddetta accumulazione vi è costantemente il divenire dello stato in veste di comitato d’affari delle classi dominanti e le battaglie che al suo interno conducono anche tra loro le classi possidenti, al fine di piegare ai propri interessi le politiche statuali. Da ciò ne deriva l’aspetto materiale che ogni ambito legislativo e costituzionale riveste. Le leggi, gli ordinamenti giuridici e le stesse Costituzioni non sono il frutto anodino, e le vicende che accompagnano la formazione del moderno proletariato delle quali il capitolo ventiquattro ne fornisce anche una cronaca puntuale e precisa ne sono un’esauriente dimostrazione, riversato da filosofi e giuristi dentro la prosaicità del mondo al fine di dargli un ordine razionale e moralmente fondato, bensì il risultato di lotte e battaglie la cui posta in palio è l’assoggettamento dei singoli alle esigenze di un determinato modo di produzione e alle retoriche che lo devono sorreggere. Le leggi che governano una società sorretta dal lavoro degli schiavi non possono essere le stesse che ordinano le metropoli imperialiste del XXI secolo. Allo stesso modo gli ordinamenti giuridici che sostanziano i vincoli feudali non possono essere gli stessi dell’epopea del libero scambio. Il giurista, nel momento in cui si accinge a porre nero su bianco ciò che è legittimo e ciò che è illecito e, attraverso di ciò, a elencare l’insieme dei diritti e doveri che regolano una società, non intinge la penna in un’ipotetica fonte ideale ma si limita a registrare ciò che, in precedenza, il “diritto di spada” ha già determinato [149] . Gli ordinamenti giuridici, pertanto, hanno ben poco di eterno e ancor meno di universale ma sono l’esatta fotografia del rapporto tra le classi all’interno di una situazione storicamente determinata. Ciò è tanto più evidente andando a osservare gli ordinamenti legislativi nei mondi coloniali. Di tutto ciò gli economisti borghesi e piccolo borghesi, come nel caso di Proudhon, non hanno il minimo sentore. Per loro il vero problema non è la forza e la relazione che soggiace ai rapporti economici capitalistici ma la sensatezza o meno che regola tali rapporti. Ciò che costantemente gli sfugge è il rapporto storico che si cela dentro tali rapporti ed è esattamente questo che i testi marxisti invece svelano. C’è infine un aspetto decisivo che lega il testo giovanile a quello della maturità: la predominanza che nella storia riveste il lato cattivo [150] perché è su quello che poggia il suo divenire. Mentre gli economisti considerano il modo di produzione presente solo dal lato positivo, quello delle classi dominanti, e intorno a ciò organizzano il loro discorsi Marx rovescia esattamente la prospettiva, ne guarda il lato cattivo perché è lì che si colloca, al contempo, la negazione del presente e il suo superamento. Il lato cattivo dell’economia politica è il proletariato. Il materialismo storico e dialettico è la sua cattiva filosofia.
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[1] Al proposito si veda, K. Marx, F. Engels Feuerbach, in Id., L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967; K. Marx, Introduzione del ’57, in Id., Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974
[2] L’importanza che la teoria riveste per il marxismo può essere ben compresa attraverso la seguente sintetica citazione : “Evidentemente l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, la forza materiale non può essere abbattuta che dalla forza materiale, ma anche la teoria si trasforma in forza materiale non appena penetra tra le masse” (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, pagg. 64 – 65, in Marx – Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969). Per Marx, quindi, il ruolo della teoria è talmente poco etereo da farsi “forza materiale”. La teoria non si sostituisce alla prassi ma, di fatto, ne diventa elemento costitutivo e costituente. In questo scarno enunciato è racchiuso, si potrebbe dire, l’intero senso del materialismo storico e dialettico.
[3] Con ciò Lenin intende la verità che, in senso storico, appartiene alla classe in ascesa. La stessa cosa, pur se in maniera storicamente limitata, era accaduto con la borghesia durante la sua fase rivoluzionaria. La verità, ossia il punto di vista storico della borghesia, messa a punto dagli autori borghesi nel corso del ‘500, del ‘600 e del ‘700 contro le verità dell’ordine feudale, nel momento in cui giunsero alla resa dei conti con quest’ultimo, si presentarono come conflitto tra la menzogna e l’ignoranza feudale e la verità illuminata e razionale della nuova classe. Cfr. A. Soboul, Storia della Rivoluzione francese. Principi. Idee. Società, Rizzoli, Milano 1997. Ma la verità della borghesia non poteva, qui il salto che sottolinea Lenin tra la verità della borghesia e quella del proletariato, essere una verità universale poiché legata a una classe ancora imbrigliata nel “particolare”. Solo la verità del proletariato, in quanto classe che emancipando se stessa emancipa l’intera umanità, può essere universale. Questo senso, quindi, il senso dell’affermazione leniniana e il legame oggettivo con il metodo attraverso il quale la verità prende forma.
[4] Su questo aspetto si veda soprattutto V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, in Id., Opere, Vol. 14, Editori Riuniti, Roma 1963.
[5] Si veda al proposito K. Marx, La metafisica dell'economia politica, in Id., Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1993.
[6] È Lenin che, con ogni probabilità, ha posto in maniera più nitida la questione della teoria dentro il movimento rivoluzionario. Per una panoramica e una discussione di questi aspetti si può vedere E. Quadrelli, Lenin. Il pensiero strategico, il partito, il combattimento, la rivoluzione, La Casa Usher, Firenze 2011
[7] Il 1989, in seguito alla caduta del “Muro di Berlino”, può essere assunto come lo spartiacque tra due ere o come la data che sancisce la fuoriuscita dal Novecento. Per una buona ricostruzione dell’insieme del Novecento si veda E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914 – 1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995
[8] Per una discussione su questi temi si veda, G. Bausano, Introduzione, in P. Nizan, I cani da guardia, La Casa Usher, Firenze in pubblicazione.
[9] Cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id. Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 1972
[10] Per una discussione su questi aspetti si vedano D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009
[11] Cfr., D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 2008
[12] Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, Derive Approdi, Roma 2005
[13] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1996
[14] Su questo aspetto si veda l’importante saggio di G. Lucács, Il mutamento di funzione del materialismo storico, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.
[15] F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, Editori Riuniti, Roma 1970
[16] Per una ricostruzione di tutti questi passaggi si veda R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Edizioni Oriente, Milano 1970
[17] Si veda come esempio A. Beevor, Berlino 1945. La caduta, Rizzoli, Milano 2002.
[18] Esemplificativo il caso della Francia che ha combattuto sino ai primi anni Sessanta guerre sanguinose per mantenere almeno una parte del suo impero coloniale.
[19] Cfr., B. Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2007.
[20] Cfr., P. Mastrollani, M. Molinari, L’Italia vista dalla Cia. 1948 – 2004, Laterza, Roma – Bari 2005
[21] P. Cooke, Luglio ’60: Tambroni e la repressione fallita, Teti Editore, Milano 2000
[22] Cfr., C. Arcuri, Colpo di stato, Rizzoli, Milano 2005
[23] D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto, Feltrinelli, Milano 1979
[24] Cfr. AA. VV., “Classe Operaia”, Libri Rossi, Milano 1979; AA. VV., “Quaderni rossi”, Edizioni Sapere, Milano – Roma 1970.
[25] Su questo aspetto si veda in particolare, D. Giacchetti, Il giorno più lungo. La rivolta di Corso Traiano, Biblioteca Franco Serrantini, Pisa 1997
[26] Una tendenza a lungo presente dentro il PCI e che proprio in quegli anni, sotto la direzione di Enrico Berlinguer, trovò la sua piena consacrazione. Fu Enrico Berlinguer, infatti, a dichiarare estinta la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e, attraverso l’operazione del cosiddetto Eurocomunismo, ad allinearsi al sistema militare imperialista della NATO.
[27] Per una ricostruzione di questo evento e le sue ricadute a cascata sui rapporti generali tra le classi si veda, G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana, Manifestolibri, Roma 2000.
[28] Quanto una sconfitta militare, pur drammatica, non sia in grado di annichilire la classe se, nel frattempo, il suo nucleo teorico rimane saldamente al suo posto lo possiamo cogliere, proprio dentro una sconfitta di non certo lievi dimensioni quale quella subita dal proletariato tedesco nel corso della insurrezione spartachista del gennaio 1919 attraverso le parole di Rosa Luxemburg: “Come si configura la sconfitta di questa “settimana di Spartaco” alla luce del precedente problema storico? È una sconfitta dell’audacia rivoluzionaria di fronte all’insufficiente maturità della situazione? O non piuttosto una sconfitta per debolezza e indifferenza nell’azione. L’uno e l’altro! Il carattere bifronte di questa crisi, la contraddizione fra l’atteggiamento pieno di forza, decisivo d’attaccare, delle masse berlinesi e l’indecisione, la timidezza, la mancanza di convinzione dei capi berlinesi, è la caratteristica particolare di questo recentissimo episodio. La direzione è venuta meno. Ma la direzione può e deve essere creata dalle masse. Le masse sono il fattore decisivo, sono la roccia, il fondamento sopra il quale sarà edificata la vittoria finale della rivoluzione. Le masse erano all’altezza della situazione, han fatto di questa sconfitta un anello di catena delle disfatte storiche che sono l’orgoglio e la forza del socialismo internazionale. per questa ragione è da questa sconfitta che fiorirà la prossima vittoria. “L’Ordine regna a Berlino!”. Stolti carnefici! Il vostro “ordine” è costruito sulla sabbia. La Rivoluzione si erigerà domani in tutta la sua altezza e al vostro terrore annuncerà col fragore delle sue trombe: ero, sono, sarò!”. Questa lunga citazione tratta dall’ultimo articolo scritto da Rosa Luxemburg prima di cadere sotto i colpi dei killers del socialdemocratico Noske, per l’argomento da noi trattato, è particolarmente significativo poiché mostra come le stesse sconfitte, se analizzate alla luce del materialismo storico e dialettico, diventino un patrimonio della classe tanto da fornire un bagaglio estremamente utile in vista delle battaglie future. Ciò che Luxemburg evidenzia è la capacità, a partire dall’assunzione del punto di vista della scienza comunista, di leggere dentro il contesto del divenire storico anche le sconfitte del presente. Ma ciò le diventa possibile poiché, anche in quel drammatico epilogo, il suo orizzonte non si chiude nella contingenza ma, al contrario, apre sugli scenari futuri della classe.
[29] Esemplificativo al proposito è il percorso teorico e politico del filosofo Massimo Cacciari che è passato dall’ultrasinistrismo degli anni Settanta, epoca in cui la sua produzione teorica si scagliava, da “sinistra” , contro Lenin e l’esperienza bolscevica, alla riscoperta, sempre con toni radicali e non convenzionali, di autori di destra. Una parabola teorica che lo ha portato a giustificare l’intervento in Iraq oltre alle infinite “missioni umanitarie” che le forze imperialiste conducono in giro per il mondo.
[30] La migliore esemplificazione di tale operazione è data, con ogni probabilità, dalla messa a punto, proprio nei primi anni Ottanta del secolo scorso, del “pensiero debole”. Si vedano, ad esempio, AA. VV., Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; A: Dal Lago, P. A. Rovatti, Elogio del pudore. Per un pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1989.
[31] Il riferimento è a quella crisi a tutto tondo che, in Europa, imperversò dentro e dopo la Prima guerra mondiale. La cesura storica che questa comportò mandò per intero in frantumi quella fiducia nel progresso e nella ragione che, nella seconda metà dell’Ottocento, erano diventati le certezze delle classi dominanti e degli intellettuali a queste legati. L’era imperialista, in un attimo, mise tutto ciò sotto sopra mettendo in mora, in primo luogo, ogni concezione fondata sulla ragione e la razionalità. È esattamente in questo contesto che, pur con sfumature diverse, i vari “pensatori della crisi”, si “ribellano” alle società di massa, alla “schiavitù del numero”, all’era della tecnica e iniziano a concettualizzare l’esigenza di un’epoca nuova dove a emergere doveva essere una nuova “elite aristocratica” e dominatrice. Un insieme di retoriche quanto mai appropriate per dar fiato alle mire dell’era imperialista. Ancorché in chiave romanzate a rendere al meglio la crisi che il mondo europeo attraversa sono, J. Roth, La Marcia di Radetzky, Adelphi, Milano1996; S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, Milano 1994.
[32] Su questo passaggio si vedano i testi di F. Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; Prefazione del 1892, Laboratorio Politico, Napoli 1992
[33] Per una completa ed esauriente trattazione di questa fase si veda, G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.
[34] Significativo, al proposito, come proprio in tale frangente prendano forma un insieme di ordini discorsivi tutti incentrati sulla fine della dimensione lavorativa. Tra i molti si può vedere, J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza – lavoro globale e l’avvento dell’era post – mercato, Baldini & Castoldi, Milano 1995. Vale la pena di osservare come, da parte di autori dichiaratamente schierati dalla parte del neoliberismo, le contraddizioni, proprio relative alla “questione forza – lavoro”, siano osservate con maggiore attenzione e preoccupazione si veda ad esempio, E. N. Luttwak, La dittatura del capitalismo. Dove ci porteranno il liberalismo selvaggio e gli eccessi della globalizzazione, Mondadori, Milano 1999.
[35] Al proposito K. Marx, F. Engels, Feuerbach, cit.
[36] Si vedano al proposito, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, in Marx – Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969.
[37] Una fase in cui il pieno dominio del capitale finanziario sembra aver sovvertito alle radici gli equilibri tra capitale industriale e capitale finanziario della fase imperialista precedente. Per una discussione su questi temi, cfr., G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1999. Per una sintetica esposizione delle conseguenze politiche ed economiche a cui l’attuale fase imperialista è pervenuta si veda, AA. VV., Ballando sul Titanic, Quaderni di Contropiano, Roma 2010.
[38] Sulla linea di condotta tenuta, per lo più, dagli intellettuali durante il ripiegamento dei movimenti di classe e la controffensiva delle classi dominanti si vedano soprattutto gli scritti di Lenin relativi al post 1905. In particolare, V. I. Lenin, Alcune caratteristiche dello sfacelo attuale; A proposito dell'articolo “sui problemi più urgenti”; Una caricatura del bolscevismo; Conferenza della redazione allargata del “Proletari”; Liquidazione del liquidatorismo,, in Id. Opere, Vol. 15, Editori Riuniti, Roma 1967; La frazione dei fautori dell'otzovismo e della costruzione di dio; Note di un pubblicista; Il significato storico della lotta all'interno del partito in Russia, in Id, Opere, Vol. 16, Editori Riuniti, Roma 1965
[39] Da un punto di vista del pensiero politico ed economico borghese in merito alla grande crisi rimane fondamentale, J. K. Galbraith, Il grande crollo, Edizioni di Comunità, Milano 1962. Più interessanti, sotto il profilo dell’analisi marxista, sono i testi prodotti in relazione alla crisi dall’Internazionale Comunista. Al proposito si veda A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, pagg. 216 – 284 e 335 – 430, Volume 3, tomo primo, Editori Riuniti, Roma 1979.
[40] Uno scenario che oggi è più che visibile attraverso la “guerra delle monete”.
[41] Per un approfondimento di questi temi rimandiamo al volume E. Quadrelli, Lenin, cit.
[42] Ciò è stato particolarmente vero attraverso l’invenzione del movimento talebano, ad opera degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita o, per altro verso, attraverso la forte sponsorizzazione da parte dell’imperialismo statunitense e israeliano di un movimento quale i Fratelli Mussulmani in Palestina.
[43] L’esatto corollario di tutto ciò sono le retoriche intorno allo “scontro di civiltà” all’interno delle quali l’insieme delle contraddizioni dell’attuale fase imperialista tendono a essere ascritte. Cfr. S. P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000.
[44] Su questo aspetto si veda in particolare E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Roma – Bari 1974 che, a tutti gli effetti, può considerarsi il testo teorico di maggior spessore sia tedesco sia internazionale del riformismo socialdemocratico. Un indirizzo da tempo presente dentro la socialdemocrazia contro il quale sia Marx che Engels avevano a lungo polemizzato. Al proposito si vedano, K. Marx, Critica al programma di Gotha, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.; F. Engels, Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.
[45] Al proposito si vedano, F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, cit; K. Marx, Forme precedenti la produzione capitalistica, in Id. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vo. II, La Nuova Italia, Firenze 1968
[46] Cfr., N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1988.
[47] Per una panoramica nell’insieme completa della storia ma soprattutto del dibattito teorico che ha caratterizzato questa fase del movimento operaio e socialista si veda, AA. VV., Storia del marxismo. Il marxismo della Seconda internazionale, Einaudi, Torino 1979.
[48] Si veda, F. Engels, Barbarie e civiltà, in Id., L’origine della famiglia, cit.
[49] Per una buona ricostruzione del dibattito politico ed economico che fa da sfondo all’attuale ridimensionamento delle funzioni statuali in ambito economico e sociale si veda, M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 – 1979), Feltrinelli, Milano 2005.
[50] Cfr., K. Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epopea, Einaudi, Torino 1974.
[51] Tra le molte ricostruzioni non solo militari si può vedere, M. Gilbert, La grande storia della Prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 1998; sotto il profilo più strettamente militare si possono vedere, B. H. Lddel Hart, La prima guerra mondiale. 1914 – 1918, Rizzoli, Milano 1999 e J. Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico – militare, Carocci, Roma 2004. Per una buona lettura in grado di descrivere in maniera convincente le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che segnarono il passaggio tra l’epopea “pacifica” e liberale di fine Ottocento, primi Novecento e conflitto mondiale si veda, E. V. Tarle, Storia d’Europa 1871 – 1919, Editori Riuniti, Roma 1966.
[52] Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Mondadori, Milano 1971.
[53] Cfr. F. Herre, Napoleone III, Mondadori, Milano 1994; N. Merker, La Germania, Editori Riuniti, Roma 1993.
[54] Su questo aspetto si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009.
[55] Per un buon approfondimento di queste tematiche si veda, G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, 2 Vol., Einaudi, Torino 1971
[56] Cfr. E. Quadrelli, Lenin, cit.
[57] Al proposito si veda in particolare, V. I. Lenin, Il socialismo e la guerra, in Id., Opere, Vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966
[58] Cfr. V. I. Lenin, Che fare?, in Id., Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958
[59] Per una buona ricostruzione storica e politica si veda, V. I. Nevskij, Storia del Partito bolscevico. Dalle origini al 1917, Edizioni Pantarei, Milano 2008.
[60] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857 – 1858, Volume I, pag. 37, cit.
[61] Al proposito, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850, cit.
[62] La prima edizione dei due volumi dei Lineamenti apparve in Russia, a cura dell’Istituto Marx – Engels – Lenin di Mosca, con il titolo “Grundrisse der Kritk der politischen Ȫkonomie”, tra il 1939 e il 1941.
[63] V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, in Id., Opere, Vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966
[64] V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, in Id., Opere, Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967.
[65] Tutti i partiti socialdemocratici, con l’esclusione del piccolo partito serbo, aderenti alla Seconda Internazionale votarono i crediti di guerra richiesti dai rispettivi Governi per sostenere le spese militari. Il 4 agosto 1914 la socialdemocrazia tedesca, il più importante e prestigioso partito dell’Internazionale, votò i crediti richiesti dal Kaiser si allineò al militarismo e all’imperialismo dei circoli borghesi germanici. Quel voto, nei fatti, decretò la fine dell’organizzazione internazionale.
[66] V. I. Lenin, Il fallimento della Seconda internazionale, in Id. Opere, Vol. 21, cit.
[67] Si vedano, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850, Id., Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, cit.
[68] F. Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1972
[69] Si veda al proposito, K. Marx, La cosiddetta accumulazione originaria, in Id., Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1989.
[70] Il “Socialismo della cattedra” è stata una corrente del pensiero economico liberale sviluppatasi in Germania tra il 1870 e il 1890. Questa corrente predicava un riformismo sociale di stampo liberale a partire dal presupposto che lo stato moderno era ormai diventata un’entità autonoma al di sopra delle classi in grado, sotto la regia e l’ispirazione di questo ceto intellettuale particolarmente illuminato, di edificare una società pacificata e priva di conflitti. L’influenza dei “socialisti della cattedra” si fece sentire, e non poco, anche dentro il partito operaio tedesco soprattutto attraverso le argomentazioni del professore Dühring . Contro di questo Engels pubblicò uno dei suoi scritti probabilmente più noti. F. Engels, Antidühring. La scienza sovvertita dal signor Dühring, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2003.
[71] “Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la forza. Così nella storia della produzione capitalista la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa – lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia”., K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.
[72] F. Engels, Note sulla guerra franco – prussiana del 1870/1871, Edizioni Lotta Comunista, Milano 1996
[73] Ciò è particolarmente osservabile attraverso la lettura dei testi editi dai bolscevichi nel periodo tra l’aprile e l’ottobre 1917. Si vedano, in particolare, V. I. Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione; Gli insegnamenti della crisi; Settima conferenza panrussa del Posdr (b); Primo congresso dei deputati contadini di tutta la Russia; in Id. Opere, Vol. 24, Editori Riuniti, Roma 1966; V. I. Lenin, Sulla necessità di fondare un’associazione degli operai agricoli della Russia; Come e perché i contadini sono stati ingannati; La catastrofe imminente e come lottare contro di essa; in Id., Opere, Vol. 25, cit: V. I. Lenin, I compiti della rivoluzione; Per la revisione del programma di partito; I contadini nuovamente ingannati dal Partito dei socialisti – rivoluzionari; II Congresso dei deputati operai e soldati di tutta la Russia, in Id., Opere, Vol. 26, Editori Riuniti, Roma 1966.
[74] Si veda, in particolare, K. Marx, Introduzione del '57, cit.
[75] Cfr. K. Marx, F. Engels, Il manifesto del Partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1990.
[76] L’Internazionale Comunista, alla cui edificazione Lenin aveva lavorato sin dal 1914 quando lo scoppio del Primo conflitto interimparialistico aveva decretato la fine della Seconda Internazionale, venne fondata a Mosca il 4 marzo 1919. Per una sua buona documentazione storica si veda, A: Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, pagg. 5 – 190, Volume I, tomo primo, Editori Riuniti, Roma 1974.
[77] Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005
[78] Per una buona ricostruzione degli scenari venutisi a creare nell’immediato dopo guerra si veda, R. Overy, Crisi fra le due guerre mondiali, Il Mulino, Bologna 2009.
[79] Cfr., S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.
[80] In particolare si veda, P. Togliatti, Corso sugli avversari, in Id. Opere, Vo. III, tomo due, Editori Riuniti, Roma 1973.
[81] Cfr.,R. Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 2009
[82] Cfr., J. Degras, a cura di, Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, tomo secondo 1923/1928, Feltrinelli, Milano 1975
[83] Cfr., E. H. Carr, Il socialismo in un solo paese. La politica estera 1924 – 1926, Einaudi, Torino 1969.
[84] Non solo il comportamento del Psi nel corso del “biennio rosso” ma la linea di condotta della socialdemocrazia tedesca negli eventi a ridosso della Prima guerra mondiale sono lì a dimostrare l’oggettiva convergenza di queste forze di fronte allo spettro comunista.
[85] Si veda ad esempio, S. E. Ambrose, D – Day. Storia dello sbarco in Normandia, Rizzoli, Milano 1998.
[86] P. Carell, Operazione Barbarossa. 21 giugno 1941 – 18 novembre 1942, Rizzoli, Milano 2004; Id., Terra bruciata. 19 novembre 1942 – 14 agosto 1944, Rizzoli, Milano 2004
[87] Cfr., R. O. Boyer, H. M. Morais, Storia del Movimento Operaio negli Stati Uniti, 1861 – 1955, De Donato, Bari 1974.
[88] R. Overy, Russia in guerra. 1941 – 1945, Il Saggiatore, Milano 2000.
[89] A. Molinari, C. Paoletti, La battaglia di Kursk, Hobby & Work, Milano 2008.
[90] L. Deighton, La battaglia d’Inghilterra, TEA, Milano 2003.
[91] M. Caidin, Operazione Gomorra, Mondadori, Milano 1968.
[92] Soprattutto la V2 può considerarsi l’antesignana degli attuali missili intercontinentali. La Germania, sotto la direzione dello scienziato Von Braun, iniziò a lavorare a questo progetto sin dalle prime battute della guerra. Solo tra il 1944 e il 1945 incominciarono a essere disponibili dei modelli tecnicamente affidabili. Queste, insieme ai caccia a reazione, erano le “armi segrete” attraverso le quali il nazismo sperava di poter ancora ribaltare le sorti della guerra. Alla costruzione dei missili venne data una non secondaria importanza e furono messi in produzione a pieno ritmo. Gran parte di questo lavoro dipendeva dai lavoratori stranieri internati nei campi di concentramento. I ritmi di produzione richiesti comportarono la morte di decine di migliaia di operai – schiavi.
[93] Tra le molte ricostruzioni dell’epica battaglia vale sicuramente la pena di ricordarne una scritta da uno dei principali protagonisti, V. Ciujkov, Stalingrado. La battaglia del secolo, Edizioni Progress, Mosca 1983
[94] Cfr., M. Parker, Montecassino. 15 gennaio – 18 maggio 1944. Storia e uomini di una grande battaglia, Il Saggiatore, Milano 2003.
[95] Si veda al proposito, nella presente antologia, K. Marx, Le lotte di classe in Francia; Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit.
[96] Dunkerque segnò la capitolazione della Francia insieme all’inadeguatezza del “pensiero strategico” anglo – francese. Attraverso la tecnica della “guerra lampo”, che consisteva nello sbaragliare le difesa avversarie attraverso la “tattica del cuneo”, grossi concentramenti di carri supportati da bombardieri d’attacco che sfondavano una parte del fronte permettendo in tal modo il successivo accerchiamento delle divisioni intrappolate, i nazisti vennero velocemente a capo di quello che, a torto, era considerato il migliore e più efficace esercito europeo. Le poche truppe britanniche mandate di supporto all’esercito francese, pur battendosi egregiamente ma tutte interne a un “pensiero strategico” ancora in gran parte prigioniero di quanto sperimentato nel corso del Primo conflitto mondiale, non poterono far altro che organizzare una ritirata sostanzialmente ordinata permettendo di mettere in salvo oltre a gran parte di loro stessi una buona fetta di esercito francese. Per una sua ricostruzione si veda, R. Jackson, Dunkerque, Mondadori, Milano 2010
[97] Cfr., W. L. Shirer, La caduta della Francia. Da Sedan all’occupazione nazista, Einaudi, Torino 1971.
[98] Si veda ad esempio le Lettere di Spartaco scritte da Palmiro Togliatti, in Id. Opere, Vol. 4 tomo secondo, Editori Riuniti, Roma 1979.
[99] Si vedano al proposito, oltre che al già citato Imperialismo, gli scritti di Lenin sulla “questione nazionale” e, in particolare, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, in V. I. Lenin, Opere, Vol. 22, cit.
[100] Si veda in particolare, Mao Tse – Dun, La rivoluzione cinese e il Partito comunista cinese; Sulla nuova democrazia, in Id., Scritti scelti, Vol. 3, Edizioni Rinascita, Roma 1955.
[101] In questo Congresso prevalse la tesi del “social fascismo” ossia del ruolo obiettivamente complementare che fascismo e socialdemocrazia svolgevano, in quanto forze borghesi, al fine di perpetuare il dominio del modo di produzione capitalista. In questo senso, tenendo soprattutto a mente la linea di condotta delle socialdemocrazie tedesche e austriache che, di fronte all’insorgenza operaia e proletaria, si erano schierate apertamente con la reazione ma anche del socialismo italiano che aveva prima abbandonato le masse subalterne nel corso del “biennio rosso” e successivamente disarmato la classe di fronte al fascismo, la socialdemocrazia veniva individuata come la forza che, in virtù della presa che era in grado di esercitare su ampi strati di classe operaia e proletariato, diventava il miglior puntello per la reazione capitalista. Si vedano, al proposito, i testi dell’Internazionale Comunista in A. Agosti, La Terza Internazionale.1924 – 1928. Storia documentaria, pagg. 98 – 220, Vol. 2, Tomo primo, Editori Riuniti, Roma 1976
[102] In questo Congresso, per la sua documentazione si veda A. Agosti, La Terza Internazionale. 1928 – 1943. Storia documentaria, pagg. 764 – 810; 871 – 902, Vol. 3, Tomo secondo, si ebbe la “svolta” che portò alla formazione dei “fronti popolari” attraverso un’alleanza non solo con le forze socialdemocratiche ma anche con i partiti borghesi contrari al fascismo. Una “svolta” che, come la documentazione storica fornisce in abbondanza, si vedano ad esempio all’interno del testo sopra citato le pagg. 1107 – 1157, è tutta legata a far fronte a quella tendenza alla guerra il cui scatenamento, adesso, è solo questione di mesi. L’alleanza “politica” con la socialdemocrazia e alcune forze della “democrazia imperialista” non è altro che il preludio della più realistica alleanza militare concretizzatasi nel 1941. Per una buona ricostruzione del clima politico e miliare coevo al VII Congresso si veda, R. Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 2009. Per una realistica e disincantata analisi di questo periodo storico rimane importante il fondamentale lavoro di A. J. P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1961.
[103] A Monaco, tra il 29 e il 30 settembre 1938, si tenne la storica conferenza dove le Cancellerie britanniche, francesi, e italiana lasciarono mano libera a Hitler e al nazismo di annettersi ampie quote del territorio nazionale della Cecoslovacchia. L’offerta sovietica di un patto militare con Francia e Gran Bretagna al fine di garantire, entrando immediatamente in guerra contro la Germania hitleriana, l’integrità territoriale della Cecoslovacchia fu bellamente ignorato dai Governi di Francia e Inghilterra.
[104] V. I. Lenin, Sulla frase rivoluzionaria, in Id., Opere, Vol. 27, Editori Riuniti, Roma 1967
[105] Cfr., T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma – Bari 2002.
[106] L’aver costantemente tenute separate la forma guerra e la forma stato rende impotenti riformisti e opportunisti di varia natura a comprendere il tramondo del Welfare State. Avendolo considerato o come il “naturale” sbocco del presunto processo di civilizzazione o come una conquista delle masse subalterne non ne hanno mai colto il reale obiettivo bellico che ne rappresentava la premessa oggettiva. Un errore che, oggi, continuano a reitrare poiché non colgono assolutamente il nesso tuttora esistente tra la “concreta” forma guerra dell’attuale fase imperialista e la forma stato che a questa deve necessariamente corrispondere. Inoltre, ciò che a queste consorterie sembra di continuo sfuggire, è la mutazione dello spazio geopolitico e geoeconomico internazionale che l’era del capitalismo globale si è immancabilmente portata appresso.
[107] R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, pagg. 263 – 264, Il Mulino, Bologna 2009.
[108] In maniera molto efficace tale scenario è descritto e analizzato da R. Smith, nel capitolo, “Confronto e conflitto: Guerra fredda, Corea, Malesia”, in Id. L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, cit.
[109] Per una discussione su questi temi si può vedere, M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, Il Mulino, Bologna 1993.
[110] Cfr., E. Aga Rossi, Il Piano Marshall e l’Europa, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1983; G. Bianchi, Piano Marshall. Politica atlantica, europeismo, Università Cattolica, Milano 1979.
[111] Si vedano in particolare gli scritti propriamente storici, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, cit.
[112] Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998.
[113] Con politica della “porta aperta” si intende un’area geopolitica all’interno della quale tutte le potenze imperialiste hanno i medesimi diritti di sviluppare con il paese messo sotto tutela vari progetti e programmi di “cooperazione” economica e militare. Cfr., E. Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, Roma 2005
[114] Cfr., Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001
[115] Su questo aspetto, in particolare, K. Marx, La metafisica dell'economia politica, cit. Per una discussione intorno al lato cattivo della storia si veda, L. Althusser, “Contraddizione e surdeterminazione”, in Id., Per Marx, Mimesis, Milano 2008.
[116] Su questo aspetto si veda soprattutto, K. Marx, La cosiddetta accumulazione originaria, in Id., Il capitale, Libro primo, cit.
[117] Cfr., R. Smith. “Le operazioni contemporanee”; Bosnia: l’uso della forza tra la gente; Che fare?, in Id., L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, cit.
[118] Si veda, F. Engels, “L’immigrazione irlandese”, in Id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1992
[119] F. Engels, “Movimenti operai”, in Id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit.
[120] Al propositosi veda, F. Engels, “La concorrenza”, in Id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit.,
K. Marx, “La cosiddetta accumulazione originaria”, in Id., Il capitale, Libro primo, cit.
[121] Al proposito si vedano, F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; F. Engels “Prefazione del 1982”, cit.
[122] Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, n. 8, in Id. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962
[126] Cfr., S. Mezzadra, Prologo. Il giovane Max Weber, il diritto di fuga dei migranti tedeschi e gli stomaci polacchi, in Id., Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2001.
[127] Tra la vasta pubblicistica dell’autore ricordiamo, Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987; La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999; La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002; Dentro la globalizzazione, Roma – Bari 1999.
[128] Ancorché in chiave romanzata, per un’efficace descrizione del fenomeno, si veda, J. G. Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, Milano 2006.
[129] In realtà, tutto ciò, cosa significa se non rendere assoluta, ed eterna, la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale? Mentre nel marxismo tale divisione è osservata come il frutto di un processo storico determinato, e la sua ricomposizione come obiettivo necessario della rivoluzione comunista, la sociologia borghese lo considera una sorta di separazione “naturale” dalla quale è impossibile fuoriuscire. In realtà, nel mondo contemporaneo, ciò che gli intellettuali lamentano è la perdita di prestigio e potere a cui, una società sempre più orientata verso la tecnica, li ha confinati.
[127] Ciò che diventa centrale, pertanto, è l’elemento cosciente che, in virtù di ciò, è in grado di porsi come avanguardia dell’intera classe. Cfr. V. I. Lenin, Che fare?, in Id. Opere, Vol. 5, cit.
[128] Cfr. V. I. Lenin, Il significato storico della lotta all’interno del partito in Russia, in Id. Vol. 16, Editori Riuniti, Roma 1965
[129] Cfr. V. I. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, in Id. Opere, Vol. 31, cit.
[130] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit.
[131] K. Marx, “Introduzione del ‘57”, in Id. Per la critica dell’economia politica, cit.
[132] F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza; Prefazione del 1892, cit.
[133] Cfr., E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia. 1848/1875, Editori Laterza, Roma – Bari 1994
[134] Al proposito si veda C. Luporini, Introduzione, K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit.
[135] Il riferimento è a K. Marx, Manoscritti economici – filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968
[136] Si vedano al proposito i testi raccolti in K. Marx, Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1975
[137] Con ogni probabilità la migliore esemplificazione di tale tendenza è data dalla produzione di M. Hardt e A. Negri. In particolare si veda Id., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004
[138] K. Marx, Prefazione pag. 6, in Id., Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974.
[139] K. Marx. Il Capitale, Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1994.
[140] K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 - 1850, in Marx - Engels, Opere scelte, cit.
[141] K. Marx. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.
[142] F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.
[143] Cfr., G. Lefebvre, La Rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1958.
[144] Al proposito si veda in particolare V. I. Lenin, Che fare?, in Id. Opere, Vol. 5, cit.
[145] Cfr. V. I. Lenin, Sugli scioperi, in Id., Opere, Vol. 4, Editori Riuniti, Roma 1957.
[146] Su questo aspetto si veda in particolare V. I. Lenin, I Congresso dell’Internazionale Comunista, in Id., Opere Vol.28, Editori Riuniti, Roma 1967.
[147] K. Marx, Miseria della filosofia, cit.
[148] K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cit.
[149] Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.
[150] Per una discussione su questi temi si veda L. Althusser, Per Marx, cit.
“Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l'idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d'arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per “questo anno”. (K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica)
La posta in palio
Il tema della precarietà, della flessibilità e via dicendo ha conquistato, da tempo, un ruolo predominante dell’attuale scena politica, economica e sociale. La condizione di lavoro precario, inizialmente percepita come semplice “rito di passaggio” per segmenti particolari della forza lavoro salariata, è diventata la condizione di esistenza per lo più abituale per cospicue quote del lavoro subordinato. Da ambito di “nicchia” e per di più estemporanea, così come era stata presentata inizialmente, si è repentinamente imposta come la condizione permanente per quote sempre più ampie di popolazione. Ciò che è stato sbandierato come “stato d’eccezione temporaneo” si è velocemente trasformato in uno “stato d’eccezione permanente”. Questo fatto è sotto agli occhi di tutti. A fronte di ciò, e non poteva essere altrimenti, si è assistito a un graduale ma costante ritiro dello Stato dagli ambiti deputati, attraverso le politiche sociali, a garantire l’inclusione sociale delle masse subalterne. Il Welfare State, la forma statuale messa in forma nel corso del Novecento nel mondo occidentale e soprattutto nella Vecchia Europa, si è pressoché eclissato. Non si tratta di un fatto accidentale poiché la relazione tra la forma “concreta” che assume il lavoro salariato e il modello statuale entro il quale si esplica ha un legame oggettivo che non può essere scisso. Impossibile, pertanto, affrontare sensatamente la questione del lavoro precario e della condizione di esclusione sociale che inevitabilmente si porta appresso senza affrontare la questione della dimensione “concreta” dello stato contemporaneo. Ma come farlo? Attraverso quali strumenti? Di quale bagaglio teorico occorre impossessarsi al fine non solo e semplicemente di lottare, anche perché non è certo la teoria che inventa le lotte, ma di piegare alle esigenze e agli interessi di classe i conflitti oggettivi di cui le nostre società sono gravide? In altri termini attraverso quali strumenti una nuova generazione operaia e proletaria sarà in grado di porsi concretamente sul terreno della conquista del potere politico e dirigere il processo rivoluzionario per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista? Oggi, e sicuramente la cosa è tutt’altro che disprezzabile, assistiamo al fiorire di lotte di natura “sindacale” certamente non trascurabile ma, non diversamente dal passato, tali lotte non sono in grado, da sole, di emanciparsi dai ristretti ambiti del tradeunionismo. Il problema della teoria rivoluzionaria si pone, pertanto, come questione urgente per tutte quelle forze che, oggi, si pongono concretamente il problema della soggettività politica. Non è rincorrendo i “precari” che si fornisce un qualche servizio alla rivoluzione proletaria ma è nel porsi alla testa di quelle lotte, dando loro uno sbocco e un orizzonte politico, che si pongono i primi tasselli per la costruzione di un’organizzazione politica in grado di misurarsi con l’attuale fase imperialista e la forma stato che la caratterizza. In tale contesto, la formazione di quadri politici complessivi, diventa particolarmente urgente.
Per tali motivi il testo che presentiamo, avendo a mente un pubblico di lettori non specialistico e intellettualizzato ma interessato ad acquisire strumenti conoscitivi indispensabili per svolgere al meglio la propria militanza politica e sindacale, ha come oggetto la “ scienza della storia” e il suo metodo: il materialismo storico e dialettico applicato alla forma Stato. Il motivo di ciò è in fondo semplice. Intere generazioni sono state resettate, attraverso un processo di annichilimento del sapere storico e di annullamento della memoria, così in profondità da rendere loro ignote non solo le basi della teoria marxista ma persino gran parte dei principali eventi della storia nazionale e internazionale. Un processo di neo – analfabetismo di massa scientemente perseguito dalle classi dominanti che va colto in tutto il suo portato politico. A un primo sguardo, infatti, la cosa potrebbe sembrare di poco conto. La semplice messa tra parentesi di un sapere, almeno in apparenza, sostanzialmente erudito, quindi inutile, che trova ben poca applicazione in società governate dal sapere tecnico e operativo. A uno sguardo solo un poco più attento le cose si mostrano in ben altro modo. Che cosa significa, in realtà, considerare la conoscenza della scienza storica [1] superflua, se non un modo per rendere eterno il tempo presente, negando a priori il senso del divenire e con questo il carattere storicamente determinato dei rapporti sociali ed economici contemporanei? Che cosa significa considerare la storia un lusso che, nella migliore delle ipotesi, si riduce a semplice balocco per personaggi vagamente eccentrici e afflitti da un inguaribile infantilismo, se non un modo per affermare che il tempo del presente non è un tempo storicamente determinato ma un tempo eterno e immodificabile? In altre parole che cosa significa azzerare il sapere della storia, insieme alla sua lettura materialistica e dialettica se non sancire, una volta per tutte, che nessun altro mondo è possibile e che la borghesia è l'unica classe legittimata a governarlo? Sotto questa luce, allora, molte cose cominciano a chiarirsi. Se ad intere generazioni proletarie è stato raccontato che la scienza della storia è inutile non è stato fatto per impedir loro di perdere tempo, per indirizzarle verso l'apprendimento di conoscenze più pragmatiche e, in virtù di ciò, maggiormente spendibili e utilizzabili nel mondo contemporaneo, bensì per deprivarle di uno strumento di lotta politica. Annichilire il sapere storico non può che, come corollario immediato, sancire al contempo la fine della memoria. Ma una classe senza passato è una classe priva di futuro la cui esistenza si riduce a semplice fenomeno empirico: una determinazione economica destinata a rimanere eternamente tale.
Molto sinteticamente ci troviamo di fronte a uno scenario in cui il bagaglio teorico delle classi sociali subalterne è stato pressoché azzerato, o per lo meno fortemente amputato. Ciò è facilmente constatabile osservando il grado di conoscenza politica e teorica di quello che possiamo definire il militante medio di tutto quel mondo che, per semplificare, continueremo a chiamare ambito della sinistra. Per certi versi, quindi, si tratta di ripartire da una sorta di ABC della teoria marxista o, per usare il lessico proprio del mondo calcistico, dai fondamentali. Il marxismo, il materialismo storico e dialettico non può essere, almeno sotto il profilo politico, qualcosa che ha a che fare con gli “specialisti”. In altre parole non può essere l'oggetto, al pari di qualunque altra teoria politica, di studi accademici. Ridurlo a ciò significa, oggettivamente, depotenziarlo, inibirlo, in sostanza contraffarlo. Un marxismo per studiosi, indipendentemente dalle buone intenzioni che questi possono vantare, è un marxismo deprivato della sua politicità, del suo essere l'arma della critica attraverso la quale si perviene alla critica con le armi [2] . Un marxismo simile non fa paura a nessuno ma un marxismo che non sappia far aleggiare intorno a sé lo spettro comunista non è marxismo bensì la sua caricatura. Un marxismo inaccessibile alle masse, adatto solo agli studi colti e dottorali, è tutto tranne che una guida per l'azione. La formazione, attraverso l'apprendimento del materialismo storico e dialettico, di quadri operai e proletari era e rimane l'unico uso corretto e legittimo della teoria marxista. In tutto ciò vi è non poco di settario ma è lo stesso settarismo di Lenin che lo porta a dire: La verità è rivoluzionaria [3] In questo senso, quindi, la teoria marxista non può che essere la scienza di una parte contro l'altra [4] . La verità della borghesia non può essere la verità del proletariato e viceversa poiché, se la borghesia ride, il proletariato piange. Vie di mezzo non ne possono sussistere. Non esiste e mai è esistita una teoria e una filosofia storico – politica al di sopra del conflitto di classe anche se, in ogni epoca storica, le classi dominanti hanno presentato le idee dominanti come idee che traevano la loro legittimazione non dai rapporti di forza materiali tra le classi ma da una verità esterna ed estranea alla brutalità del mondo materiale, una verità che, volta per volta, è stata presentata come eterna [5] .
In poche parole, con questa e le altre iniziative da noi messe in cantiere, ci proponiamo di offrire un piccolo ma indispensabile contributo alla formazione teorica e politica per una nuova generazione di militanti comunisti. Sulla scia di Lenin, senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario [6] , riteniamo quanto mai indispensabile impegnarci a fondo anche nel lavoro teorico poiché, come l’intera storia ed esperienza della classe operaia e del proletariato è lì a dimostrare, solo un movimento politico teoricamente saldo è in grado di condurre, senza tentennamenti, uno scontro di classe dalle dimensioni sempre più titaniche. Tutto ciò sembra essere ancora più urgente in un Paese come il nostro dove, anni e anni di egemonia riformista e opportunista, hanno scompaginato sino alla radice ogni minimo barlume di teoria rivoluzionaria. Infine, ma non per ultimo, con il nostro lavoro ci proponiamo di arginare, sin da subito, i palesi tentativi da parte delle classi dominanti di offrire del marxismo una lettura totalmente depotenziata. Una possibilità che, nel presente, si mostra quanto mai probabile. Infatti, benché non si possa parlare di una vera e propria renaissance, l'interesse per il marxismo sta conoscendo, proprio tra l’intellighenzia e gli uomini politici della borghesia, una nuova stagione. L'irrompere della crisi, in un attimo, ha azzerato l'insieme di retoriche che, a partire dall'89 [7] , avevano fatto da sfondo alle più svariate ideologie sorte intorno al cosiddetto capitalismo globale e l'ombra di Marx insieme alla critica dell'economia politica sembra nuovamente pronta ad affermare: Ben scavato, vecchia talpa! Insieme alla “bolla speculativa” sono esplose le “bolle teoriche” che avevano dato fiato alla nuova fase imperialista. Con la recessione, dimostrando ampiamente, come il materialismo storico e dialettico ha sempre sostenuto, l'indissolubile legame tra la struttura economica e sociale e le ideologie che la rappresentano, anche il mondo delle idee è andato a picco. Le sicurezze “scientifiche” attraverso le quali politologi, economisti, sociologi ecc. avevano cantato inni densi di melodia all'eternità dell'era globale hanno da prima stonato e, infine, hanno perso del tutto la voce. Baritoni possenti fino a qualche tempo addietro non sono neppure più stati in grado di ritagliarsi uno spazio tra le voci bianche. Eppure, gonfi e tronfi, sulla scia dei voli di Borsa avevano declamato a destra e a manca tanto che, ai più, la loro ascesa, insieme a quella del modo di produzione capitalista sembrava non avere limiti.
Come un sol uomo, per circa un ventennio, i cani da guardia [8] del modo di produzione capitalista, seppur con declinazioni diverse, si erano trovati sostanzialmente d'accordo su cinque punti fondamentali: primo, la vittoria riportata dal capitalismo sul blocco socialista e la conseguente implosione dell'URSS sancivano in maniera definitiva la vittoria del modo di produzione capitalista; secondo, il capitalismo aveva raggiunto un grado di stabilizzazione tale da archiviare in maniera definitiva lo spettro di una crisi strutturale e sistemica e da qui il proliferare delle retoriche sulla fuoriuscita dal Novecento in quanto secolo segnato dal conflitto oggettivo tra capitale e lavoro salariato; terzo, in tale scenario, il conflitto, nella sua accezione politica, non poteva più manifestarsi e, in virtù di ciò, la dimensione di classe si limitava a una valenza puramente economica e sociale ma priva di qualunque prospettiva storica e politica ; quarto, l'imporsi del mercato globale sanciva anche l'impossibilità di un conflitto interimperialistico poiché, tutti gli attori politici ed economici, si mostravano legati da un intreccio di relazioni e scambi dove oggettivamente impensabili diventavano il delinearsi di momenti di rottura tali da trasformarsi in conflitto politico e militare aperto; quinto, in tale scenario, la guerra, da elemento cardine del politico vedeva mutuarsi in semplice operazione di polizia poiché, in un mondo reso ormai unito e unificato, la presenza del nemico, in quanto hostis [9] , perdeva ogni sua legittimazione. La guerra, pertanto, più che essere parte del politico diventava strumento di polizia [10] . Sul piano internazionale l'uso della forza poteva essere usato e pensato contro quell'insieme di entità politicamente delegittimate, quali gli stati canaglia, che, in virtù del loro essere criminale e banditesco, non potevano trovare cittadinanza nel nuovo ordine mondiale [11] . Sul piano interno il conflitto di classe veniva dichiarato estinto e ogni forma di non allineamento ridotta a fenomeno terroristico, criminale e/o ascrivibile all'ambito della patologia sociale [12] . In poche parole, tutte le retoriche sorte intorno all'era globale, tendevano a concordare sulla natura impolitica della nuova era.
Il cuore politico e teorico di tutta questa operazione trovava la sua giustificazione nell'assunto della fine della storia [13] . Ma cosa significava, in sostanza, decretare la fine della storia? Nient'altro che delegittimare il conflitto politico tra le classi e la possibilità di coltivare l'ipotesi di una rottura storica ed epocale. Sotto tale profilo, il nostro Paese, ha svolto un ruolo di autentica avanguardia e non ha dovuto aspettare il fatidico '89 per mettere a regime, pur con angolazioni diverse, un insieme di argomentazioni che, ridotte all'osso, decretavano una volta per sempre la scomparsa politica del proletariato insieme all'inconsistenza e/o superamento della teoria marxista. Un modo come un altro per sancire la fine del tempo storico [14] e rendere, sotto il profilo concettuale, eterno sia il modo di produzione capitalista sia il dominio della borghesia. In fondo, delegittimare il proletariato in quanto classe in grado di spezzare il dominio della borghesia, considerare il marxismo una teoria politica esauritasi con il Novecento finendo con il ridurre il materialismo storico e dialettico, nella migliore delle ipotesi, a una delle tante opzioni teoriche attraverso cui è stato interpretato il mondo che cosa significava se non riconoscere che non il proletariato ma la borghesia era stata l'ultima classe storica e rivoluzionaria? E, in virtù di ciò, affermare che la storia - intesa come susseguirsi di epoche caratterizzate da modi di produzione diversi ai quali, volta per volta, corrispondeva la dominazione politica di una nuova classe dominante [15] - era giunta al capolinea? Ancor prima della famosa tesi di Fukuyama, nel nostro Paese, il funerale alla storia, e quindi al proletariato, era già stato celebrato.
Che tutto ciò sia accaduto in un paese come l'Italia non deve stupire. La forza politica messa in campo dalla classe operaia e dalle masse proletarie italiane ha una storia che, pur con tutte le rotture di fase che i diversi cicli capitalistici imponevano, ha posto l'ipotesi del potere operaio e proletario e la costruzione di una società socialista continuamente all'ordine del giorno. Una tensione politica lunga un quarantennio. Pur per sommi capi proviamo a ricapitolarla. Sono le lotte operaie, con gli scioperi torinesi del 1943 a dare il via all'opposizione di massa al nazi – fascismo. Intorno alla classe operaia si costruisce l'esercito partigiano che impegna duramente le forze fasciste e naziste tra il 1943 e il 1945 e contribuisce in maniera determinante alla liberazione del Paese. L'insurrezione operaia e partigiana dell'aprile 1945, condotta in gran parte sotto la direzione politica e militare del Partito comunista [16] , crea nel nord Italia una situazione politica per lo meno instabile poiché le masse sono armate e decise a chiudere i conti non solo con i fascisti in camicia nera ma con quelle forze, la grande borghesia monopolista e finanziaria, che del fascismo era stata la principale artefice; le fabbriche del nord, quindi il cuore strategico dell'apparato produttivo nazionale, sono in mano agli operai che ne hanno impedito lo smantellamento da parte delle forze nazifasciste; l'apparato statuale borghese si è in gran parte dissolto lasciando, anche se non del tutto, un ampio vuoto di potere. Le forze politiche che hanno dato vita al CLN possono vantare, sul momento, un peso numerico di poco conto, solo il Partito comunista è in grado di mettere in campo un'organizzazione di massa degna di questo nome e per di più la sua influenza su gran parte degli strati operai e popolari si fa giorno dopo giorno sempre più consistente. A ciò va aggiunto, e non si tratta di un elemento secondario, il prestigio internazionale che l’URSS è in grado di vantare in seguito all’apporto decisivo dato alla guerra contro il nazifascismo. La bandiera rossa issata dai soldati sovietici sulla Cancelleria tedesca non sembra essere un semplice fatto simbolico o un tributo, come parti della storiografia borghese proveranno a sostenere, pagato alla smania di protagonismo di Stalin [17] , perché dietro a quel gesto vi sono, oltre all’enorme forza che è in grado di esercitare l'Armata Rossa, le Democrazie popolari che si vanno formando a est alle quali va aggiunto il successo della rivoluzione popolare cinese insieme all'acuirsi della “questione coloniale”. I “popoli senza storia”, che il Secondo conflitto mondiale ha gettato prepotentemente nel mondo e che in non pochi casi hanno fornito contributi rilevanti nella guerra contro il nazifascismo, si sono messi in marcia. In seguito al tributo di sangue pagato al fianco dell'alleanza delle “democrazie occidentali” contro la tirannia hitleriana rivendicano adesso i tanto decantati diritti universali che le “democrazie occidentali” avevano posto a sigillo del loro impegno bellico. Ma questi diritti, per la natura imperialista delle “democrazie occidentali”, non possono trovare soddisfazione. Finita la guerra l'Occidente imperialista non può che ristabilire lo status quo [18] . Le colonie tornano a essere colonie e gli indigeni “ popoli senza storia”. Solo nel blocco socialista e nel movimento comunista internazionale questi popoli trovano il loro alleato naturale. Il processo di decolonizzazione che si avvia negli anni immediatamente seguenti al 1945 vede i Paesi socialisti in prima linea nel sostenere, politicamente e militarmente, i movimenti di liberazione nazionale [19] . Alla rete delle forze imperialiste internazionali che proprio nei Paesi del Terzo mondo consumeranno le loro più efferate atrocità si contrappone un movimento di solidarietà militante internazionalista capeggiato dai Paesi socialisti. Nell'immediato dopo guerra tutto questo, per essere colto, non ha bisogno del fiuto di analisti particolarmente sagaci ma sta nell'evidenza dei fatti. Un insieme di eventi che lasciano prevedere l’inesauribile forza che il movimento comunista internazionale è in grado di mettere in atto, nei confronti del quale, in piena difensiva, le “democrazie occidentali” si affrettano a instaurare un clima di guerra contro l'URSS e i Paesi socialisti. In tale frangente, il socialismo come tendenza storica ineluttabile cattura, oltre alla classe operaia, gran parte dei ceti popolari del nostro paese. Tra il 1945 e il 1948, la classe operaia italiana dà vita a una sorta di dualismo di poteri il cui punto di mediazione è rappresentato dalla Carta Costituzionale. Al proposito non è secondario ricordare che, nella sua prima stesura, l'articolo 1 della Costituzione recitava: La Repubblica italiana è una repubblica fondata sui lavoratori. Un enunciato i cui richiami alla Repubblica dei Soviet sono sin troppo evidenti. Solo in un secondo momento, proprio per arginare, anche sotto il profilo formale, la forza operaia e partigiana le forze della borghesia interne al CLN impongono, a lavoratori, il più moderato e “polisemico” lavoro. In questo modo, il carattere di classe presente nell'atto costituente, veniva in gran parte diluito e con questo, anche sul piano giuridico – formale, il ridimensionamento della classe operaia in quanto forza essenziale della fase costituente. Un ridimensionamento che prefigura e apre la strada alla controffensiva borghese che, di lì a poco, si scatenerà. Tra il 1948 e la fine degli anni Cinquanta, sotto la reazione borghese e padronale, la classe operaia combatte, completamente isolata, in maniera sostanzialmente difensiva. Pur accerchiata non si disunisce e tanto meno si demoralizza. Nonostante nel Paese si sia aperta, senza troppe remore la caccia ai comunisti e le ingerenze dell'imperialismo statunitense si facciano sempre più esplicite [20] , la classe operaia e il proletariato non si lasciano annichilire. In maniera sotterranea e invisibile, nuovamente sottovoce, i mille rivoli che legano i comunisti alla classe negli anni bui dell'aperta reazione sembrano rinsaldarsi. I fatti del 1960, quando, a partire dai moti del proletariato genovese, l’intera penisola fu scossa da una mobilitazione generale contro il tentativo di instaurare un modello governativo tipicamente da “Stato forte”, ne rappresentano la migliore esemplificazione [21] . La mobilitazione generale della classe operaia e la coagulazione intorno a questa di numerosi settori sociali subalterni obbligano la borghesia a rivedere repentinamente i suoi progetti di aperta reazione. I progetti di restaurazione nelle giornate del luglio '60 naufragano repentinamente. La borghesia è obbligata ad aprire una nuova fase politica maggiormente attenta agli umori e alle esigenze delle masse. Alla forza messa in campo dalla classe operaia la borghesia sogna di poter rispondere inaugurando la stagione del riformismo. Un'illusione che cade ben presto in frantumi e che porta alcune frazioni della borghesia a coltivare, non solo sul piano ipotetico, opzioni golpiste [22] . Nel 1962, con i fatti di Piazza Statuto [23] , quando dopo anni di ripiegamento una nuova classe operaia direttamente figlia del ciclo economico fordista entra rumorosamente sulla scena politica [24] , si apre un nuovo ciclo di offensiva operaia che porterà sino all'Autunno caldo del 1969, segnato in particolare dal protagonismo della classe operaia Fiat [25] e che finirà con il mettere profondamente in crisi il PCI la cui deriva socialdemocratica si farà sempre più marcata. [26] Da quel momento in poi, per un intero decennio, l'ipotesi della rivoluzione operaia diventa quanto mai realista. La rimozione degli “anni '70” o la loro veloce sintesi come “anni di piombo” mostrano come ancora oggi, per la borghesia di ogni colore e frazione, il “decennio insurrezionale” sia qualcosa di impronunciabile. Indipendentemente dalle diverse ipotesi organizzative che l'offensiva di classe assume, a legare le masse in tutte queste fasi storiche è la presenza permanente dell'idea – forza del comunismo, di cui il marxismo è l’arma teorica. Le ricadute sul piano teorico e culturale che fanno da sfondo all'offensiva operaia e proletaria sono quanto mai evidenti. Il panorama politico e culturale di un'intera era è egemonizzato dal marxismo. A pesare in tutto ciò non sono scelte “culturali”: a spostare schiere di intellettuali nel campo della teoria del proletariato vi sono i rapporti di forza materiali tra le classi. Il vento che soffia è il vento dell'est. A questo sembra bene adeguarsi. Con la sconfitta della classe operaia Fiat, maturata nell'autunno del 1980, tutto ciò velocemente evapora [27] .
Proprio sulla scia di quella sconfitta, con il conseguente annichilimento dell'intero corpo della classe che essa si porta appresso, prenderà il via quel processo di aperta controrivoluzione nel quale siamo quanto mai immersi tuttora. Tuttavia anche una disfatta come quella subita dalla classe in quel drammatico contesto è condizione necessaria ma non sufficiente per estirpare l'idra rivoluzionaria dal proscenio storico. Perché tale operazione vada a buon fine occorre che la sconfitta arrivi alle radici. A essere estirpato, pertanto, deve essere il “nucleo teorico” intorno al quale la classe può, politicamente, ricostituirsi [28] . Ed è esattamente in tale frangente che si scatena senza mezze misure l'attacco delle forze borghesi alla teoria del proletario. La borghesia intuisce che, in virtù dei rapporti di forza che è oggettivamente in grado di esercitare, ha l'occasione di chiudere, forse definitivamente, i conti con lo spettro proletario. Ora che il “quarantennio rosso” è solo l'incubo del passato si può legittimamente pensare di andare alla radice del problema ovvero eliminare il materialismo storico e dialettico dalla scena storica. Tutte le forze intellettuali sono chiamate e poste al lavoro. Se il marxismo è la filosofia della storia, la storia deve essere dichiarata estinta; se il marxismo è la teoria della rivoluzione proletaria, la parola rivoluzione deve essere bandita dal lessico politico; se il marxismo è il metodo che consente di leggere e anticipare gli scenari storici e politici, il metodo, in quanto strumento di analisi della realtà, deve essere bandito una volta per sempre. In tale contesto gran parte degli appartenenti al ceto intellettuale repentinamente convertitisi al rango di “liberi pensatori” hanno modo di scatenarsi. Il proletariato e la classe operaia in quanto soggetti storici sono irrisi mentre gli attacchi al marxismo e la sua confutazione diventano il bersaglio quotidiano di filosofi vecchi e nuovi. Quello stesso ceto intellettuale che per anni aveva cavalcato le lotte operaie e su queste aveva maturato postazioni di forza e di prestigio all'interno del panorama culturale nazionale e internazionale, avendo velocemente intuito da quale parte inizia a tirare il vento, si prodiga nell'ammenda. Più si è stati “estremisti” nei decenni precedenti, più l'abiura non deve lasciare ombre di dubbio [29] . Si assiste così alla riscoperta e alla rivalutazione di non pochi filosofi reazionari e fascisti. In particolare Nietzsche e Heidegger [30] e questo non ha nulla di casuale. Soprattutto a essere oggetto di culto è quell'insieme di retoriche e argomentazioni dichiaratamente irrazionaliste che, in Europa, avevano imperversato nel momento in cui il “mondo di ieri” era caduto in frantumi. [31] Ciò non deve stupire poiché, la nuova era liberale, non può neppure alla lontana recuperare il fondo razionalista e progressivo del pensiero classico borghese [32] . In questo senso l'operazione “culturale” che si consuma in Italia immediatamente a ridosso degli anni Settanta ha non poche affinità, almeno sul piano concettuale, con quanto accaduto tra le due guerre mondiali [33] poiché in realtà, il nuovo liberalismo, non è altro che l'involucro ideologico della nuova fase imperialista. Pur con connotazioni diverse e tutt’altro che secondarie la nuova era liberale o più propriamente il neoliberismo è un passaggio che sta tutto dentro all'imperialismo, ne è fase non negazione o superamento.
Quanto accaduto nel nostro Paese a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso non deve quindi stupire. Da un lato l'onda lunga delle lotte operaie si eclissa, dall'altro un intero ciclo capitalistico è in via di esaurimento. Il keynesismo, la forma rivestita dalla fase imperialista a partire dagli anni Trenta del secolo scorso è giunta al capolinea. Ciò che deve essere posto in soffitta è nuovamente il “mondo di ieri”. Se l'attacco al marxismo e al materialismo storico e dialettico rimane pur sempre il cuore strategico dell'operazione “culturale” messa in atto, in contemporanea è il secolo del “cemento e dell'acciaio”, ovvero il “secolo operaio”, che deve essere divelto [34] . Il doppio obiettivo che la borghesia imperialista coltiva è, al contempo, liquidare il proletariato come classe insieme alle sue armi teoriche e dare vita a una “rivoluzione culturale” in grado di plasmare ideologicamente il mondo alle sue nuove esigenze. Questo il passaggio storico di cui il nostro Paese si rende avanguardia e protagonista. Un progetto che, per essere realizzato, non può che attingere a piene mani da non poche suggestioni che il pensiero della crisi gli offre su un piatto d'argento. Del resto non è certo casuale che proprio in quel frangente si torni a parlare di “rivoluzione conservatrice”. Come nella prima fase imperialista le frazioni dominanti della borghesia avevano sovvertito le idee e le istituzioni di cui, sino a un attimo prima, si erano ampiamente servite adesso sono obbligate a liberarsi di tutti gli involucri politici, istituzionali e ideologici del passato non dimenticando ovviamente che, perché tale operazione vada a buon fine, è pur sempre condizione necessaria e sufficiente il totale disarmo della classe proletaria. Pragmatica ed eclettica come sua abitudine la borghesia imperialista scatena una guerra a tutto tondo contro ogni residuo di passato. Il bisogno che una nuova Weltanschauung ordini a sua immagine e somiglianza il mondo risulta un imperativo strategico di prim'ordine. Tenendo a mente ciò molte cose diventano assai più chiare.
La battaglia che si combatte nel mondo delle idee ha una posta in palio enorme in quanto, contrariamente a quanto racconta l'ordine del discorso borghese, questa non è mai il frutto di “riflessioni individuali” ma, indipendentemente dalla coscienza che ne hanno gli individui [35] , è il frutto di postazioni di classe e dei loro interessi oggettivi. [36] L'obiettiva sconfitta subita dalla classe operaia si colloca all'interno di un mutamento complessivo della formazione economica e sociale che segna la fine di una fase imperialista [37] In tale contesto a essere al centro dell’attenzione della classe dominante , insieme agli assetti politici, economici e sociali, sono le retoriche all'interno delle quali la nuova era imperialista prende forma. Per governare la trasformazione a suo favore, la borghesia imperialista, non può che attingere a piene mani da quel nichilismo prodottosi nella prima metà del Novecento che, in virtù della sua indeterminatezza, diventa un vestito buono per tutte le stagioni. Per anni il pensiero decadente della borghesia imperialista aveva dovuto fronteggiare, e con ben scarsi risultati, la forza del marxismo, adesso, su posizioni di forza ben diverse, può pienamente dispiegarsi e sferrare l’attacco al nucleo teorico del suo mortale nemico, al fine di disarmarlo una volta per sempre,. Un obiettivo che, per le classi dominanti, risulta da sempre fondamentale perché è lì che, andando al dunque, si combatte la battaglia definitiva.
Senza le armi della teoria nessuna classe può realisticamente combattere, perciò annientare la teoria del proletariato, sui tempi lunghi, ha un'importanza strategica mille volte superiore a una qualunque vittoria riportata, per quanto ampia possa mostrarsi, momentaneamente sul piano empirico. Gli eserciti, seppur a fatica, possono essere ricostruiti ma, privo di un “pensiero strategico”, nessun esercito è in grado di ricompattarsi. La riscoperta dell'irrazionalismo e la conseguente messa in mora del materialismo storico e dialettico aveva esattamente a mente questo ambizioso progetto. Tramite questa operazione, la realtà politica, economica e sociale viene ridotta a contingenza permanente ma non solo. A modellare e modificare questa realtà, rappresentata come caotica e irriducibile a qualunque principio di razionalità, non sarebbero più le classi ma l'agire scomposto e privo di visione strategica complessiva degli individui. Il mondo, nella visione che ha finito per imporsi, diventa qualcosa di indecifrabile dove l'unica certezza empiricamente riscontrabile è la lotta feroce tra gli individui all'interno di uno scenario di permanente concorrenza. Molto sinteticamente quanto descritto è il quadro teorico che si è delineato nel nostro Paese un attimo dopo della sconfitta operaia consumatasi davanti ai cancelli Fiat. Un ordine discorsivo che ben si collocava nel panorama internazionale dominato dell'offensiva “neoliberista” condotta, in contemporanea, da Reagan e Thatcher.
Tale offensiva trova il suo pieno coronamento nel 1989 quando, con l’implosone del “blocco socialista”, si chiude l’epopea storica aperta dall’Ottobre e l’insieme delle retoriche ideologiche che accompagnano la controrivoluzione neoliberista hanno modo di dispiegarsi a tutto tondo su scala internazionale. È in tale frangente che, la battaglia d’avanguardia combattuta da gran parte del ceto intellettuale nostrano, trova “felici” conferme globali. I cantori della nuova era possono complimentarsi con se stessi. Hanno visto giusto e, attraverso la messa in mora del marxismo, si sono elegantemente smarcati dal peso del passato. Nonostante i tempi siano cambiati, loro sono nuovamente saldamente in sella. La repentina adesione alle retoriche e alle teorie della “nuova era” da parte di non pochi ex compagni di strada è, del resto, facilmente spiegabile con le tradizionali oscillazioni alle quali gli intellettuali, per lo più ascrivibili agli ambiti della piccola e media borghesia, difficilmente possono sottrarsi [38] . Entusiasti ed “estremisti” nelle fasi in cui il movimento della classe è all’offensiva, di fronte ai colpi serrati della controrivoluzione prima sbandano e, il più delle volte, saltano il fosso diventando i migliori difensori dell’ordine imperialista. Servi, ma più vili dei mercenari militari, pur di mantenere qualche spicchio di posto al sole prestano, senza troppe remore, il loro sapere e la loro intelligenza ai fini delle classi dominanti. Per circa un ventennio le cose, almeno in apparenza, andavano in maniera tale da sembrar dar loro ragione. Ma, come sempre, i fatti hanno la testa dura.
L'insieme degli scenari delineati, infatti, si è velocemente frantumato di fronte all'irrompere di una crisi che, in molti, considerano assai più grave e devastante di quella del 1929 [39] . Il modo di produzione capitalista non solo sembra ben lungi dall'aver risolto le sue contraddizioni oggettive ma tende a riprodurle all'ennesima potenza. Allo stesso modo i blocchi imperialisti, ben lontani dalla messa in forma di una “coesistenza pacifica”, non possono far altro che combattersi sempre più accanitamente [40] . In definitiva l'insieme delle retoriche prodotte dalla controrivoluzione neoliberista si ponevano due obiettivi strategici: decretare la fine delle epoche storiche e, con queste, l'assenza di una classe in grado di farsi classe universale. Al di là delle diverse sfumature con le quali le teorie sull'era globale venivano infiocchettate il loro denominatore comune si riduceva a rendere eterno il modo di produzione capitalista e la classe storica su cui questi poggiava. La fine della storia coincideva con la fine delle contraddizioni oggettive proprie del modo di produzione capitalista. I fatti, però, come si è appena ricordato hanno la testa dura. Nonostante i reiterati sforzi compiuti dalla moltitudine dei cani da guardia della borghesia imperialista e loro affini nel giro di nulla di tutto ciò è rimasto poco più che un mucchietto di polvere. La crisi strutturale e sistemica in cui è precipitato il capitalismo globale ha fatto riemergere una serie di questioni e di problemi che, un po' troppo frettolosamente, erano state archiviate nel polveroso faldone storico del Novecento. La storia, lungi dall'essere finita, al pari del conflitto politico che oggettivamente la smuove riacquista appieno la sua legittimità. Se tutto ciò è vero il senso della nostra iniziativa non sembra avere bisogno di eccessive spiegazioni. Non solo la critica dell’economia politica si pone all’ordine del giorno ma, ed è questo il punto, il metodo marxista si mostra l’unico strumento e la sola bussola in grado di leggere in maniera scientifica e oggettiva, in quanto scienza della classe storicamente in ascesa, il caos dentro il quale il mondo delle borghesie imperialiste è precipitato e di fronte al quale, le medesime, non sanno far altro che rispondere attraverso balbettii i quali, andando al sodo, non fanno altro che registrare il limite “storico” di una classe e di un modo di produzione in piena putrefazione. Per questo la necessità di riappropriarsi, a livello di massa, di un metodo di indagine e analisi si pone, come esigenza strategica della classe, dentro la realtà delle cose. Non è infatti sufficiente riconoscere che la storia non è finita e che il conflitto politico non si è estinto ma occorre impossessarsi delle armi teoriche affinché il proletariato possa condurre tale conflitto in maniera vittoriosa.
Privare il proletariato di tale strumento è risultato, più che sensatamente, l'obiettivo delle classi dominanti. La delegittimazione del marxismo e del materialismo storico e dialettico è stato il modo per scongiurare che lo spettro di un nuovo Ottobre aleggiasse per il mondo. Oggi, dentro la crisi e la guerra, l'alternativa socialismo o barbarie, almeno in potenza, si ripropone in tutta la sua reale fattibilità. La crisi profonda in cui versa il modo di produzione capitalista, il dispiegarsi e l'acutizzarsi dei conflitti interimperialistici, il ricorso sempre più abituale all'intervento armato, al fine di conquistare postazioni di forza sotto il profilo economico e militare, testimoniano come si apra di fronte a noi un'era in cui i giochi sono tutt'altro che fatti e scontati. Le contraddizioni della fase imperialista attuale sono tali che, per il proletariato internazionale, l'opportunità di cogliere l'occasione non è velleitaria. Ma il modo di produzione capitalista non crolla automaticamente, anzi. Per il capitalismo la possibilità di prolungare il suo dominio, in effetti, non sono minime. Attraverso il ciclo crisi/guerra/ricostruzione il capitalismo è in grado di prolungare oltre modo il suo regime. La guerra, come gli esempi storici sono lì a ricordare, è la soluzione ideale attraverso la quale il modo di produzione capitalista, distruggendo quantità enormi di merci e forza – lavoro, può far ripartire in continuazione un nuovo ciclo di accumulazione. La crisi, pertanto, offre una potenzialità oggettiva che, di per sé, senza l'intervento di un elemento soggettivo in grado di renderla esplicita è destinata a rimanere tale [41] . L'arma fondamentale e indistruttibile di questo elemento soggettivo non sta nel volume di fuoco che è in grado di sviluppare ma nella sua superiorità teorica di fronte al nemico. Anzi, per non lasciare dubbi di sorta, è solo l'uso di questa arma teorica che consente all'elemento soggettivo di piegare a favore della classe le contraddizioni oggettive che il modo di produzione capitalista non è più in grado di contenere. Dentro la crisi non vi è una soluzione obbligata e scontata ma, molto più realisticamente, è l'aut aut socialismo o barbarie a darsi come scenario concreto. Limitarsi a registrare il dato oggettivo della crisi è cosa che qualunque analista borghese può fare senza troppi patemi. Altra cosa è ricavare dalla crisi gli elementi in grado di permettere la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista. Questo compito può essere risolto solo e unicamente da un elemento soggettivo e cosciente. L'arma del materialismo storico e dialettico è la premessa irrinunciabile al costituirsi di tale elemento. L'antologia qua presentata ne rappresenta un modesto contributo. Senza quest'arma non solo le contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalista sono destinate a risolversi a tutto vantaggio del medesimo ma anche le insorgenze spontanee che le masse subalterne mettono in forma, di per sé, non sono in grado di spezzare in maniera risolutiva il dominio capitalista. Ciò è vero sia per le masse proletarie dei nostri mondi sia per le sterminate masse subalterne esterne al mondo Occidentale o per quelle stesse masse immigrate nelle metropoli occidentali. Un aspetto sul quale appare necessario minimamente soffermarsi.
