Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 21 gennaio 2012

Crisi finanziaria e governo dell'economia

di Alberto Bagnai Fonte: sinistrainrete
«L'obscurité n'est pas un défaut quand on parle à des bons jeunes gens avides de savoir, et surtout de paraître savoir.»
Stendhal, Promenades dans Rome, 17 mars 1828.

1. Introduzione
Accolgo con vivo piacere l’invito a contribuire a questo numero dedicato al governo del sistema monetario europeo e internazionale. Se posso permettermi un po’ di leggerezza, mi solleva il fatto che qualcuno sia ancora interessato a raccogliere le opinioni di un economista, in un periodo nel quale la scienza economica è particolarmente discreditata per non aver saputo prevedere lo scoppio della crisi, e per non averne saputo scongiurare le conseguenze. Non credo che questi rilievi siano del tutto corretti: esempi illustri di analisi “profetiche” non mancano. Ammetto però che da qualche tempo gli scambi più proficui su questo tema mi capita di averli con studiosi esterni alla mia professione: storici, geografi, giuristi. Questo dipende in parte dal mio percorso, che mi rende insofferente verso l’omodossia economica (non chiamerei “ortodossia” il cosiddetto pensiero mainstream, che è certamente unanime - omos - ma, visti i risultati, probabilmente non del tutto corretto - orthos). I benefici di questi scambi interdisciplinari dipendono però soprattutto dal fatto che essi costringono a riorganizzare le proprie categorie, a cercare nuove strade di trasmissione del proprio sapere “tecnico”, a reagire a stimoli imprevisti. Un esercizio utilissimo, da compiere con umiltà e con quel senso di responsabilità che deriva dal costituirsi rappresentante della categoria verso un mondo “esterno”. Il che obbliga a porsi due domande ben precise: in che modo posso aiutare la riflessione dei colleghi che hanno seguito altri percorsi (e farmi aiutare nella mia)? E in che modo posso fornire loro una rappresentazione critica ma non distorta dei risultati e delle aporie della mia disciplina?
Rinuncio fin da ora al secondo obiettivo: vivrò senza sensi di colpa la mia faziosità, sapendo di rivolgermi a un pubblico che ha gli strumenti critici per difendersi qualora le mie tesi non lo convincano, e soprattutto qualora lo convincano. Per lo stesso motivo rinuncerò al parlare oscuro (utile, come ci ricorda Stendhal, quando si parla a giovanotti ansiosi di sfoggiare il proprio sapere): parlando a un pubblico maturo sceglierò la strada della semplicità, sperando di non compromettere il rigore dei miei argomenti. Rivolgendomi a dei giuristi la linea di attacco più naturale mi sembra quella di riflettere sulle relazioni fra la crisi e le regole, scritte o non scritte, che governano il sistema finanziario internazionale. Avrete notato che in questo periodo gli economisti (non tanto quelli accademici, quanto i “tecnici” e le istanze politiche che li esprimono) stanno chiamando al soccorso i costituzionalisti: le attuali strategie di contrasto alla crisi propongono l’iscrizione in costituzione di regole di politica finanziaria particolarmente rigide, come il pareggio del bilancio. Per i giuristi, chiamati a giocare, se pure in un ruolo notarile, la parte dei salvatori, ci sarebbe di che inorgoglirsi, ma credo ci sia soprattutto di che riflettere. Quale e quanta razionalità esprimono queste richieste?

OWS: Occupy Everything.

Fonte: ciromainfo
Paolo Carpignano, sociologo che da molti anni vive a New York ed è impegnato nella sinistra americana, ha scritto questo articolo per Ciroma.info

Forse era nell’aria: l’aria di primavera dei paesi arabi, o l’aria della Puerta del Sol di Madrid, o del Rothchild Boulevard di Tel Aviv, tutti avvenimenti che presagivano un anno caldo a livello globale. Ma quando a New York è scoppiata Occupy Wall Street (la metafora della esplosione sembra moto più appropiata), si è avuta subito la sensazione che non si trattasse di una ventata di attivismo, di un altro episodio dell’ «anno della protesta» come lo ha definito Time magazine, ma di un avvenimento trasformatore, un «game changing», un cambiamento delle regole del gioco.
Non che nel contesto americano non ci fossero stati in quest’anno dei precedenti. Primo fra tutti, le grandi manifestazioni e l’assedio del Congresso dello stato del Winsconsin, nello scorso inverno. In quell’occasione si erano viste le prime crepe alla «risoluzione» neoliberale della grande crisi. Il governatore Scott Walker, forte di una vittoria elettorale finanziata da interessi a livello nazionale che volevano fare del suo stato un test della politica repubblicana conservatrice, e sulla scia dei successi del movimento del Tea Party e delle vittorie repubblicane al Congresso, aveva proposto un progetto di riforme strutturali tutte incentrate sulla politica dei sacrifici e sulla responsabilità fiscale; in realtà un attacco diretto a quello che rimaneva delle organizzazioni sindacali fra i lavoratori del pubblico impiego i cui contratti venivano di fatto abrogati. La reazione fu tanto inaspettata quanto massiccia tanto da essere chiamata la Piazza Tharir americana. Ma per quanto importanti e significative, le lotte riguardavano dei temi sostanzialmente difensivi, sindacali. Alla fine tutte le energie si sono concentrate sulle elezioni locali nel tentativo in parte riuscito di revocare le elezioni di alcuni deputati e dello stesso governatore, tutte attività ancora all’interno del sistema elettorale.

Più taxi per tutti?

di Roberta Carlini. sbilanciamoci
2 su 100: tanti sono i romani che prendono il taxi. Perché invece è diventata questione nazionale, e il grande assente di tutta la discussione: un altro modo di trasportarsi

I tassisti italiani, messi tutti insieme, non arrivano a 20.000. Il problema-taxi riguarda in tutt'Italia tre città: Roma, Milano e Firenze. Sono queste le città con meno taxi per abitanti, e prezzo più alto delle licenze per guidarli. Nella capitale, dove ci sono 8.000 taxi, solo il 2% degli abitanti ha l'abitudine di usare le auto bianche. Non scomodiamo neanche i grossi numeri della crisi, per un paragone: i numeri della disoccupazione, della inattività forzata, della cassa integrazione. Il confronto è grottesco, prima ancora che inutile. E non è che le cose cambiano molto se aggiungiamo ai tassisti le altre categorie che il governo vuole liberalizzare: da notai ai farmacisti, dagli avvocati ai giornalisti (dei quali però si parla pochissimo sui giornali, forse perché li scrivono i diretti interessati). Si è tentati dunque di addebitare a una delle tante follie italiane il fatto che siamo finiti a parlare ossessivamente, in questo inizio di 2012, di tassisti e dintorni. Però sarebbe sbagliato liquidare la questione come irrilevante, poiché mostra alcuni limiti profondi del nostro modo di vedere l'economia e la vita sociale: e questo, sia da parte degli aspiranti liberalizzatori che sovrastimano gli effetti delle loro ricette, che da parte delle categorie schierate in difesa dello statu quo, che si aggrappano a un esistente sempre più misero. Mentre si dimentica quell'aggettivo – “pubbliche” – che le auto dei tassisti hanno, e nel cui aggiornamento forse potrebbe esserci la chiave per uscire dallo stallo in cui ci siamo cacciati.

venerdì 20 gennaio 2012

E viva Monti

di Rossana Rossanda. ilmanifesto
Dev'essere «il vecchio che è in noi», in questo caso in me, a farmi sussultare alla lettura dell'articolo del mio assai stimato amico Alberto Asor Rosa sul manifesto di ieri. Egli vede nel formarsi extra o postparlamentare del governo Monti, voluto dal Presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo.