La battaglia condotta dalla borghesia imperialista contro il marxismo e il materialismo storico e dialettico non ha avuto come palcoscenico solo il mondo Occidentale ma si è articolata su scala globale. Mostrando di aver fatto appieno tesoro delle esperienze storiche novecentesche, la borghesia imperialista ha compreso appieno l'importanza strategica che avrebbe rappresentato lo svuotare l'ex retroterra dell'imperialismo occidentale da ogni ideologia socialista e progressista. Il proliferare dei vari fondamentalismi religiosi sono stati un prodotto costruito in vitreo dalle forze imperialiste occidentali e importati, l'Afghanistan ne rappresenta la migliore esemplificazione, nelle aree dell'ex Terzo mondo al fine di sovvertire i governi progressisti al potere o contrastare il peso delle forze politiche marxiste che conducevano la lotta di resistenza in non poche aree del mondo. Un obiettivo in gran parte raggiunto. [42] Chiunque oggi abbia a che fare con i mondi del proletariato immigrato, e in particolare di quello proveniente dal Continente africano, dal mondo arabo e, almeno in parte, dalle aree geografiche orientali, constata come il marxismo sia stato per lo più letteralmente sradicato da questi territori. Certo, tutto ciò non è stato in grado di risolvere le contraddizioni oggettive che inevitabilmente l'imperialismo si porta appresso ma ha permesso di incanalare le lotte di queste popolazioni all'interno di una cornice in fondo rassicurante quale alla fine si mostrano i movimenti religiosi radicali o meno che siano [43] . La situazione storica attuale obbliga obiettivamente ad aprire un dibattito intorno alla storia e agli strumenti utilizzabili per la sua decifrazione. In tale scenario, il materialismo storico e dialettico torna a essere il punto di riferimento per chiunque voglia coscientemente leggere il divenire storico. Giunti a questo punto è legittimo ipotizzare che, il nostro ipotetico lettore, ci chieda una dimostrazione concreta a riprova di quanto nelle righe pagine precedenti sostenuto. Gli abbiamo promesso, contro un mondo di chiacchiere, l'esistenza di un metodo in grado di leggere e raccontare la realtà senza orpelli e mistificazioni. Siamo pertanto obbligati a dimostrare che non siamo venditori di fumo.
La guerra tra Stati
Al fine di mantenere l'impegno preso ci proponiamo di mettere alla prova il materialismo storico e dialettico applicandolo a un aspetto “concreto” della vita politica. Per farlo sceglieremo la via apparentemente più ostica ossia quella relativa alla forma stato. In questo modo, oltre a mettere alla prova “empiricamente” il metodo cercheremo di spiegare il perché, oggi, lo Stato si ritira dagli ambiti sociali abbandonando ampiamente quel protagonismo, in ambito economico e sociale, coltivato in gran parte del secolo scorso. Ciò che sovente è stato rimproverato al marxismo, e ai marxisti, è il non aver compreso il ruolo assunto dallo stato nelle società a capitalismo avanzato nel corso della sua evoluzione. In poche parole, non solo dai teorici apertamente schierati con la borghesia ma soprattutto da parte della socialdemocrazia e dei riformisti si è contestato ai marxisti di essere rimasti fermi a una visione dello stato interamente ascritto al ruolo di comitato d'affari della borghesia e di non averne colto sia la funzione di mediatore dei conflitti tra le classi, sia il ruolo inclusivo che questo ha avuto nei confronti delle classi sociali subalterne [44] . In tale ottica, lo stato, si sarebbe emancipato e reso autonomo dal ruolo di macchina burocratica e militare finalizzata al dominio di classe per svolgere sempre più una funzione terza o super partes. Lo stato, quindi, come luogo finalizzato ad armonizzare l'esistenza delle classi sociali e a rendere sempre più estesi i diritti di cittadinanza i quali, volta per volta, sono divenuti appannaggio di tutte le classi sociali. Lo stato, per tanto, nella sua evoluzione storica si sarebbe trasformato da apparato di classe in armonizzatore delle classi e del vivere sociale. Tutto ciò, secondo tale ipotesi, mostrerebbe se non proprio l'infondatezza del marxismo, il suo obiettivo superamento e il limite obiettivo del fondamento teorico sul quale esso poggia: il materialismo storico e dialettico. Se, come borghesi dichiarati, socialdemocratici e affini sostengono, lo stato nel corso del Novecento ha cambiato pelle non solo si sono rivelate sbagliate le ipotesi politiche che individuavano nello stato la macchina finalizzata, per eccellenza, al dominio di classe ma era obiettivamente sbagliata o profondamente limitata quella filosofia della storia che vedeva nelle ere storiche il “semplice” affermarsi di interessi di classe particolari legati a un determinato modo di produzione [45] . L'evoluzione novecentesca dello stato rappresenterebbe la migliore esemplificazione degli errori presenti nella teoria marxista. Ciò, in qualche modo, dimostrerebbe l'avvenuta estinzione della borghesia in quanto classe dominante e con essa il venir meno del conflitto di classe inteso come espressione sociale delle contraddizioni proprie delle epoche storiche all'interno delle quali si afferma il dominio di una classe particolare. Se, nelle epoche passate, la guerra tra le classi trovava ampia giustificazione adesso, seguendo la lettura riformista, tale strumento per leggere la realtà si sarebbe fatto obiettivamente obsoleto. Alla teoria della lotta di classe, e alla guerra rivoluzionaria alla quale questa rimanda, va dunque sostituito il principio di civilizzazione [46] e alla tesi dei salti storici violenti propugnata dal marxismo una visione pacifica ed evoluzionista del divenire storico. La configurazione assunta dallo stato proprio là dove più avanzate sono le forze produttive ne rappresenterebbe la migliore conferma. A ben vedere, quindi, la teoria della fine della storia non è poi così nuova. Con parole diverse e argomentazioni persino di maggiore sostanza l'aveva già anticipata la Seconda internazionale [47] .
Il cuore strategico di questa revisione teorica non negava la necessità storica del socialismo ma “rivedeva” il modo attraverso il quale giungervi. In una società non più segnata da raggruppamenti “politici”, la gestione del “bene comune”, del quale era artefice lo stato, non poteva che portare verso un mondo armonico e tendenzialmente giusto ed egualitario. Ad opporsi a questa tendenza obiettiva potevano essere solo forze dichiaratamente reazionarie che guardavano al passato anziché al futuro. Era la limitatezza delle forze produttive a obbligare lo stato nei recinti del dominio di classe non il loro sviluppo. Lo stato moderno, e la sua organizzazione, con il progresso economico diventava giorno dopo giorno lo strumento per eccellenza dello sviluppo dell’intera società . Alla tesi marxista che considerava obbiettivo prioritario e irrinunciabile per la rivoluzione proletaria lo spezzare la macchina burocratica e militare [48] della borghesia si sostituiva l'utilizzo della medesima la quale, nel frattempo, aveva sostanzialmente cambiato insieme alla pelle le sue funzioni. Se tale ragionamento fosse vero, tutta l'impalcatura marxista cadrebbe in frantumi.
A un primo sguardo le cose sembrerebbero stare esattamente come socialdemocratici e riformisti le raccontano. Nel corso del Novecento il ruolo inclusivo che lo stato ha avuto nei confronti della classe operaia e delle masse proletarie è indiscutibile e, come per esempio vedremo meglio nella breve parentesi dedicata al fascismo italiano, questo è stato il frutto di una decisione proveniente dall'alto. Sono state le classi dominanti a decidere di portare le masse dentro lo stato. Tutto ciò è sufficiente per seppellire il marxismo? Tutto ciò significa che lo stato ha perso il suo carattere di classe? Ma soprattutto questo significa che il materialismo storico e dialettico può essere tranquillamente sepolto tra le bizzarrie della storia? Ovviamente non basta rispondere semplicemente no. Il materialismo storico e dialettico non è un atto di fede ma il metodo di analisi scientifico attraverso il quale il proletariato, in quanto classe storica, si appropria del divenire storico. Confutare attraverso gli strumenti metodologici del marxismo le tesi borghesi, socialdemocratiche e riformiste diventa pertanto un passaggio obbligato. Un compito che, nell'epoca attuale, ha delle ricadute pratiche e operative essenziali. Tutti sono in grado di notare come, negli ultimi anni, si sia assistito a un graduale ma costante ritiro dello stato dalla società. Un ritiro che, da parte delle forze riformiste e opportuniste, è stato considerato alla stregua di un autentico tradimento. In questo modo, lo stato, verrebbe meno al suo dovere che, per i riformisti di ogni genere e colore, dovrebbe esplicitarsi mantenendo vivo l'interesse per tutti gli ambiti e le classi sociali. I dibattiti, perennemente senza esito, sulla crisi del modello Welfare ne rappresentano la migliore esemplificazione così come, i reiterati rimpianti per il “modello keynesiano”, sono una litania tanto insulsa quanto ridicola.
Ma perché, oggi, lo stato si ritira dagli ambiti sociali, perché, oggi, lo stato non si fa carico, e sempre meno tende a farlo, dei destini delle classi sociali subalterne? Perché, fatte le tare del caso, assistiamo a qualcosa che rimanda alla mente scenari propri dell'Ottocento piuttosto che del Novecento? Perché quel processo evolutivo, quella civilizzazione forse graduale ma costante tanto cara al riformismo è venuta meno? Perché le classi dominanti, vestendo panni vicini all'anarchismo, hanno dato vita a vere e proprie rivolte contro lo stato e la sua presenza dentro i mondi sociali? A cosa si deve questa sorta di statofobia [49] che si è così ampiamente diffusa nei nostri mondi? Siamo di fronte a un impazzimento generalizzato delle classi dominanti o, come proveremo a discutere nelle pagine seguenti, è l'imporsi di una nuova fase imperialista le cui caratteristiche sono profondamente diverse da quelle dell'era precedente ad avere scatenato la “rivolta antistatuale” da parte delle classi dominanti? Il materialismo storico e dialettico è in grado di spiegare tale passaggio? E ancora: il materialismo storico e dialettico è in grado di spiegare sia la forma stato che ci ha preceduti, sia la sua attuale messa in forma oppure le sue armi sono inutili e spuntate? Ecco che, attraverso l'assunzione di un problema “concreto”, torniamo alle ragioni della nostra introduzione: la questione del metodo nella lettura, interpretazione e anticipazione dei fatti storici. Andiamo quindi al sodo.
Definiamo, per prima cosa, il contesto all'interno del quale lo stato si è radicalmente modificato. L’inizio della grande trasformazione [50] avviene tra il 1914 e il 1918 nel corso del Primo conflitto interimperialistico. A determinarla è la guerra e la sua conduzione [51] . Per quanto il ruolo di cesura storica rappresentato dalla Prima guerra mondiale dovrebbe essere noto, sintetizziamone in poche battute gli aspetti di maggior consistenza. Complessivamente il numero dei soldati mobilitati fu di oltre 65 milioni, 42. 188. 810 tra gli Alleati e 22. 850. 000 tra le potenze centrali. Alla fine del conflitto sul terreno e in fondo al mare erano finiti più di 8, 5 milioni di soldati e circa 6., 5 milioni di civili. Più di 21 milioni di soldati erano rimasti feriti mentre il numero dei civili non è stato possibile stimarlo. A queste cifre si devono aggiungere gli oltre 750.000 tedeschi morti di stenti per effetto del blocco navale imposto dagli Alleati alla Germania e i non secondari numeri di cadaveri legati alle “morti collaterali” come ad esempio il genocidio compiuto verso la popolazione armena o lo sterminio della popolazione serba in fuga dalla loro terra; così come “fuori catalogo” rimangono le morti delle popolazioni indigene, esemplificativo il caso degli arabi [52] , coinvolte a diversi gradi nel conflitto. Infine, sempre tra gli “effetti collaterali”, vanno ricordate le epidemie di influenze che dilagarono nel corso della guerra, provocando tra i civili un numero imprecisato di morti. Questa impressionante sequela di cifre non è casuale ma ha la sua facile spiegazione nel carattere industriale assunto dalla guerra. Il numero dei morti e dei feriti è direttamente proporzionale alla quantità di materiali bellici impiegati nel corso del conflitto. Limitiamoci a fornirne solo qualche dato. All'inizio del conflitto, per i pianificatori militari, i punti di riferimento erano ancora quelli della battaglia di Sedan [53] del 1870 quando l'esercito prussiano aveva sparato 33. 134 colpi. Quel numero di colpi, nel 1914, rappresentava il massimo del volume di fuoco messo in campo da un esercito ma, nel 1916, l'artiglieria inglese da sola sparò circa un milione di colpi nella settimana precedente la battaglia della Somme e siamo solo di fronte a uno dei tanti esempi che si potrebbero portare per indicare quale salto la forma guerra avesse compiuto. Ma ancora. All'inizio del conflitto, i francesi, prevedevano un consumo di circa 10 mila proiettili da 75 mm al giorno e per una durata non superiore ai quattro mesi; già nel 1915, però, erano stati obbligati a produrne 200.000 per tenere testa alle richieste del fronte. In Germania, nel 1914, la produzione di esplosivi raggiungeva le mille tonnellate mensili, nel 1915 era già salita a 6.000. Alla progressione quantitativa si univano i salti qualitativi. Fin dal 1916 gli inglesi avevano messo in campo i primi carri armati, che trovarono la loro definitiva sistematizzazione nel 1917, mentre l'aviazione, che fino a quel momento aveva avuto un ruolo marginale e del tutto subordinato all'Esercito e alla Marina, nel 1918 assumeva un ruolo sempre più importante tanto da diventare ed essere organizzata come forza armata autonoma. Il carattere industriale del conflitto diventava ogni giorno che passava sempre più evidente. Mese dopo mese, ogni paese, dava fondo alle sue riserve umane chiamando al fronte nuove leve. Milioni e milioni di individui, la maggioranza dei quali provenienti dalle file del proletariato, si ritrovarono intruppati in un esercito. L'esercito terrestre britannico, ad esempio, che all'inizio del conflitto non superava le 240.000 unità terminò la guerra con poco meno di 5 milioni di soldati mobilitati. Insieme con le riserve umane ogni blocco imperialista diede fondo alle riserve economiche. Tra il fronte e le retrovie, di fatto, si stabiliva un indissolubile legame. Tutta la popolazione si ritrovava così direttamente coinvolta nel conflitto. Il volto della guerra non si era mai mostrato, al contempo, così feroce e totalizzante. Eppure il 4 agosto 1914 quando le ostilità si erano aperte Governi e Stati Maggiori non immaginavano minimamente di giungere a tanto. Allo stesso tempo nessuno prevedeva che il conflitto si sarebbe prolungato per quattro lunghi e interminabili anni. I più, e in prima persona i militari e le classi dominanti tedesche, pensavano che le ostilità non sarebbero durate oltre i due o tre mesi e ancor meno che tra le caratteristiche del conflitto terrestre vi sarebbe stata quella lunga guerra di posizione che finì con l’immobilizzare nelle trincee milioni e milioni di soldati. Repentinamente quella che, agli inizi, era ancora pensata come uno scontro tra uomini si trasformò in “battaglia dei materiali” e ai retaggi “nobiliari e aristocratici” della guerra si sostituì in tutta fretta la più prosaica ma realistica e moderna guerra industriale [54] . Ma industria significa produzione di massa, tecnica, ricerca scientifica in altre parole una guerra modellata sull'industria deve applicare a questa le stesse regole che la governano. Una guerra condotta dalla borghesia secondo il modo di produzione capitalista non può che essere modellata a immagine e somiglianza del mondo da essi prodotto.
Per quanto sintetiche, queste brevi note sembrano in grado di offrire il quadro obiettivo degli scenari che la forma assunta dalla guerra ha delineato. Diventa facilmente evidente che proprio in virtù delle forme che il conflitto assume nulla può essere come prima. La “guerra totale” obbliga, pertanto, a modificare alla radice i rapporti tra le classi. Si assiste così, almeno in apparenza, a un processo illogico. Mentre le basi del potere politico si restringono, in quanto sono i circoli ristretti della borghesia imperialista legati alla finanza e alla grande industria a dettare, di e nei fatti, le regole del gioco, la necessità di avere le masse dalla propria parte diventa un obiettivo strategico di primaria importanza. A tal fine, passo dopo passo, lo stato ha dovuto adeguarsi. Un passaggio che la borghesia imperialista ha attuato senza averne piena consapevolezza, non certo per mancanza di intelligenza ma per il limite oggettivo in cui la sua condizione di classe la obbliga [55] , e che la socialdemocrazia e il riformismo non hanno minimamente colto. Un passaggio denso di pericoli e contraddizioni per la borghesia imperialista poiché il peso oggettivo che le masse operaie e proletarie, in seguito alle trasformazioni che la guerra impone, sono in grado di esercitare, può in qualunque momento essere rivolto contro di lei. Certo, per la borghesia imperialista, il modo ideale di condurre la guerra sarebbe quello tutto interno agli scenari degli eserciti ottocenteschi ma è la materialità delle cose che rende impossibile la reiterazione di quel modello. Nella guerra che ha preso forma non solo determinante è il numero dei soldati che si possono mobilitare e il coinvolgimento dell'intera società, in particolare delle masse subalterne, alla mobilitazione generale ma è soprattutto il livello qualitativo, nel senso delle capacità tecniche che si possono vantare, del soldato e di chi produce, a diventare di vitale importanza. Paradigmatico, al proposito, è il ruolo decisivo che l'artiglieria ricoprirà dentro il conflitto. Nei combattimenti terrestri questo corpo soppianterà bellamente la fanteria, in quanto arma strategica, assumendo al contempo una dimensione di massa. Ma per usare cannoni e mortai occorre un soldato sufficientemente addentro alle questioni tecniche, occorrono operai capaci e non masse rurali incolte. Così come la sua costruzione sempre più sofisticata presuppone una forza – lavoro mediamente abilmente addestrata e sufficientemente alimentata da reggere i ritmi produttivi. Ma torniamo al fronte. Allo stesso tempo la stessa fanteria, per quanto ancora utilizzata come pura e semplice massa da sacrificare è obbligata a compiere un salto di qualità. Siamo ormai distanti, ed è la natura della guerra ad averlo imposto, dall'epoca in cui l'uso della mitragliatrice era prerogativa di reparti elitari. Quest'arma che solo pochi anni prima era considerata privilegio di pochi corpi scelti adesso è diventata la compagna abituale del fantaccino. Facendosi sempre più tecnica la guerra ha sempre più bisogno di operai. Questi, oltre a combattere, devono essere in grado di gestire tutto ciò a cui il logistico moderno obbliga. Riparazione dei mezzi, costruzioni di infrastrutture, ricambi dei pezzi usurati o danneggiati dal combattimento e così via fanno della guerra un continuum con la fabbrica. Gli operai, pertanto, non possono che essere sempre più protagonisti. Nelle retrovie, rinominate non a caso “fronte interno”, occorre fornire quel minimo di alimentazione e salute alla massa produttiva in modo da garantirsi i livelli produttivi indispensabili alla conduzione della guerra. La guerra della borghesia imperialista dipende sempre più dalla linea di condotta delle masse operaie. Queste masse, pertanto, devono essere, al contempo, sottomettesse e accudite. Sotto tale pressione lo stato è obbligato a modificarsi a farsi sociale ponendo sotto il suo controllo tutte le risorse e occupandosi di distribuirne anche una certa quota ai subalterni. Allo stesso tempo è obbligato ad addestrare al meglio le masse all'uso delle armi. Tutto ciò, ovviamente, non può che dare vita a un equilibrio estremamente precario che, nei mesi conclusivi della guerra, in più punti finirà con lo spezzarsi. Uno scenario che rimase ignoto ai più con una sola significativa eccezione: la frazione marxista del movimento operaio e proletario [56] . Ed è esattamente in tale frangente che la centralità del metodo si impose, non in maniera astratta e dottrinaria, ma in tutta la sua concretezza. Mentre, per anni, i marxisti rivoluzionari erano stati irrisi come dottrinari dai “realisti” e “pragmatici” socialdemocratici insieme ai loro compagni di merende liberali e additati come teorici astratti senza alcun senso pratico, adesso, di fronte alla svolta che la guerra imprime alla storia, sono loro i soli a capire a quale guado si sia approdati e a ricavarne tutte le indicazioni del caso. Di fronte alla storia, una dopo l'altra, tutte le ipotesi coltivate in anni dall'opportunismo e dal riformismo non trovarono più parole per spiegare il mondo. L'unica loro via d'uscita, che in effetti perseguiranno, rimase quella di allinearsi ai disegni militaristi della “propria” borghesia imperialista. Solo i materialisti storici e dialettici, Lenin, i bolscevichi e i piccoli raggruppamenti internazionali riuniti intorno a loro, si sono mostrati in grado di “leggere”, e in largo anticipo, sia le trasformazioni statuali sia le loro conseguenze [57] .
Questi non erano dei geni o degli intellettuali particolarmente brillanti e mai hanno avuto l'idea di esserlo. Non avevano titoli accademici da vantare e nessun salotto colto li considerava anche solo vagamente appetibili. Del resto questi erano assai poco propensi a presentarsi come “individualità”, anzi, loro prerogativa era considerarsi come il prodotto di un ente collettivo, il partito, vero e unico artefice dell'elaborazione teorica e politica [58] . Provenienti, per lo più, dalle file del proletariato e della classe operaia avevano trascorso gran parte della loro esistenza tra l'esilio, la clandestinità, il carcere e la deportazione. La piccola ma efficace struttura militare del partito provvedeva, attraverso gli espropri, a reperire i fondi al fine di mantenere in piedi tutta la parte politica dell’organizzazione, allo stesso modo, l'apparato illegale teneva in vita la stampa bolscevica attrezzando in continuazione tipografie clandestine e modeste cellule di “soldati rossi” organizzavano la difesa e l’offesa operaia attraverso la tattica partigiana. I loro mezzi, se posti a confronto con quelli della borghesia e della socialdemocrazia e utilizzando quel metro di paragone, erano incommensurabilmente inferiori eppure solo quella “piccola pattuglia”, alla prova dei fatti, dimostrò di comprendere ciò che stava bollendo in pentola. Sotto la guida di Lenin, dall'esilio, dalle fabbriche, dai quartieri proletari, tra i marinai e i soldati e in misura minore tra le masse rurali questo piccolo ma compatto esercito di rivoluzionari, per nulla afflitto da romanticismo e ribellismo, fu l'unico in grado di anticipare il divenire della storia e, forte di ciò, di piegarne il destino in favore delle masse operaie e proletarie [59] . A differenza di tutti gli altri attori politici in ballo la “piccola pattuglia” aveva però un vantaggio enorme e incolmabile poiché si era appropriata, sviluppandola ulteriormente, della scienza comunista.
Ma iniziamo citando Marx: “La guerra è sviluppata prima della pace: modo in cui certi rapporti economici come lavoro salariato, macchinismo ecc., sono stati sviluppati dalla guerra e negli eserciti, prima che nell'interno della società borghese. Anche il rapporto tra produttività e rapporti di traffico diviene particolarmente evidente nell'esercito.” [60] . In questo frammento è facile cogliere quanta importanza abbia per il marxismo il modo in cui la guerra viene condotta, ossia il modo attraverso il quale lo stato esercita appieno il suo ruolo politico. L'attenzione costante e continua che Engels e Marx hanno riservato al “militare” è riscontrabile in gran parte delle loro opere. Del resto quanto la guerra sia indissolubilmente legata alla politica e allo sviluppo delle forze produttive e, a partire da ciò, quanto la guerra finisca per “influenzare” l'insieme della formazione economica e sociale nella quale si dipana non è certo cosa che il marxismo ha ignorato. In molti casi, la guerra, diventa autentico volano sia per lo sviluppo delle forze produttive, sia per la trasformazione dell'involucro politico atto a condurre il conflitto. Così come la guerra sviluppa “certi rapporti economici” allo stesso tempo obbliga a sviluppare “certi rapporti politici”. La relazione tra il modo in cui la guerra è condotta e l'organizzazione politica atta alla sua conduzione è un rapporto dialettico, la cui comprensione, il più delle volte, sfugge anche agli attori direttamente coinvolti negli eventi. Dentro la guerra lo stato si modifica ed è obbligato a farlo indipendentemente dai limiti concettuali dei governanti che, in gran parte dei casi, realizzano solo post festum il portato del loro agire [61] . Come il materialismo storico e dialettico aveva abbondantemente argomentato è la base materiale di una società e del suo modo di produzione a definire la forma politica in cui il potere politico dello stato è obbligato a modellarsi. Le trasformazioni statuali novecentesche, pertanto, vanno lette e considerate dentro le strettoie in cui la guerra obbliga lo stato. Queste strettoie sono spiegabili con il materialismo storico e dialettico e non contro di questo.
L'appunto di Marx sopra riportato non poteva essere certo noto a Lenin in quanto i “brogliacci” furono editati [62] per la prima volta molti anni dopo la sua morte eppure, leggendo il testo leniniano sull'imperialismo, la cui complementarietà è data dal testo sullo stato è facile notare come l'assunto marxista vi sia fortemente presente. Che cos'è, infatti, l'analisi leniniana sulla fase imperialista se non una lettura delle trasformazioni radicali che la forma guerra ha apportato alla dimensione della politica? In apparenza il testo di Lenin sull'imperialismo [63] sembra essere una semplice esposizione popolare delle trasformazioni economiche intervenute dentro il modo di produzione capitalista: ruolo egemone del capitale finanziario, centralità dei monopoli, espansione del mercato mondiale, lotta per i mercati e le colonie, ecc. Un'elaborazione più da economista che da politico. In realtà a una lettura neppure troppo attenta il testo leniniano si mostra ben più politico che economico. Centrale nel ragionamento di Lenin sono le conseguenze che il modo in cui la guerra deve essere condotta nella fase imperialista comporta sul terreno della politica. Tra queste fondamentale è la mutazione che subisce la forma stato [64] . La guerra imperialista obbliga a una modificazione radicale della statualità borghese ed è questa trasformazione che sta al centro dell'analisi di Lenin. Quali sono le conseguenze “pratiche” che tale passaggio comporta? Essenzialmente tre: uno, lo stato assume un ruolo accentratore dell'intera formazione economica e sociale poiché la forma guerra obbliga a una mobilitazione totale dell'intera società; due, per condurre a buon fine la guerra occorre “catturare” e “piegare” le masse dentro la forma stato, lo stato è obbligato a farsi anche sociale senza che questo, però, ne intacchi le strutture del comando politico; tre, tutto ciò comporta un mutamento e una scissione dentro la classe dagli effetti devastanti ma anche dalle possibilità illimitate. Partiamo dal terzo punto. Ciò che comunemente è considerato il tradimento della Seconda internazionale [65] in realtà, e su questo l'analisi di Lenin è quanto mai materialista e non moralista [66] , è il frutto di una scissione interna alla classe dove alcuni suoi settori possono vantare quote non secondarie di privilegi e rappresentanza politica e, in virtù di ciò, sono portati oggettivamente a schierarsi con la “propria” borghesia. Nella sua analisi sulla fase imperialista Lenin, avendo a mente il metodo utilizzato da Engels e Marx a proposito del '48 francese e tedesco [67] , si preoccupa di individuare intorno a quali settori proletari è possibile costruire il partito dell'insurrezione. L'organizzazione di classe deve, in prima istanza, organizzare quelle masse proletarie la cui condizione materiale li obbliga a essere contro l'imperialismo. Queste, e solo queste, per Lenin sono i settori di classe in grado di svolgere una funzione direttiva ed egemone dentro la crisi che la guerra imperialista inevitabilmente produrrà. Su tale aspetto non sembra esservi molto da dire. Sono i punti uno e due quelli intorno ai quali è il caso di soffermarsi maggiormente. Due aspetti strettamente correlati tra loro.
Lo stato preimperialista, nella sua essenza, era stato definito da Marx come comitato d'affari della borghesia. A questo tipo di stato le sorti delle masse erano sostanzialmente indifferenti. Certo, alla fine dell'800 e ai primi del '900, le condizioni del proletariato non sono più quelle ampiamente descritte da Engels nel suo lavoro sulla classe operaia inglese [68] ma questo è esattamente il frutto di quanto, con non poca fatica, il proletariato è stato in grado di strappare, attraverso battaglie sanguinose, al comitato d'affari. Il non intervento dello stato nella società, perché quello del non intervento statuale nell'economia è una vera e propria leggenda del pensiero politico liberale [69] , rimane la linea di condotta di tutto un ciclo capitalista. Persino la Germania, il paese dove attraverso l'azione di governo di Bismarck sembra farsi largo un modello di governance ispirato dai principi del “socialismo della cattedra” [70] , la cura delle masse non sembra andare molto oltre a un insieme di provvedimenti sociali dal sapore caritatevole. La polemica di Max Weber, vero e proprio anticipatore della “coscienza di classe” della borghesia imperialista, contro tali provvedimenti che non avevano nel loro orizzonte le condizioni di vita dei sani e dei forti (ovvero della classe operaia) ne rappresenta la migliore esemplificazione. Del resto, e non è certo casuale, le “politiche sociali” di Bismarck sono accompagnate dalle leggi contro i socialisti. Le masse operaie e proletarie, per l'orizzonte borghese dell'epoca, rimangono comunque fuori dagli orizzonti dello stato. La mano libera della società liberale è una mano libera di sfruttare la forza – lavoro sulla base delle proprie esigenze senza che questo comporti, per la forza – lavoro, il riconoscimento di un qualche duraturo diritto. In questa fase l'affermazione di Marx: fra diritti eguali decide la forza [71] , è qualcosa che è possibile riscontrare nella vita quotidiana delle masse. Qualcosa che deve essere giocato in qualunque momento. Lo stato, in quanto comitato d'affari della borghesia, funziona solamente come macchina burocratica e militare finalizzata a garantire gli interessi della classe dominante. Con l'esplosione del primo conflitto interimperialistico tutto cambia. Perché? La risposta l'abbiamo sinteticamente data nelle pagine precedenti quando, pur in maniera estremamente sommaria, abbiamo tratteggiato la forma che la guerra ha assunto e le sue ricadute sull'organizzazione statuale.
Ricapitoliamo. La forza di un blocco imperialista sarà tanto maggiore se tutta la società sarà in grado di essere effettivamente mobilitata allo sforzo bellico. L'imperativo: Tutto per la guerra! risuona dentro ogni stato. Le fabbriche e le campagne si svuotano, le donne entrano prepotentemente dentro il ciclo produttivo, lo stato assume ogni giorno che passa un ruolo sempre più accentratore di tutte le risorse nazionali e diventa l'organizzatore dell'intera vita sociale. La guerra penetra all'interno di tutti gli interstizi sociali i quali, pertanto, devono essere posti sotto l'organizzazione e il controllo degli apparati statuali. La guerra misura, in primo luogo, la capacità produttiva dei blocchi belligeranti e tale capacità produttiva si riversa immediatamente al fronte. La scienza e la tecnica sono continuamente sollecitate non solo a trovare soluzioni ma a compiere veri e propri balzi in avanti. La guerra diventa sempre più un fatto “meccanico” e ciò comporta, tra l'altro, anche una non indifferente modifica nella qualità del soldato. La guerra inizia a cavallo ma termina con i mezzi corazzati, lo strapotere dell'artiglieria, il ruolo decisivo della marina e l'affiorare dell'elemento aereo come forza strategica. Una simile macchina bellica, per funzionare, non può fare affidamento su masse arretrate e sostanzialmente incolte come le masse rurali. Benché queste, nel corso del conflitto, mantengano ancora un certo peso, la forza del numero bruto, il loro peso tende a essere sempre più riequilibrato da masse che, alla forza del numero uniscono il potere qualitativo della tecnica.
In poche parole si può parlare di una vera e propria modifica della “composizione organica” della guerra. Ancora nel corso del conflitto franco – prussiano, nelle sue Note sulla guerra, Engels vi afferma il ruolo strategico fondamentale che la fanteria riveste [72] . Queste parole quarantacinque anni dopo suonano quasi come uno scherzo. Che cosa emerge nel corso della Prima guerra mondiale? Il ruolo centrale che rivestono i rifornimenti quindi la capacità produttiva di un blocco insieme alla possibilità di mantenere sgombere le vie di comunicazione che consentono a questi di giungere in loco. Si possono anche conquistare, con un colpo di mano, territori extra metropolitani ma, per mantenerli e rafforzarli, occorre disporre di vie sicure di rifornimento, altrimenti, in breve tempo, quegli avamposti si trasformeranno in enclavi accerchiate il cui ritorno al padrone precedente è solo questione di tempo. Il dominio dei mari diventa pertanto strategicamente decisivo. Ma sul mare torneremo. Qua ciò che preme mettere in evidenza è l'importanza che assume la Marina militare e, guardando ai combattimenti terrestri, il ruolo che le artiglierie e i reparti corazzati cominciano ad assumere. Marina, artiglieria e truppe corazzate soppiantano, sotto il profilo strategico, la fanteria. Ma da chi è composta questa forza militare che unisce sempre più gli aspetti quantitativi a quelli qualitativi e, in tendenza, a fare di questi ultimi il vero centro strategico? In prevalenza da operai. Se, per lo più, la fanteria rimane appannaggio dei contadini e delle masse rurali le armi strategicamente decisive vedono arruolate nelle loro schiere prevalentemente operai. Sono armi all'interno delle quali l'ilotismo rurale ha ben poca funzionalità e sensatezza. Non è certo un caso che i bolscevichi, all'interno delle forze armate, abbiano costruito i loro principali punti di forza tra i marinai e le truppe dove il livello tecnico e tecnologico era maggiormente avanzato, ovvero dove la dominanza operaia era preponderante. Dentro la crisi che il massacro bellico pone all'ordine del giorno e alla quale la socialità degli stati imperialisti difficilmente riesce a porre argine, mentre, per lo più, le truppe a maggioranza rurale spingono la loro insubordinazione non oltre il piantar a terra le baionette, i reparti dove a prevalere è la composizione operaia guardano apertamente verso l'insurrezione. Quando Lenin lancia la parola d'ordine in cui si sintetizza tutto il programma del bolscevismo e del materialismo storico e dialettico: Trasformare la guerra imperialista in guerra civile ha esattamente a mente il ruolo che il partito dell'insurrezione può svolgere tra i soldati e in particolare tra i marinai e le truppe dove egemone è la provenienza operaia. Non a caso, mentre dichiara senza indugi il programma bolscevico, Lenin irride gli eroi della frase rivoluzionaria che, di fronte alla guerra, lanciano l'infantile e avventuristico programma di: Guerra alla guerra. Lenin, la cui azione è perennemente dentro la classe operaia, guarda al formarsi degli eserciti, agli operai che smettono la tuta per indossare la divisa, coglie il ruolo strategico che la “qualità operaia” è chiamata a rivestire dentro la forma guerra che si è andata delineando. Osserva la contraddizione che la guerra imperialista è obbligata a sviluppare e lì, brandendo il metodo marxista come un’arma, concentra l'azione dei bolscevichi. Nell'agitazione che i bolscevichi svolgono tra le truppe vi è la parola d'ordine della pace e della terra per i contadini, dell'insurrezione e del potere proletario per gli operai. In tutto questo non vi è contraddizione ma, semmai, la migliore esemplificazione pratica dell’uso della dialettica materialista. Non è il programma bolscevico a essere contraddittorio, anzi esso dimostra la capacità di inserirsi dentro le contraddizioni che, a diversi livelli, la guerra fa esplodere. I gradi di coscienza delle masse, come ben hanno argomentato Engels e Marx a partire dai primi testi in cui forgiano l’arma del materialismo storico e dialettico, è sempre il “riflesso” di una condizione oggettiva e materiale. La differenza di coscienza tra l’operaio di fabbrica e il proletario agricolo o il piccolo contadino rimanda esattamente alla diversa postazione che occupano dentro il processo produttivo. Queste differenze non possono che rimandare a gradi di sensibilità e maturità politica diversa. Se la classe operaia e i soldati – operai sono l’asse strategico della rivoluzione, questi, per egemonizzare e dirigere le masse arretrate, devono saper leggere e cogliere dove, con esattezza, anche per queste si situa il punto di non ritorno. Il programma operaio avanzato trascina il programma arretrato contadino e rurale nella sintesi che il partito dell’insurrezione è in grado di elaborare [73] . Marciare divisi per colpire uniti è qualcosa che Lenin e i bolscevichi ancora prima che dai teorici del “pensiero strategico” avevano appreso da Engels e Marx. Ciò che Lenin e i bolscevichi colgono, grazie all'arma del metodo marxista che maneggiano con destrezza, è la contraddizione oggettiva che l'imperialismo produce. Per condurre la sua guerra deve armare e addestrare le masse ma non solo, per ottimizzare le risorse è obbligato a stilare un “piano”, a centralizzare la produzione e, entro certi termini, a socializzarla. Proprio l'analisi delle contraddizioni oggettive che la guerra sarà obbligata a far emergere consente a Lenin di stilare il programma rivoluzionario dei bolscevichi. L’imperialismo stesso, e proprio dentro questo passaggio vi è tutto il metodo del materialismo storico e dialettico [74] , ha posto le condizioni oggettive per il suo superamento storico. La fase imperialista è gravida di una nuova era. Lenin e i bolscevichi, attraverso una sua attenta lettura, si pongono nei panni dell’ostetrica della storia [75] .
Si è precedentemente accennato al ruolo che l'elemento marino viene ad assumere nel Primo conflitto mondiale. Questo sposta, e non poco, la forma costitutiva della guerra. Il salto di “composizione organica” che questo passaggio implica non sembra avere bisogno di molte spiegazioni. Per governare i mari la forza puramente quantitativa è del tutto inessenziale. Gli obiettivi che una moderna flotta navale è in grado di raggiungere non sono neppure comparabili con le più smisurate schiere di fantaccini schierate sul campo. Governo dei mari significa poter attuare un blocco navale pressoché totale e, con ciò, ridurre alla fame un insieme di stati e allo stesso tempo rendere inoperanti interi comparti industriali poiché le materie prime non sono più in grado di arrivare. Ma significa anche, da postazioni di sicurezza pressoché assoluta, cannoneggiare postazioni e città nemiche; appoggiare sbarchi di truppe, rifornire, evitando le insidie sempre presenti sul terreno, le truppe di tutto ciò che gli occorre per mantenere l'offensiva. Mille marinai, ben addestrati e preparati, a bordo di una flotta tecnicamente avanzata valgono, se non più, di centomila soldati appiedati e armati di fucile. In poche parole la forza bruta del numero comincia drasticamente a perdere d’importanza. Per la conduzione della guerra occorrono non semplicemente delle masse ma masse di un certo tipo. Può, la borghesia, dentro uno scenario simile continuare a mantenere la forma stato con le stesse caratteristiche del passato? Evidentemente no. Ciò è vero per le forze armate direttamente operative ma non di meno per la produzione che la guerra deve sostenere. La mobilitazione totale comporta anche un mutamento qualitativo di questa. A essere mobilitate dovranno essere masse, in qualche misura, “partecipi” dell'agire statuale e abbastanza sane, sufficientemente colte e motivate da lavorare per la guerra, direttamente in veste di soldati o attraverso la produzione, con un certo entusiasmo. Lo stato, per tanto, dovrà assolvere anche alla funzione di inclusione, se non politica almeno sociale, delle masse operaie. Certo l'equilibrio che si determina è sempre precario e contraddittorio poiché l'interesse che la borghesia imperialista nutre nei confronti delle masse subalterne non è troppo diverso dalla cura che il padrone di schiavi riversa alla propria fonte di ricchezza nel momento in cui ha estremamente bisogno di questa ma, proprio in virtù di questo bisogno oggettivo, nei confronti delle masse operaie e proletarie occorre agire al fine di averne anche il consenso. Ciò è tanto più vero osservando lo scenario che fuoriesce dal Primo conflitto mondiale.
Lo Stato di guerra
Alle contraddizioni proprie della fase imperialista che hanno innescato il 1914 si aggiunge sulla scena politica internazionale la presenza inquietante della Repubblica dei Soviet e la nascita e il consolidamento della Internazionale comunista [76] . Con l'Ottobre la contraddizione tra capitale e lavoro salariato assume una veste del tutto nuova perché proprio in tale frangente inizia a delinearsi “concretamente” lo scenario della guerra civile internazionale [77] . Adesso la classe operaia, il proletariato e i popoli colonizzati hanno dalla loro un'entità statuale alla quale fare riferimento e un'organizzazione internazionale a questa saldamente legata. Per l'imperialismo, quindi, la lotta contro lo spettro della rivoluzione si concretizza nel potere sovietico che diventa il nemico da battere senza per questo far decadere i conflitti interimperialistici che già nei primi anni Venti del Novecento, seppur sotterraneamente, tendono nuovamente ad acutizzarsi. La “questione delle masse” e la loro gestione diventa il principale problema degli stati imperialisti. Tra le due guerre [78] ciò è particolarmente evidente, basti pensare alla “costituzione del lavoro” attuata dalla Repubblica di Weimar con il dichiarato proposito di giungere, anche sul piano giuridico – formale, a un riconoscimento dell'importanza assunta per lo stato da parte del lavoro – salariato [79] . Questa linea di condotta uniforma, a grandi linee, i comportamenti dei governi borghesi usciti dal primo conflitto mondiale e, in maniera particolare, quelli dove lo spettro della rivoluzione si stava tramutando in carne e sangue. Si è accennato sopra alla Repubblica di Weimar come modello esemplificativo di questa esigenza strategica del potere imperialista ma, con ogni probabilità, è l'Italia il paese a poter essere preso come la miglior esemplificazione di questo sforzo “inclusivo” compiuto dallo stato.
Sotto tale profilo la linea di condotta adottata dal fascismo verso la classe operaia e il proletariato è quanto mai istruttiva e ciò è osservato e analizzato, in presa diretta, con non poca lucidità dal massimo dirigente del Partito comunista d'Italia Palmiro Togliatti [80] . Anche nell'esperienza fascista, a un primo sguardo, sembra di essere dentro a qualcosa di illogico e paradossale. La dittatura del capitale finanziario, della grande industria alleata con gli agrari al fine di seppellire le istanze insurrezionali e soviettiste delle masse operaie, contadine insieme ai malumori della piccola borghesia declassata uscita dalla guerra, a rigore di logica, dovrebbe far tutto tranne che cercare di catturare il consenso di queste. Nei loro confronti sarebbe più naturale pensare che l'unica politica perseguibile sia quella militare piuttosto che quella sociale. Le baionette e poco più. Politica che il fascismo, specialmente nel momento in cui conduceva la sua “rivoluzione” ed era alle prese con il consolidamento del proprio regime, non trascurò certo di adottare ma, come le analisi di Togliatti e dell'Internazionale comunista mettono in particolare evidenza, più ancora che la forza militare e squadrista il fascismo si adoperò per sviluppare una “politica sociale” in grado di egemonizzare e mobilitare ampi strati di masse proletarie. Il che è tutto tranne che illogico e contraddittorio poiché, sullo sfondo dell'azione politica del fascismo, vi è la costante preparazione alla guerra [81] . La borghesia imperialista italiana è tra le più assetate di conquiste. La guerra, fin dall'inizio, è nei suoi orizzonti. Del resto, come tutta la produzione analitica dell'Internazionale comunista a partire dagli anni Venti è lì a dimostrare, l'attenzione per la tendenza alla guerra costitutiva e costituente dell'intera fase imperialista non viene mai meno [82] . Le contraddizioni dell'imperialismo non si sono sopite con il Trattato di Versailles semmai il contrario, e a queste si è aggiunto il bisogno da parte del sistema imperialista internazionale di rimuovere con ogni mezzo necessario dalla scena storica e politica la Repubblica dei Soviet che rappresenta molto di più che una semplice spina nel fianco. I tentativi di destabilizzazione e restaurazione messi in atto tra il 1919 e il 1922 sono naufragati sia per la caparbia resistenza messa in atto dal potere sovietico sia per il rifiuto delle masse operaie internazionali di combattere contro ciò che, in molti, cominciano a individuare come la loro vera patria. Gli ammutinamenti dei soldati, il rifiuto dei marinai uniti alle numerose manifestazioni di solidarietà internazionale da parte degli operai, infiniti i casi di lavoratori portuali che entrano in sciopero rifiutandosi di caricare le navi da guerra in partenza contro la Repubblica dei Soviet, mostrano quanto urgente sia da parte delle classi dominanti attuare una serie di politiche sociali in grado di catturare il consenso degli operai o, per lo meno, non renderli apertamente ostili. Attraverso le politiche sociali il fascismo coniuga due progetti strategici: disinnescare la minaccia rivoluzionaria che classe operaia e proletariato hanno fatto aleggiare in maniera più che concreta e realista; plasmare una massa bellica e produttiva atta a sostenere le sue mire imperialiste e le guerre che queste comportano.
Val la pena, prima di proseguire, far notare come nel panorama politico internazionale, già negli anni successivi alla fine del Primo conflitto mondiale, solo l'Internazionale comunista sia in grado di mettere a fuoco lo scenario che si va prefigurando. Ora, se per cogliere la volontà dell'imperialismo di aggredire la Repubblica dei Soviet non occorreva una particolare lungimiranza o un metodo di analisi particolarmente affinato poiché bastava osservare la banale realtà empirica fatta di continui attacchi, diretti e/o indiretti, al potere sovietico; meno scontata,invece, è fin dal 1924 l'individuazione della tendenza alla guerra come programma obiettivo delle potenze imperialiste. Siamo in anni in cui, in seguito alle ferite ancora aperte dalla Guerra, tutti i governi vestono i panni della pace e dell'armonia. La Società delle Nazioni da un lato, i continui convegni finalizzati al disarmo o alla riduzione degli armamenti al pari del gigantesco lavoro diplomatico attivato per mediare e risolvere per via politica le tensioni interstatuali sembrerebbero raccontare un'altra storia [83] . Solo l'Internazionale comunista coglie la reale tendenza in atto. Anche in questo caso l'anticipazione non è frutto di alcuna individualità particolarmente geniale ma l'esito puntuale dell'applicazione del metodo alla realtà storica con la quale occorre misurarsi. Solo questo consente a quello “intellettuale collettivo” che è l'Internazionale comunista di cogliere nel segno. A questa tendenza non sfugge l'Italia fascista che, al contrario, risulta esserne una delle migliori interpreti. A tale obiettivo, la conduzione della guerra imperialista, essa indirizza e piega la sua politica nei confronti delle masse.
Con ogni probabilità, ai più, è noto il motto fascista: Libro e moschetto, fascista perfetto. Un motto che ha ben poco di propagandistico ma fotografa al meglio il bisogno che il fascismo, pur essendo principalmente il governo del capitale finanziario e della grande industria, ha di disciplinare, plasmare e catturare il consenso delle masse. Il problema è la guerra e la sua conduzione. Come il Primo conflitto ha abbondantemente evidenziato per condurla a buon termine occorre poter disporre di una massa di soldati e dunque di proletari - perché sono essi non certo i borghesi destinati a indossare la divisa - sufficientemente sani, tecnicamente istruiti, ben addestrati. Ma, perché questa massa si lasci plasmare in questo modo e non usi a suo vantaggio gli strumenti che la borghesia è costretta a fornirgli occorre offrire a questa massa anche una certa dose di garanzie. Per questi motivi il fascismo è obbligato ad attuare una politica sociale attraverso i suoi organismi di massa e, del resto, non potrebbe fare altrimenti. Di questo passaggio lo stato è il perno e il centro di tutto. Lo stato entra prepotentemente nella vita sociale, arrivando ad occuparsi anche del tempo libero, dello sport e degli svaghi delle masse al fine di statalizzarle, ma questo, al contempo, non può che rendere sempre più sociale la forma statuale. Il nome, Repubblica Sociale Italiana, che il fascismo assumerà nella fase del suo crepuscolo ne rappresenta con ogni probabilità la migliore esemplificazione. Tutto ciò marcia di pari passo con quella centralizzazione e statalizzazione dell’economia che, per certi versi, non si distingue molto dal New Deal roosveltiano il quale, non a caso, concentrò l’intervento statuale nell’economia con massicci interventi finalizzati a sviluppare la Marina militare e in particolare, mostrando una lungimiranza strategica di ottima fattura, unendo l’elemento marino a quello aereo dando priorità alla costruzione delle portaerei. Gestione della vita sociale delle masse, statalizzazione o, in ogni caso, intervento statale nei comparti strategici della produzione non sono altro che il frutto oggettivo di quella tendenza alla guerra che rappresenta il cuore strategico della fase imperialista. Quando, in prossimità dell’imminente conflitto, Mussolini pone la fatidica domanda retorica e plebiscitaria al contempo: Volete il burro o i cannoni? Che cosa annuncia se non a quale tipo di produzione lo stato darà priorità e, in necessaria complementarietà, a quale tipo di organizzazione sociale tale produzione dovrà necessariamente rimandare? Tutto ciò non è e non può essere il semplice frutto di un’improvvisazione. Quando il fascismo arriva a porre la domanda fatale ha, alle spalle, un’organizzazione statuale che, in anni e anni, ha provveduto a costituire una propria ramificazione sociale, statalizzando le masse e “socializzando” al contempo lo stato. Le non poche affinità che, in diverse circostanze, il fascismo mostrerà di avere con la socialdemocrazia testimoniano come, indipendentemente dalla particolarità politiche che possono assumere, alcune tendenze oggettive della fase imperialista accomunano l’intero spettro delle forze borghesi.
Le accuse di furto che la borghesia riformista e la socialdemocrazia rivolgeranno al fascismo proprio a proposito delle sue politiche sociali, alle quali in alcuni momenti si aggiungono anche i “furti” sul piano della politica internazionale, ne sono una più che esaustiva esemplificazione. Sia la socialdemocrazia e i suoi alleati democratico borghesi sia i partiti nazionalisti e reazionari nel momento in cui diventano governo della fase imperialista non possono che muoversi dentro le strettoie che tale fase impone. Per entrambe, di fatto, le masse operaie e proletarie hanno valore solo e unicamente in quanto capitale variabile mentre a dover essere continuamente esorcizzato è l’altro volto del proletariato in quanto classe storico – politica in grado di lottare per la conquista del potere. Lo stato della borghesia imperialista non può che essere stato in funzione della guerra e chiunque lo governi deve necessariamente modellare lo stato a tale esigenza e, a tal fine, disporre di un capitale variabile prono alle sue esigenze. Ciò, come la documentazione della sua storia è lì a testimoniare, è continuamente nel mirino dell'Internazionale comunista la quale, sbavature a parte, coglie per lo più l'essenza che caratterizza l'involucro politico dell'imperialismo. L'analisi delle modifiche della forma stato, costantemente al centro della sua attenzione, le consentono di individuare con non poca esattezza il tipo di partita che si sta giocando e il tipo di schieramenti messi in campo. Solo le forze comuniste non si dimostreranno stupite di fronte alla “politica sociale” del fascismo perché quelle politiche sono tutte interne alle esigenze oggettive e materiali che la tendenza alla guerra impone. Grazie all'arma del materialismo storico e dialettico la “socializzazione dello stato” è un tema che non crea stupore tra i militanti comunisti.
Tornando al fascismo questi, più che rubare i piani alla socialdemocrazia e ai riformisti, si adegua alle strettoie che l’organizzazione della guerra impone. Di tutto ciò, il metodo marxista, attraverso le analisi di Togliatti e dell’Internazionale comunista, ne offre una puntuale e disincantata analisi nelle lezioni tenute a Mosca nel 1935 ai quadri del Partito. Queste lezioni sono di non poco interesse per l'argomento qua trattato perché forniscono un'esemplificazione chiara e concreta dell'applicazione del metodo marxista nei confronti della forma – stato in una situazione storica e politica determinata. Togliatti, e non va dimenticato che le sue elaborazioni sono il frutto di quel grande “intellettuale collettivo” forgiato dal materialismo storico e dialettico che è l'Internazionale comunista, individua nelle organizzazioni di massa la contraddizione propria del fascismo e per questo, il Partito, deve agire al loro interno. Ma lo deve fare avendo sempre a mente, e da qui l'importanza di saper maneggiare l'arma della dialettica, non in maniera libresca, dottrinaria, intellettualizzata ma come strumento della classe dentro la guerra di classe, le contraddizioni oggettive che dentro quelle realtà vi sono, rendendole sempre più esplicite, così da farle scoppiare al fine di trasformare anche le organizzazioni di massa del fascismo in luoghi dove il Partito estende la sua area di influenza sulla classe. Nonostante dopo il 1945, ad opera soprattutto della borghesia imperialista che cercava di rifarsi una verginità politica e morale dissociandosi dal regime, si sia data dell'epoca fascista una visione tra il comico, il grottesco e il cialtrone il fascismo non è stato nulla di tutto ciò. Semmai, il fascismo, è stato dal punto di vista dell'elaborazione concettuale un movimento sostanzialmente eclettico in grado di attingere idee, progetti e programmi da tutti i movimenti borghesi e in particolar modo dalla socialdemocrazia. Tutto ciò cosa testimonia? Certamente la poca originalità del fascismo e il suo continuo scopiazzare da quanto si trova intorno ma, per altro verso, le non poche affinità che legano fascismo e socialdemocrazia. Non bisogna infatti dimenticare che queste forze, nei confronti della guerra imperialista hanno dimostrato di avere idee non troppo distanti così come, nel momento in cui la guerra imperialista si andava trasformando in guerra civile rivoluzionaria, fascismo e socialdemocrazia hanno bellamente cooperato per stroncare le insorgenze operaie e proletarie [84] . La conduzione della guerra e la partecipazione attiva delle masse a questa, per entrambe, è il cuore della questione.
Proprio in virtù della sua logica imperialista particolarmente aggressiva il fascismo ha a mente il ruolo strategico che le masse proletarie ricoprono e in questo non si differenzia di molto dai partiti borghesi di sinistra, socialdemocrazia in testa. Tutta l'attività del Partito comunista d'Italia, nel corso del Ventennio è un'incessante partita a scacchi con il fascismo, che cattura le masse in quanto capitale variabile, per la loro conquista e trasformazione in classe storico – politica; da parte sua, il fascismo, conduce la più ferrea e spietata repressione contro i militanti comunisti proprio perché, in quanto governo delle classi borghesi più avanzate (capitale finanziario e grande industria), ha pienamente coscienza che il Partito comunista è l'unico vero avversario; l'unico che per la sua funzione storica può diventare il punto di riferimento reale degli operai, dei proletari e delle masse subalterne e abbattere insieme al regime chi l'ha figliato: la borghesia imperialista. Nella guerra che il fascismo, non diversamente dagli altri regimi capitalistici, sta preparando deve fare in modo che la macchina bellica funzioni bene e a pieno regime. La fabbrica deve produrre e l'esercito combattere tutto ciò è possibile solo avendo il consenso del suo capitale variabile. Un ragionamento forse non troppo originale ma non stupido. Quando cade, infatti, il fascismo? Quando perde il controllo della fabbrica e l'esercito si scompagina. A ben vedere non è l'8 settembre, non sono il re e Badoglio a decretare la fine del regime bensì le lotte operaie del 1943 e il ritorno in patria dell'Armata del Don. Gli operai in tuta incrociano le braccia e iniziano, in massa, a guardare verso la forma partigiana che la lotta ha assunto mentre, i proletari in divisa, o piantano le baionette a terra o iniziano a raccogliere le armi per usarle contro il fascismo. Perdendo il controllo sulle masse il fascismo non è più in grado di continuare una guerra il cui paradigma, come si è più volte ricordato, è quello della guerra industriale. Un paradigma che, nel corso della Seconda guerra mondiale, crebbe in maniera esponenziale rispetto a quanto visto nel conflitto precedente.
Per quanto aride le cifre, anche in questo caso, sono in grado di fotografare al meglio l'impatto distruttivo avuto dal conflitto. Gli Alleati contarono 12 milioni di soldati morti dei quali 8,5 di parte sovietica. Le perdite dell'Asse si attestarono su circa 5,5 milioni di militari uccisi. Il numero, per entrambi gli schieramenti, dei militari feriti si aggirò intorno ai 35 milioni mentre, anche in questo caso, non esistono dati sulla quantità di civili vittime, “indirette”, della guerra. Ma il vero dato impressionante riguarda il numero di questi che nel conflitto persero la vita. Complessivamente furono circa 39 milioni di cui 6 milioni di ebrei e 17 milioni di cittadini sovietici sterminati dalla logica della “guerra razziale” attivata dagli stati occidentali dell'Asse e 10 milioni di cinesi massacrati dal fascismo giapponese. In totale oltre 56 milioni di morti, all'incirca tre volte e mezza il numero dei caduti nel corso del Primo conflitto. Una guerra di massa che poteva e doveva essere supportata da un'industria di massa.
Anche in questo caso riportare qualche dato è utile. La produzione bellica toccò punte impensabili diventando, tra l'altro, un vero e proprio toccasana per l'economia statunitense che, tra il 1940 e il 1945 constatò una crescita del 50%. Questa, solo per citare un paio di esempi, fu in grado di produrre 58 mila carri armati M-4 Sherman, estremamente affidabili e di facile manutenzione, che svolsero un ruolo decisivo in non poche battaglie così come, sempre all'industria statunitense, si deve la produzione delle navi da trasporto Liberty, indispensabili per il trasporto dei rifornimenti alle truppe e ai paesi alleati, che iniziarono ben presto a uscire al ritmo di due al giorno dai suoi cantieri. Ma il vero trionfo del paradigma industriale della guerra è rappresentato dal D – Day [85] quando, di fronte alle coste della Normandia, si presentò la più incredibile armata che la storia ricordi. Il solo numero di navi non combattenti ma adibite al trasporto truppe e materiali, 4126, che presero parte all'operazione è sufficiente per evidenziare la “massa produttiva” che l'industria, in gran parte statunitense, fu in grado di sfornare. A queste si devono aggiungere le 1213 navi da guerra che fornivano la copertura al trasporto e, attraverso il cannoneggiamento, avevano il compito di proteggere gli sbarchi. L'apporto aereo, del resto, non è stato da meno. 11.590 sono i veicoli operativi di cui il maresciallo dell'Aria sir Trafford L. Leigh – Mallory può disporre. Mai come in questo caso è evidente come, in fondo, gli uomini della 101° o della 82° aviotrasportate immortalate dalla cinematografia siano, fuor di metafora, i punti terminali di un'unica catena di montaggio. Tutto ciò, infatti, è in gran parte il frutto della grande macchina industriale statunitense e della sua classe operaia la quale, proprio in virtù dello stato di belligeranza e della particolarità che la guerra aveva assunto con l’attacco nazifascista alla Repubblica dei Soviet [86] , decise di porre tra parentesi per l’intero periodo bellico l’obiettivo conflitto tra capitale e lavoro – salariato [87] . Pertanto, ciò che si presenta agli occhi delle truppe d’occupazione naziste in Francia è esattamente il frutto del massimo dispiegamento del potere produttivo dell’industria e della massima capacità operaia di portare sino ai limiti estremi le potenzialità industriali.
Non da meno risultò lo sforzo industriale dell'Unione Sovietica [88] . Immediatamente a ridosso dell'invasione nazista il Partito comunista sovietico organizzò lo smantellamento e il trasferimento dell'intera base industriale del paese oltre gli Urali che, immediatamente dopo, iniziò a funzionare a pieno regime. Anche in questo caso qualche cifra può far comprendere al meglio il tipo di sforzo produttivo che la guerra richiedeva. Quarantadue fabbriche, tra il 1942 e il 1945, produssero 40 mila carri armati T – 34 e 18 mila mezzi blindati pesanti. Una forza impressionante che, secondo analisti disinteressati, risultarono tra gli elementi di svolta del conflitto. L'epica battaglia di carri combattuta a Kursk [89] è infatti considerato l'episodio che fece cambiare il volto alla guerra. Le truppe nazifasciste fallirono l'ultimo attacco a est, uscirono distrutte dalla battaglia e, da quel momento in poi, si trovarono costantemente strategicamente sulla difensiva. Ai blindati va aggiunto un numero pressoché analogo di aerei da combattimento. Infine, con un ritmo di produzione che ancora oggi è comunemente considerato un record, costruirono 40 mila bombardieri d'assalto Iljušin Il – 2 Šturmovik i quali, protetti dai caccia, furono impiegati in grandi formazioni a supporto dell'Armata Rossa che combatteva sul campo. Non è difficile capire, anche solo attraverso questi pochi dati, il ruolo preponderante che, alla fine, risultò avere il “fronte interno” o, meglio ancora, il “fronte industriale”.
A un primo sguardo, sembrerebbe di essere di fronte a un semplice, per quanto esponenziale, innalzamento del medesimo paradigma visto concretizzarsi nel corso del Primo conflitto mondiale ma, in realtà, la Seconda Guerra mondiale fu qualcosa di molto di più. Cominciamo con l’ osservare che cosa accade nel modo della conduzione della guerra. Sotto il profilo della “composizione organica” la Seconda guerra mondiale comporta lo spostamento strategico sull'elemento aereo. Un passaggio denso di ricadute. Proprio tale spostamento è in grado di fornirci il ruolo preponderante che l'industria, la tecnica e la scienza hanno rivestito nel corso della guerra e della sua conduzione. L'Aviazione solo sul finire del Primo conflitto mondiale si era guadagnata i gradi di forza militare autonoma e come tale organizzata anche se il suo peso sugli eventi della guerra rimanevano ancora fortemente contenuti ma adesso, gran parte delle sorti della guerra, dipendono da lei poiché è questa che, da una postazione obiettivamente privilegiata, è in grado di influenzare non poco quanto accade in terra e in mare. Controllare i cieli, nella peggiore delle ipotesi, significa inchiodare l'avversario su un risultato di parità. Ciò è stato quanto mai evidente nella battaglia d'Inghilterra [90] . La supremazia degli Spitfire, dovuta in gran parte alla loro agilità, sui caccia tedeschi unita alla forza degli Hurricane interamente dirottata sui bombardieri tedeschi obbligarono i nazisti a rinviare sine die l'invasione dell'Inghilterra. I caccia britannici non solo salvarono Londra e la Gran Bretagna ma permisero alla medesima di continuare a essere un pericolo costante per le mire imperialiste dell'Asse. Grazie alla superiorità dei suoi caccia le fu infatti possibile scortare numerose formazioni di bombardieri strategici e colpire in continuazione i nodi nevralgici della produzione tedesca, oltre che seminare il panico tra gli abitanti delle principali città germaniche. Ancora in ritirata e spesso in rotta sul terreno la Gran Bretagna fu in grado di mantenere una costante offensiva tattica grazie alla sua Aviazione. In Unione Sovietica, per altro verso, le sorti della guerra cominciarono a modificarsi quando i rapporti di forza tra l'aviazione tedesca e quella sovietica iniziarono a pendere dalla parte di quest'ultima. La stessa battaglia di Stalingrado deve non poco all'Aviazione poiché, la sua superiorità, impedì alle truppe tedesche assedianti di ricevere sempre meno rifornimenti e non essere supportata nelle fasi d'attacco. A rendere possibile l'accerchiamento delle truppe di Paulus è in primo luogo il dominio dell'aria che l'Aviazione sovietica è stata in grado di conquistarsi. Nel corso del D – Day i convogli diretti in Normandia non furono oggetto di alcun attacco aereo poiché le forze aeree tedesche erano ridotte all’osso e, per di più, pesantemente a corto di carburante. Uno dei non secondari frutti che l’incessante martellamento dei bombardieri verso i depositi di carburante e gli impianti industriali attivati per la produzione di benzina sintetica avevano sortito. Tutti questi fatti, però, diventano pressoché inezie se messe a confronto con l’evento che pone fine alla Seconda Guerra mondiale: l’esplosione della prima bomba atomica. Anche in questo caso qualche scarno dato è in grado di rendere al meglio il senso delle nostre affermazioni. Quando alle 8.16 del 6 agosto 1945 la superfortezza volante B – 29 Enola Gay sganciò “Little Boy” su Hiroshima il suo effetto devastante risultò persino superiore a quello che, fino ad allora, era stato considerato il più grande bombardamento aereo mai condotto su una città. Stiamo parlando dell'operazione “Gomorra” lanciata sulla città di Amburgo alla fine del luglio 1943 e condotta congiuntamente dal comando bombardieri della Royal Air Force e dalla VIII flotta aerea statunitense [91] . Per dieci giorni i bombardieri alleati sganciarono su Amburgo 9 mila tonnellate di bombe esplosive e incendiarie compiendo 3.095 incursioni. Una missione che comportò la perdita 86 aerei e il danneggiamento di altri 174, tutto ciò, “Little Boy” lo superò con un solo lancio. Esattamente in quell’istante il paradigma della guerra industriale toccò sicuramente l'apice e allo stesso tempo l'aspetto qualitativo sembrò prendere definitivamente il sopravvento.
Osservata unicamente sotto il profilo delle “forze produttive”, quindi, la Seconda guerra mondiale ha raggiunto l'apice della guerra industriale e di massa, tanto che potrebbe considerarsi esaurita con lei anche quella forma stato che l'aveva sostanziata e organizzata. La bomba atomica e il ruolo strategico dell’aria sembrerebbero infatti rendere inutili gli eserciti di massa e soprattutto la loro dimensione terrestre. Per altro verso, a qualcosa di simile, era giunta anche l’industria nazista. Per quanto ancora in forma rozza e arretrata le V1 e le V2 [92] sono armi in cui l’elemento qualitativo soppianta del tutto quello quantitativo. Anche in Germania, quindi, nel 1945 il paradigma industriale giunge al suo apice. Gli strumenti di cui ora la macchina bellica dispone sembrerebbero rendere inutile il mantenimento di corposi eserciti di massa e relativa produzione industriale a questi connessa. Ma la Seconda guerra mondiale non è solo “battaglia di materiali” e conflitto interimperialistico e quindi una semplice reiterazione, ancorché amplificata, del Primo conflitto poiché, la presenza dell'URSS, ha modificato non poco la scena facendo del conflitto soprattutto un terreno di scontro politico e ideologico. A est la vittoria militare dell’Armata Rossa è stata supportata dall’azione partigiana organizzata in prevalenza dalle formazioni comuniste e nella stessa Europa occidentale, in particolare in Italia e in Francia, il contributo fornito dalla Resistenza, anche questa organizzata in gran parte dalle forze comuniste, non è stato inessenziale. Una Resistenza che, se in forma esplicitamente armata si manifesta a partire dal 1943, ha alle spalle gli anni della Resistenza politica e sindacale condotta in piena clandestinità. Se la Seconda Guerra mondiale è anche guerra di popolo questo è dovuto alla presenza delle forze comuniste che, anche in pieno terrore nazifascista, hanno continuato con caparbietà a mantenere vivo, in forma organizzata, uno spirito di lotta e opposizione. Le masse che a questa lotta hanno partecipato non avevano in mente il semplice ripristino degli scenari politici, economici e sociali prebellici, gli stessi in cui aveva preso piede il conflitto, ma il sogno di edificare sulle macerie della guerra una società socialista. In tale ottica, per le masse proletarie, le truppe anglo – americane erano, fuor di metafora, gli Alleati ma il loro amico effettivo era l’esercito rosso. Dentro la guerra, pertanto, esiste una contraddizione permanente: le democrazie imperialiste occidentali che pianificano a loro immagine e somiglianza il futuro postbellico e le masse che ne ipotizzano uno completamente rovesciato. Non è un caso che le masse proletarie abbiano assunto la battaglia di Stalingrado [93] a loro paradigma. In quell’episodio è concentrata l’essenza politica della guerra che da parte loro veniva combattuta. Stalingrado, nel corso del conflitto, risultò un punto di svolta non solo e unicamente per la sua indubbia valenza militare ma, ancor più, per la plusvalenza politica che fu in grado di esercitare. Quella che, sino al momento, si era presentata come la più possente, efficace ed efficiente armata bellica mai comparsa sul proscenio storico, l’esercito nazista, perse la sua forza propulsiva di fronte a una forma guerra nelle quale l’elemento partigiano e popolare, a lungo, risultarono decisivi. Nella battaglia di Stalingrado si unificano, per intero, la volontà popolare di combattere e resistere, la capacità strategica di un “Quartier generale” in grado di pianificare l’offensiva, la superiorità industriale che, a partire dal dominio dei cieli, riversa sul nazifascismo tutta la sua capacità produttiva. L’elemento che unisce la triade popolo, esercito, industria è il partito politico. È questo che, in fondo, si mostra in grado non solo, come nelle intenzioni dei Governi imperialisti, di tenere unita la triade ma di organizzarla in una sintesi superiore. Stalingrado è una vittoria soprattutto politica e ciò non sfugge a nessuno degli attori in campo. Significativamente tanto i nazisti quanto le democrazie occidentali consideravano la caduta di Stalingrado solo una questione di giorni. Nessun bookmaker, con ogni probabilità, avrebbe accettato una puntata sulla vittoria tedesca. Nell’immaginario collettivo dei subalterni, nel 1945, è il senso politico ed ideologico di quella battaglia che deve informare per intero la ricostruzione .Per le masse proletarie è quella insuperata sintesi prodottasi a Stalingrado a dover gestire il presente.
Ciò che è vero per l’Europa viene amplificato all’ennesima potenza osservando la situazione dei Paesi sotto dominazione coloniale. Il contributo offerto dalle truppe di colore, basti pensare alla battaglia di Cassino [94] , nella liberazione europea non è stato inessenziale così come, in estremo Oriente, gli indigeni hanno svolto un ruolo particolarmente attivo contro l’imperialismo giapponese. Le democrazie occidentali, che di queste forze avevano estremo bisogno, avevano nuovamente fatto albeggiare i temi cari alla borghesia nel corso della sua fase ascendente e rivoluzionaria. Per un certo periodo la borghesia aveva ripreso tra le mani l’ordine del discorso dell’89 francese ma, alla prova dei fatti, tali enunciazioni si mostrarono unicamente propagandistiche. I Governi imperialisti avevano in qualche modo ripreso tra le mani le parole che erano state di Robespierre e Danton e i Diritti dell’Uomo declinati in senso universalistico erano stati nuovamente oggetto della loro propaganda. Il tratto prettamente antifascista assunto dalla guerra dopo il 1941, del resto, lo rendeva anche, in qualche modo, obbligatorio. La presenza e il peso politico - militare dell’URSS dentro l’alleanza, inoltre, consigliavano di non lasciare a questa il solo monopolio della lotta per l’autodeterminazione dei popoli e degli stati. In tale senso la Grande Rivoluzione, che la stessa borghesia imperialista aveva da tempo seppellita e criticata, viene riesumata ma, per la natura stessa dell’imperialismo, in scena non riappare, e del resto neppure lo potrebbe, alcun codino rivoluzionario ma solo la sua parrucca mummificata [95] . Infatti, le potenze coloniali e imperiali, finita la guerra, non mostrarono alcuna intenzione di mollare la presa nei confronti dei popoli colonizzati. Anche nelle colonie, per lo più, la Resistenza al nazifascismo o all’imperialismo nipponico era stata appannaggio dei comunisti o di movimenti da questi fortemente egemonizzati. Nella guerra e nella sua conduzione l’aspetto politico – ideologico ha finito con l’assumere un ruolo centrale. La cessazione delle ostilità non ne placa gli echi, semmai li amplifica. L’alleanza tra le democrazie imperialiste occidentali e il potere sovietico ha avuto un carattere puramente militare, perciò con la fine della guerra il conflitto politico non può che riproporsi in tutta la sua intensità. In altre parole, la Seconda Guerra mondiale, non mette in soffitta la “questione delle masse” semmai la rende più acuta. È all’interno di tale scenario che, allora, diventa facilmente spiegabile l’epopea d’oro conosciuta dal Welfare State tra il 1945 e il 1989.