Dev'essere «il vecchio che è in noi», in questo caso in me, a farmi sussultare alla lettura dell'articolo del mio assai stimato amico Alberto Asor Rosa sul manifesto di ieri. Egli vede nel formarsi extra o postparlamentare del governo Monti, voluto dal Presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo. E in questa ammirazione non è certo il solo. Ma, rispetto agli altri estimatori, sottolinea nell'emergere di Monti una superiore saggezza e oggettività, le cui radici attribuisce all'Europa di Bruxelles, esclusion fatta degli ineleganti Sarkozy e Merkel, augurabilmente sulla via d'uscita. Qui la sua argomentazione fa un salto, perché è impervio trovare nelle misure prese da Monti farina diversa da quella che sta nel sacco franco-tedesco. Ma Asor Rosa ne vede la necessità anche nella mancanza di alternative. Chiunque ne voglia avanzare deve godere di altrettanta saggezza e consenso, nonché del rispettoso silenzio dei partiti in deliquescenza e di una opinione sfatta sulla quale galleggiano pochi residui di classe.
Di tanta saggezza non mi sento, ahimé, portatrice. Ma di consensi ne ho conosciuti troppi perché mi persuadano. Nulla di quanto è avvenuto in Italia mi piace. Non la lunga berlusconata, assai consensuale, seguita allo spegnersi del partito comunista più grosso e intelligente del continente. Non la linea di un governo la cui «tecnica» sta nel seguire fedelmente le direttive europee. Non l'improvviso decisionismo del Presidente della Repubblica, che la stampa vorrebbe già fornito dei poteri relativi e dunque di una costituzione presidenziale che con le inedite attuali convergenze non sarebbe inattuabile. Non la decisione del suddetto Presidente di non chiedere una destituzione del precedente Premier per recidivo assalto alle istituzioni repubblicane, anziché lasciarlo con la sua maggioranza alle Camere, da dove potrebbe riemergere fra un anno e, unendo il suo populismo a quello della Lega, attrarre chissamai di nuovo le masse disorientate e afflitte dalle misure di rigore.
Le quali non sono né oggettive né obbligate, affatto. Non mi richiamerò agli Stiglitz, Krugman, Mary Kaldor, Fitoussi eccetera, che lo predicano da testate più autorevoli della nostra, ma al lavoro svolto da noi e da "Sbilanciamoci" fin da quest'estate.

E’ la nuova moda.

Emiliano Brancaccio
E’ la nuova moda: tutti sostengono le liberalizzazioni e qualcuno invoca persino i vecchi metodi di Ronald Reagan per reprimere le proteste dei taxi. Ma, al di là dei taxi che ben poco contano, quali sono stati i reali effetti delle grandi liberalizzazioni già largamente attuate negli Stati Uniti e in Europa? La ricerca economica mostra che le liberalizzazioni non necessariamente accrescono la concorrenza, non è affatto detto che provochino riduzioni dei prezzi e talvolta implicano addirittura aumenti, ed inoltre, nei casi minoritari in cui i prezzi sono effettivamente diminuiti, ciò è avvenuto in larga misura a seguito di abbattimenti dei salari e dei diritti dei lavoratori, e in alcuni settori anche grazie a sussidi pubblici. La verità è che sulle liberalizzazioni si continua a fare ideologia liberista. Ma, mentre l’Italia liberalizza, gli altri paesi riattivano la politica industriale, e potrebbero sfruttare l’ulteriore apertura dei nostri mercati per acquisire a prezzi di saldo gli ultimi pacchetti di capitale nazionale.

Riprendiamoci l’Europa!

di COLLETTIVO UNINOMADE

1. Non c’era bisogno delle parole di Mario Draghi per capire che la crisi ha ormai raggiunto in Europa una soglia di irreversibilità. Crisi di «dimensioni sistemiche», aveva detto Jean-Claude Trichet un paio di mesi fa. Ora Draghi, suo successore alla guida della Banca Centrale Europea, ci informa che «la situazione è peggiorata» (16 gennaio). Difficile capire che cosa significhi il peggioramento di una crisi di «dimensioni sistemiche». Certo è che gli scenari che si prospettano per i prossimi mesi sono assai cupi, non solo per chi ormai da anni sta pagando la crisi e il farmaco che la alimenta – l’austerità, o più “sobriamente” il rigore. Anche settori consistenti del capitale e delle classi dirigenti europee cominciano a essere assaliti dal dubbio che, nel gigantesco processo di riassestamento globale degli equilibri di potere in atto, corrono il rischio di figurare tra i perdenti. Lo spettro del “declino”, se pur non ha smesso di aggirarsi per le metropoli statunitensi, ha preso a frequentare con maggiore assiduità le strade e le piazze d’Europa – o almeno di intere regioni europee. E non mancano i commentatori che intravedono dietro l’azione delle agenzie di rating una razionalità militare, le prime manovre di una «guerra mondiale del debito» in cui l’obiettivo della sopravvivenza del dollaro come moneta sovrana a livello mondiale (con il conseguente mantenimento degli attuali centri di comando sui mercati finanziari) può giustificare lo sgretolamento dell’euro. Sullo sfondo, le notizie che arrivano dallo Stretto di Hormuz ci ricordano che di fronte a una crisi di questa profondità e durata la guerra può essere una “soluzione” da tentare non soltanto sul terreno della finanza e dei debiti “sovrani”.

Diciamolo chiaramente: l’Unione europea, per come l’abbiamo conosciuta in questi anni, è finita. Non è un fatto di cui rallegrarsi. Noi stessi abbiamo di tanto in tanto pensato che le lotte e i movimenti potessero trovare nell’istituzionalità europea in formazione, sul terreno della cittadinanza e della governance, un quadro di riferimento più duttile rispetto agli assetti politici nazionali, uno spazio dentro e contro il quale costruire campagne e articolare piattaforme rivendicative. Bene, quello spazio non esiste più. È questa la prima lezione da trarre dalla crisi in questa parte del mondo. La seconda, tuttavia, è per noi altrettanto importante: sul terreno nazionale ogni ipotesi di fronteggiamento democratico o socialista della crisi si sta mostrando per quello che è – un’illusione priva di ogni efficacia e tendenzialmente pericolosa. Ce lo insegnano due anni di resistenza durissima, e tuttavia appunto ristretta al terreno nazionale, alle politiche di austerità nei Paesi più colpiti dalla crisi. La Grecia è da questo punto emblematica. Difficile immaginare un dispiegamento più radicale e assortito di lotte di resistenza di quello messo in campo in quel Paese – dall’occupazione delle piazze a scioperi generali durati per giorni e giorni, dai tentativi di assalto al Parlamento al blocco di intere città. E tuttavia l’efficacia di questa mobilitazione permanente, in termini di contrasto alle politiche draconiane di tagli e smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, è stata pari a zero.

Landini tra i taxisti, Monti in fonderia

di NICOLA CASALE e RAFFAELE SCIORTINO. Fonte: uninomade
È bene non sottovalutare la “fase due” del governo dei banchieri, e del presidente, già battezzata Crescitalia. Siamo di fronte a un tentativo dagli esiti incerti, visto il precipitare della crisi globale che l’avvertimento via downgrading di Wall Street a Berlino sembra annunciare.[1] Nondimeno esso indica un percorso che ha dietro di sé una logica ferrea.

Se la riduzione del debito pubblico scaricata sui soliti noti resta conditio sine qua non di ogni possibile exit strategy dalla crisi o anche solo di un suo tamponamento – per il rilancio del sistema è necessario reinvestire sul lavoro. Un peculiare reinvestimento che nel cuore dei “paesi avanzati” ripropone modalità dirette di espropriazione e proletarizzazione, una sorta di “accumulazione originaria” rinnovata da spalmare su uno spettro il più ampio possibile di attività umane già inserite nel circuito della merce ma non ancora del tutto o direttamente sussunte dal capitale finanziario. La finanza è economia “reale”, appunto.

La liberalizzazione della licenza dei taxisti – ma più in generale le misure contro edicolanti, benzinai, piccoli esercenti, ambulanti, le stesse “libere professioni” ecc. – cosa deve produrre infatti nelle intenzioni del governo? Due cose. Primo, un’espropriazione secca di reddito da liberare verso grande distribuzione, grandi studi professionali e finanziarie. Parte del salario “autoprodotto” dai padroncini che diventa profitto per nuove e vecchie corporations che possiedono il capitale utile a rastrellare licenze, concessioni e quant’altro. Secondo, deve produrre manodopera a costi nettamente inferiori di oggi eliminando garanzie e diritti anche ad ampie fasce di lavoro autonomo, conservandone magari l’”indipendenza” ma solo come paravento per lo scarico dei rischi sugli individui.

Costringere il 99% a vendersi a meno, a vendersi tutto: l’1% non conosce altro modo per rendere di nuovo interessante l’investimento produttivo ovvero la “crescita”. È un caso che tra le misure del governo ci sia di nuovo uno strisciante attacco all’articolo 18 della “casta” degli operai? Dopo pensionati e fruitori di prime case, le attenzioni sono davvero per tutti in attesa che si escogiti il modo di attingere direttamente ai risparmi da sacrificare sull’altare dello spread… E non è finita, il cuore del governo batte anche e soprattutto per il pacchetto di privatizzazioni dei servizi pubblici locali da trasformare in terreni di caccia per il profitto. Santa finanza!

E la chiamano crescita.

di Zag in ListaSinistra
Ora la parola è passata al capitano in seconda Boeri e alla sua idea di contratto unico. Anche lui ossessionato dal precariato, di cui qualche anno fa era fervido assertore e a quanto ne so ancora lo è.

L'assioma è che poichè vi è una giungla di contratti per tipologia, per cercare di semplificare ne aggiungiamo un altro che però contiene un aggettivo unificante, appunto, Contratto Unico. Qual'è l'aspetto qualificante di questa idea? Basta con i contratti precari, si faccia un unico contratto per tipologia, un contratto a tempo indeterminato. Il lavoratore avrà quindi tutte le garanzie e le sicurezze, i diritti equiparati a tutti i lavoratori. Ma veramente? Si certo tutti i datori di lavoro assumeranno a tempo indeterminato e tutti i lavoratori avranno ferie, malattie, diritti sindacali ( per quel che sono rimasti). Terminati i tre anni, il lavoratore potrà essere licenziato al pari di tutti gli altri lavoratori a meno che nei casi menzionati dall'art 18, in quelle aziende dove è previsto lo statuto dei lavoratori. Ma come? non si era detto che il lavoratore era a tempo indeterminato e che era uguale agli altri lavoratori? Si certo ma per i primi tre anni un pò meno e vi potrà essere la libertà di licenziamento da parte del datore di lavoro. Cioè , giusto per capire, allora si è uguali agli altri lavoratori dopo i tre anni, ma si è a tempo determinato per i primi tre anni, solo che il determinato non è stabilito. Si potrà essere licenziati in un momento qualsiasi e per qualsiasi motivo senza che si possa impugnare il licenziamento. Ma il lavoratore allora è più garantito oggi almeno sa che se è assunto a tre mesi, almeno per i tre mesi è sicuro di lavorare. Domani, con la legge dei Professori non si ha nemmeno più questa certezza, con l'aggravante ( ed è questo il vero mal di pancia) che assunti a contratto unico non si potrà nemmeno fare vertenza per il rapporto di finta parasubordinazione, come è oggi possibile!
E tutto questo viene venduto come una legge a favore dei lavoratori e per combattere il precariato! Non solo , ma questa legge è all'interno della fase due detta per la Crescita

“Anomalie italiane”, o come si prepara la guerra ai lavoratori

La “riforma” del mercato del lavoro e con essa quella degli ammortizzatori sociali, implicano un cambiamento non solo strutturale, ma anche una cornice ideologica e semantica, entro la quale inscrivere le proposte di modifica e “rivoluzione” in atto. A nostro avviso è su tutti i piani che va accettata la sfida e combattuta questa battaglia. Di seguito alcune brevissime “istruzioni per l’uso”, partendo dalle esternazioni del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e da alcune riflessioni nostre e di altri compagni a partire dalle proposte di abrogazione dell’articolo 18.Ad aprire lo show delle citazioni da antologia legate alle nuove forme di relazioni industriali, ci ha pensato, circa un anno fa, Sergio Marchionne che, ai giornalisti che gli chiedevano del “modello Pomigliano” e dell’opposizione dei lavoratori alle nuove politiche aziendali della Fiat rispondeva “Io vivo nell’epoca dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di cristo non lo so e non mi interessa”. Ed ecco che, pochi giorni fa, tocca a Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, rilanciare sul piano ideologico: “[…]Da parte nostra c'è la massima volontà di lasciare fuori dal tavolo ideologie, di essere molto responsabili e molto seri".L’oggetto della discussione, nel secondo caso, è naturalmente legato alla “riforma” del mercato del lavoro di cui tanto si parla e che è uno dei punti fondamentali su cui lavorano, senza sosta e di concerto con i sindacati (CGIL-CISL-UIL), Monti, Fornero, Passera & co. e, nel caso specifico, la Marcegaglia, che parla dell’articolo 18 e della “flessibilità in uscita”.Assunto il piano del discorso, giusto un paio di dati e qualche spunto per una riflessione più ampia: la Marcegaglia si scaglia contro l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori definendolo “anomalia italiana”… niente di più falso, anche da un punto di vista statistico: secondo gli indici OCSE (Strictness of employment protection), infatti, liberarsi di un dipendente è molto più facile per un imprenditore italiano che per un suo concorrente europeo. Al capo opposto c’è, incredibile crederci, data la contropropaganda degli ultimi mesi, la Germania, tanto osannata di questi tempi per la sua famosa “produttività” e crescita economica, che evidentemente si basa sullo sfruttamento della manodopera, ma non s’incentra sulla facilità di licenziare i lavoratori.
THE CHAMBER GIVING GREEN LIGHT: NO MORE BREEDING FOR VIVISECTION
Pensioner Housewife Student Jobless Disable

giovedì 19 gennaio 2012

9.000 israeli settlers steal 1/3 of water of more than 2 million palestinian residents
(french Commission of Foreign Affairs)

mercoledì 18 gennaio 2012

LA CROCIERA, UN MODELLO DI TURISMO DA RIPENSARE

di Stefano Landi 17.01.2012 - lavoce
Dopo il disastro della Costa Concordia, diventano evidenti gli interrogativi su quella particolare forma di turismo di massa rappresentata dalle crociere. Un'industria cresciuta senza limiti e senza regole, con navi sempre più mastodontiche, porti smisurati per accoglierle, lavoratori reclutati nei paesi più poveri per salari minimi. Se l'impatto ambientale è molto rilevante, il contributo economico alle destinazioni è invece molto contenuto. Un modello che non corrisponde alle esigenze di sviluppo turistico del nostro paese.

È ormai chiaro che il disastro della Costa Concordia non è stato solo il frutto di una fatalità o di un errore umano. Per anni, l’industria delle crociere è cresciuta senza limiti e senza regole. Navi sempre più mastodontiche, porti smisurati per accoglierle, lavoratori reclutati nei paesi più poveri per salari minimi. Un impatto ambientale molto rilevante, un contributo economico alle destinazioni molto contenuto. Questo modello non corrisponde alle esigenze di sviluppo turistico del nostro paese.