Il varo formale del Welfare State può essere considerato il National Insurance Act del 1946 ad opera del governo laburista britannico. La base scientifica di tale progetto è il noto “rapporto Beveridge” intitolato Social Insurances and Allied Services. Un monumentale lavoro portato a termine dallo stesso Beveridge nel 1942 quando presiedeva la Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e i servizi affini istituita dal governo di unità nazionale di Churchill. Un programma che si proponeva di intervenire massicciamente nelle “questioni sociali” al fine di garantire una vasta rete di protezioni sociali alla gran massa operaia e proletaria inglese. Il provvedimento è una diretta filiazione dello scenario che lo scoppio della Seconda guerra mondiale ha prodotto. Venutasi a trovare sola a fronteggiare la potenza nazifascista, la Gran Bretagna è obbligata ad elaborare un progetto di “inclusione sociale” superiore a quello messo in atto dai regimi fascisti. Ciò che le occorre non è solo e semplicemente una “mobilitazione totale” ma, quanto più possibile, una “mobilitazione partecipata”. Per questo, il Paese dove storicamente le differenze di classe erano rimaste più marcate e il riconoscimento dei “diritti sociali” dei lavoratori un tema poco caro alle classi dominanti, compie repentinamente un balzo in avanti ponendosi all’avanguardia. Sullo sfondo di tutto ciò vi è il dramma ma anche lo spirito di Dunkerque [96] . Con la disfatta dell’esercito francese, al quale le poche truppe britanniche mandate in soccorso sono solo in grado di offrire un caotico imbarco verso l’Inghilterra, la continuazione della guerra si fa ogni giorno che passa sempre più problematica. All’orizzonte, insieme alla disfatta subita sul Continente e le sue ricadute che si possono facilmente intuire sulle aree coloniali mediterranee e mediorientali, vi è la concreta possibilità che l’isola stessa finisca con l’essere invasa. Per quanto la Marina militare rappresenti un punto di forza della Gran Bretagna questa è impegnata a mantenere il controllo dei possedimenti coloniali che il Giappone le sta contendendo e non può essere bellamente spostata a protezione dell’isola. L’esercito terrestre è poca cosa mentre, la pur efficace ed efficiente aviazione, sul piano quantitativo è ancora lontano da essere competitiva. Per di più la macchina industriale è ben lontana dal girare a pieno regime. L’unica salvezza è nella mobilitazione delle masse. Tutti, con ogni probabilità, ricorderanno le parole con le quali Churchill chiude il suo discorso di risposta al nazismo in procinto di aggredire l’Inghilterra: Noi non ci arrenderemo mai. Non sono parole dette a caso perché quando il gioco si fa duro, non solo i duri cominciano a giocare ma l’astuzia della ragione sembra operare in modo tale che, sul proscenio storico, solo chi è in grado di incarnare lo “spirito del tempo” rimanga in piedi. Personaggi simili non parlano mai per dare aria ai denti. La promessa e la minaccia di Churchill poggiano su basi quanto mai realistiche. Adesso, tutta l’isola, è pronta a difendere ogni metro di terreno e, all’occorrenza, a ritirarsi sino sopra le montagne e da lì continuare a combattere ricorrendo alla tattica della guerriglia. Le masse, correndo ad arruolarsi o, se non idonee, a infoltire i ranghi della milizia territoriale hanno gettato tutto il loro peso dentro la guerra. Così come corrono ad armarsi si affrettano a dare un impulso belligerante alla produzione. Solo ora il Governo di unità nazionale presieduto da Churchill è tale a tutti gli effetti. Tutto ciò non è solo il risultato della messa in mora dei circoli borghesi non troppo distanti dal nazismo e del loro Governo che, sotto la guida di Chamberlain e del suo ministro degli esteri avevano, per dirla con le parole dello stesso Churchill, consegnato l’Inghilterra al disonore in seguito ai “fatti di Monaco” o il semplice effetto di uno spirito patriottico o del “tradizionale” nazionalismo britannico ma la conseguenza di quel “nuovo corso” sociale che il governo Churchill ha inaugurato e di cui il “rapporto Beveridge” ne rappresenterà la più felice concretizzazione.
La disfatta francese, sotto tale aspetto, è particolarmente educativa per il governo britannico. La facilità con cui il nazismo si impadronisce dell’Europa e soprattutto della Francia che ne doveva rappresentare il bastione inespugnabile [97] non è solo o semplicemente il frutto dell’indubbia forza bellica nazifascista e della manifesta incapacità del governo e dei generali francesi a farle fronte ma, in tutto ciò, un aspetto non secondario è dovuto alla scarsa volontà delle masse di battersi. Non bisogna dimenticare che, nel 1940, il carattere della guerra mostra ancora per intero il volto del conflitto tra forze imperialiste e non sembra distinguersi di molto da una reiterazione di quanto accaduto poco più di venti anni prima. La politica “disfattista” perseguita nel frangente dall’Internazionale comunista è quanto mai eloquente e la sua presa sulle masse, in qualche modo, si fa sentire [98] . Con l’attacco all’URSS tutto ciò cambierà ma, al momento, i contorni del conflitto sono tali per cui non esiste alcun motivo per il quale le masse dovrebbero aderirvi. Su questo passaggio occorre minimamente soffermarsi poiché, proprio sotto il profilo della questione del metodo, rappresenta uno snodo tutt’altro che secondario soprattutto perché l’alleanza dell’Unione Sovietica con le “democrazie occidentali” da parte socialdemocratica e riformista ha dato corso a una serie di leggende tra le quali l’esistenza, in senso storico e politico, di una borghesia progressista e di una borghesia reazionaria anche nella fase imperialista.
Da un punto di vista marxista non ha molto senso parlare di borghesia progressista o borghesia reazionaria. Nei suoi scritti storici, non diversamente da Engels, Marx analizza sempre la composizione di classe della società a partire dagli interessi "concreti" che, in un determinato svolto storico, si manifestano. Semmai, per Marx, la borghesia è progressista in quanto classe storica, in quanto classe che, a un determinato grado dello sviluppo storico, è in grado di rappresentare l'interesse universale. La borghesia, cioè, è oggettivamente progressista nei confronti della forma politica preborghese. Nell'era dell'imperialismo, la teoria marxista sviluppata da Lenin, distingue, nei paesi imperialisti, i settori di borghesia diretta emanazione degli interessi finanziari e monopolistici dagli altri settori mentre, nei paesi sottoposti a dominazione coloniale, distingue tra borghesia e proprietari terrieri alleati alle potenze imperialiste e borghesia nazionale avversa sia a questi settori sia, ovviamente, all'imperialismo [99] . In questo senso, nei paesi coloniali, si può parlare di borghesia progressista e, non a caso, in tali circostanze i marxisti e i leninisti hanno sempre applicato la tattica del Fronte unito per la liberazione nazionale spingendo perché, questa lotta, portasse alla formazione di governi di unità nazionale e di classe, dove il ruolo della classe operaia, del proletariato, dei contadini poveri e della piccola borghesia fosse predominante rispetto alle altre classi dell'alleanza [100] . Questo scenario è del tutto inapplicabile nei paesi a dominanza imperialista. La linea di condotta dell’Internazionale comunista intorno a questo assunto si modella. Del resto di quanto poco di progressista vi sia nella borghesia le vicende tedesche degli anni Venti ne offrono un’esemplificazione che anche i ciechi sono in grado di vedere. Tuttavia, tenuto fermo il principio, l’Internazionale comunista è obbligata a fare i conti con la dimensione “concreta” a cui il politico continuamente rimanda. Tutto ciò dà origine, nel corso degli anni Trenta, a due svolte. La prima è il passaggio dalle tesi di "classe contro classe" del V Congresso [101] alla tattica del Fronte popolare del VII [102] , dove viene ricercata l'alleanza sia con i partiti socialdemocratici, sia con quelle formazioni borghesi avverse al fascismo. Ma in quale contesto "concreto", questo è il punto, avviene il passaggio? In Europa, nella prima metà degli anni Trenta, le ipotesi rivoluzionarie sono sconfitte e tramontate mentre, l'ombra della crisi del 1929, oltre a non essersi eclissata è, ogni giorno che passa, sempre più catastrofica. La tendenza alla guerra si fa sempre più reale e concreta. La domanda che l'Internazionale comunista costantemente si pone non è se la guerra scoppierà ma quando e in che direzione. Non pochi indicatori, inoltre, fanno facilmente presagire che l'URSS sarà al centro della contesa e che, come aveva da tempo annunciato nella sua biografia Hitler, a est la Germania avrebbe cercato il suo "spazio vitale". Per di più, Hitler, non faceva mistero di considerare la distruzione del bolscevismo l'equivalente novecentesco delle crociate. È in questo scenario, obiettivamente già bellico, che matura la tattica frontista. Una tattica i cui frutti sono sostanzialmente irrisori poiché, anche dove la sua applicazione sortisce momentanei successi, è ben presto messa in crisi e ripudiata da quelle forze alleate che, in linea di massima, preferiscono trovare una qualche convergenza con il nazionalsocialismo piuttosto che mantenere operativa l’alleanza con i partiti legati all’Internazionale comunista e quindi con il potere sovietico. È la borghesia insieme alla socialdemocrazia che rompono l’alleanza. La ricaduta di ciò si ha con Monaco dove, i governi francesi e britannici, lasciano mano libera alle mire annessioniste naziste nell’Europa orientale [103] Ma Monaco non è solo questo. Monaco, nei progetti coltivati dall’imperialismo francese e britannico, non si limita a offrire a Hiltler solo qualche territorio dell’est Europa ma lo “invita” a puntare decisamente a est a “guardare”, e in tempi brevi, alle possibilità di conquista che l’URSS può offrire. È a questo punto che, leggendo con non poca chiarezza gli obiettivi che le democrazie imperialiste vanno maturando, prende forma il patto "Molotov - Ribbentrop". Non diversamente da quanto aveva fatto Lenin, accettando di firmare una pace di Tlist con l'imperialismo tedesco pur di guadagnare tempo [104] , l'Internazionale Comunista scende a patti con l'imperialismo nazionalsocialista per difendere ciò che, al momento, per il proletariato internazionale è oggettivamente il bene più prezioso: la salvaguardia dell'URSS e il potere sovietico. Con la sola eccezione di Churchill che, con non poca lucidità, aveva individuato la Gran Bretagna come obiettivo oggettivamente strategico per l''imperialismo tedesco, le borghesie imperialiste britanniche e francesi ignoravano sostanzialmente la minaccia e vedevano nella Germania nazista un valido alleato in funzione antioperaia e antibolscevica confidando che le mire naziste si concentrassero unicamente ad est. In questo modo, auspicando un conflitto armato tra Germania e URSS, gli altri imperialismi continentali ne avrebbero, in un futuro neppure distante, colti per intero i frutti. Una guerra sanguinosa e particolarmente distruttiva tra i due paesi avrebbe creato scenari postbellici particolarmente appetibili alle potenze imperialiste rimaste in disparte o entrate nel conflitto quando i contendenti si fossero ormai dissanguati e, fatto per nulla trascurabile, una guerra rovinosa dell'URSS avrebbe offerto su un vassoio d'argento l'opportunità di liquidare definitivamente lo spettro bolscevico. Questa la realtà politica "concreta" in cui prendono le mosse sia il Fronte popolare sia il patto con il nazionalsocialismo tedesco. Il cuore strategico dell'intera operazione è la salvaguardia del potere sovietico, il resto è tattica persino disperata dentro uno scenario che non faceva coltivare troppe illusioni. L'attacco nazista all'URSS rimette in piedi, su basi statuali, la tattica del Fronte popolare attraverso la coalizione anti nazifascista ma questa tattica, come i fatti storici hanno abbondantemente mostrato, si esaurisce nei mesi successivi alla vittoria sul nazifascismo quando, l'alleanza con le forze borghesi antinazifasciste, mostra di essere né più e né meno di un'alleanza militare alla quale, entrambi gli schieramenti non potevano sottrarsi pena la non improbabile sottomissione al dominio nazifascista. Molto di più non c'è.
Questo inciso non è solo una nota dentro al testo ma mostra quanto urgente, per le democrazie imperialiste, sia organizzare uno stato in grado di fare a tutti gli effetti la guerra. Non si tratta, semplicemente, di varare qualche progetto di riarmo, potenziare alcuni settori militari e/o aumentare di qualche leva l’esercito; all’orizzonte c’è ben altro: il pieno dispiegamento dello Stato di guerra. Solo i paesi fascisti, dove il processo di statalizzazione delle masse è andato più avanti, possono vantare una mobilitazione in qualche modo “partecipata”. Avendo a mente lo scenario politico concreto in cui viene a trovarsi la Gran Bretagna, allora, la messa in forma del modello di Welfare State può essere osservata sotto una luce non solo diversa ma molto più realistica. Questi, infatti, più che affondare le sue radici in quel processo di naturale civilizzazione a cui la cultura europea sembrerebbe rimandare deve la sua attivazione alla ben più prosaica e realista necessità di mobilitare le masse dentro la guerra anche se, almeno da parte dei conservatori, questo modello più che essere ispirato a una vera e propria strategia politica di ampio respiro sembra limitarsi alla contingenza eccezionale della situazione, una sorta di “capitalismo di guerra” da abbandonare in tutta fretta, o almeno in gran parte, una volta che le cose saranno tornate al loro corso normale. Una linea politica che sarà pagata duramente in prima persona dallo stesso Churchill che, non a caso, nonostante gli indiscutibili meriti conseguiti in battaglia non vedrà rinnovato il suo mandato nell’immediato dopoguerra. Alla grandezza politica di Churchill fa da contraltare la sua miopia sociale. In lui, la borghesia, ha trovato il grande condottiero politico e militare, il borghese che più di ogni altro ha compreso appieno la natura della guerra capendo, molto prima della stragrande maggioranza della sua classe, che solo declinando il conflitto in chiave antifascista e quindi alleandosi con l’URSS e le masse proletarie che a questa guardavano come vera Patria, poteva ipotizzare di salvare la Gran Bretagna, vincere la guerra e sconfiggere le mire della Germania hitleriana. Ciò che, da conservatore classico quale era, gli diventava impossibile pensare era una dimensione statuale sempre più presente nella vita economica e sociale. Una lezione della quale, come vedremo brevemente tra poco, i conservatori faranno ampiamente tesoro.
Lo Stato in guerra
Ma torniamo al filo del nostro ragionamento. Se questo è vero perché, venuta finalmente la pace, il Welfare State oltre a non essere posto in soffitta è continuamente ampliato e rafforzato tanto da diventare il modello di governo che caratterizzerà, indipendentemente dalle consorterie governative che si alterneranno al potere, tutti i Paesi delle democrazie occidentali e in particolare dell’Europa? Sotto tale aspetto la Gran Bretagna ne offre ancora una volta la migliore esemplificazione mostrando, pur con qualche distinguo, la sostanziale affinità nei confronti della “questione sociale” da parte dei laburisti e dei conservatori. Paradigmatico, al proposito, è il termine Butskellism, che unisce i nomi di Richard Austen Butler, Primo ministro conservatore negli anni 1951 – 1955, e di Hugh Tod Naylor Gaitskell, Primo ministro laburista negli anni 1950 – 1951, coniato in Gran Bretagna per definire il comune sentire delle classi dominanti nei confronti dei subalterni. Un modello che, nella stessa Inghilterra, si è trascinato, in gran parte, fino agli anni Ottanta del secolo scorso e che la stessa Tacther ha solo parzialmente intaccato.
Intervento statale nella società ma non solo. In tutti questi anni si assiste a un sempre più massiccio e consistente intervento statuale nell’economia e non solo in termini di finanziamenti pubblici o gestione diretta della produzione ma dentro una logica di piano e di pianificazione in diretta concorrenza con la pianificazione socialista [105] . In poche parole tutto ciò che abbiamo visto prodursi nella trasformazione dello stato sulla spinta delle esigenze belliche adesso viene continuamente amplificato. La statalizzazione della società e dell’economia sembra farsi inesauribile tanto che, tale presenza, può apparire persino asfissiante. Una forma – stato che recupera appieno il suo tratto inclusivo e che si ripropone come ambito super partes alle classi e non come loro strumento di dominazione. Non a caso proprio la “borghesia progressista” e la socialdemocrazia ne saranno i cantori più entusiasti [106] . Ma in tutto ciò la forma – guerra non gioca più alcuna partita? Il Welfare State è un programma di pace o, tra le sue pieghe, si prefigura in realtà come uno strumento di guerra? Il Welfare State è un progetto di governance che si dipana e autoalimenta in piena autonomia dagli scenari politici internazionali oppure, di questi, ne è filiazione diretta? Il Welfare State, quindi, è il frutto maturo della pace? Pertanto forma stato e forma guerra, con il 1945, si sarebbero scissi tanto da vivere, l’una con l’altra, in piena autonomia o addirittura l’una contro l’altra? La guerra, adesso, sarebbe solo il retaggio di forze retrive e reazionarie che guardano nostalgicamente al passato mentre, come il modello Welfare è lì a dimostrare, il futuro sorgerebbe radioso e prosperoso? E ancora: in tale ottica la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi? Il paradigma di Clausewitz, intorno al quale il marxismo aveva così a lungo ragionato e argomentato, è stato definitivamente posto in soffitta? Alla luce di ciò, il materialismo storico e dialettico deve dichiararsi un’arma ormai spuntata e non più in grado di leggere il movimento storico?
Anche in questo caso non è possibile limitarsi a rispondere negativamente. La forza del materialismo storico e dialettico sta proprio nell’assenza di dogmaticità e nel saper, volta per volta, comprendere, spiegare e argomentare i passaggi reali delle diverse fasi storiche. Proviamo ad affrontare la questione facendo un piccolo passo indietro. Nel 1948, sempre in Gran Bretagna, viene varata la seconda fase del National Insurance Act che prevede corpose estensioni in materia di “diritti sociali” rispetto al già “progressista” Act del 1946 e insieme a questi una significativa aggiunta concernente ambiziosi programmi di edilizia popolare. Le politiche di pace e di progresso “disinteressato” non sembrano avere limiti e la Gran Bretagna ne è indubbiamente all’avanguardia così come, neppure un anno dopo, la si vedrà protagonista nella formalizzazione di un’altro Act anche se, questa volta, dai toni meno pacifici. Nel 1949 si formalizza il “Patto Atlantico” forse più noto attraverso l’acronimo NATO e di questo patto la Gran Bretagna ne è un attore tutt’altro che secondario. Ma cosa significa l’organizzazione militare della NATO se non che la guerra continua a essere l’orizzonte dentro il quale l’imperialismo non può fare a meno di muoversi? Che cos’è la NATO se non il centro strategico politico e militare dell’imperialismo edificato proprio là dove, al termine del Secondo conflitto mondiale, si era posta la linea di confine tra capitalismo e socialismo? È così impensabile, alla luce di ciò, continuare a legare forma stato e forma guerra? Che cosa stanno facendo, nel frattempo, alcuni Paesi che corrono a sottoscrivere il “Patto”? L’Olanda sta combattendo in Indonesia contro le popolazioni locali in lotta per la propria indipendenza. La Francia sta facendo la guerra al popolo vietnamita per impedirgli di raggiungere l’autonomia e l’ indipendenza. L’Inghilterra, la patria del Welfare State e del processo di civilizzazione, combatte a pieno ritmo in Birmania. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sono appena ritirati dalla Cina solo perché costretti dalla resistenza vittoriosa del popolo cinese ma rimangono attivi in Grecia dove stanno combattendo contro l’esercito di liberazione ellenico. In altre parole, avendo a mente la scena della politica internazionale, dopo il 1945 si è veramente instaurata la pace oppure, più realisticamente, la guerra e la sua messa in forma continuano a essere la trama che lega gli assetti post bellici? Non siamo, in realtà, pienamente precipitati, una volta sgomberato il campo dall’imperialismo di marca nazifascista, dentro quella guerra civile internazionale messa in forma da tutte le borghesie imperialiste subito dopo l’Ottobre? La “Guerra fredda” è il nome che, dopo il 1945, questo conflitto assume e il suo centro nevralgico e strategico è proprio l’Europa. Di ciò ne è testimone non poco lucido un militare che ne è stato un protagonista di primo piano :
“.Ogni blocco adottò la strategia della deterrenza, che sfociò nella cosiddetta distruzione reciproca assicurata (MAD, mutually assured destruction): la creazione e il mantenimento del macchinario della guerra industriale, concepito secondo il vecchio paradigma [industriale], da alimentare tramite la leva obbligatoria e anche con la mobilitazione totale se necessario, fino a gettare nella mischia economie di massa e tecnologie d’avanguardia. Ognuno aveva forze considerevoli spiegate lungo la “cortina di ferro” di fronte a quelle avversarie. Le due parti erano perfettamente preparate a passare alla guerra col minimo preavviso, e dunque svilupparono vaste strutture di intelligence e operazioni di sorveglianza per evitare di essere colte di sorpresa. Tutte le forze, di entrambi gli schieramenti, furono organizzate ed equipaggiate sulle basi della guerra industriale; infatti entrambe le potenze avevano messo in conto, se la deterrenza fosse fallita, un periodo di guerra convenzionale nel vecchio stile, sebbene condotta in maniera migliore grazie alla tecnologie e ai sistemi di comunicazione moderni, seguito poi da attacchi nucleari non appena una parte o l’altra avesse cominciato a perdere la battaglia convenzionale: attacchi strategici sul territorio avversario e tattici contro le sue forze” [107]
L’Europa è l’epicentro di tale precario equilibrio e, del resto, quanto centrale sia stato lo scenario europeo per le forze imperialiste è facilmente constatabile proprio attraverso il ruolo che la NATO non ha cessato di rivestire nel corso degli anni. Mentre le altre forme di “cooperazione” multinazionale a dominanza statunitense quali il CENTO (Central Treaty Organization) e la SEATO (Southeast Asia Treaty Organization) finirono con l’essere ridimensionate e formalmente smantellate la NATO non seguì un destino simile. Nonostante lo scenario del conflitto armato si concretizzasse in giro per il mondo e in Europa non si andò mai oltre alla dimensione del confronto, il campo europeo rimase centrale per la cosiddetta Guerra fredda. [108] La guerra non è mai uscita, come tendenza, dallo scacchiere europeo e ne ha fortemente e complessivamente influenzato le forme politiche. Non è stato il processo di civilizzazione a dare fiato al modello del Welfare State bensì la necessità degli stati imperialisti di catturare le “proprie” masse proletarie dentro la permanente forma guerra delineatasi subito dopo il 1945.
Nella messa a regime del Welfare State - modello che, ed è il caso di ricordarlo con forza, ha funzionato solo all'interno di una determinata area geopolitica cioè l'Europa occidentale - un ruolo non secondario è stato giocato quindi dalla cornice bellica venutasi a costituire negli anni immediatamente successivi alla fine del Secondo conflitto mondiale. Le politiche del Welfare hanno avuto come sostanziale obiettivo quello di pacificare, attraverso un non secondario processo estensivo di inclusione e di diritti sociali oltre a un certo innalzamento dei consumi delle classi sociali subalterne, i territori dei paesi NATO europei. Mentre, in giro per il pianeta, l’imperialismo rastrellava superprofitti attraverso politiche apertamente predatorie nei confronti delle masse subalterne delle aree del Terzo mondo, in Europa si assisteva alla piena realizzazione di ciò che può essere definito il “capitalismo dal volto umano”.
Abbiamo portato ad esempio la Gran Bretagna ma, sotto tale aspetto, ancora più indicativo è il caso della Repubblica Federale Tedesca dove il Welfare State ha conosciuto forme di sperimentazione che hanno superato di gran lunga lo stesso modello britannico tanto che, il “capitalismo renano”, è stato sempre preso a modello sia dalle forze politiche riformiste e socialdemocratiche, in virtù del suo sistema di “sicurezze sociali”, sia da parte delle forze politiche centriste e conservatrici che ne hanno sempre apprezzato la sostanziale stabilità e l’indiscutibile produttività ma l’aspetto strategico che ha unito tutte le anime del capitalismo era lo spiccato anticomunismo di massa che la società tedesca della Germania occidentale poteva vantare. Un frutto scientemente coltivato dalle potenze imperialiste che, immediatamente dopo il 1945, trasformano il Paese sconfitto tra i loro migliori alleati. La riorganizzazione dello stato tedesco e l’edificazione del “capitalismo renano” [109] poggiano per intero sulle scelte politiche, persino in apparenza contraddittorie, delle democrazie imperialiste e, tra queste, soprattutto degli USA l’unica potenza imperialista che, dalla guerra, è uscita più forte e soprattutto più ricca. Ciò che l’imperialismo, con non poca lucidità, mette a fuoco è la precisa e netta linea di demarcazione tra sé e il nemico. A partire da ciò agisce. Ben presto, contravvenendo all’abituale convenzione d’ogni fase post bellica, i vincitori rinunciarono alle indennità di guerra che la Germania avrebbe dovuto obiettivamente sborsare e, in virtù della sua postazione strategica per i nuovi scenari bellici delineatesi immediatamente dopo il 1945, questa da nazione debitrice si trasformò, in maniera apparentemente paradossale, in stato creditore. Milioni di dollari [110] , e a più ondate, furono fatti confluire nelle casse del nuovo stato tedesco perfettamente allineato con l’Occidente, mentre la NATO riceveva mano libera per installarvi un’impressionante forza militare. È a partire da questa esigenza politica e militare, quindi dalla configurazione che la forma guerra è venuta ad assumere, che prende le mosse la realizzazione del più avanzato sistema di Welfare State che l’Europa abbia conosciuto. È la guerra, non la pace, a sottendere la realizzazione di questo modello di governance e del modello statuale chiamato a realizzarlo.
Del resto quanto poco di progressista vi sia in questo processo è facilmente osservabile avendo a mente il personale politico e tecnico chiamato a ricostituire il nuovo stato tedesco. Tramontata definitivamente l’era dell’alleanza militare tra le democrazie imperialiste e l’URSS e con questa anche l’aspetto antifascista che aveva fatto da cornice all’alleanza medesima ciò che riappare senza troppe mediazioni è la volontà di tutti gli stati imperialisti di contenere lo spettro dell’Ottobre. A tale scopo tutte le forze anticomuniste insieme ai loro quadri politici, economici e militari sono chiamate a raccolta. In tale ottica lo stesso personale nazista, non eccessivamente compromesso con il passato, viene reintrodotto negli apparati statuali. Sotto la regia dell’imperialismo a dominanza statunitense i due poli della borghesia, fascismo e socialdemocrazia, trovano un fertile terreno di cooperazione nell’edificazione del “capitalismo renano”.
Tutto ciò è un frutto non casuale ma scientemente progettato dalle forze imperialiste internazionali poiché proprio la RFT, nei piani politici e militari della borghesia, doveva presentarsi sia come il principale bastione ideologico anticomunista sia il centro vitale della sua organizzazione militare. Lo spiegamento delle forze armate della NATO e degli USA, e in particolare della XII Divisione corazzata statunitense, sul suo territorio ne sono state una più che esauriente esemplificazione. Tutto ciò, come le parole del Generale britannico sopra riportate dimostrano, è più che evidente. Durante gli anni della "Guerra fredda", nonostante le minacce nucleari, la partita bellica tra est e ovest si era giocata soprattutto intorno alla potenza e al volume di fuoco delle rispettive forze corazzate. Lo scenario predisposto dagli strateghi americani e dai loro alleati della NATO prevedeva, in caso di conflitto, una straordinaria "battaglia di materiali" proprio sulle linee di confine della Germania Ovest. Per questo, gli americani e la NATO, avevano dedicato non poche energie e risorse alla messa a punto di una "macchina bellica" dalla straordinaria potenza che, nei carri, aveva la sua punta di diamante. Ancora nel 1989, la XII, schierava contro le forze del "Patto di Varsavia" gli Abrams m1a1, un'incredibile macchina bellica da settanta tonnellate praticamente invulnerabile e in grado di polverizzare ad un chilometro e mezzo di distanza qualunque avversario. Alle sue esigenze si erano dovute piegare le vie di comunicazione e per questo, intere file di genieri, avevano lavorato incessantemente al fine di rendere agibili e praticabili le vie d'accesso verso l'ipotetico fronte. All'improvviso, quando il "Patto di Varsavia" dichiarò bancarotta, la più temibile forza corazzata del mondo, di colpo, oltre a trovarsi senza nemico divenne superflua. Gli Abrams, infatti, per le loro caratteristiche si mostrano inutilizzabili in altri scenari bellici perché presupporrebbero, anche là dove le condizioni si mostrassero più favorevoli, un tempo di adattamento tale, per il logistico e le infrastrutture, oltre alla lunga, macchinosa e costosa operazione che il loro trasferimento comporterebbe, da sconsigliarne l'utilizzo.
Tutto ciò racconta qualcosa di sostanziale sulle vicende che hanno accompagnato fin dalla nascita, oltre alla RFT, l’intera storia del modello politico ed economico europeo del Secondo dopoguerra. Se le argomentazioni fino ad ora portate si mostrano saldamente ancorate alla realtà dei fatti un dato ne consegue: il metodo marxista è ben lungi dal potersi archiviare ma, al contrario, oltre a mostrare di essere ben vivo e vegeto può vantare di essere l’unico strumento scientifico in grado di leggere i movimenti reali della storia. Dove i borghesi, i socialdemocratici e i riformisti come i reazionari hanno visto un improbabile processo di civilizzazione che metteva in cantina la lotta di classe e il marxismo, il materialismo storico e dialettico ha osservato e denunciato la reale posta in palio. Il “capitalismo dal volto umano” aveva ben poco a che vedere con la pace e la prosperità ma, a tutti gli effetti, era indissolubilmente legato alla forma guerra. Il sistema del Welfare State, con buona pace di nostalgici di varia natura, non si eclissa per la cattiva volontà di un qualche governante con il cuore particolarmente duro ma perché venendo meno quella forma guerra non ha più alcuna funzione. La nuova fase imperialista ha bisogno di un involucro politico, una forma stato, completamente diversa dal passato. Questa è la vera fuoriuscita dal Novecento e a dettarne i ritmi e i tempi sono le esigenze di una nuova fase imperialista. Arriviamo così a tratteggiare i contorni del presente.
Come abbiamo provato ad argomentare sino a questo momento tra forma stato e forma guerra esiste un legame pressoché indissolubile. La guerra non è solo la continuazione della politica con altri mezzi ma è, indipendentemente dal riecheggiare del fragore delle armi, continuamente compresa in essa. Separare la dimensione della guerra da quella statuale è come ipotizzare che, in una squadra di calcio, centrocampo e attacco giochino due partite diverse. Certo, proseguendo con questa metafora, è il centrocampo che riveste sempre il ruolo centrale, decisivo e decisionale ma è altrettanto vero che le caratteristiche degli attaccanti giocano un ruolo non secondario nel modo in cui il centrocampo organizza la trama del gioco. Tutto ciò diventa quanto mai evidente se osserviamo le trasformazioni che la forma stato subisce nel presente. Una trasformazione che, pur con le particolarità che ogni dimensione specifica può assumere, segue una linea di condotta pressoché unitaria in tutti i Paesi imperialisti occidentali. È in tale scenario, quindi, che diventa possibile leggere la crisi del Welfare State. La caduta del "Muro" insieme allo scenario bellico fa cortocircuitare l'intero sistema sociale europeo a dimostrazione di quanto la forma guerra avesse assunto un ruolo predominante nel definire gli scenari che, abitualmente, sono ricondotti nell'alveo impolitico della vita quotidiana. Il mutamento della "cornice strategica", per milioni di operai e proletari, ha comportato la fine del "piatto di pastasciutta" garantito che stava alla base delle logiche di governance dei vari sistemi di Welfare State. In poche parole, ed è questo che ci preme evidenziare con forza, non è pensabile "pensare la politica" ignorando la forma guerra che questa incarna. Un passaggio che, molto realisticamente, solo il materialismo storico e dialettico è in grado di comprendere, ponendo nero su bianco la realtà materiale che tali processi comportano, permettendo, in questo modo, alla classe di affrontare il presente evitando di farsi racchiudere in reiterate maddalene delle quali, onestamente, la lotta di classe non ha mai saputo che farsene. Il metodo marxista mal si sposa con le nostalgie e i rimpianti poiché la scienza comunista è sempre l’arma del presente in grado di anticipare il futuro mai del “mondo di ieri”: il suo uso è qui e ora [111] . Hic et nunc perché la storia, così come non consente vie di fuga, non permette di trovare un qualche rifugio nella saudade ma obbliga tutti i suoi attori alla necessità di starvi dentro e combattere le battaglie che una situazione storicamente determinata ha delineato. È dentro a tale “concretezza” che, allora, va letta la fine di un modello statuale. L'89 segna, a tutti gli effetti, una linea di confine tra due epoche delle quali, la forma guerra, ha continuato a rappresentarne l'elemento paradigmatico per eccellenza.
Lo scenario che aveva iniziato a prendere forma nel 1914 con il crollo dell'URSS repentinamente decade poiché il paradigma della guerra industriale che lo aveva così a lungo caratterizzato viene meno. Non viene certo meno la dimensione della guerra che, al contrario, dal 1991 in poi diventa elemento costitutivo e costituente del nuovo dis – ordine internazionale ma a esserne profondamente modificata è la sua forma. Dentro tale passaggio diventa allora necessario leggere le trasformazioni che hanno investito la forma stato e ciò che comunemente passa come crisi e/o esaurimento del modello Welfare.
Seguendo il filo del ragionamento fin qui tentato abbiamo visto come a caratterizzare fin dai primi anni del Novecento la fase imperialista sia stata la dimensione della guerra industriale e, con questa, il ruolo strategico che per gli eserciti imperialisti rappresentavano le masse. Erano le masse che dovevano combattere e morire così come erano sempre queste a dover portare ai massimi livelli le capacità produttive dei diversi blocchi che, volta per volta, si affrontavano per il dominio sulla scena internazionale. Repentinamente tutto ciò evapora. Nel momento in cui il nemico storico dell'Occidente implode, nel giro di nulla, si assiste a una drastica ridefinizione delle forze armate e insieme a queste la messa al bando da parte di tutti i Governi imperialisti occidentali dei sistemi di governance incentrati sul Welfare State. Velocemente si è passati dagli eserciti di massa agli eserciti professionali e dalle politiche incentrate a foraggiare la spesa pubblica, ossia la spesa sociale, a politiche cosiddette di rigore. Le ricadute di ciò non sono secondarie. Il servizio militare obbligatorio comportava non solo l'obbligo alla noia della naia ma, ed è l'aspetto fondamentale, anche il diritto da parte delle masse subalterne a portare le armi ed esserne addestrate all'uso. Nelle pagine precedenti abbiamo visto come proprio questa condizione, una contraddizione insormontabile per gli eserciti imperialisti di massa, sia stata alla base, il più delle volte, dell’attuazione di una fase insurrezionale e rivoluzionaria. In poche parole l'obbligo a morire per la borghesia imperialista poteva trasformarsi nel diritto a rovesciare, armi alla mano, quella stessa borghesia. Allo stesso tempo abbiamo osservato come, i salti di “composizione organica” della guerra, obbligassero le classi dominanti a dotarsi di masse subordinate oltre che sufficientemente sane e tecnicamente non sprovvedute. Per i governi imperialisti, quindi, il controllo e in una certa misura la cura delle masse ha rappresentato un obiettivo strategico di non secondaria importanza. Ma cosa accade se, all'improvviso, queste masse diventano per lo più inessenziali allo sviluppo e al consolidamento della potenza di un blocco imperialista? Semplicemente che le sorti di queste masse non rappresentano più un’importanza strategica e che quella necessità “inclusiva” che aveva segnato l’iniziativa statuale per gran parte del Novecento viene meno. In poche parole le masse diventano inessenziali alle politiche di potenza dei blocchi imperialisti.