TRENT’ANNI DI CRESCITA

Già l’Osservatorio Ebnt 2011 aveva iniziato a porre i primi punti interrogativi sull’effettivo sviluppo e le ricadute economiche e occupazionali di un comparto che, se ci si fermava alle dichiarazioni dei grandi cruise operators, le grandi compagnie crocieristiche come Costa, non avrebbe dovuto conoscere limiti alla propria espansione.
In poco meno di trent’anni la vacanza crocieristica ha subito una profonda trasformazione, passando da genere di lusso a prodotto di massa, fino a raggiungere solo in Europa la ragguardevole cifra di 5,5 milioni di clienti imbarcati nel 2010.
La dinamica è stata trainata per intero dai cruise operators, che hanno saputo attuare una costante profilazione sui vari segmenti del mercato, consentendo anche alle famiglie e ai giovani di accedere a questo mercato. E che poi hanno ricercato nuove destinazioni e nuove nicchie, in modo da stimolare una sempre maggiore domanda per un prodotto che ha ormai ammortizzato i propri costi di lancio e che è quindi in grado di produrre profitti consistenti, seppur con i margini declinanti tipici della fase di maturità.
Un'offerta straordinariamente dinamica e competitiva, che ha saputo coniugare i più importanti riferimenti della marca delle destinazioni (vedi tra tutti l’Italia e Roma, ma anche Pisa e Firenze) con un mezzo di fruizione securizzante quanto solo una nave può esserlo, almeno fino alla tragedia del Giglio. Navi sempre più grandi e “rivolte su se stesse”, perché il vero business in questa fase consiste nel massimizzare il tempo di permanenza e la spesa a bordo dei crocieristi. (2)
Porti sempre più somiglianti a terminali container, realizzati a colpi di investimenti pubblici ingentissimi da parte delle Autorità portuali in competizione tra di loro e senza un quadro nazionale di riferimento: banchine lunghe chilometri per consentire l’accosto di molti giganti del mare contemporaneamente, con enormi piazzali per contenere le centinaia di pullman necessari alle escursioni, svincoli autostradali agevoli per portare nel minor tempo possibile gli escursionisti nelle città d’arte, dove magari non scenderanno neppure a terra. Ma anche Autorità portuali molto restie a dichiarare i ricavi che traggono da questi traffici, adducendo motivi di “competitività” (appunto).

CHI GUADAGNA CON LA CROCIERA

Grecia: niente austerity per i militari

Scritto da Claas Tatje Domenica 15 Gennaio
di Claas Tatje - www.presseurop.eu

In Grecia il pesante regime di austerity imposto al paese sembra non intaccare la spesa per le forze armate che al contrario di quella per scuola, sanità e servizi pubblici, sale vertiginosamente. Indovinate chi ci guadagna in questa operazione?

L'uomo ha in testa la lista dei desideri del ministero della difesa: fino a 60 caccia Eurofighter per circa 3,9 miliardi di euro. Fregate francesi per oltre quattro miliardi e motovedette per 400 milioni di euro. È il costo della modernizzazione della flotta greca. Poi mancano le munizioni per i carri armati Leopard e dovrebbero anche essere sostituiti due elicotteri Apache statunitensi. E certo, sarebbe bello acquistare sommergibili tedeschi. Prezzo complessivo: due miliardi di euro.

Quello che l'uomo, che entra ed esce dal ministero della difesa, afferma in un bar di Atene sembra assurdo. Uno stato in bancarotta che sopravvive grazie ai miliardi di aiuti dell'Unione Europea acquista armi in massa? L'uomo al bar si vede spesso nelle foto, accanto al ministro o a generali dell'esercito, spesso è al telefono con loro. Sa insomma di cosa parla. Secondo lui questa spesa al momento non è giustificabile. Ma le cose possono cambiare molto rapidamente, aggiunge. "A marzo la Grecia dovrebbe ricevere la prossima tranche di aiuti finanziari, che probabilmente supererà gli 80 miliardi di euro. Se così fosse, ci sarebbe una possibilità reale di concludere nuovi contratti sugli armamenti".

Una possibilità che ha dell'incredibile. Questa primavera sapremo se la Grecia resterà nella zona euro o se tornerà alla dracma. La stessa mattina in cui sono state diffuse queste notizie, i medici degli ospedali della capitale trattano solo i casi urgenti, gli autisti degli autobus sono in sciopero, nelle scuole mancano ancora i libri di testo e migliaia di dipendenti statali manifestano contro il proprio licenziamento. Il governo greco annuncia un nuovo piano di rigore che non risparmierà nessuno. A parte l'esercito e l'industria delle armi. Due settori sui quali le misure di austerity sembrano essere passate senza quasi lasciare traccia.

E c'è chi sta pensando di brevettare il broccolo ...

Fonte: altritasti
Il Parlamento europeo sta discutendo un importante argomento: le grandi multinazionali del biotech hanno infatti chiesto di poter brevettare il nostro cibo quotidiano. Davvero: non stiamo scherzando.
Ed è un tema molto delicato, perchè non siamo più (soltanto) di fronte alla volontà di qualche potente colosso agroindustriale che richiede brevetti su sementi modificate con le tecniche della transgenesi (i famosi OGM). No, è ancora peggio ...
Ce lo spiega Carlin Petrini attraverso un chiarissimo articolo pubblicato sul quotidiano "La Repubblica": «Facciamo un passo indietro: la questione dei brevetti è questione complessa, che inizialmente - ovvero quando i brevetti stessi vennero ideati - doveva riguardare le “invenzioni”, quindi cose utili, nuove, che potevano essere riprodotte con un processo descrivibile. All'inizio questo riguardava solo le invenzioni industriali e tutto filò liscio. Ma all'inizio degli anni Ottanta un ricercatore americano ottenne il primo brevetto su un batterio, ovvero su un organismo vivente, da lui geneticamente modificato, in grado di degradare le molecole di petrolio grezzo e quindi di bonificare aree inquinate.
Da qui derivò la possibilità per i produttori di Ogm di brevettare le sementi, e dunque il divieto per gli agricoltori di riprodurle secondo i metodi tradizionali, e l'obbligo ad acquistare le nuove sementi ad ogni stagione».

Ma la situazione, ora, si fa ancora più complessa: le multinazionali del biotech vogliono di più. E Petrini ci aiuta a capire meglio partendo da un caso concreto: «Parliamo di broccoli. Il broccolo è una pianta naturalmente ricca di molecole con proprietà anticancro che si chiamano glucosinolati e allora un'azienda ha studiato il genoma dei broccoli per capire in quali condizioni le concentrazioni di glucosinolati risultano maggiori. Ha così scoperto che i broccoli contengono più glucosinolati quando hanno un determinato assetto genomico e che, selezionando la piante migliori e incrociandole con metodi tradizionali, è possibile ottenere una pianta con l’assetto desiderato. Complicato, vero? Sì, complicatissimo. Infatti hanno brevettato questa scoperta, perché il procedimento lo hanno inventato loro e ne sono orgogliosi. Ma tutto ciò non era sufficiente.
Perché invece i broccoli, con i loro glucosinolati, non li hanno inventati loro e quindi se un altro ricercatore, o un agricoltore evoluto, decide di misurare i glucosinati che ci sono in un broccolo, con un procedimento chimico, e poi incrociare tra loro – sempre con sistemi tradizionali - solo quelli con i tassi più alti, ottiene per un'altra strada quello che i primi hanno ottenuto studiando i DNA».

Tassisti, parliamone

di Guido Viale ilmanifesto
Tassisti, parliamoneIl pacchetto di liberalizzazioni del governo Monti va giudicato alla luce della prospettiva di una conversione ecologica. Confrontarlo con lo stato di cose presente non ha senso: quel pacchetto non ne costituisce alcuna reale alternativa (se non in senso peggiorativo) ed entrambi (il pacchetto e l'esistente) non sono sostenibili. Dunque, non si può restare fermi né tornare indietro. Quel pacchetto conferma però l'assoluta inconsistenza del liberismo nell'affrontare i problemi

Il pacchetto di liberalizzazioni del governo Monti va giudicato alla luce della prospettiva di una conversione ecologica. Confrontarlo con lo stato di cose presente non ha senso: quel pacchetto non ne costituisce alcuna reale alternativa (se non in senso peggiorativo) ed entrambi (il pacchetto e l'esistente) non sono sostenibili. Dunque, non si può restare fermi né tornare indietro. Quel pacchetto conferma però l'assoluta inconsistenza del liberismo nell'affrontare i problemi: sia nel cielo dell'alta finanza (il rischio default) che sulla terra della quotidianità: professioni, orari dei negozi, ruolo delle farmacie o organizzazione dei tassisti.

Cominciamo da questi ultimi. Ancora una volta l'impressione che dà il governo Monti è di non conoscere ciò di cui si occupa (ne ha già dato prova la prof. Fornero, che ha studiato per quarant'anni il sistema pensionistico ma si era dimenticata dello scivolo al prepensionamento, con decine di migliaia di persone che il governo lì per lì aveva lasciato sul lastrico).
Nessuno lo ha scritto, ma la prima misura di buon senso da adottare nei confronti dei tassisti è imporre il rilascio di scontrini fiscali emessi direttamente da un tassametro che funzioni come un registratore di cassa.
Ci aveva provato Prodi al termine del suo primo governo, provocando una rivolta. Ma è una misura civile: se tutti devono pagare le tasse in base al loro reddito, lo devono fare anche i tassisti. Così si accerta finalmente quanto guadagnano e si possono modulare su questi guadagni le tariffe amministrate: i loro redditi variano molto passando dalle città grandi a quelle medie e piccole; e negli ultimi due anni sono diminuiti fortemente per tutti (le aziende, principali clienti indiretti dei taxi, li rimborsano sempre meno ai loro dipendenti). Solo così, comunque, si possono affrontare in modo sensato tutti gli altri problemi.

Primo: che cosa vuol dire liberalizzazione? Già Adriano Sofri ha fatto notare sul Foglio che non può esserci una liberalizzazione della tariffa: non si può contrattare il prezzo di un passaggio per telefono né a bordo strada prima di salire sul mezzo. D'altronde, senza tariffe di riferimento - ma questo vale anche per medici, notai, avvocati, commercialisti - non si possono neanche chiedere sconti; si corre solo il rischio di essere fregati due volte. Al più si possono istituire taxi di prima, seconda e terza categoria (puliti e con aria condizionata i primi, sporchi, scassati e con la radio Roma-Lazio a pieno volume i secondi e i terzi), con tariffe differenziate, così come Montezemolo, e dietro di lui Trenitalia, ha deciso di reintrodurre la terza e la quarta classe nei treni.
Ma questo dividerebbe solo per due o per tre il parco macchine effettivamente disponibile, aumentando in misura corrispondente i tempi di attesa. Non è certo quello che si vuole ottenere.
CONCORDIA CAPTAIN IS NOW UNDER HOUSE

martedì 17 gennaio 2012

Audit, in Europa si fa così

di Salvatore Cannavò - ilmanifesto - fonte: senzasoste
In Francia l'appello ha superato le 50 mila adesioni, in Belgio le associazioni Attac e Cadtm hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato contro i 54 miliardi per salvare la banca Dexia, in Grecia c'è un comitato attivo da un anno. Incontriamoci anche in Italia

Articolo dopo articolo, grazie anche all'attenzione che il manifesto sta ponendo, la questione dell'audit sul debito pubblico, cioè l'indagine su come è stato formato il debito, come viene gestito, quali interessi soddisfa e quali bisogni comprime, sta diventando un nodo del dibattito politico. E, forse, può diventare un tema di iniziativa politica, iniziativa democratica soprattutto, legata alla partecipazione e allo sviluppo di un movimento di massa. Sugli aspetti tecnici e anche sulla necessità di mettere al centro la partecipazione democratica, in particolare dal basso e a livello locale, hanno ben scritto Guido Viale e Francesco Gesualdi (li trovi su www.rivoltaildebito.org).

Vale la pena rafforzare quelle analisi con uno sguardo più generale perché anche in Europa il tema dell'audit, in funzione di una ristrutturazione, rinegoziazione o annullamento del debito pubblico illegittimo, sta diventando un elemento dell'attività di associazioni, sindacati e partiti. In Francia, ad esempio, l'appello rilanciato in Italia da Rivolta il debito ha già superato le 50 mila adesioni mentre in Belgio, solo pochi giorni fa le associazioni Attac e Cadtm - in prima linea nell'impegno per l'annullamento del debito illegittimo - hanno presentato un ricorso legale al Consiglio di Stato per annullare gli aiuti da 54 miliardi di euro deliberati dal governo transitorio - da oltre un anno - a favore della banca Dexia (già fallita una volta e salvata dallo Stato e ora di nuovo a rischio fallimento). Ma l'attività più interessante è forse quella realizzata in Grecia dove un Comitato è stato insediato circa un anno fa e una vera e propria campagna ha accompagnato le mobilitazioni degli ultimi mesi. Come scrive uno dei fondatori del comitato greco, George Mitralias, la campagna ha contribuito a precisare «le ambizioni e la missione delle campagne per l'audit del debito pubblico» ben sapendo che l'Unione europea «non è l'Ecuador di Rafael Correa», dove l'audit è stato effettuato con successo nel 2007.

È bene non nascondersi questo aspetto, per non peccare di ingenuità o di astrattezza degli obiettivi: non esiste, al momento, una forza politica, nazionale o europea, in grado di farsi carico della proposta. Che quindi compete a un'iniziativa autodeterminata e autorganizzata. Del resto, un movimento che ponesse la questione della trasparenza del debito e la sua gestione democratica porrebbe già un problema di democrazia e di partecipazione alternative all'autoritarismo di cui è intrisa la costruzione europea e la politica della troika (Ue, Bce, Fmi). Ma contribuirebbe anche ad affermare un principio semplice e complicato allo stesso tempo: il debito non è un dato inspiegabile e nemmeno un totem a cui sacrificare il modello sociale europeo. Se lo si guarda in profondità si legge la materialità delle politiche economiche degli ultimi venti-trenta anni e la stratificazione delle diseguaglianze.

Devo congratularmi con “Mario Il Grigio”

di Aldo Giannuli - sinistrainrete
Non stupitevi: devo proprio congratularmi con il senatore Monti. Non per la manovra economica (per carità!), che è un disastro: botte da orbi a ceti popolari e medi, diminuzione delle garanzie sociali, grandinata di tasse su immobili e consumi. E tutto senza nessun risultato, nè vicino nè lontano: lo spread continua ad impazzare, il rischio di fare default è intatto, perchè non si sa come sostenere interessi al 7% su un debito arrivato al 120% del Pil, ripresa economica sempre meno vicina e credibilità internazionale al punto di prima: zero. Sotto questo aspetto va detto che il bilancio non potrebbe essere peggiore: avevamo chiamato San Giorgio per abbattere il Drago e il Drago continua a farla da padrone senza neanche filarsi San Giorgio. Dunque non è per questo che ci congratuliamo.

E neanche per la gestione dell’ordine pubblico (che, come dimostrano gli episodi di Torino, Firenze e Roma) resta molto degradato; e neppure per un qualche sussulto di presenza in politica estera dove l’Italia continua a pesare quanto Andorra. Non parliamo poi della struttura del governo fatta con il “nuovo manuale Cencelli” ad uso di logge e curie. Persino il “Corriere della Sera”, primo artefice della candidatura Monti, ha da ridire in proposito.
Un voto scolastico ai primi 50 giorni del Presidente Monti? 3 meno meno ed, aggiungiamo, “per incoraggiamento”.