Ecco che allora, utilizzando il metodo marxista, molti nodi cominciano a sciogliersi e la crisi del Welfare appare di non difficile comprensione. Se per un arco di tempo consistente a caratterizzare l'azione di governo delle classi dominanti è stata la logica del far vivere oggi, a prevalere, sembra essere piuttosto quella del lasciar morire [112] . La fine del paradigma industriale della guerra ha reso, da un punto di vista strategico, inessenziali le masse e con ciò la perdita di interesse da parte delle borghesie imperialiste nei loro confronti. Il ritiro dello stato dalla società molto banalmente non è altro che l'adeguamento del medesimo alle condizioni materiali, concrete e oggettive all'attuale fase imperialista. Non diversamente, anche se di segno completamente rovesciato, da quanto accaduto nei primi anni del Novecento l'involucro politico si plasma intorno alle basi strutturali che lo sostanziano. In tale ottica, quindi, l'ottocentesco comitato d'affari della borghesia diventa il modello pienamente dispiegato dell'era contemporanea. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie poiché l'intera strategia operaia e proletaria non può, pena il rimanere fuori dalla realtà concreta in cui si trova ad agire, che pensare la prassi avendo chiaramente a mente lo scenario oggettivo in cui si trova. In questo senso, quindi, più che inseguire i fantasmi del passato come la rimessa in circolo di un modello di Welfare, incompatibile con le logiche dell'attuale fase imperialista, diventa opportuno comprendere i tratti propri di questa. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare è il ruolo “pratico” che il materialismo storico e dialettico riveste e quanto indispensabile sia appropriarsene per intervenire concretamente dentro la storia. Nel modo in cui lo abbiamo usato per aggredire la forma stato non ci siamo lasciati irretire da alcun accademismo o intellettualismo di sorta ma, augurandoci di esservi riusciti, abbiamo posto nero su bianco e senza fronzoli un insieme di passaggi pratici e materiali che hanno fatto da sfondo alle esistenze di milioni di operai e proletari. In poche parole abbiamo cercato di dimostrare come il rapporto tra scienza comunista e classe sia, per la prassi, una relazione indissolubile.
L’irrompere della crisi ne offre un’eccellente occasione. È dentro di questa che, infatti, va giocata per intero l’arma del materialismo storico e dialettico cogliendo gli aspetti politici che questa comporta evitando, in nome di una scientificità tanto asettica quanto inconcludente, di darne una lettura oggettivista ed economicista. L’operazione che occorre tentare non è diversa da quella portata a termine da Lenin dentro la crisi e la guerra che fanno da sfondo al Primo conflitto mondiale: leggere le trasformazioni politiche proprie della fase imperialista nella quale si è immessi e tutti i balzi che questa comporta. Per farlo, pur in maniera molto sintetica, cominciamo con il mettere a confronto il modo in cui gli stati imperialisti hanno affrontato le ricadute del giovedì nero del 1929 e quello messo a regime dopo il settembre – ottobre 2008. Dopo il crollo del ’29, gli stati imperialisti cominciano ad intervenire pesantemente nell’economia attraverso investimenti pubblici al fine di rimettere in moto la macchina produttiva. Al contempo iniziano a dare vita a sostanziosi programmi sociali finalizzati a neutralizzare gli effetti più devastanti che la crisi stava riversando sulle masse subalterne. Intervento nell’economia e intervento nella società, in che modo? Gli Stati Uniti e la Germania ne rappresentano l’elemento paradigmatico per eccellenza. In entrambi i Paesi la fuoriuscita, almeno momentanea, dalla crisi avviene attraverso massicci investimenti statuali nella produzione bellica. Gli Stati Uniti gettano le basi per la loro supremazia aero – navale mentre la Germania inizia a sviluppare quell’esercito che metterà a ferro e fuoco l’Europa e non solo. Si preparano le armi e si allevano al meglio quelle masse che, da lì a poco, saranno chiamate a vestire la divisa. A fare argine alla crisi non è altro che la preparazione alla guerra il cui paradigma industriale obbliga a catturare, almeno in parte, anche il consenso delle masse. Gli anni Trenta del secolo scorso vedono, al contempo, svilupparsi gli interventi statali nell’economia e nel sociale al fine di preparare la guerra. La centralità che le condizioni di vita delle masse rappresentano è sotto agli occhi di tutti. La richiesta di un intervento statale, finalizzato a risolvere la loro indigenza, viene sollecitata, in prima persona, dai circoli esclusivi della borghesia imperialista. La nota affermazione del Presidente degli Stati Uniti Frank Delano Roosevelt: Il New Deal ha salvato il capitalismo da se stesso, rappresenta qualcosa di più di una battuta di spirito. Tutto ciò, seguendo il filo del nostro ragionamento, non deve stupire. Le risposte che gli stati danno alla crisi sono tutte interne a quella tendenza alla guerra a cui quella determinata fase imperialista obbliga. Sullo sfondo di tali politiche è difficile, e quanto sostenuto nelle pagine precedenti dovrebbe averlo ampiamente dimostrato, non vedere quanto peso giochi la forma guerra. Veniamo al presente. Le risposte statuali all’irrompere della crisi non sono state certo di poco peso. L’indebitamento degli stati ha raggiunto cifre stratosferiche ma con limitati effetti sulla ripresa della produzione industriale e ricadute pressoché nulle sulle condizioni materiali delle classi sociali subalterne le quali, dentro la crisi, precipitano ogni giorno che passa sempre più in basso. La miriade di fondi pubblici è stata utilizzata per ridare fiato all’economia finanziaria, saldare e parare i suoi debiti e i suoi guasti, rimettere in circolazione una massa di denaro attraverso la quale far ripartire le transazioni finanziare il tutto, questo è il punto, mirando a contenere, ridurre e se possibile azzerare la spesa sociale. In poche parole, per le masse, non ci sono né euro, né, dollari, né altro. Negli Anni Trenta, al contrario, anche andando contro e senza mezze misure a corpose quote di borghesia che, in virtù della loro miopia, si opponevano alla realizzazione dei programmi propri dello stato sociale il cervello della borghesia imperialista non si faceva problemi a lottare anche contro la propria classe al fine di porre delle solide basi alla sua politica di potenza. Questo scenario è oggi riproponibile? Assolutamente no anzi, come chiunque può facilmente constatare osservando con un minimo di realismo il mondo che ci circonda, il presente racconta qualcosa di diametralmente opposto. Forse perché viviamo dentro il sogno kantiano della pace perpetua? Evidentemente no ma la guerra, la sua forma, la sua conduzione e i suoi obiettivi si sono radicalmente modificati rispetto a quel paradigma che ha imperversato lungo gran parte del Novecento. Questo il nodo che occorre sciogliere.
Nelle epoche passate la messa in forma della guerra, come abbiamo visto, presupponeva la costituzione di un blocco statuale il più unito e compatto possibile, assolutamente pacificato e a vari gradi consenziente. Lo Stato di guerra presupponeva una sostanziale condizione di pace interna. La guerra doveva essere sempre al di fuori dei confini politici dello stato. Gli eventuali rovesci militari, con la conseguente occupazione di territori nazionali, non inficiavano la rigida separazione tra interno ed esterno, semmai il contrario. Lo Stato di guerra, anche in ripiegamento e ritirata, doveva ancor più contare sul carattere granitico e monolitico della sua legittimità politica e militare. Le sorti della guerra potevano ridurre lo spazio geografico di uno stato non il suo peso politico. Quando la guerra entrava dentro i confini politici dello stato non poteva che assumere immediatamente i tratti della guerra civile rivoluzionaria. Tutte le politiche sociali degli stati imperialisti avevano come obiettivo scongiurare tale evento. Perdere il controllo delle masse significava non avere più soldati e quindi non riuscire più a condurre la guerra imperialista; non avere più operai e quindi essere deprivati di quella indispensabile produzione finalizzata ad alimentare e sostenere i combattimenti; infine, ma non per ultimo, correre il concreto rischio di essere spodestati dalla classe operaia e dal proletariato a cui la stessa guerra imperialista ha dovuto consegnare le armi e, in qualche modo, le fabbriche. Per le classi dominanti era assolutamente necessario che alla guerra esterna corrispondesse la più solida pace interna. Oggi, al contrario, la forma guerra si dispiega, pur con intensità diverse, sia all’interno che all’esterno. Non vi è più, da un punto di vista statuale, un interno e un esterno ma un unico campo di battaglia dove si giocano gradi e modalità di un medesimo conflitto. Il paradigma contemporaneo assunto dalla forma guerra è quello della guerra nelle città o guerra tra la gente un contesto che non ha alcun metro di paragone col Novecentesco paradigma industriale. Ma tutto ciò cosa significa? Quale tipo di guerra si sta oggi combattendo? L’unico modello che sembra avvicinarsi agli scenari bellici in corso ha molto a che vedere con le guerre coloniali. Ciò che le potenze imperialiste stanno attuando in gran parte del mondo, dall’Iraq, all’Africa, dai Balcani all’Afghanistan ricorda assai da vicino la politica della “porta aperta” attraverso la quale gli imperialismi cercarono di spartirsi la Cina [113] In queste guerre non si combatte contro un esercito ma contro la popolazione. Non vi sono campi di battaglia ma, il più delle volte, lo scenario bellico è rappresentato dalle città o da alcune sue zone. A combattere per l’imperialismo sono o truppe di volontari o mercenari veri e propri mentre, contro l’imperialismo si mobilitano forze partigiane la cui strategia è riconducibile alla guerra asimmetrica [114] . A cosa mira, l’imperialismo, attraverso queste guerre? Oltre agli obiettivi come dire classici che hanno fatto da sfondo a ogni epopea coloniale oggi queste guerre mirano a porre sotto controllo quote non secondarie di popolazione al fine di metterle al lavoro, in condizioni non distanti dal lavoro servile e coatto, alle dirette dipendenze delle imprese multinazionali e degli stati che queste controllano. Quella che comunemente è chiamata delocalizzazione della produzione non è altro che l’impianto di enormi comparti industriali all’interno di territori dove, il capitalismo, al “patto sociale” preferisce di gran lunga la frusta e le baionette. Un modello che, per le borghesie imperialiste, ha valenza universale e che, una volta sperimentato fuori dai propri confini metropolitani, in questi viene reimportato. Se, come ricorda Marx, è dall’uomo che si ricava la scimmia allora è dove più alto è l’estrazione di plusvalore che occorre partire per comprendere in quale modello politico e sociale siamo precipitati. A tracciare la storia, sempre come ricorda Marx, è il suo lato cattivo [115] . Sono le fabbriche rumene, albanesi, irachene, le enclavi israeliane destinate ad ospitare la forza lavoro arabo palestinese e così via a tracciare le vie dell’attuale fase imperialista e, a partire da ciò, a modellare per intero la formazione economica e sociale dell’attuale ciclo capitalista. Ma se questo è il modello trainante della produzione, e conseguentemente il “cuore politico” della fase imperialista, che cosa ne è della forza – lavoro insidiata nelle aree metropolitane imperialiste? Se non c’è più un “dentro” e un “fuori” perché, in contemporanea, “dentro” e “fuori” convivono fianco a fianco in ogni contesto, è possibile una politica “inclusiva” da parte degli stati imperialisti nei confronti delle proprie masse? Anche il più modesto degli indicatori sembra in grado di dare una risposta negativa. Se, a partire dal 1914 sino al 1989, per le stesse forze imperialiste dare un volto politico e sociale alle masse rappresentava una strettoia obbligata oggi, al contrario, le pratiche in atto sembrano raccontare qualcosa di decisamente rovesciato: la condizione delle masse è sempre più quella della massa senza volto. Anche in questo caso, un breve confronto con quanto accaduto dopo il fatidico giovedì nero, è quanto mai utile. Combattendo le non secondarie resistenze di una parte delle forze borghesi il New Deal, nel 1933, tenne a battesimo il National Industrial Recovery Act il cui punto di svolta dal punto di vista politico e sociale era rappresentato dal paragrafo (A) della sezione 7 dove si sanciva, per legge, il diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva. Un passaggio quanto mai esplicativo. Di fronte all’irrompere della crisi il Paese che si pone come il punto più alto dello sviluppo, e delle contraddizioni del capitalismo, risponde dando un volto giuridico – formale alle masse proletarie. In questo modo ne riconosce e ne formalizza l’esistenza. Per l’imperialismo è essenziale mettere a regime tutte le condizioni perché il “fronte interno” o “fronte industriale” sia pronto a sostenere la propria politica di potenza. Quelle masse dovranno combattere per lui e non contro di lui. Il modello che si esplicita, quindi, è quello della pace interna in funzione della guerra esterna. Al contrario, oggi, l’imperialismo non sembra avere alcuna necessità di un qualche “fronte interno” anzi all’interno, nei confronti delle masse, a prevalere sono le “politiche di guerra” non certo quelle di pace. È a questa esigenza che si piega l’involucro politico contemporaneo.
Nel momento in cui, dopo l’89, si è potuto appieno dispiegare quel fenomeno comunemente noto come capitalismo globale il mondo si è fatto veramente uno, nel senso che il rapporto tra capitale e lavoro – salariato non ha più dovuto essere mediato da un insieme di esigenze politiche e militari come negli anni precedenti. Molto prosaicamente l’era del capitalismo globale non ha fatto altro che universalizzare in basso, almeno in tendenza, le condizioni delle masse proletarie. Per molti versi, oggi, assistiamo alla definitiva cesura storica con l’epoca di Weimar. Se, in quello svolto storico, la formalizzazione giuridica del lavoro – salariato (nazionale) era al centro degli interessi imperialistici oggi si assiste al suo esatto rovesciamento. Le trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro sono in grado di parlare da sole. La nuova era non universalizza i diritti del Welfare State ma la condizione di “massa senza volto” a cui l’imperialismo aveva deputato i subalterni del cosiddetto Terzo mondo. Un processo che gradualmente ma inesorabilmente ha marciato a pieno ritmo.
Un paio di decenni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino nei nostri mondi a nessuno poteva venire in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte considerevole delle masse salariate europee. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In poche parole la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte cotte con lo strutto sulle nostre tavole, oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettive che, a molti, più che criticabili si mostravano appetibili. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini, le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano essere molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti, quella presenza culturalmente così diversa e in fondo, ma in realtà solo in apparenza, pre – globale non faceva altro che rendere più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni ormai “marginali” ma ancora fastidiosamente presenti in quella che veniva chiamata tarda modernità alludendo con ciò alla residualità del lavoro materiale a fronte di un mondo, secondo retoriche particolarmente in voga in quegli anni, in piena corsa verso la dimensione immateriale del lavoro. Mentre le nostre società entravano nell’era del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.
Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense con prodotti
al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drammaticamente “scoperto” che il capitalismo globale, per essere tale, non può far altro che, in tendenza, creare le condizioni d’esistenza d’una forza – lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante ha trovato la sua migliore esemplificazione, ha finito con il modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori [116] a basso costo posti nella condizione di non nuocere, il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa facile comprendere le attuali trasformazioni della forma stato.
Il problema per l’attuale forma stato non è portare le masse dentro la cornice statuale, semmai buttarle fuori. In questo passaggio è condensata l’intera eclissi del Welfare State. Forma stato e forma guerra continuano a vivere in unità dialettica ma questa dialettica, adesso, sposta il centro del discorso dallo Stato di guerra allo Stato in guerra e questa guerra non ha più confini perché, in prima istanza, è una guerra che deve essere combattuta contro le masse. In questo senso, allora, si può rimettere in gioco il modello della guerra coloniale come contenitore contemporaneo della forma guerra, con una differenza rispetto al passato non secondaria perché, oggi, le “colonie”, sono anche - e la banlieue e le sue vicende ne sono forse tra le sue migliori esemplificazioni - entro i territori metropolitani dei Paesi imperialisti. Il fatto che, oggi, una struttura come quella della NATO dedichi gran parte del suo tempo e delle sue risorse a mettere a punto le strategie più idonee per condurre la “guerra tra la gente” racconta esattamente il tipo di scenario politico – militare con cui ci troviamo ad interagire e quale forma stato è legittimo aspettarsi [117] . Certo, queste modeste note non possono pretendere di aver esaurito il lavoro che la scienza comunista, sulla lettura del presente, è obbligata a compiere ma, del resto, non era il suo compito. Sullo sfondo di questo lavoro vi è la questione del metodo e la sua applicazione. Ciò che si è provato a fare è stato utilizzare il materialismo storico e dialettico per analizzare un aspetto “concreto” della vita politica. Abbiamo provato, attraverso lo strumento della scienza comunista, a leggere il passato e in parte il presente della forma stato al fine di mostrare il senso “pratico” del marxismo, emancipandolo in questo modo da ogni possibile malinteso “scientista” e “intellettuale”. Ci siamo ripromessi un ruolo didattico ma tenendo sempre a mente che doveva trattarsi di didattica di classe. A una nuova generazione di avanguardie uscite dalle lotte spetta il compito di prendere tra le loro mani il metodo e usarlo per affinare le armi della critica.
Didattica di classe
Nei paragrafi precedenti abbiamo provato a mostrare perché e in quale modo il materialismo storico e dialettico non sia una semplice opzione teorica ma il punto di vista della nuova classe storica che, a un dato punto dello sviluppo delle forze produttive, si costituisce in quanto arma critica della nuova classe rivoluzionaria. Per farlo lo abbiamo messo alla prova concretamente mostrando come il suo uso sia strettamente legato e collegato alla prassi. Non un semplice esercizio intellettuale ma arma indispensabile alla conduzione della guerra di classe. In questo modo dovrebbe essere risultato sufficientemente chiaro come questo corpo teorico sia qualcosa di vivo e non un insieme di argomentazioni da utilizzare quando, messo tra parentesi il mondo reale, si può tranquillamente navigare tra il mondo delle idee ma esattamente il contrario. Affrontando la questione della forma stato nel corso del Novecento e tratteggiandone i caratteri attuali pensiamo di aver rimosso ogni dubbio al proposito. L’uso del marxismo trova la sua unica e vera applicazione solo dentro il mondo reale. La relazione forma stato – forma guerra, attraverso la quale abbiamo letto le trasformazioni statuali, dovrebbe essere di per sé sufficiente a mostrare quanto lo scopo del materialismo storico e dialettico sia fornire una guida per l’azione alla linea di condotta della classe e non un balocco teoretico. In quest’ultima parte, pertanto, ci limiteremo a fornire una breve disamina di alcuni testi “classici”, continuamente presenti nei paragrafi precedenti, dei quali, a nostro avviso, ne è consigliabile la lettura. Una sequenza non cronologica ma costruita per “aree tematiche” in grado di fornire strumenti attuali e utili alle giovani avanguardie nate dentro le lotte. In questo modo ci sembra che il senso didattico dell’operazione trovi una sua migliore sistematizzazione.
Ci sono almeno tre modi di rapportarsi ai testi. Il primo è tipico dello studente che, per quanto bravo e diligente sia, proprio in virtù della cornice in cui è imprigionato, li leggerà in maniera scolastica. Dopo averli appresi sarà con ogni probabilità in grado di esporli al meglio considerandoli però come qualcosa che rimane lì sulla carta e che come tale, una volta sparito dalla cattedra del docente può bellamente essere accantonato. Sono serviti per un esame, per un’interrogazione e a quel punto la loro funzione è terminata. Un secondo modo è quello tipico dello “specialista”. Questi userà i testi per studiarli, li farà diventare scienza “in generale” e, non di rado, su di questi scriverà il “suo” punto di vista. Quindi, con ogni probabilità, lo metterà in relazione con gli studi di altri specialisti con i quali avrà un nutrito scambio di idee e opinioni. Un uso dottorale e accademico che vale per il materialismo storico e dialettico non diversamente da un ricettario di nouvelle cousine. In entrambi i casi si tratta certamente di usi legittimi ma distanti dal nostro intento. Infine vi è un terzo approccio quello che possiamo definire politico/militante. In questo caso i testi saranno letti e studiati al fine di impossessarsi di uno strumento d’analisi attraverso il quale raccontare non semplicemente le vicende del passato ma decifrare quelle del presente e anticipare i possibili scenari futuri. Questo non è un punto di vista sul materialismo storico e dialettico. Questo è il materialismo storico e dialettico. Fatta questa doverosa raccomandazione entriamo nel merito delle cose.
Cominciamo con Engels e il suo lavoro giovanile sulla classe operaia inglese. Un testo sorprendentemente attuale che merita di essere ri – letto con particolare attenzione. La concorrenza tra gli operai, l’individuazione del “nemico” nel lavoratore straniero [118] , l’individualismo sfrenato, l’assenza di coesione sociale, il volto alienante della metropoli e l’isolamento sociale che questa comporta sono temi che Engels tratta con non poco acume in questo scritto del 1845. Per certi versi, quindi, nulla di nuovo sotto al sole. In quello scritto, però, mentre fotografa con non poca lucidità ciò che fuoriesce dai mondi sociali, Engels, coglie anche le contraddizioni materiali che tale situazione produce, i conflitti, pur confusi e incoscienti, che si sviluppano e, aspetto decisivo, a partire da quel dato materiale, ipotizza gli strumenti teorici, politici e organizzativi in grado di rovesciare la situazione. Nonostante l’apparente disastro che gli si pone di fronte agli occhi nel suo testo non vi è un grammo di pessimismo e/o rinuncia. Siamo di fronte a un’inguaribile ottimista o a uno dei tanti acchiappa nuvole che, in ogni epoca, hanno calcato la scena storica per poi repentinamente scomparire? Certamente no. Ma che cosa rende Engels così “fiducioso”? Per quale motivo dove in molti colgono solo disperazione, ignoranza, degrado, tanto da considerare l’Esercito della salvezza, l’unica realtà in grado di porre freno a tanto scempio e i più registrano una situazione semplicemente frutto di una condizione oggettiva eterna e immodificabile, Engels, al contrario, senza dipingere la realtà più rosea di quella che sia, individua proprio nelle “masse senza volto” la materia prima e indispensabile di quella classe che sarà in grado di abolire lo stato di cose presenti? Ad animare Engels non sono fantasticherie di un qualche tipo e neppure il facile entusiasmo per le rivolte e le ribellioni spontanee e disorganizzate che, periodicamente, animano queste “masse senza volto”. Anzi, pur non sottovalutando i moti “nichilisti” ai quali non di rado queste masse pervengono [119] , Engels è ben lontano da prenderli ad esempio, piuttosto in questi vede l’oggettività del conflitto e la necessità di dar loro una veste teorica, politica e organizzata; ciò che sostanzia la fiducia e l’ottimismo engelsiano è dato dal metodo attraverso il quale legge la storia del presente e del suo divenire senza però, ed è questo il punto, limitarsi a interpretare, pur in maniera diversa, ciò che gli sta attorno. Anticipando di un qualche decennio Lenin, Engels ha perfettamente chiaro che il materialismo storico e dialettico non è un dogma ma una guida per l’azione. La scienza comunista è in primo luogo praxis. Per questo non si limita a leggere e ad anticipare la realtà, il suo non è il freddo e anodino lavoro dell’analista privo di coinvolgimento nei fatti ma l’agire militante dentro la storia. Ciò che Engels coglie, in quello scenario postmoderno che è la Londra e l’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, è continuamente il lato cattivo della storia ossia le contraddizioni che quel ciclo di accumulazione capitalista non può fare a meno che amplificare ed è esattamente lì che ipotizza concretamente la possibilità di far invertire la rotta degli eventi. Gli operai sono soli, isolati, individualizzati e alle prese con la quotidiana lotta per mettere insieme il pranzo con la cena. Il loro livello culturale e intellettuale è di infimo ordine, gran parte del loro scarno salario finisce nelle bettole. L’esercizio di una sessualità ben poco raffinata sembra essere l’unico orizzonte in grado di scuotere le loro meste esistenze. I reportage che testimoniano il dilagare della prostituzione e dell’alcolismo tra le donne proletarie riempiono intere biblioteche, la gioventù operaia e proletaria cresce senza educazione ed è velocemente posta alla catena del lavoro di fabbrica. Queste masse proletarie sembrano, ogni giorno, non far altro che rendere omaggio a Hobbes, la guerra di tutti contro tutti regna sovrana. Ma cosa definisce questa fotografia se non le masse in quanto capitale variabile? Che cos’è questa condizione se non quella di pura e semplice appendice della macchina? È pensabile, rimanendo imprigionati in tale frame, ipotizzare una condizione diversa? Non è forse questa la condizione a cui le ha prima costrette e poi ridotte il modo di produzione capitalista? [120] Ma, ed è qua che si gioca per intero la forza del metodo, questa condizione ha due volti: da un lato quello della “massa senza volto” abbruttita e priva di legami sociali, semplice appendice del processo di valorizzazione del capitale ma, dall’altra, questa stessa “massa senza volto” è anche classe storica e lo è in virtù di una condizione storicamente determinata [121] . Questa stessa massa, inconsapevolmente, sta già lottando, si tratta di dare a queste lotte una coscienza e una prospettiva, si tratta, in poche parole, di rendere esplicito ciò che, al momento, vive solo in potenza: la dimensione di classe in senso storico – politico che il proletariato racchiude in sé. Per questi motivi, una volta esaminati a fondo tutti i lati della questione, Engels non può che farsi “ottimista”. Se la condizione di capitale variabile non può che portare alle angosce di un individualismo senza speranze, la condizione di classe storica non può che portare verso un futuro collettivo gravido di aspettative. Alla condizione di “massa senza volto” , la cui declinazione empirica si manifesta in un individualismo disperato e disperante, Engels contrappone il lato cattivo delle masse, quello della loro esistenza storica. In tutto ciò si mostra la forza della scienza comunista che consente di porre, dentro la realtà dei rapporti materiali tra le classi, l’idea – forza del comunismo. Non si tratta di un semplice lavoro da propagandista poiché ad Engels è estremamente chiaro quanto, una volta diventata di massa, un’ideologia si faccia forza materiale.
Oggi, nel momento in cui il volto statuale si ripresenta appieno nella veste di comitato d’affari della classe dominante e i mondi sociali sembrano vivere, anche se non pochi indicatori vanno in direzione esattamente opposta, una condizione di sostanziale inerzia, occorre armarsi dello stesso “ottimismo” di Engels: appropriarsi delle armi della critica è il solo passaggio che ne consente l’evoluzione e il rovesciamento.
La situazione della classe operaia in Inghilterra esce a Lipsia nel maggio del 1845. In quella data Engels ha venticinque anni e con Marx ha già iniziato a intessere quella fitta relazione che, sul piano pubblico, li porterà ad essere una medesima persona. Nel testo, a grandi linee, sono già comprese le basi del materialismo storico e dialettico che, di lì a poco, verranno maggiormente sviluppate attraverso la “resa dei conti” finale con la filosofia classica tedesca. Ma i brani engelsiani, sotto molti aspetti, rappresentano un testo a sé poiché possono essere considerati materiali di carattere più sociologico che storico o politico. Ciò che Engels ci consegna, infatti, è un grande affresco di quella vita metropolitana che lo sviluppo del modo di produzione capitalista porrà costantemente all’ordine del giorno. Un insieme di conflitti e contraddizioni che, avendo a mente la realtà che ci circonda, si mostrano quanto mai attuali. La Londra di Engels è quella di un mercato del lavoro completamente privo di regole dove le masse proletarie passano con sostanziale indifferenza da un ambito produttivo all’altro, a dimostrazione di come la flessibilità e la deregulation non siano fenomeni così innovativi ma affondino le loro radici nella necessità del modo di produzione capitalista di esercitare appieno il dominio sul lavoro vivo. Il tutto all’interno di uno scenario permanentemente instabile, poiché a periodi di lavoro e sfruttamento piuttosto intensi si alternano fasi di disoccupazione o di lavoro part time, una condizione palesemente non così distante da quella precarietà alla quale, oggi, sono ascritte corpose quote di forza lavoro e che in molti sembrano scoprire come novità assoluta
Ciò che Engels descrive, in poche battute, è lo stato di eccezione permanente [122] in cui versa l’esistenza del proletariato. A caratterizzare tale condizione è la costante concorrenza tra i lavoratori mentre la cornice individualizzata e individualizzante che fa da sfondo alla vita metropolitana londinese ha, come sua conseguenza non secondaria, la continua ricerca di una soluzione individuale alla propria sopravvivenza. Uno scenario che, una volta depurato dei suoi tratti filosofici e culturali (la lotta incessante per l’affermazione del più adatto e l’imporsi dei sani e dei forti), non si riduce ad altro che a un “volontario” abbassamento del salario e a un altrettanto “volontario” allungamento della giornata lavorativa. In che modo, infatti, la forza – lavoro può rendersi appetibile e competitiva se non riducendo al limite le esigenze per la propria riproduzione e “decidendo” di offrire all’acquirente la maggior quantità possibile del proprio tempo a un prezzo estremamente contenuto? Una storia che sembra avere ben poco di Ottocentesco ma fotografa appieno la condizione di quote non indifferenti di proletariato contemporaneo. Non diversamente da oggi, alla concorrenza tra i singoli individui operai, si aggiunge la concorrenza tra operai di “razza” diversa. Nella Londra di Engels sono gli operai irlandesi, gli stomaci [123] dei quali sembrano avere caratteristiche diverse da quelli degli operai inglesi, a costituire un ulteriore fronte concorrenziale. Sul mercato del lavoro questi si “offrono” a prezzi particolarmente vantaggiosi per gli imprenditori poiché la miseria dalla quale sono attanagliati, figlia diretta del colonialismo britannico, ha ridotto quasi al nulla le loro esigenze. La loro comparsa sul mercato inglese abbassa ulteriormente le condizioni di vita medie della classe operaia indigena la cui prima reazione è di tipo dichiaratamente xenofobo. Per l’operaio inglese il nemico diventa l’operaio irlandese. Forse, alla luce di tale scenario, la post modernità ha origini ben più arcaiche di quanto possa sembrare ai suoi odierni teorici. Di tutto ciò il testo di Engels ne offre una disamina quanto mai efficace ed efficiente e per questo a diventare non poco interessante è il suo confronto con gran parte della letteratura critica contemporanea. Poniamo, l’uno di fronte all’altro, Engels e Bauman il quale tra le schiere degli “intellettuali critici”contemporanei è sicuramente tra i più onesti e intelligenti. Senza alcun dubbio i testi di Bauman [124] sono in grado di fornire una fotografia quanto mai esaustiva delle società contemporanee poiché, come ben argomenta nell’insieme della sua saggistica l’autore, i nostri mondi sono segnati da un profondo individualismo, dall’assenza di solidarietà, l’appartenenza di classe è andata bellamente in frantumi mentre l’odio e la repulsione verso chiunque stia un gradino più in basso di noi, e quindi verso gli immigrati che per condizioni oggettive stanno sul fondo della scala sociale ed economica, è qualcosa di talmente ovvio ed evidente che non ha neppure bisogno di essere argomentato. Allo stesso tempo l’alienazione attraverso la ricerca e la rincorsa a un consumismo dai tratti compulsivi [125] è una realtà che può essere colta da chiunque. Difficile mettere in discussione ciò che, più che una fine analisi, si mostra come l’esatta fotografia del mondo contemporaneo ma, tutto ciò, ha anche un limite poiché ogni fotografia, anche la meglio riuscita, non è in grado di cogliere almeno due fattori: primo, di cosa è frutto ciò che viene immortalato dallo scatto; secondo, la fotografia, per sua natura, non può vedere il movimento e la contraddizione che oggettivamente il modo di produzione capitalista inevitabilmente si porta appresso. In altre parole, lo scatto, fissa un’immagine che rende eterna e priva di dinamiche una situazione che, al contrario, è storicamente determinata e proprio in virtù di ciò continuamente attraversata da conflitti e contraddizioni le cui origini sono riconducibili, sempre, ai rapporti tra le classi e alla lotta inevitabile in cui la loro relazione è obiettivamente ascritta. Ciò che “sfugge” a Bauman, al pari di tutti i teorici della borghesia, è la dialettica che segna il divenire della storia. Cosa ci raccontano, andando al sodo, gli scatti analitici di Bauman se non che il mondo attuale, oltre a essere eterno, è cattivo, che uomini di poco cuore lo governano e che tutto ciò provoca sofferenze indicibili? Ma, soprattutto, quale soluzione offre Bauman se non quella di consegnare il governo della società a intellettuali illuminati e pieni di buoni sentimenti come se, questi, non fossero a loro volta frutto ed espressione delle condizioni e dei rapporti di forza tra le classe storicamente determinati ma, reiterando il vecchio assioma della cesura tra sapere e potere, una sorta di elite esterna ed estranea alle dinamiche, alle necessità e alle esigenze del potere e, anzi, perennemente in conflitto con queste? Che cosa racconta questa ipotesi se non il vecchio desiderio dei philosophes di farsi ceto di governo [126] ? Arrivando al dunque la montagna ha partorito il più classico dei topolini. Che cosa, al contrario, vede e mette in moto Engels partendo da una fotografia per lunghi tratti simile? È qua che si mostra per intero la differenza tra la sociologia borghese e la teoria marxista ed è una partita, questo è il passaggio centrale, che non si gioca sul piano delle idee bensì della materialità storica. La differenza tra Engels e Bauman non sta tra due sistemi di pensiero diversi ma nella differente postazione di classe che questi rivestono. A parlare, in Engels, è il movimento storico della classe in ascesa mentre, le parole di Bauman sono pur sempre enunciati, per quanto critici, della classe dominante la quale, anche se in offensiva tattica nel presente, sul piano storico si trova pur sempre in difensiva strategica. In Bauman, al contrario che in Engels, non albeggia mai la possibilità di una rottura storica per mano di una nuova classe ma la partita, nel bene e nel male, può essere giocata solo dentro alla borghesia. Bauman non coglie, perché li ritiene inessenziali, i movimenti interni alle masse e, al contempo, sembra del tutto disinteressato a prendere in considerazione le contraddizioni e i conflitti presenti tra i blocchi imperialisti poiché, dalla sua postazione di classe, considera il modo di produzione capitalista forse modificabile ma non superabile. Ad animare Engels è esattamente l’opposto. Sono le masse, in virtù della postazione che oggettivamente occupano dentro il modo di produzione capitalista, a essere le vere protagoniste della scena storica. Sono i “tre operai” [127] che cessano di ubriacarsi e si pongono sul terreno dell’organizzazione e della politica a rappresentare la classe. È l’aspetto cosciente, quindi qualitativo, a diventare non solo essenziale ma determinante. Nella società capitalista sarà sempre per lo più maggiore il numero di operai che, in quanto singoli, continueranno a percepirsi come capitale variabile piuttosto che classe in senso storico – politico come, del resto, era accaduto alla stessa borghesia ma in virtù dell’oggettività del moto storico è la parte cosciente della classe ad essere storicamente protagonista. In qualche modo, e ciò non vale solo per il proletariato ma anche per le classi che lo hanno preceduto in quanto attori attivi del moto storico, è sempre una minoranza di massa a manifestarsi in quanto coscienza dell’epoca mentre, per lo più, il resto della popolazione segue, con modi e tempi diversi, l’affermarsi e il dipanarsi della nuova era. Nella storia a essere sempre determinante è una maggioranza politica e non il banale dato quantitativo [128] . Anzi, il più delle volte, le ere passate, in virtù della “forza dell’abitudine”, sono in grado di gettare la loro ombra, e quindi condizionare le rappresentazioni ideologiche degli uomini, ancora per lunghi anni dentro un mondo la cui base strutturale si è già bellamente modificata [129] . Per altro verso, i conflitti interni al campo borghese, mostrano come ben difficilmente la realtà sia riconducibile a un insieme di fotogrammi fissi. È dentro a questo movimento permanente, il cui moto continua a prodursi anche quando sembra che tutto sia immobile, che l’idea – forza del comunismo impara a muoversi ed è in grado di farlo perché, dalla sua, ha l’arma del materialismo storico e dialettico. Su questa scia Engels si muove. Di qua l’importanza, avendo a mente gli attuali scenari metropolitani, di una sua nuova lettura.