Ma allora, per cosa ci dobbiamo congratulare?
Ma per la capacità comunicativa, naturalmente! Anzi of course (come direbbe l’anglofono Monti). “Mario il grigio” è un genio della comunicazione e della guerra psicologica, che ha lungamente studiato il suo predecessore surclassandolo. Si, perchè, in fondo, il Cavaliere, con tutta la sua collezione di ville e miliardi, i suoi stuoli di escort e giullari, alla fine, resta sempre un parvenu, un “commesso viaggiatore di successo“, come lo definiva Montanelli. Il populismo per lui è stato una tecnica di governo, ma anche un modo di essere, perchè lui non è niente di diverso dall’armata di borghesi piccoli piccoli che lo adora. Con tutti i suoi soldi resta un uomo della lunpeborghesia con lo stesso gusto trash, la stessa sottocultura da stadio, lo stesso umorismo da caserma.

A PROPOSITO DI CRISI : IL PETROLIO E LA GUERRA ALL'IRAN

NEW YORK – Ecco qui un corso accelerato su come mandare a picco l’economia globale.
Un emendamento al National Defense Authorization Act firmato dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama nell’ultimo giorno del 2011 – quando nessuno prestava attenzione – impone sanzioni a chiunque (stati o aziende private) acquisti petrolio da Teheran attraverso la banca centrale iraniana. Pena l’esclusione, a partire dall’estate prossima, da ogni rapporto commerciale con gli Stati Uniti.

L’emendamento – a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra economica – è un regalino della Commissione per gli Affari Israelo-statunitensi (AIPAC) su commissione del governo israeliano e del suo primo ministro Benjamin “Bibi” Netanyahu.

Si è cercato in mille salse di farlo passare come il “piano B” dell’amministrazione Obama: l’alternativa? Lasciare i guerrafondai israeliani liberi di condurre un attacco unilaterale contro l’Iran e i suoi presunti programmi nucleari.

La verità è che la strategia israeliana era, se possibile, ancor più folle: impedire a qualunque Paese – a eccezione di Cina e India, forse – di acquistare il petrolio iraniano. Per di più, i sionisti americani hanno cercato di convincere tutti che ciò non avrebbe dato luogo a impennate sfrenate dei prezzi nei listini.

Intanto anche i governi dell’Unione Europea, con la loro impareggiabile capacità di tirarsi la zappa sui piedi, si sono messi a discutere se comprare o no il petrolio di Teheran. Il dubbio esistenziale è se smettere da subito o aspettare ancora qualche mese. Il risultato inevitabile, come la morte e le tasse – poteva essere altrimenti? – è stata l’ennesima impennata dei prezzi. Il greggio si aggira attorno ai 114 dollari al barile, e non accenna a diminuire.

Manipolazioni mediatiche. Ecco l'ultima!!


Fonte: controlacrisi
ULTIMA ORA: L'Iran e il Venezuela si preparano ad attaccare gli Stati Uniti !!! Almeno questo è ciò che asserisce la libera stampa dei sedicenti paesi democratici. La realtà è un po' diversa. Guardare per credere. Stavolta sono stati beccati in flagrante. Ma le altre volte?

P.S. Questo spiega perché i cervelli di parecchi di voi siano così traboccanti di spazzatura. Vi ostinate a leggere i giornali e guardare i telegiornali preparati dalla stessa gente che poi fa servizi giornalistici come questo. - Roberto Quaglia (blogger) -
THE RAPE OF EUROPE

lunedì 16 gennaio 2012

COSTA CONCORDIA: LA "MOVIDA" GALLEGGIANTE

di Sergio Bologna. fonte: furiacerveli
Strano che nessuno si sia chiesto quale bandiera batte la “Costa Concordia”. Strano che nessuno si sia chiesto chi stava sul ponte di comando della nave al momento dell’incidente. Strano che nessuno abbia ricordato che ai primi di ottobre del 2011 la nave portacontainer “Rena” della MSC è andata a sbattere contro l’Astrolabe Reef in Nuova Zelanda, uno dei più preziosi paradisi marini del globo, e che da allora (sono passati tre mesi e mezzo) sputa petrolio su quelle acque incontaminate, creando il più grave disastro ecologico in quell’emisfero. Strano che nessuno ricordi come l’Italia abbia a che fare in questi incidenti, per più motivi. Costa Crociere, nata italiana come dice il nome, è controllata dal gigante americano del settore. Ma chi la gestisce? Le navi, è bene si sappia, sono di proprietà, di norma, di una holding la cui prima preoccupazione è di metterle al riparo dal fisco e dalle norme sulle tabelle d’armamento presso certi paradisi fiscali ( da cui le cosiddette “bandiere ombra” o flag of convenience). Ma sono gestite da Ship Management Societies specializzate che decidono le assunzioni di personale e lo fanno di solito in base al principio del minor costo.

Sulla “Rena” c’erano 15 filippini su 20 uomini di equipaggio. I filippini hanno pessima fama, ma ingiustamente, da “paria” del settore sono diventati oggi tra quelli meglio preparati, perché negli anni hanno imparato che la loro vocazione era quella ed hanno investito in scuole professionali, che rilasciano i diplomi ed i certificati necessari per l’imbarco. Purtroppo oggi il mercato dei certificati falsi è fiorente, oggi i “paria” sono altri, ucraini, vietnamiti, turchi, bielorussi.

1. Sabato c’è stata una manifestazione sul Canale della Giudecca a Venezia contro il passaggio delle grandi navi da crociera. Stava uscendo in quel momento la “MSC Magnifica”. MSC sta per Mediterranean Shipping Company ed è la creatura di un geniale italiano di Sorrento, Gianluigi Aponte, che ha trasferito le sue attività in Svizzera, a Ginevra, dove sembra abbia preso moglie con tanto di banca in dote. Ha una flotta di circa 150 navi portacontainer (è la seconda al mondo) ed una flotta sempre più consistente di navi da crociera. I suoi comandanti e, spesso, anche i suoi ufficiali, sono di Sorrento o dintorni. Anche quello della “Costa Concordia” viene da Sorrento, si legge, e con il suo comportamento ha coperto di disonore una categoria di validissimi uomini di mare. MSC è famosa nel mondo per la sua mancanza di trasparenza. Non comunica informazioni relative ai suoi traffici, in particolare sui volumi di merce trasportata, non conferma né smentisce le notizie che le pubblicazioni insider sfornano ogni giorno sulle loro costosissime newsletter. MSC si è fatta largo con una politica di prezzi assai aggressiva, al limite del dumping, possibile quando si riducono i costi al massimo e magari quando si dispone di grande liquidità (gli invidiosi o i malevoli dicono di sospetta origine).

Perfino loro ce lo stanno dicendo!!!

Le Agenzie di rating bocciano la cura di ferro franco-tedesca
di Francesco Piccioni - ilmanifesto
Standards&Poor's dopo il declassamento di 9 paesi europei ne spiega le ragioni: sbagliate le politiche mirate solo a ridurre il debito. I consumatori smetteranno di comprare. La zona euro ha il 40% di possibilità di entrare in recessione nel 2012.

Ma non è che Standard&Poor's sia diventata improvvisamente marxista? Non c'è pericolo, ovviamente, ma nel mondo rovesciato in cui siamo abituati a vivere - qui in Italia - qualcuno potrebbe persino cominciare a pensarlo. Nella conferenza stampa di ieri, infatti, il direttore generale della potente quanto controversa agenzia di rating statunitense ha spiegato chiaramente che la raffica di downgrading contro ben 9 dei 17 paesi europei presi in esame ha in realtà un obiettivo solo: l'idiozia delle politiche con cui l'Europa ha fin qui affrontato la crisi finanziaria. Troppo sbilanciate su un unico pilastro: il «rigore nei conti pubblici», univocamente orientate alla riduzione del debito.