In seconda battuta ci pare opportuno suggerire le seguenti letture: K. Marx – F. Engels , da L’ideologia tedesca [130] la sezione dedicata a Feuerbach; K., Marx, Introduzione del '57 [131] ; F. Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; F. Engels, Prefazione del 1892 [132]
Con queste entriamo propriamente nel cuore del metodo. Come testo iniziale proponiamo la corposa sezione dedicata a Feuerbach con la quale si apre L’ideologia tedesca scritta tra il maggio e l’autunno del 1846 e che, in vita gli autori, non venne mai pubblicata. La sua prima edizione integrale, infatti, risale solo al 1932 all’interno della Marx – Engels – Gesamtausgabe curata da V. Adoratskij. È in questo testo che Engels e Marx chiudono i conti con l’intero movimento filosofico contemporaneo dal quale, proprio nelle pagine di questo lavoro, prendono definitivamente congedo. L’alba del 1848 [133] e di tutto ciò che questa si porterà appresso è storicamente ancora distante e le battaglie che di lì a poco si concretizzeranno nelle insurrezioni di gran parte delle capitali europee sembrano consumarsi solo nei ristretti cenacoli intellettuali. Sotto tale profilo la Germania, attraverso Kant, Fichte, Shelling, Hegel e infine Feuerbach, può considerarsi il Paese dove le dispute teoriche e filosofiche hanno raggiunto il punto d’approdo più alto e sistematico del pensiero borghese. Se l’Inghilterra è stata la culla della rivoluzione economica e la Francia di quella politica della borghesia, la Germania, che l’arretratezza delle forme economiche e sociali esistenti consegnava a una sorta di immobilismo storico, è il Paese all’interno del quale la gestazione della nuova era borghese è stata pensata con maggiore intensità e lucidità. L’idealismo di Hegel e la critica materialista, ancorché limitata nell’orizzonte della critica alla religione , ne rappresentano i punti di sviluppo maggiormente elevati. A questa scuola Engels e Marx si sono abbeverati attingendone quanto di positivo e soprattutto di storicamente progressivo in questi sistemi di pensiero era presente [134] . Tutto ciò, e in particolare per quanto concerne Marx, risulta evidente nella sua produzione giovanile dalla quale, proprio nello scritto qua proposto, si emanciperà definitivamente [135] . Di ciò se ne ha una buona esemplificazione osservando soprattutto il passaggio politico di Marx. Fino a quando l’ombra di Hegel continua a sovrastare la sua “visione del mondo” il suo punto di vista politico rimane, per quanto radicale, tutto interno al movimento della democrazia borghese e il suo orizzonte non oltrepassa l’umanesimo del socialismo prescientifico. Solo nel momento in cui il materialismo storico e dialettico inizia a prendere forma i limiti del radicalismo borghese, che nell’umanesimo avevano trovato la loro forma compiuta, potranno lasciare definitivamente alla teoria comunista propria della classe storica in ascesa [136] . L’ideologia tedesca e in particolare la sezione dedicata a Feurbach segnano esattamente questo passaggio. A diventare centrale è il mondo materiale e il suo divenire. Mentre, sino a ieri, il proscenio storico era occupato dalle idee e dagli individui adesso, attraverso quell’autentica rivoluzione copernicana operata dal materialismo storico e dialettico, il centro della scena è occupato dalla produzione materiale dell’esistenza che informa l’intera formazione economica e sociale e dalle classi che, all’interno di una formazione economica e sociale storicamente determinata, si combattono. Le battaglie delle idee, che sino ad allora sembravano essere il volano del mutamento storico e con queste gli individui che le proclamavano, si mostrano in realtà lotte le cui ragioni affondano nelle contraddizioni oggettive che un determinato sviluppo delle forze produttive ha sedimentato.
L’applicazione del metodo lo troviamo nella nota Introduzione del ’57. Scritta da Marx tra l’agosto e il settembre 1857, inizialmente doveva servire da introduzione all’opera Per la critica dell’economia politica ma, in seguito, Marx rinunciò a pubblicarla perché riteneva che anticipasse dei risultati ancora da dimostrare. Lo scritto venne poi ritrovato tra le carte di Marx nel 1902 e pubblicato, ma con numerose varianti rispetto all’originale, nel 1903 in Die Neue Zeit. Solo nel 1939, ad opera dell’Istituto Marx – Engels – Lenin di Mosca, venne ripubblicato nella sua versione integrale e originale. Si tratta di un testo “didattico” all’interno del quale Marx mostra, in maniera assolutamente chiara e precisa, sia le procedure attraverso le quali operare per osservare scientificamente il mondo reale sia gli errori, frutto del limite storico a cui la loro postazione di classe li obbligava, degli economisti e dei filosofi borghesi. Proprio queste pagine, all’apparenza così teoretiche e astratte, mostrano come per Marx non vi sia nulla di più distante e insensato dalle generalizzazioni all’interno delle quali, come nella notte, tutti i gatti finiscono con l’essere bigi. Un insegnamento quanto mai prezioso in un’epoca, come l’attuale, dove assai diffusa è la propensione alle facili generalizzazioni che si traducono, il più delle volte, in un insieme di parole in libertà è quanto mai reiterata [137] . Il cuore del testo è rappresentato dal concetto di storicità continuamente giocato in contrapposizione all’imperante tendenza dell’epoca a considerare eterni e immutabili gli elementi che fanno da sfondo alla produzione. In seconda battuta particolare oggetto della critica marxiana diventano le cornici culturali, tutte incentrate sull’individualità e l’individualismo, proprie del mondo borghese. Vi è uno stretto legame tra queste, a ulteriore dimostrazione di come il mondo delle idee sia l’esatto contenitore non di idee eterne ma di idee particolari proprie delle classi dominanti, e il modo di produzione che si è fatto egemone. Per l’economia borghese è l’individuo, solo e isolato, a essere il centro del mondo e proprio a partir da ciò essa considera la produzione come qualcosa di sostanzialmente asociale. Andando al sodo, per l’economia politica borghese, la società in fondo non esiste ma, ciò che comunemente si chiama società non è altro che la sommatoria di tanti Robinson che, non diversamente da questi, vivono in perfetto isolamento e solitudine. Ciò che il pensiero economico borghese non riesce a cogliere è il carattere immediatamente sociale della produzione e il processo di cooperazione di cui è frutto. Se ciò è vero, evidentemente l’intero castello ideologico della borghesia crolla poiché, la produzione, è qualcosa che poggia su uno sfondo storico determinato all’interno del quale, le azioni individuali, non possono che essere il risultato di queste medesime condizioni. Non l’eterna lotta tra individui e il primeggiare dei migliori, come le ideologie borghesi sostengono, determina il ruolo dei singoli dentro la produzione bensì la postazione che i singoli, in quanto prodotti storici delle classi sedimentate dallo sviluppo delle forze produttive, possono vantare. In altre parole Marx mostra come ciò che per la borghesia è eterno, in realtà, non è altro che il frutto di una situazione storica determinata. Paradigmatici, in particolare, sono le questioni relative al denaro e al lavoro. In qualche modo denaro (tralasciamo al proposito l’era del comunismo primitivo) e lavoro sono sempre esistiti ma, ed è questo il punto, solo in determinate condizioni storiche particolari il denaro diventa capitale così come, solo in un particolare contesto il lavoro si trasforma in lavoro salariato. Ma questo cosa significa se non che anche quella particolare forma di lavoro, frutto di un rapporto di forza tra classi dominanti e classi dominate, è storicamente determinato e pertanto storicamente superabile? Veniamo così al nucleo radicale della teoria di Marx quella in cui a essere preso di mira è la forma salario. La critica rivolta ai riformatori e riformisti dell’epoca non lascia spazio ad ambiguità. Per questi il problema non era la produzione bensì la distribuzione. La contraddizione non risiedeva nel modo in cui si produce ma nell’accesso al consumo. Una sorta di “politica dei redditi” ante litteram. Marx mostra esattamente la relazione dialettica tra produzione e consumo e come non sia possibile modificare l’uno senza abolire l’altra. Ma ciò che, con ogni probabilità, dentro la ricchezza di questo testo va colto per intero è l’osservazione del moto storico del proletariato e del suo divenire classe universale in quanto classe che, in sé, racchiude la storia e le esperienze di tutte le ere precedenti e che, liberando se stessa, è in grado di compiere l’ultimo atto di classe della storia. Questo frutto ha avuto una lunga gestazione ed è ora giunto, anche sul piano concettuale, a piena maturazione. Non a caso abbiamo inserito come lettura conclusiva di questa seconda parte L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza e la Prefazione del 1892, dove sono raccolti tre capitoli dello scritto polemico del 1878 scritto da Engels per confutare le teorie, allora particolarmente in auge, di Eugen Dühring ma che, oltre a ciò, possono considerarsi anche come giudizio definitivo del materialismo storico e dialettico sul mondo delle idee che lo ha preceduto. Engels ripercorre per intero, attraverso uno stringente corpo a corpo con il pensiero borghese, le tappe che hanno portato all’elaborazione del materialismo storico e dialettico mostrando come questo sia esattamente il frutto maturo delle forze che la stessa società capitalista ha generato. Con questo testo si chiude il cerchio aperto con l’inedito del 1845. Nel 1859 Marx, nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica nei confronti del suddetto si era espresso nella maniera seguente:
“ Friedrich Engels, col quale, dopo la pubblicazione (nei Deutschfranzӧsische Jahrbücher ) del suo geniale schizzo di critica delle categorie economiche mantenni per iscritto un continuo scambio di idee, era arrivato per altra via (si confronti la sua Situazione della classe operaia in Inghilterra), allo stesso risultato cui ero arrivato io, e quando nella primavera del 1845 si stabilì egli pure a Bruxelles, decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era vedere chiaro in noi stessi”. [138]
Con il testo engelsiano il corpo teorico del materialismo storico e dialettico può dirsi giunto a piena maturazione. Nelle pagine seguenti ne vedremo la sua applicazione ed elaborazione “dentro” alcuni frammenti storici.
In un terzo blocco di letture abbiamo inserito: K., Marx, dal terzo libro de Il Capitale, Cenni storici sul capitale commerciale [139] ; K., Marx , Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850 [140] ; K., Marx , Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte [141] ; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania; F. Engels, da L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato [142] ,IX capitolo, Barbarie e civiltà
In questa parte a primeggiare sono gli scritti propriamente storici. I testi selezionati hanno il compito di mostrare la “scientificità” del marxismo ossia la sua capacità di leggere il moto storico a partire da un “modello concettuale” in grado di spiegare e anticipare le tendenze che nel mondo storico si manifestano. Questa è la base scientifica del metodo. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 raccolgono gli scritti londinesi di Marx redatti tra il gennaio e il marzo 1850 per conto della Neue Rheinisce Zeitung e hanno come oggetto gli avvenimenti rivoluzionari francesi che fecero di questo Paese l’epicentro e il punto più avanzato del conflitto di classe che attraversò, intorno alla metà dell’Ottocento, l’intero Vecchio Continente. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte prende le mosse dal colpo di stato del 2 dicembre 1951 ad opera di Luigi Bonaparte ed è stato scritto da Marx tra il dicembre 1851 e il marzo 1852. Il saggio venne pubblicato per la prima volta nel 1852 sulla rivista tedesca Die Revolution diretta da Joseph Weydemeyer. Rivoluzione e controrivoluzione in Germania raccolgono una serie di articoli scritti a Londra da Engels, tra l’agosto del 1851 e il settembre 1852, per conto della New York Daily Tribune. Le vicende di questi scritti meritano di essere raccontate. Inizialmente gli articoli uscirono firmati da Marx poiché a lui il New York Daily Tribune aveva commissionato il lavoro. Oberato dagli impegni, in questo periodo Marx stava già lavorando assiduamente sui materiali che gli consentiranno di editare Il Capitale, chiese a Engels di sobbarcarsi il lavoro. Solo nel 1913, dal carteggio tra Marx ed Engels, si scoprì che l’autore degli articoli era Engels e non Marx. L’episodio potrebbe apparire come un semplice escamotage messo in atto dai due amici per non perdere una commessa, della quale Marx aveva non poco bisogno, e mantenere così fede agli impegni lavorativi assunti. Se così fosse non vi sarebbe veramente nulla da commentare. In realtà, il piccolo episodio commerciale, racconta assai di più. Non solo il saldo legame tra Engels e Marx e la palese sintonia metodologica tra i due ma, ed è questo l’aspetto che deve essere veramente colto in tutto il suo portato, la “rottura epocale” che il marxismo comporta e di cui il metodo non ne rappresenta solo la migliore esemplificazione ma ne è presupposto fondamentale. Che cosa ci racconta, infatti, il piccolo evento? Principalmente una cosa: il passaggio dall’io al noi. Fin dal suo apparire, e la lettura dei testi raccolti nel secondo blocco dovrebbero averlo chiarito a sufficienza, la teoria del proletariato sposta l’attenzione dal mondo delle idee al mondo materiale e dall’attività dei singoli a quella delle masse. Sono le classi, le loro lotte e i loro movimenti, all’interno di una condizione storicamente determinata, a fare la storia anche se, a raccontarla, sono sempre dei singoli i quali la raccontano assumendo, per lo più, il punto di vista delle classi dominanti. In questo caso il lavoro intellettuale non è mai considerato il frutto oggettivo di un processo di cooperazione ma il risultato dell’intelligenza del singolo come se, l’intellettuale, vivesse solo e isolato dal mondo e non fosse anche lui frutto sia di una postazione sociale storicamente determinata sia l’oggettivo crocevia di processi e dinamiche storiche concrete e materiali. In tale ottica, il lavoro intellettuale, è unicamente un prodotto individuale del quale, il singolo, ne detiene a pieno diritto l’intera proprietà. In realtà, ed è il materialismo storico dialettico a fornirne la dimostrazione, ancor più di qualunque altro prodotto, il lavoro intellettuale non può essere altro che il frutto, più o meno maturo, di un processo di cooperazione e socializzazione la cui attribuzione individuale è del tutto casuale. Non si può scrivere la storia dell’industria aerospaziale nella Londra del 1600 così come non si sarebbe potuta tentare una “sociologia del centro commerciale” nelle campagne germaniche del 1300 o della conflittualità operaia nella Parigi del 1500. In poche parole non si può scrivere e pensare fuori dal contesto dei rapporti sociali di produzione ma questi rapporti non sono, né hanno alcuna possibilità di esserlo, qualcosa di indipendente, autonomo ed estraneo dagli innumerevoli intrecci materiali che compongono la dimensione sociale ed economica dei quali ognuno, intellettuale o no, ne è il prodotto. Tutto ciò sembra essere tanto ovvio da sfiorare la banalità eppure il modo di produzione capitalista astrae la produzione intellettuale dal determinato contesto di interazioni materiali di cui è prodotto. È stato il marxismo a rovesciare completamente tale prospettiva e a considerare il lavoro, e quindi anche il lavoro intellettuale, come frutto della cooperazione sociale. Ma questo cosa comporta? Perché Engels può, indipendentemente dal grado di amicizia che nutre nei confronti di Marx, scrivere al suo posto e farlo senza che nessuno se ne accorga? Perché, questo piccolo espediente dettato da una contingenza, è in grado di raccontarci qualcosa di essenziale del materialismo storico e dialettico? Per due motivi. Primo, il metodo obbliga a interpretare i fatti dentro una cornice che difficilmente si può eludere. Leggere gli eventi storici alla luce del materialismo storico e dialettico non può, pertanto, che portare verso una direzione. Se, come il materialismo storico e dialettico sostiene, non esistono punti di vista individuali ma solo punti di vista di classe allora le opzioni che di fronte al singolo si pongono non sono molte poiché, andando al sodo, queste non saranno altro che la forma più o meno cosciente e più o meno ben elaborata e articolata di una delle classi agenti in una determinata formazione economica e sociale presenti e attive sulla scena storica “concreta”. Come nell’Atene di Pericle non è pensabile un’opzione teorico – politica frutto del punto di vista dell’operaio – massa o nella Roma repubblicana il punto di vista del precario di Torpignattara, allo stesso modo, nella Berlino del 2011, non è pensabile cogliere l’influenza politica e culturale degli Junker prussiani o nella banlieue parigina del 2005 le retoriche culturali che fanno da sfondo all’incoronazione di Carlo Magno. Anche quando, in determinate circostanze, gli eventi del presente si rivestono degli allori del passato, come nel caso della Rivoluzione francese che inizialmente prese a prestito le retoriche della Roma Repubblicana, ben presto tali nostalgie sono obbligate a lasciare il passo non solo agli eroi, grandi e piccoli che siano, del presente ma devono modellare i propri costumi alle esigenze e necessità che un determinato grado di sviluppo delle forze produttive richiede. La Francia rivoluzionaria è un Paese prevalentemente di piccoli e medi contadini e non può riprodurre in vitro l’economia della Roma repubblicana insieme a tutti i suoi attori sociali in carne ed ossa. E non può neppure, se non per un breve tratto del suo percorso, reintrodurre per legge i costumi e la morale dell’epoca alla quale si è inspirata. Ben presto, e indipendentemente dai buoni propositi degli uomini politici migliori che cavalcano la scena pubblica, i “costumi” propri delle forze produttive, liberate dagli impedimenti di una formula politica caduta in disarmo, reclamano i loro “diritti”. Il Termidoro non Robespierre portano a termine il primo tratto della rivoluzione borghese in Francia [143] .
Ma proseguiamo nelle nostre considerazioni intorno al metodo. Di fronte al medesimo fatto è impensabile che esistano punti di vista uguali e omogenei. Ben difficilmente, ad esempio, un’associazione padronale considererà una riduzione della giornata lavorativa insieme al contemporaneo aumento del salario alla stregua delle associazioni operaie così come, un popolo colonizzato, difficilmente avrà verso il colonialismo il medesimo approccio dei coloni. Allo stesso modo è difficile immaginare che di fronte a una tassazione progressiva del reddito i liberi professionisti, i capitalisti finanziari, gli impiegati pubblici e i salariati abbiano punti di vista identici così come a fronte di una condizione lavorativa priva di diritti e garanzie il venditore della forza – lavoro e l’acquirente possano mostrare il medesimo entusiasmo. Ma tutto ciò cosa significa se non che, una volta depurate dei loro fronzoli, le idee e quindi gli intellettuali che sono a tutti gli effetti gli ingegneri delle coscienze di classe presenti dentro una società storicamente determinata non possono essere altro che espressione di una materialità economica e sociale politicamente organizzata? Pertanto, ciò che il mondo della borghesia ama definire come scambio di opinioni individuali, del quale il parlamentarismo ne sarebbe la migliore esemplificazione, in realtà non è altro che il campo di battaglia di postazioni segnate dall’inimicizia. Se ciò è vero, ed è obiettivamente difficile non riconoscerlo, non è difficile capire come Engels si sia potuto tranquillamente “sostituire” a Marx. Negli scritti sul ’48 tedesco ciò che è in ballo non sono né Marx, né Engels ma il punto di vista del proletariato dentro la rivoluzione. Questo è quanto ci consegnano gli “scritti storici” di Engels e Marx. L’applicazione del metodo a un insieme di “frammenti” di eventi storici concreti. Proprio in tale frangente, e di qua l’importanza che tali scritti rivestono al di là della contingenza per i quali hanno visto la luce, a essere messo concretamente alla prova è il metodo come strumento pratico di analisi. Non astrazione teoretica ma praxis finalizzata alle battaglie della classe. Sotto tale aspetto, allora, questi scritti rappresentano per intero una cesura storica poiché, per la prima volta, di fronte a eventi concreti non compare un punto di vista critico che rimanda al mondo dell’utopia, al mondo di come dovrebbero andare le cose, non siamo di fronte all’elaborazione di qualche sognatore particolarmente propenso ad acchiappare le nuvole ma a un metodo che trae la sua forza e legittimità da un moto storico dove, per la prima volta, una classe si mostra in tutta la sua autonomia politica e teorica. Una rottura a trecentosessanta gradi che segna un intero passaggio storico. A emergere è esattamente lo scarto tra la funzione dell’intellettuale come singolo e lo “intellettuale collettivo” della classe rivoluzionaria. In tale ottica, quindi, l’importanza del conducente diventa in fondo di secondaria importanza. Proprio dentro questo “effimero” episodio a diventare centrale è l’idea del lavoro intellettuale, inteso come “lavoro di partito”, frutto non di singoli ma di quello “intellettuale collettivo” che il partito politico del proletariato a tutti gli effetti è [144] . Un passaggio non secondario poiché proprio da qui è possibile cogliere la piena rottura che lo stile di lavoro del partito del proletariato inaugura nei confronti del mondo che lo circonda. Frutto di un processo storico il materialismo storico e dialettico è la scienza che sovverte alle radici anche le rappresentazioni culturali della borghesia. All’intellettuale individuale della borghesia contrappone l’intellettuale collettivo del proletariato. Frutto storico della classe il materialismo storico e dialettico non può che vivere come forma di pensiero collettivo della classe. Non si tratta solo e semplicemente di negare la proprietà privata intellettuale perché, posta in questi termini, la cosa potrebbe apparire un semplice atto “volontaristico”o persino un vezzo naif ma di assumere uno stile di lavoro e una linea di condotta che metta al centro ciò che, in realtà, sta già dentro la materialità delle cose che lo stesso capitalismo ha sviluppato: la cooperazione sociale.
Detto ciò torniamo ai testi. I tre manoscritti propriamente storici devono essere introdotti dal capitolo venti tratto dal Terzo libro de Il Capitale, Cenni storici sul capitale commerciale la cui edizione avvenne, a cura di Engels, nel 1894. Suggerire la lettura di questo testo come una sorta di introduzione ci è parso utile avendo a mente il contesto storico in cui si situano gli eventi trattati. Nel 1848, dentro il modo di produzione capitalista, sono presenti diverse ere storiche del capitale le quali organizzano, sulla scena politica, frazioni diverse della borghesia alle quali corrispondono interessi materiali diversi. Se, sullo sfondo, il conflitto tra proletariato e borghesia, in quanto conflitto storicamente principale si è già ampiamente delineato, all’interno della stessa borghesia i giochi sono del tutto aperti. Con puntigliosità Marx descrive le contraddizioni tra borghesia industriale e borghesia finanziaria, tra la borghesia commerciale e i contadini mostrando come, dentro ogni era capitalista, non pochi retaggi delle ere precedenti continuino a vivere e a occupare spazi economici e sociali di una qualche notevole consistenza. Nelle poche pagine del capitolo Marx, esaminando la formazione, lo sviluppo e le modifiche a cui è pervenuto il capitale commerciale, ci offre un piccolo e insuperato saggio di come il materialismo storico e dialettico affronta il mutuare della formazione economica e sociale. Ma tutto ciò ha, per il proletariato, delle ricadute politiche e pratiche non indifferenti. Perché? Che cosa significa per il proletariato avere lucidamente a mente il tipo di formazione economica e sociale in cui si trova ad agire? Qual è la lezione che occorre trarre? Una innanzi tutto: nell’esaminare le situazioni “concrete” non bisogna mai farsi prendere la mano dalle facili generalizzazioni. Questo, per il proletariato, è un errore fatale poiché significa considerare le classi sociali come pura astrazione e non coglierle nella loro concreta materialità. Ma compiere un simile errore non è solo indice di superficialità perché significa non essere in grado di cogliere la complessità che ogni formazione economica e sociale si porta appresso, non vedere gli elementi di contraddizione in grado di disunire il fronte avversario, non essere in grado di svolgere il ruolo di forza egemone delle masse le quali non possono essere semplicemente racchiuse dentro la conflittualità padrone – operaio. Nel descrivere il ruolo storico del capitale commerciale e delle sue trasformazioni Marx mette esattamente a fuoco le sfaccettature che caratterizzano il modo di produzione capitalista e la molteplicità di attori che recitano sul suo palcoscenico. Ciò a cui Marx e quindi il materialismo storico e dialettico invitano è esattamente a quella necessaria complessità, che starà al centro dell’elaborazione leniniana [145] , della quale il proletariato è obbligato a farsi carico. Sia Marx che Engels, negli scritti sulle rivoluzioni francesi e tedesche, prendono continuamente in esame tutte le classi sociali e i rapporti che queste mantengono con il proletariato così come, dentro al proletariato, individuano con precisione i diversi suoi segmenti e, a partire da ciò, le diverse funzioni che sono a richiamati a ricoprire. Ogni volta e in ogni passaggio, per Marx ed Engels, le classi sociali sono tutto tranne che vuote astrazioni ma, a primeggiare, è sempre la loro carne e il loro sangue. Ciò che vale per gli attori civili vale, non da meno, per gli attori militari. In ogni contesto, Engels e Marx, si preoccupano di analizzare a fondo i vari tipi di forze armate la loro composizione sociale, le retoriche “culturali” che fanno da sfondo ai diversi tipi di raggruppamenti, i loro retaggi e bagagli storici così come una particolare cura dedicano alle ricadute che, una modifica del loro armamento, comporta. Come per l’operaio, un salto di “composizione organica”, ossia le modifiche che le trasformazioni tecniche sono in grado di apportare nella produzione, modifica la sua relazione con la fabbrica allo stesso modo, la tecnicizzazione di un ramo dell’esercito, può trasformare un corpo da baluardo delle reazione a possibile alleato della rivoluzione o viceversa. Tale attenzione alle “questioni militari” mostra quanto distanti i due fossero dalla dimensione propria dell’intellettuale borghese. Proprio l’esercito e le forze di polizia, nei momenti di maggiore conflittualità politica e sociale, sono chiamati a rivestire un ruolo essenziale nelle vicende storiche. Coloro che, a ragione, possono essere considerati il punto più alto della coscienza di classe, con tutti gli oneri e i pochi onori che ciò comporta, non possono ignorare gli eserciti. Con o contro questi la classe operaia dovrà fare i conti. Del resto, come il lettore potrà facilmente constatare attraverso la lettura dei testi ricordati, i comportamenti delle varie forze armate giocarono un ruolo preponderante nelle vicende quarantottesche. Per questi motivi gli aspetti militari sono osservati in maniera quasi maniacale. Un esercito o un corpo militare formato da operai di città non può essere la stessa cosa di un esercito di contadini così come un corpo di polizia arruolato tra gli strati in putrefazione della società non è uguale a una “Guardia nazionale” figlia di un moto rivoluzionario. Tutto questo da Marx ed Engels non è assunto come pura cronaca, come semplice descrizione di una “dato di fatto” ma, ed è qui che si mostra appieno la funzione rivoluzionaria che il metodo rappresenta, essi osservano le contraddizioni proprie di ogni situazione “concreta”, il divenire di queste e le possibilità che, a partire da ciò, si possono delineare e creare. Il tutto, e se pensiamo che si tratta di scritti di metà Ottocento non è certo cosa da poco, tenendo continuamente a mente gli scenari locali insieme a quelli internazionali. Nonostante fossimo ancora lontani dall’epoca in cui a farsi egemone è la scena internazionale [146] , Marx ed Engels hanno perfettamente a mente l’intreccio ormai saldo tra politica nazionale e politica internazionale e ciò, negli scritti ricordati, è continuamente posto in evidenza.
Infine vale la pena di spendere alcune parole in merito a Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Mentre tutti gli attori sociali e politici dell’epoca focalizzano lo sguardo su Bonaparte, finendo così per vedere l’albero e non cogliere la foresta, Marx rovescia completamente la prospettiva. Ciò che lo interessa non sono le furberie di Bonaparte ma le condizioni obiettive e materiali che hanno consentito a un uomo di modesta levatura quale era Luigi Bonaparte di assurgere a tale ruolo storico. A essere stupefacente non è tanto il colpo di stato che ha posto fine, insieme alla rivoluzione, anche alla Repubblica ma che a compierlo sia stato una nullità storica quale Luigi. Ma Bonaparte è il frutto di un intero ciclo controrivoluzionario ed è a partire dal senso di questa controrivoluzione che Marx “spiega” Bonaparte e non viceversa. Una metodologia di analisi storica e politica della quale, oggi, ben pochi sembrano in grado di tenere conto. Basti pensare alle vicende italiane e alla “questione Berlusconi” o alle vicende internazionali e alla “questione Bush”. Entrambi, e proprio dai loro nemici, sono stati, immortalità a parte, innalzati alla stregua di dei malvagi in grado di sovvertire, in quanto caimani, il “naturale ordine delle cose”. Invece di vedere, rimanendo alle “questioni italiane”, in Berlusconi colui che riforma lo stato in funzione delle esigenze dell’attuale fase imperialista e modifica, esattamente come la fase richiede, la politica al modello – azienda, ne evidenziano continuamente gli aspetti “immorali” e “plebei”. Al proposito, una lettura neppure troppo attenta del testo marxiano relativo a Luigi Bonaparte, appare più attuale della serie infinta di scoop giornalistici i quali, in fondo, non riescono a dirci altro che i gusti e gli stili di vita della grande borghesia sono del tutto identici a quelli del sottoproletariato. Ciò, proprio in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, prendendo ad esempio la “Brigata dei Macellai” lo aveva tra le righe sottolineato Marx, con la sola e non piccola differenza che, per Marx, queste osservazioni di costume non erano altro che una nota di colore e il cuore della questione era il dispiegarsi della controrivoluzione e le conseguenze che questa comportava per il movimento operaio e le nazionalità oppresse, mentre, oggi, l’unico problema vero sembrano essere le reiterate frequentazioni di escort del premier e l’eccessiva visibilità pubblica di alcune cortigiane come se, tutto ciò, non facesse propriamente parte del bagaglio culturale storico della borghesia al pari della sua reiterata abitudine a vivere di “atti disonesti”. Ma, se passiamo dalle vicende italiane a quelle internazionali, lo scenario si fa se possibile ancora più grottesco. Invece di cogliere nella tendenza alla guerra, nella forma che abbiamo provato a definire nel paragrafo precedente, la tendenza oggettiva dell’imperialismo, ci si è accaniti sulla figura di Bush in quanto reazionario dal cranio particolarmente ottuso. Quando, alla Casa Bianca, è entrato l’abbronzato Obama in molti hanno tirato un sospiro di sollievo: con alla guida dell’amministrazione a stelle e strisce un democratico e per di più dalla pelle scura gli Stati Uniti avrebbero sicuramente cambiato rotta. In un certo senso ciò ha corrisposto al vero: l’amministrazione democratica ha intensificato le operazioni contro i governi popolari e democratici del sud America che l’amministrazione repubblicana aveva momentaneamente trascurato. Con Obama gli Stati Uniti sono diventati ancora più aggressivi il che, anche in questo caso, ha ben poco a che vedere con una qualche particolare inclinazione alla pratica del dominio dell’attuale Presidente ma, più realisticamente, è il frutto della disperata battaglia che gli USA stanno conducendo per provare a venire a capo del loro declino. Fatti nuovi, sicuramente distanti dalle vicende presenti nei testi, in confronto ai quali, però, solo attraverso l’applicazione di quel metodo è possibile venirne a capo.
La terza ipotetica sezione di letture si chiude con il capitolo engelsiano sullo stato moderno tratto da L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. Il testo uscì a Zurigo nel 1884 ed ebbe una rapida fortuna. Tra il 1886 e il 1889 due nuove edizioni videro la luce a Stoccarda. Nel 1894 erano diventate sei le edizioni in lingua tedesca mentre il testo conosceva una felice distribuzione anche in numerose altre lingue tra le quali l’italiano, il rumeno e il danese. Il manoscritto, alla cui stesura aveva non poco lavorato anche Marx, prende le mosse dai lavori dell’etnologo americano Lewis Henry Morgan che, applicando un metodo di indagine storica assai affine al materialismo storico e dialettico, aveva studiato a fondo le forme sociali e politiche degli Indiani dell’America del Nord offrendo un’autentica svolta negli studi sull’antica società fondata su unioni gentilizie e il modo attraverso il quale a questo modello societario privo di stato e proprietà è subentrato la famiglia monogamica, la proprietà privata individuale e un’organizzazione armata separata dalla società qual è lo stato. Nel suo scritto, Engels, attraversa le varie fasi dell’organizzazione statuale e delle forme che la proprietà assume, giunge così a prendere in esame lo stato moderno e la sua funzione di apparato di classe finalizzato a perpetuare il dominio della borghesia. Si tratta di un capitolo decisivo nella storia del materialismo storico e dialettico poiché rappresenta il punto di approdo dell’intera elaborazione marxista in quanto l’intreccio continuo e costante tra la formazione economica e sociale e il suo involucro politico è posta nella massima evidenza. Ben lungi dal rappresentare un corpo a sé, distante ed estraneo alla società, lo stato entra continuamente in gioco nel rapporto tra le classi e, in virtù delle forze e delle risorse materiali di cui è in grado di disporre, modella la e le politiche in funzione degli interessi della classe della quale esercita gli interessi. Una storia che ha attraversato per intero tutta la gestazione della formazione economica e sociale del capitalismo e che, nella società moderna, trova la sua piena realizzazione. Di ciò gli scritti propriamente storici sopra ricordati ne offrono un’esauriente esemplificazione. Il testo sullo stato, di questi, ne rappresenta il corollario e la sintesi e inoltre porta con sé altre tre questioni: la violenza, della quale la forma statuale ne rappresenta la migliore esemplificazione; la legittimità e la legittimazione storica dell’esercizio e dell’uso della violenza; la forma politica, in quanto lato negativo della formazione economica e sociale storicamente determinata, in grado di superare e abolire dialetticamente lo stato delle cose presenti. Tre ordini di problemi che i testi suggeriti nella sezione seguente affrontano di petto.