Ma nessun asino - fondamentalmente i lavoratori dei vari paesi, chiamati a far sacrifici durissimi - può davvero assumere su di sé per così tanto tempo un carico tanto gravoso senza, prima o poi, stramazzare. Ovvero smettere di consumare, comprare, vivere, curarsi, ecc. E se non c'è più chi compra nei paesi «ricchi» (saremmo noi, ma ce lo stiamo dimenticando), il circo globale rischia di smettere di girare. Insomma: senza «crescita vera» (economica, in qualche misura anche sociale, di circolazione, di spesa complessiva - pubblica e privata), non se ne viene fuori.

Un attacco frontale alla linea seguita fin qui dalla Germania, e subita con molti mugugni francesi e qualche borborigmo reazionario in casa nostra, ma in più occasioni applaudita con modalità suicide dal gotha «democratico».
Vediamo i dettagli. L'economia della zona euro, secondo Moritz Kraemer, ha un 40% di possibilità di entrare in recessione quest'anno, con una contrazione stimata per ora all'1,5%. La «delusione» più recente è dipesa dalle scelte della Banca Centrale Europea (Bce) da cui S&P si attendeva un incremento degli acquisti - sul mercato secondario - dei titoli di stato dei paesi in difficoltà, come Spagna e Italia, soprattutto. In questo modo sarebbe stato sostenuto il valore di questi titoli, contenuti gli spread e anche il valore patrimoniale di molte banche.

Invece è avvenuto il contrario: la Bce ha comprato di meno, su pressione dei membri tedeschi dell'istituo di Francoforte, e i valori hanno ripreso a scendere in modo preoccupante. L'Italia, una volta tanto, non è l'unico problema in città. Certo, la sua situazione non è buona - spiega S&P - ma con Monti la politica italiana «è profondamente cambiata» (sostituita, potremmo aggiungere). Tuttavia, quel che ha fatto fin qui «non è sufficiente a superare i venti contrari».

Il Titanic Euro in vista dell’iceberg

di Bruno Amoroso - ilmanifesto - fonte: comedonchisciotte
Collisione imminente per la nave del capitano Draghi. Chi salverà i cittadini europei dal naufragio?

Il Titanic Euro è ormai a vista d’occhio dalla collisione con l’iceberg della speculazione finanziaria internazionale. A bordo il capitano, Mario Draghi, con l’ausilio del personale precario e dei mozzi – Merkel, Sarkozy e Monti – mantiene la calma e si accinge a pulire i vetri della nave con i pannicelli caldi chiamati «liberalizzazioni» e «disciplina di bilancio», e del «mercato del lavoro». Qualche telefonata arriva dalla terra ferma dagli attoniti osservatori (Wolf, Galbraith, Krugman ecc.), che raccomandano di mettere in mare le scialuppe di salvataggio per salvare quanti più paesi è possibile e tentare di fermare l’iceberg prima dello scontro. Mario Draghi e i suoi mozzi hanno già pronti gli elicotteri per il loro salvataggio.

Le misure estreme da prendere – estreme perché ormai è già tardi – sono quelle di inviare dei missili ben mirati che frantumino l’iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha pilotato l’Europa dalla zona dell’Ue alla zona della Grande Germania. Il primo missile, che potrebbe partire dall’Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue varie forme assunte dal credito locale.

Traiettorie del Capitale

di Anselm Jappe. sinistrainrete
E' banale dire che stiamo vivendo un'epoca di enormi cambiamenti a livello tecnologico, che tutto diventa sempre più miniaturizzato e più veloce. Ciò che distingue un periodo storico da un altro, non è solamente la tecnologia, ma, soprattutto, i rapporti sociali. E, da questo punto di vista, ci troviamo più o meno nella stessa situazione che c'era nel XIX secolo, quando Karl Marx elaborò la sua critica del capitalismo. Soprattutto, se non consideriamo i rapporti sociali solo nella percezione della dominazione visibile da parte di una classe di persone - i proprietari dei mezzi di produzione - sugli altri gruppi sociali, costretti a vendere la loro forza lavoro. Ma se intendiamo per rapporto sociale, anche e soprattutto, le categorie fondamentali della società capitalistica: il lavoro e il valore, la merce e il denaro. Queste sono le forme, storicamente concrete, che prendono le attività produttive umane. Esse non sono naturali e non si trovano affatto in tutte le forme di società, tutt'altro. Dopo una lunga gestazione, a partire dalle loro forme embrionali, il lavoro e il valore, la merce e il denaro, il plus-valore e il capitale si sono imposti al centro della vita sociale a partire dalla rivoluzione industriale, e da oltre 250 anni queste categorie hanno continuato ad espandersi sopra aree sempre più ampie della vita umana, sia in senso geografico che all'interno delle società capitaliste, fino allo stadio attuale, dove non c'è praticamente alcun aspetto della vita che non sia determinato dal lavoro e dal valore, dalla merce e dal denaro, o dalle loro forme derivate.

Nella società moderna basata sulla produzione di merci, il lavoro ha un aspetto duplice: è sia lavoro astratto che lavoro concreto. Tuttavia, questi non sono due diversi tipi di lavoro ed il lavoro astratto non ha nulla a che fare con il lavoro immateriale: una confusione terminologica costantemente mantenuta da alcuni autori. Ogni lavoro, indipendentemente dal suo contenuto, ha un lato astratto, vale a dire che costituisce semplicemente un dispendio di energia umana misurata dal tempo. Il valore di una merce, come Marx ha dimostrato, non dipende dalla sua utilità, né dal desiderio che suscita, ma dalla quantità di lavoro indifferenziata, di lavoro astratto, che essa rappresenta. Tale valore si esprime per mezzo di una particolare merce: il denaro. Nella società capitalista, la produzione di beni d'uso è un fattore certamente indispensabile, però sempre subordinato alla produzione di quella merce che è l'unico scopo di tutto il processo produttivo: il denaro. Molto prima della questione della distribuzione del plusvalore, tra i diversi attori della produzione, la società di mercato si caratterizza attraverso questo processo anonimo ed automatico di trasformazione di ogni attività concreta in una quantità precisa di valore e denaro.

Detto ciò, alla domanda se sia, attualmente, possibile uscire dalla società del lavoro, grazie all'automazione che riduce il lavoro ad una parte infinitesimale, la risposta è: sì e no. Sì, tecnicamente, ma No, socialmente.

Il capitalismo è inseparabile dalla rivoluzione industriale. Fin dal suo debutto, ha cominciato a sostituire il lavoro vivo con la tecnologia, con le macchine. Questo è il meccanismo della concorrenza che spinge, pena l'eliminazione, i proprietari di capitale a far lavorare i propri operai su macchine sempre più efficienti, in modo da poter vendere i prodotti a prezzi sempre più economici. Però, questo rinnovamento tecnologico incessante non beneficia tutti i lavoratori e tutta la società nel suo complesso. Il filosofo inglese John Stuart Mill, generalmente considerato un cantore del capitalismo, aveva già ammesso, verso la metà del XIX secolo, che qualsiasi invenzione fatta per economizzare lavoro non ha mai permesso a nessuno di lavorare di meno - ma solo di produrre di più nella stessa unità di tempo. Anche la riduzione dell'orario di lavoro, negli ultimi due secoli, non è stata una riduzione del lavoro effettivo, in quanto è stata solitamente accompagnata da una intensificazione del lavoro stesso - Henry Ford introdusse, per primo, la settimana di otto ore nella sua fabbrica, intorno al 1914, solo dopo che gli studi dell'ingegnere Taylor avevano dimostrato che, con l'organizzazione scientifica del lavoro, si poteva produrre più di quanto si producesse con le dieci ore.

Perché adesso? Quale sarà il prossimo?