Vediamoli: K. Marx, da Miseria della filosofia [147] , capitolo secondo, La metafisica dell'economia politica; K., Marx, dal primo libro de Il Capitale [148] , La cosiddetta accumulazione originaria
Miseria della filosofia uscì a Parigi nel 1847 vent’anni dopo, nel luglio del 1867, usciva il primo volume dell’opera fondamentale di Marx e con lei il capitolo qua riproposto. A legare i due testi è sostanzialmente la vena polemica contro la visione al contempo idilliaca ed eterna che caratterizza, secondo i più svariati pensatori, il mondo dell’economia politica capitalista. Non per caso abbiamo chiuso la sezione precedente invitando alla lettura del testo di Engels sullo stato moderno. Non l’idillio ma la violenza, che la classe dominante esercita attraverso la macchina statuale della quale ne detiene le leve di comando, regna sovrana nel mondo dell’economia politica. Di ciò il materialismo storico e dialettico ne offre una disamina difficilmente contestabile sulla quale vi è ben poco da aggiungere. L’intero rapporto tra le classi, in virtù della contraddizione oggettiva che fa da sfondo al modo di produzione capitalista, non può che dare vita a una relazione belligerante dentro la quale, le diverse classi sociali, mettono mano agli strumenti che, realisticamente, sono in grado di attivare. Il dibattito sulla violenza, quindi, al pari di quello relativo alla forma guerra non può che essere di costante attualità poiché la violenza attraversa e sedimenta per intero tutta la formazione economica e sociale capitalista. Ma qual è il principale obiettivo della moderna economia politica? Ancor prima che la produzione è la definizione dello scenario oggettivo, le basi materiali, all’interno delle quali un determinato modo di produzione può dispiegarsi al meglio. Ancor prima che produrre occorre quindi che, sul mercato, siano presenti i produttori. L’intero capitolo ventiquattro descrive attraverso quali violenze legittime si sono create le condizioni per far sì che una quota della popolazione non avesse altra soluzione che vendere l’unica ricchezza in suo possesso: la forza – lavoro. In altre parole l’oggetto del capitolo è la formazione della moderna classe operaia e il ruolo che lo stato ha ricoperto per rendere possibile che una parte della popolazione venisse spogliata di tutto e si trovasse obbligata a offrire le sue qualità lavorative a chi, in virtù del capitale a disposizione, fosse in grado di acquistarla. Perché il modo di produzione capitalista si potesse fare egemone, sul mercato, doveva presentarsi qualcuno la cui configurazione socio – economica fosse quella del produttore e ciò è stato possibile solo attraverso una serie di misure costrittive la cui messa in opera è stata per intero a carico dello stato. Si delinea proprio in questo capitolo la stretta relazione tra forma stato e modo di produzione e la funzione statuale in quanto apparato di classe finalizzato a disciplinare, modellare e irreggimentare la forza – lavoro. Nel capitolo ventiquattro non è solo la messa in primo piano della violenza come atto continuamente fondante e costitutivo del modo di produzione capitalista a essere posta in primo piano ma sono le forme e gli strumenti attraverso cui la violenza è costantemente e legittimamente utilizzata e soprattutto organizzata. Sullo sfondo della cosiddetta accumulazione vi è costantemente il divenire dello stato in veste di comitato d’affari delle classi dominanti e le battaglie che al suo interno conducono anche tra loro le classi possidenti, al fine di piegare ai propri interessi le politiche statuali. Da ciò ne deriva l’aspetto materiale che ogni ambito legislativo e costituzionale riveste. Le leggi, gli ordinamenti giuridici e le stesse Costituzioni non sono il frutto anodino, e le vicende che accompagnano la formazione del moderno proletariato delle quali il capitolo ventiquattro ne fornisce anche una cronaca puntuale e precisa ne sono un’esauriente dimostrazione, riversato da filosofi e giuristi dentro la prosaicità del mondo al fine di dargli un ordine razionale e moralmente fondato, bensì il risultato di lotte e battaglie la cui posta in palio è l’assoggettamento dei singoli alle esigenze di un determinato modo di produzione e alle retoriche che lo devono sorreggere. Le leggi che governano una società sorretta dal lavoro degli schiavi non possono essere le stesse che ordinano le metropoli imperialiste del XXI secolo. Allo stesso modo gli ordinamenti giuridici che sostanziano i vincoli feudali non possono essere gli stessi dell’epopea del libero scambio. Il giurista, nel momento in cui si accinge a porre nero su bianco ciò che è legittimo e ciò che è illecito e, attraverso di ciò, a elencare l’insieme dei diritti e doveri che regolano una società, non intinge la penna in un’ipotetica fonte ideale ma si limita a registrare ciò che, in precedenza, il “diritto di spada” ha già determinato [149] . Gli ordinamenti giuridici, pertanto, hanno ben poco di eterno e ancor meno di universale ma sono l’esatta fotografia del rapporto tra le classi all’interno di una situazione storicamente determinata. Ciò è tanto più evidente andando a osservare gli ordinamenti legislativi nei mondi coloniali. Di tutto ciò gli economisti borghesi e piccolo borghesi, come nel caso di Proudhon, non hanno il minimo sentore. Per loro il vero problema non è la forza e la relazione che soggiace ai rapporti economici capitalistici ma la sensatezza o meno che regola tali rapporti. Ciò che costantemente gli sfugge è il rapporto storico che si cela dentro tali rapporti ed è esattamente questo che i testi marxisti invece svelano. C’è infine un aspetto decisivo che lega il testo giovanile a quello della maturità: la predominanza che nella storia riveste il lato cattivo [150] perché è su quello che poggia il suo divenire. Mentre gli economisti considerano il modo di produzione presente solo dal lato positivo, quello delle classi dominanti, e intorno a ciò organizzano il loro discorsi Marx rovescia esattamente la prospettiva, ne guarda il lato cattivo perché è lì che si colloca, al contempo, la negazione del presente e il suo superamento. Il lato cattivo dell’economia politica è il proletariato. Il materialismo storico e dialettico è la sua cattiva filosofia.
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[1] Al proposito si veda, K. Marx, F. Engels Feuerbach, in Id., L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967; K. Marx, Introduzione del ’57, in Id., Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974
[2] L’importanza che la teoria riveste per il marxismo può essere ben compresa attraverso la seguente sintetica citazione : “Evidentemente l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, la forza materiale non può essere abbattuta che dalla forza materiale, ma anche la teoria si trasforma in forza materiale non appena penetra tra le masse” (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, pagg. 64 – 65, in Marx – Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969). Per Marx, quindi, il ruolo della teoria è talmente poco etereo da farsi “forza materiale”. La teoria non si sostituisce alla prassi ma, di fatto, ne diventa elemento costitutivo e costituente. In questo scarno enunciato è racchiuso, si potrebbe dire, l’intero senso del materialismo storico e dialettico.
[3] Con ciò Lenin intende la verità che, in senso storico, appartiene alla classe in ascesa. La stessa cosa, pur se in maniera storicamente limitata, era accaduto con la borghesia durante la sua fase rivoluzionaria. La verità, ossia il punto di vista storico della borghesia, messa a punto dagli autori borghesi nel corso del ‘500, del ‘600 e del ‘700 contro le verità dell’ordine feudale, nel momento in cui giunsero alla resa dei conti con quest’ultimo, si presentarono come conflitto tra la menzogna e l’ignoranza feudale e la verità illuminata e razionale della nuova classe. Cfr. A. Soboul, Storia della Rivoluzione francese. Principi. Idee. Società, Rizzoli, Milano 1997. Ma la verità della borghesia non poteva, qui il salto che sottolinea Lenin tra la verità della borghesia e quella del proletariato, essere una verità universale poiché legata a una classe ancora imbrigliata nel “particolare”. Solo la verità del proletariato, in quanto classe che emancipando se stessa emancipa l’intera umanità, può essere universale. Questo senso, quindi, il senso dell’affermazione leniniana e il legame oggettivo con il metodo attraverso il quale la verità prende forma.
[4] Su questo aspetto si veda soprattutto V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, in Id., Opere, Vol. 14, Editori Riuniti, Roma 1963.
[5] Si veda al proposito K. Marx, La metafisica dell'economia politica, in Id., Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1993.
[6] È Lenin che, con ogni probabilità, ha posto in maniera più nitida la questione della teoria dentro il movimento rivoluzionario. Per una panoramica e una discussione di questi aspetti si può vedere E. Quadrelli, Lenin. Il pensiero strategico, il partito, il combattimento, la rivoluzione, La Casa Usher, Firenze 2011
[7] Il 1989, in seguito alla caduta del “Muro di Berlino”, può essere assunto come lo spartiacque tra due ere o come la data che sancisce la fuoriuscita dal Novecento. Per una buona ricostruzione dell’insieme del Novecento si veda E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914 – 1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995
[8] Per una discussione su questi temi si veda, G. Bausano, Introduzione, in P. Nizan, I cani da guardia, La Casa Usher, Firenze in pubblicazione.
[9] Cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id. Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 1972
[10] Per una discussione su questi aspetti si vedano D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009
[11] Cfr., D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 2008
[12] Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, Derive Approdi, Roma 2005
[13] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1996
[14] Su questo aspetto si veda l’importante saggio di G. Lucács, Il mutamento di funzione del materialismo storico, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.
[15] F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, Editori Riuniti, Roma 1970
[16] Per una ricostruzione di tutti questi passaggi si veda R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Edizioni Oriente, Milano 1970
[17] Si veda come esempio A. Beevor, Berlino 1945. La caduta, Rizzoli, Milano 2002.
[18] Esemplificativo il caso della Francia che ha combattuto sino ai primi anni Sessanta guerre sanguinose per mantenere almeno una parte del suo impero coloniale.
[19] Cfr., B. Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2007.
[20] Cfr., P. Mastrollani, M. Molinari, L’Italia vista dalla Cia. 1948 – 2004, Laterza, Roma – Bari 2005
[21] P. Cooke, Luglio ’60: Tambroni e la repressione fallita, Teti Editore, Milano 2000
[22] Cfr., C. Arcuri, Colpo di stato, Rizzoli, Milano 2005
[23] D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto, Feltrinelli, Milano 1979
[24] Cfr. AA. VV., “Classe Operaia”, Libri Rossi, Milano 1979; AA. VV., “Quaderni rossi”, Edizioni Sapere, Milano – Roma 1970.
[25] Su questo aspetto si veda in particolare, D. Giacchetti, Il giorno più lungo. La rivolta di Corso Traiano, Biblioteca Franco Serrantini, Pisa 1997
[26] Una tendenza a lungo presente dentro il PCI e che proprio in quegli anni, sotto la direzione di Enrico Berlinguer, trovò la sua piena consacrazione. Fu Enrico Berlinguer, infatti, a dichiarare estinta la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e, attraverso l’operazione del cosiddetto Eurocomunismo, ad allinearsi al sistema militare imperialista della NATO.
[27] Per una ricostruzione di questo evento e le sue ricadute a cascata sui rapporti generali tra le classi si veda, G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana, Manifestolibri, Roma 2000.
[28] Quanto una sconfitta militare, pur drammatica, non sia in grado di annichilire la classe se, nel frattempo, il suo nucleo teorico rimane saldamente al suo posto lo possiamo cogliere, proprio dentro una sconfitta di non certo lievi dimensioni quale quella subita dal proletariato tedesco nel corso della insurrezione spartachista del gennaio 1919 attraverso le parole di Rosa Luxemburg: “Come si configura la sconfitta di questa “settimana di Spartaco” alla luce del precedente problema storico? È una sconfitta dell’audacia rivoluzionaria di fronte all’insufficiente maturità della situazione? O non piuttosto una sconfitta per debolezza e indifferenza nell’azione. L’uno e l’altro! Il carattere bifronte di questa crisi, la contraddizione fra l’atteggiamento pieno di forza, decisivo d’attaccare, delle masse berlinesi e l’indecisione, la timidezza, la mancanza di convinzione dei capi berlinesi, è la caratteristica particolare di questo recentissimo episodio. La direzione è venuta meno. Ma la direzione può e deve essere creata dalle masse. Le masse sono il fattore decisivo, sono la roccia, il fondamento sopra il quale sarà edificata la vittoria finale della rivoluzione. Le masse erano all’altezza della situazione, han fatto di questa sconfitta un anello di catena delle disfatte storiche che sono l’orgoglio e la forza del socialismo internazionale. per questa ragione è da questa sconfitta che fiorirà la prossima vittoria. “L’Ordine regna a Berlino!”. Stolti carnefici! Il vostro “ordine” è costruito sulla sabbia. La Rivoluzione si erigerà domani in tutta la sua altezza e al vostro terrore annuncerà col fragore delle sue trombe: ero, sono, sarò!”. Questa lunga citazione tratta dall’ultimo articolo scritto da Rosa Luxemburg prima di cadere sotto i colpi dei killers del socialdemocratico Noske, per l’argomento da noi trattato, è particolarmente significativo poiché mostra come le stesse sconfitte, se analizzate alla luce del materialismo storico e dialettico, diventino un patrimonio della classe tanto da fornire un bagaglio estremamente utile in vista delle battaglie future. Ciò che Luxemburg evidenzia è la capacità, a partire dall’assunzione del punto di vista della scienza comunista, di leggere dentro il contesto del divenire storico anche le sconfitte del presente. Ma ciò le diventa possibile poiché, anche in quel drammatico epilogo, il suo orizzonte non si chiude nella contingenza ma, al contrario, apre sugli scenari futuri della classe.
[29] Esemplificativo al proposito è il percorso teorico e politico del filosofo Massimo Cacciari che è passato dall’ultrasinistrismo degli anni Settanta, epoca in cui la sua produzione teorica si scagliava, da “sinistra” , contro Lenin e l’esperienza bolscevica, alla riscoperta, sempre con toni radicali e non convenzionali, di autori di destra. Una parabola teorica che lo ha portato a giustificare l’intervento in Iraq oltre alle infinite “missioni umanitarie” che le forze imperialiste conducono in giro per il mondo.
[30] La migliore esemplificazione di tale operazione è data, con ogni probabilità, dalla messa a punto, proprio nei primi anni Ottanta del secolo scorso, del “pensiero debole”. Si vedano, ad esempio, AA. VV., Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; A: Dal Lago, P. A. Rovatti, Elogio del pudore. Per un pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1989.
[31] Il riferimento è a quella crisi a tutto tondo che, in Europa, imperversò dentro e dopo la Prima guerra mondiale. La cesura storica che questa comportò mandò per intero in frantumi quella fiducia nel progresso e nella ragione che, nella seconda metà dell’Ottocento, erano diventati le certezze delle classi dominanti e degli intellettuali a queste legati. L’era imperialista, in un attimo, mise tutto ciò sotto sopra mettendo in mora, in primo luogo, ogni concezione fondata sulla ragione e la razionalità. È esattamente in questo contesto che, pur con sfumature diverse, i vari “pensatori della crisi”, si “ribellano” alle società di massa, alla “schiavitù del numero”, all’era della tecnica e iniziano a concettualizzare l’esigenza di un’epoca nuova dove a emergere doveva essere una nuova “elite aristocratica” e dominatrice. Un insieme di retoriche quanto mai appropriate per dar fiato alle mire dell’era imperialista. Ancorché in chiave romanzate a rendere al meglio la crisi che il mondo europeo attraversa sono, J. Roth, La Marcia di Radetzky, Adelphi, Milano1996; S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, Milano 1994.
[32] Su questo passaggio si vedano i testi di F. Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; Prefazione del 1892, Laboratorio Politico, Napoli 1992
[33] Per una completa ed esauriente trattazione di questa fase si veda, G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.
[34] Significativo, al proposito, come proprio in tale frangente prendano forma un insieme di ordini discorsivi tutti incentrati sulla fine della dimensione lavorativa. Tra i molti si può vedere, J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza – lavoro globale e l’avvento dell’era post – mercato, Baldini & Castoldi, Milano 1995. Vale la pena di osservare come, da parte di autori dichiaratamente schierati dalla parte del neoliberismo, le contraddizioni, proprio relative alla “questione forza – lavoro”, siano osservate con maggiore attenzione e preoccupazione si veda ad esempio, E. N. Luttwak, La dittatura del capitalismo. Dove ci porteranno il liberalismo selvaggio e gli eccessi della globalizzazione, Mondadori, Milano 1999.
[35] Al proposito K. Marx, F. Engels, Feuerbach, cit.
[36] Si vedano al proposito, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, in Marx – Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969.
[37] Una fase in cui il pieno dominio del capitale finanziario sembra aver sovvertito alle radici gli equilibri tra capitale industriale e capitale finanziario della fase imperialista precedente. Per una discussione su questi temi, cfr., G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1999. Per una sintetica esposizione delle conseguenze politiche ed economiche a cui l’attuale fase imperialista è pervenuta si veda, AA. VV., Ballando sul Titanic, Quaderni di Contropiano, Roma 2010.
[38] Sulla linea di condotta tenuta, per lo più, dagli intellettuali durante il ripiegamento dei movimenti di classe e la controffensiva delle classi dominanti si vedano soprattutto gli scritti di Lenin relativi al post 1905. In particolare, V. I. Lenin, Alcune caratteristiche dello sfacelo attuale; A proposito dell'articolo “sui problemi più urgenti”; Una caricatura del bolscevismo; Conferenza della redazione allargata del “Proletari”; Liquidazione del liquidatorismo,, in Id. Opere, Vol. 15, Editori Riuniti, Roma 1967; La frazione dei fautori dell'otzovismo e della costruzione di dio; Note di un pubblicista; Il significato storico della lotta all'interno del partito in Russia, in Id, Opere, Vol. 16, Editori Riuniti, Roma 1965
[39] Da un punto di vista del pensiero politico ed economico borghese in merito alla grande crisi rimane fondamentale, J. K. Galbraith, Il grande crollo, Edizioni di Comunità, Milano 1962. Più interessanti, sotto il profilo dell’analisi marxista, sono i testi prodotti in relazione alla crisi dall’Internazionale Comunista. Al proposito si veda A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, pagg. 216 – 284 e 335 – 430, Volume 3, tomo primo, Editori Riuniti, Roma 1979.
[40] Uno scenario che oggi è più che visibile attraverso la “guerra delle monete”.
[41] Per un approfondimento di questi temi rimandiamo al volume E. Quadrelli, Lenin, cit.
[42] Ciò è stato particolarmente vero attraverso l’invenzione del movimento talebano, ad opera degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita o, per altro verso, attraverso la forte sponsorizzazione da parte dell’imperialismo statunitense e israeliano di un movimento quale i Fratelli Mussulmani in Palestina.
[43] L’esatto corollario di tutto ciò sono le retoriche intorno allo “scontro di civiltà” all’interno delle quali l’insieme delle contraddizioni dell’attuale fase imperialista tendono a essere ascritte. Cfr. S. P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000.
[44] Su questo aspetto si veda in particolare E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Roma – Bari 1974 che, a tutti gli effetti, può considerarsi il testo teorico di maggior spessore sia tedesco sia internazionale del riformismo socialdemocratico. Un indirizzo da tempo presente dentro la socialdemocrazia contro il quale sia Marx che Engels avevano a lungo polemizzato. Al proposito si vedano, K. Marx, Critica al programma di Gotha, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.; F. Engels, Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.
[45] Al proposito si vedano, F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, cit; K. Marx, Forme precedenti la produzione capitalistica, in Id. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vo. II, La Nuova Italia, Firenze 1968
[46] Cfr., N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1988.
[47] Per una panoramica nell’insieme completa della storia ma soprattutto del dibattito teorico che ha caratterizzato questa fase del movimento operaio e socialista si veda, AA. VV., Storia del marxismo. Il marxismo della Seconda internazionale, Einaudi, Torino 1979.
[48] Si veda, F. Engels, Barbarie e civiltà, in Id., L’origine della famiglia, cit.
[49] Per una buona ricostruzione del dibattito politico ed economico che fa da sfondo all’attuale ridimensionamento delle funzioni statuali in ambito economico e sociale si veda, M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 – 1979), Feltrinelli, Milano 2005.
[50] Cfr., K. Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epopea, Einaudi, Torino 1974.
[51] Tra le molte ricostruzioni non solo militari si può vedere, M. Gilbert, La grande storia della Prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 1998; sotto il profilo più strettamente militare si possono vedere, B. H. Lddel Hart, La prima guerra mondiale. 1914 – 1918, Rizzoli, Milano 1999 e J. Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico – militare, Carocci, Roma 2004. Per una buona lettura in grado di descrivere in maniera convincente le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che segnarono il passaggio tra l’epopea “pacifica” e liberale di fine Ottocento, primi Novecento e conflitto mondiale si veda, E. V. Tarle, Storia d’Europa 1871 – 1919, Editori Riuniti, Roma 1966.
[52] Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Mondadori, Milano 1971.
[53] Cfr. F. Herre, Napoleone III, Mondadori, Milano 1994; N. Merker, La Germania, Editori Riuniti, Roma 1993.
[54] Su questo aspetto si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009.
[55] Per un buon approfondimento di queste tematiche si veda, G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, 2 Vol., Einaudi, Torino 1971
[56] Cfr. E. Quadrelli, Lenin, cit.
[57] Al proposito si veda in particolare, V. I. Lenin, Il socialismo e la guerra, in Id., Opere, Vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966
[58] Cfr. V. I. Lenin, Che fare?, in Id., Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958
[59] Per una buona ricostruzione storica e politica si veda, V. I. Nevskij, Storia del Partito bolscevico. Dalle origini al 1917, Edizioni Pantarei, Milano 2008.
[60] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857 – 1858, Volume I, pag. 37, cit.
[61] Al proposito, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850, cit.
[62] La prima edizione dei due volumi dei Lineamenti apparve in Russia, a cura dell’Istituto Marx – Engels – Lenin di Mosca, con il titolo “Grundrisse der Kritk der politischen Ȫkonomie”, tra il 1939 e il 1941.
[63] V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, in Id., Opere, Vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966
[64] V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, in Id., Opere, Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967.
[65] Tutti i partiti socialdemocratici, con l’esclusione del piccolo partito serbo, aderenti alla Seconda Internazionale votarono i crediti di guerra richiesti dai rispettivi Governi per sostenere le spese militari. Il 4 agosto 1914 la socialdemocrazia tedesca, il più importante e prestigioso partito dell’Internazionale, votò i crediti richiesti dal Kaiser si allineò al militarismo e all’imperialismo dei circoli borghesi germanici. Quel voto, nei fatti, decretò la fine dell’organizzazione internazionale.
[66] V. I. Lenin, Il fallimento della Seconda internazionale, in Id. Opere, Vol. 21, cit.
[67] Si vedano, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850, Id., Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, cit.
[68] F. Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1972
[69] Si veda al proposito, K. Marx, La cosiddetta accumulazione originaria, in Id., Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1989.
[70] Il “Socialismo della cattedra” è stata una corrente del pensiero economico liberale sviluppatasi in Germania tra il 1870 e il 1890. Questa corrente predicava un riformismo sociale di stampo liberale a partire dal presupposto che lo stato moderno era ormai diventata un’entità autonoma al di sopra delle classi in grado, sotto la regia e l’ispirazione di questo ceto intellettuale particolarmente illuminato, di edificare una società pacificata e priva di conflitti. L’influenza dei “socialisti della cattedra” si fece sentire, e non poco, anche dentro il partito operaio tedesco soprattutto attraverso le argomentazioni del professore Dühring . Contro di questo Engels pubblicò uno dei suoi scritti probabilmente più noti. F. Engels, Antidühring. La scienza sovvertita dal signor Dühring, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2003.
[71] “Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la forza. Così nella storia della produzione capitalista la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa – lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia”., K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.
[72] F. Engels, Note sulla guerra franco – prussiana del 1870/1871, Edizioni Lotta Comunista, Milano 1996
[73] Ciò è particolarmente osservabile attraverso la lettura dei testi editi dai bolscevichi nel periodo tra l’aprile e l’ottobre 1917. Si vedano, in particolare, V. I. Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione; Gli insegnamenti della crisi; Settima conferenza panrussa del Posdr (b); Primo congresso dei deputati contadini di tutta la Russia; in Id. Opere, Vol. 24, Editori Riuniti, Roma 1966; V. I. Lenin, Sulla necessità di fondare un’associazione degli operai agricoli della Russia; Come e perché i contadini sono stati ingannati; La catastrofe imminente e come lottare contro di essa; in Id., Opere, Vol. 25, cit: V. I. Lenin, I compiti della rivoluzione; Per la revisione del programma di partito; I contadini nuovamente ingannati dal Partito dei socialisti – rivoluzionari; II Congresso dei deputati operai e soldati di tutta la Russia, in Id., Opere, Vol. 26, Editori Riuniti, Roma 1966.
[74] Si veda, in particolare, K. Marx, Introduzione del '57, cit.
[75] Cfr. K. Marx, F. Engels, Il manifesto del Partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1990.
[76] L’Internazionale Comunista, alla cui edificazione Lenin aveva lavorato sin dal 1914 quando lo scoppio del Primo conflitto interimparialistico aveva decretato la fine della Seconda Internazionale, venne fondata a Mosca il 4 marzo 1919. Per una sua buona documentazione storica si veda, A: Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, pagg. 5 – 190, Volume I, tomo primo, Editori Riuniti, Roma 1974.
[77] Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005
[78] Per una buona ricostruzione degli scenari venutisi a creare nell’immediato dopo guerra si veda, R. Overy, Crisi fra le due guerre mondiali, Il Mulino, Bologna 2009.
[79] Cfr., S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.
[80] In particolare si veda, P. Togliatti, Corso sugli avversari, in Id. Opere, Vo. III, tomo due, Editori Riuniti, Roma 1973.
[81] Cfr.,R. Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 2009
[82] Cfr., J. Degras, a cura di, Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, tomo secondo 1923/1928, Feltrinelli, Milano 1975
[83] Cfr., E. H. Carr, Il socialismo in un solo paese. La politica estera 1924 – 1926, Einaudi, Torino 1969.
[84] Non solo il comportamento del Psi nel corso del “biennio rosso” ma la linea di condotta della socialdemocrazia tedesca negli eventi a ridosso della Prima guerra mondiale sono lì a dimostrare l’oggettiva convergenza di queste forze di fronte allo spettro comunista.
[85] Si veda ad esempio, S. E. Ambrose, D – Day. Storia dello sbarco in Normandia, Rizzoli, Milano 1998.
[86] P. Carell, Operazione Barbarossa. 21 giugno 1941 – 18 novembre 1942, Rizzoli, Milano 2004; Id., Terra bruciata. 19 novembre 1942 – 14 agosto 1944, Rizzoli, Milano 2004
[87] Cfr., R. O. Boyer, H. M. Morais, Storia del Movimento Operaio negli Stati Uniti, 1861 – 1955, De Donato, Bari 1974.
[88] R. Overy, Russia in guerra. 1941 – 1945, Il Saggiatore, Milano 2000.
[89] A. Molinari, C. Paoletti, La battaglia di Kursk, Hobby & Work, Milano 2008.
[90] L. Deighton, La battaglia d’Inghilterra, TEA, Milano 2003.
[91] M. Caidin, Operazione Gomorra, Mondadori, Milano 1968.
[92] Soprattutto la V2 può considerarsi l’antesignana degli attuali missili intercontinentali. La Germania, sotto la direzione dello scienziato Von Braun, iniziò a lavorare a questo progetto sin dalle prime battute della guerra. Solo tra il 1944 e il 1945 incominciarono a essere disponibili dei modelli tecnicamente affidabili. Queste, insieme ai caccia a reazione, erano le “armi segrete” attraverso le quali il nazismo sperava di poter ancora ribaltare le sorti della guerra. Alla costruzione dei missili venne data una non secondaria importanza e furono messi in produzione a pieno ritmo. Gran parte di questo lavoro dipendeva dai lavoratori stranieri internati nei campi di concentramento. I ritmi di produzione richiesti comportarono la morte di decine di migliaia di operai – schiavi.
[93] Tra le molte ricostruzioni dell’epica battaglia vale sicuramente la pena di ricordarne una scritta da uno dei principali protagonisti, V. Ciujkov, Stalingrado. La battaglia del secolo, Edizioni Progress, Mosca 1983
[94] Cfr., M. Parker, Montecassino. 15 gennaio – 18 maggio 1944. Storia e uomini di una grande battaglia, Il Saggiatore, Milano 2003.
[95] Si veda al proposito, nella presente antologia, K. Marx, Le lotte di classe in Francia; Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit.
[96] Dunkerque segnò la capitolazione della Francia insieme all’inadeguatezza del “pensiero strategico” anglo – francese. Attraverso la tecnica della “guerra lampo”, che consisteva nello sbaragliare le difesa avversarie attraverso la “tattica del cuneo”, grossi concentramenti di carri supportati da bombardieri d’attacco che sfondavano una parte del fronte permettendo in tal modo il successivo accerchiamento delle divisioni intrappolate, i nazisti vennero velocemente a capo di quello che, a torto, era considerato il migliore e più efficace esercito europeo. Le poche truppe britanniche mandate di supporto all’esercito francese, pur battendosi egregiamente ma tutte interne a un “pensiero strategico” ancora in gran parte prigioniero di quanto sperimentato nel corso del Primo conflitto mondiale, non poterono far altro che organizzare una ritirata sostanzialmente ordinata permettendo di mettere in salvo oltre a gran parte di loro stessi una buona fetta di esercito francese. Per una sua ricostruzione si veda, R. Jackson, Dunkerque, Mondadori, Milano 2010
[97] Cfr., W. L. Shirer, La caduta della Francia. Da Sedan all’occupazione nazista, Einaudi, Torino 1971.
[98] Si veda ad esempio le Lettere di Spartaco scritte da Palmiro Togliatti, in Id. Opere, Vol. 4 tomo secondo, Editori Riuniti, Roma 1979.
[99] Si vedano al proposito, oltre che al già citato Imperialismo, gli scritti di Lenin sulla “questione nazionale” e, in particolare, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, in V. I. Lenin, Opere, Vol. 22, cit.
[100] Si veda in particolare, Mao Tse – Dun, La rivoluzione cinese e il Partito comunista cinese; Sulla nuova democrazia, in Id., Scritti scelti, Vol. 3, Edizioni Rinascita, Roma 1955.
[101] In questo Congresso prevalse la tesi del “social fascismo” ossia del ruolo obiettivamente complementare che fascismo e socialdemocrazia svolgevano, in quanto forze borghesi, al fine di perpetuare il dominio del modo di produzione capitalista. In questo senso, tenendo soprattutto a mente la linea di condotta delle socialdemocrazie tedesche e austriache che, di fronte all’insorgenza operaia e proletaria, si erano schierate apertamente con la reazione ma anche del socialismo italiano che aveva prima abbandonato le masse subalterne nel corso del “biennio rosso” e successivamente disarmato la classe di fronte al fascismo, la socialdemocrazia veniva individuata come la forza che, in virtù della presa che era in grado di esercitare su ampi strati di classe operaia e proletariato, diventava il miglior puntello per la reazione capitalista. Si vedano, al proposito, i testi dell’Internazionale Comunista in A. Agosti, La Terza Internazionale.1924 – 1928. Storia documentaria, pagg. 98 – 220, Vol. 2, Tomo primo, Editori Riuniti, Roma 1976
[102] In questo Congresso, per la sua documentazione si veda A. Agosti, La Terza Internazionale. 1928 – 1943. Storia documentaria, pagg. 764 – 810; 871 – 902, Vol. 3, Tomo secondo, si ebbe la “svolta” che portò alla formazione dei “fronti popolari” attraverso un’alleanza non solo con le forze socialdemocratiche ma anche con i partiti borghesi contrari al fascismo. Una “svolta” che, come la documentazione storica fornisce in abbondanza, si vedano ad esempio all’interno del testo sopra citato le pagg. 1107 – 1157, è tutta legata a far fronte a quella tendenza alla guerra il cui scatenamento, adesso, è solo questione di mesi. L’alleanza “politica” con la socialdemocrazia e alcune forze della “democrazia imperialista” non è altro che il preludio della più realistica alleanza militare concretizzatasi nel 1941. Per una buona ricostruzione del clima politico e miliare coevo al VII Congresso si veda, R. Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 2009. Per una realistica e disincantata analisi di questo periodo storico rimane importante il fondamentale lavoro di A. J. P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1961.
[103] A Monaco, tra il 29 e il 30 settembre 1938, si tenne la storica conferenza dove le Cancellerie britanniche, francesi, e italiana lasciarono mano libera a Hitler e al nazismo di annettersi ampie quote del territorio nazionale della Cecoslovacchia. L’offerta sovietica di un patto militare con Francia e Gran Bretagna al fine di garantire, entrando immediatamente in guerra contro la Germania hitleriana, l’integrità territoriale della Cecoslovacchia fu bellamente ignorato dai Governi di Francia e Inghilterra.
[104] V. I. Lenin, Sulla frase rivoluzionaria, in Id., Opere, Vol. 27, Editori Riuniti, Roma 1967
[105] Cfr., T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma – Bari 2002.
[106] L’aver costantemente tenute separate la forma guerra e la forma stato rende impotenti riformisti e opportunisti di varia natura a comprendere il tramondo del Welfare State. Avendolo considerato o come il “naturale” sbocco del presunto processo di civilizzazione o come una conquista delle masse subalterne non ne hanno mai colto il reale obiettivo bellico che ne rappresentava la premessa oggettiva. Un errore che, oggi, continuano a reitrare poiché non colgono assolutamente il nesso tuttora esistente tra la “concreta” forma guerra dell’attuale fase imperialista e la forma stato che a questa deve necessariamente corrispondere. Inoltre, ciò che a queste consorterie sembra di continuo sfuggire, è la mutazione dello spazio geopolitico e geoeconomico internazionale che l’era del capitalismo globale si è immancabilmente portata appresso.
[107] R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, pagg. 263 – 264, Il Mulino, Bologna 2009.
[108] In maniera molto efficace tale scenario è descritto e analizzato da R. Smith, nel capitolo, “Confronto e conflitto: Guerra fredda, Corea, Malesia”, in Id. L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, cit.
[109] Per una discussione su questi temi si può vedere, M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, Il Mulino, Bologna 1993.
[110] Cfr., E. Aga Rossi, Il Piano Marshall e l’Europa, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1983; G. Bianchi, Piano Marshall. Politica atlantica, europeismo, Università Cattolica, Milano 1979.
[111] Si vedano in particolare gli scritti propriamente storici, K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 – 1850; K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte; F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, cit.
[112] Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998.
[113] Con politica della “porta aperta” si intende un’area geopolitica all’interno della quale tutte le potenze imperialiste hanno i medesimi diritti di sviluppare con il paese messo sotto tutela vari progetti e programmi di “cooperazione” economica e militare. Cfr., E. Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, Roma 2005
[114] Cfr., Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001
[115] Su questo aspetto, in particolare, K. Marx, La metafisica dell'economia politica, cit. Per una discussione intorno al lato cattivo della storia si veda, L. Althusser, “Contraddizione e surdeterminazione”, in Id., Per Marx, Mimesis, Milano 2008.
[116] Su questo aspetto si veda soprattutto, K. Marx, La cosiddetta accumulazione originaria, in Id., Il capitale, Libro primo, cit.
[117] Cfr., R. Smith. “Le operazioni contemporanee”; Bosnia: l’uso della forza tra la gente; Che fare?, in Id., L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, cit.
[118] Si veda, F. Engels, “L’immigrazione irlandese”, in Id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma 1992
[119] F. Engels, “Movimenti operai”, in Id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit.
[120] Al propositosi veda, F. Engels, “La concorrenza”, in Id., La situazione della classe operaia in Inghilterra, cit.,
K. Marx, “La cosiddetta accumulazione originaria”, in Id., Il capitale, Libro primo, cit.
[121] Al proposito si vedano, F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza; F. Engels “Prefazione del 1982”, cit.
[122] Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, n. 8, in Id. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962
[126] Cfr., S. Mezzadra, Prologo. Il giovane Max Weber, il diritto di fuga dei migranti tedeschi e gli stomaci polacchi, in Id., Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2001.
[127] Tra la vasta pubblicistica dell’autore ricordiamo, Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987; La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999; La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002; Dentro la globalizzazione, Roma – Bari 1999.
[128] Ancorché in chiave romanzata, per un’efficace descrizione del fenomeno, si veda, J. G. Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, Milano 2006.
[129] In realtà, tutto ciò, cosa significa se non rendere assoluta, ed eterna, la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale? Mentre nel marxismo tale divisione è osservata come il frutto di un processo storico determinato, e la sua ricomposizione come obiettivo necessario della rivoluzione comunista, la sociologia borghese lo considera una sorta di separazione “naturale” dalla quale è impossibile fuoriuscire. In realtà, nel mondo contemporaneo, ciò che gli intellettuali lamentano è la perdita di prestigio e potere a cui, una società sempre più orientata verso la tecnica, li ha confinati.
[127] Ciò che diventa centrale, pertanto, è l’elemento cosciente che, in virtù di ciò, è in grado di porsi come avanguardia dell’intera classe. Cfr. V. I. Lenin, Che fare?, in Id. Opere, Vol. 5, cit.
[128] Cfr. V. I. Lenin, Il significato storico della lotta all’interno del partito in Russia, in Id. Vol. 16, Editori Riuniti, Roma 1965
[129] Cfr. V. I. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, in Id. Opere, Vol. 31, cit.
[130] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit.
[131] K. Marx, “Introduzione del ‘57”, in Id. Per la critica dell’economia politica, cit.
[132] F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza; Prefazione del 1892, cit.
[133] Cfr., E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia. 1848/1875, Editori Laterza, Roma – Bari 1994
[134] Al proposito si veda C. Luporini, Introduzione, K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, cit.
[135] Il riferimento è a K. Marx, Manoscritti economici – filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968
[136] Si vedano al proposito i testi raccolti in K. Marx, Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1975
[137] Con ogni probabilità la migliore esemplificazione di tale tendenza è data dalla produzione di M. Hardt e A. Negri. In particolare si veda Id., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004
[138] K. Marx, Prefazione pag. 6, in Id., Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974.
[139] K. Marx. Il Capitale, Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1994.
[140] K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848 - 1850, in Marx - Engels, Opere scelte, cit.
[141] K. Marx. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.
[142] F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, in Marx – Engels, Opere scelte, cit.
[143] Cfr., G. Lefebvre, La Rivoluzione francese, Einaudi, Torino 1958.
[144] Al proposito si veda in particolare V. I. Lenin, Che fare?, in Id. Opere, Vol. 5, cit.
[145] Cfr. V. I. Lenin, Sugli scioperi, in Id., Opere, Vol. 4, Editori Riuniti, Roma 1957.
[146] Su questo aspetto si veda in particolare V. I. Lenin, I Congresso dell’Internazionale Comunista, in Id., Opere Vol.28, Editori Riuniti, Roma 1967.
[147] K. Marx, Miseria della filosofia, cit.
[148] K. Marx, Il Capitale, Libro primo, cit.
[149] Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit.
[150] Per una discussione su questi temi si veda L. Althusser, Per Marx, cit.
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