Conversazione tra Naomi Klein* e Yotam Marom** Fonte: sinistrainrete
Naomi Klein - Una delle cose più misteriose riguardo a questo momento è: “perché adesso?” La gente ha lottato contro le misure di austerità e ha urlato per un paio di anni contro gli abusi delle banche, facendo essenzialmente la stessa analisi: “Non saremo noi a pagare per la vostra crisi”. Ma non sembrava proprio che acquistasse popolarità, almeno negli Stati Uniti. C’erano dimostrazioni e c’erano progetti politici e c’erano proteste come a Bloombergville. Ma, erano in gran parte ignorate. Non c’era davvero nulla su vastissima scala, nulla che realmente avesse un impatto significativo. E adesso, improvvisamente, questo gruppo di persone in un parco ha fatto esplodere qualche cosa di straordinario. Come lo spieghi, allora, dato che sei stato impegnato in OWS dall’inizio, ma anche nelle precedenti azioni contro l’austerità?


Yotam Marom – Ebbene, la prima risposta è: non ho idea , nessuno ne ha. Ma posso fare delle congetture. Penso che ci siano delle cose che si devono considerare con attenzione quando ci sono momenti come questi. Una sono le condizioni: disoccupazione, debito, sfratti, i molti altri problemi che deve affrontare la gente. Le condizioni sono vere e sono brutte, e non si possono simulare. Un altro tipo di base per questo tipo di cosa è quello che fa la gente che organizza per preparare momenti come questi. Ci piace fantasticare su queste insurrezioni e sugli importanti momenti politici – ci piace immaginare che vengano fuori dal nulla e che sia necessario solo questo – ma queste cose accadono se c’è dietro uno sforzo organizzativo enorme che viene fatto ogni giorno, in tutto il mondo, in comunità che sono realmente emarginate e che affrontano attacchi bruttissimi.

Quelli quindi sono i due prerequisiti perché si verifichino questi momenti. Ci si deve poi chiedere: quale è il terzo elemento che fa sì che tutto si realizzi, quale è ‘ il grilletto, la polverina magica? Beh, non sono sicuro della risposta, ma so che sensazione dà. La sensazione che qualche cosa è che si è aperto, una specie di spazio che nessuno sapeva esistesse, e quindi tutte le cose che prima erano impossibili, ora sono possibili. Qualche cosa che è stato come disintasato. Persone di tutti i tipi hanno proprio iniziato a vedere le loro lotte in questo qualche cosa, hanno iniziato a identificarsi con questo, hanno cominciato a sentire che era possibile vincere, che c’è un’alternativa, che le cose non devono essere sempre così. Penso che in questo caso questo sia l’elemento speciale.


NK – Pensi che ci sia una discussione organica riguardo al cambiare fondamentalmente il sistema economico? Cioè, sappiamo che esiste una forte, rabbiosa critica della corruzione e della conquista dal processo politico da parte delle grosse imprese commerciali. E’ in corso davvero un richiamo ad agire. Ciò che è meno chiaro è la misura in cui al gente si sta preparando a costruire davvero qualche altra cosa.


YM – Sì, certamente penso che siamo in un momento unico per lo sviluppo di un movimento che non è soltanto un movimento di protesta contro qualche cosa, ma anche un tentativo di costruire qualche cosa al suo posto. Potenzialmente è una versione molto precoce di quello che chiamerei un movimento di potere duale, cioè un movimento che da una parte sta cercando di formare i valori e le istituzioni che vogliamo vedere in una società libera, e che allo stesso tempo, però, sta creando lo spazio per quel mondo resistendo e smantellando le istituzioni che ci impediscono di averlo. In generale la tattica di occupare, è una forma davvero fantastica di lotta di potere duale perché l’occupazione è sia una casa dove possiamo praticare l’alternativa – praticando una democrazia partecipativa, avendo le biblioteche radicali, avendo una tenda sanitaria dove chiunque può farsi curare, tutte cose cosa su piccola scala – ed è anche un terreno di prova per le lotte all’esterno. E’ il luogo dove creiamo la nostra lotta contro le istituzioni che ci tengono lontano dalle cose di cui abbiamo bisogno, contro le banche in quanto rappresentanti del capitalismo della finanza, contro lo stato che protegge e incentiva quegli interessi.

E’ sorprendente e davvero incoraggiante perché è un qualche cosa che è mancato molto in tante lotte del passato. Di solito o c’è una cosa o un’altra.

Ci sono le istituzioni alternative, come gli eco-villaggi e le cooperative alimentari e così via – e poi ci sono i movimenti di protesta e altre contro-istituzioni, come i gruppi pacifisti o i sindacati. Essi però raramente si mettono insieme o considerano le loro come lotte da condividere. Molto raramente ci sono movimenti che vogliono fare entrambe le cose, che le considerano inseparabili, che comprendono che le alternative debbono essere una lotta e che la lotta deve essere fatta in un modo che rappresenti i valori del mondo che vogliamo creare. Penso davvero, quindi, che ci sia qualche cosa di realmente radicale e fondamentale in questo, e tantissima potenzialità.

Usa, Occupy marcia su Washington

16 gennaio 2012 Enrico Piovesana emergency
Martedì sera, a quasi due mesi dallo sgombero di Zuccotti Park da parte della polizia di New York, i manifestanti di Occupy Wall Street hanno ripreso possesso della piazza simbolo del movimento. Appena si è diffusa su Twitter la notizia che le autorità cittadine avevano rimosso le barriere che dal 15 novembre impedivano l’accesso al parco, circa trecento attivisti hanno rioccupato quella che loro chiamano ‘Liberty Square’, e decine di loro sono anche rimaste durante la notte.

La decisione comunale di riaprire la piazza è stata presa in seguito a un’istanza presentata nei giorni scorsi dall’Associazione americana per i diritti civili (Aclu) che evidenziava l’illegalità del provvedimento di chiusura di uno spazio pubblico, seppur di proprietà privata. Consentire il libero accesso alla piazza era stata proprio la scusa per giustificare lo sgombero di Zuccotti Park.

Un rivincita significativa per il movimento, che giunge alla vigilia della prima manifestazione nazionale di Ows, in programma a Washington per martedì 17 gennaio. L’appuntamento è sul prato del National Mall che fronteggia il Campidoglio: lo stesso dove nel 1963 Martin Luther King pronunciò il suo famoso discorso ‘I have a Dream’ e in cui nel 1969 si tenne la più grande protesta contro la guerra in Vietnam.

La manifestazione del 17 è stata battezzata Occupy Congress, perché, in periodo di campagna elettorale, l’obiettivo del movimento si è per forza di cose spostato sulla politica, sul rapporto tra cittadini e istituzioni, sul concetto stesso di democrazia rappresentativa di cui il Congresso – che il 17 gennaio apre i suoi lavori annuali – è la massima espressione.

Un’istituzione, il Congresso, che il movimento Ows giudica non più democratica in quanto non più rappresentativa del ’99 per cento’. Non a caso, evidenziano i siti web dell’iniziativa, l’86 per cento degli americani ne disapprova l’operato. “E’ ora che il popolo americano mandi un messaggio al Congresso: gli ordinari cittadini non sono rappresentati dai loro leader eletti”, si legge sulla pagina Facebok della manifestazione.

E’ lo stesso messaggio che i dimostranti di Ows hanno lanciato in occasione delle recenti primarie per le presidenziali in Iowa e New Hampshire, mostrando cartelli con il simbolo ibridato del partito democratico e di quello repubblicano: mezzo asinello e mezzo elefante, uniti dal segno del dollaro a simboleggiare il denaro che inquina la democrazia. “L’1 per cento ha due partiti, il 99 non ne ha nessuno: fuori i soldi dalla politica”, è un altro degli slogan di Ows.

“Migliaia di americani verranno a Washington e occuperanno il Congresso – si legge sul sito di Occupy DC – Non siamo affiliati a nessun partito, sindacato o organizzazione politica. Siamo individui autorganizzati e vogliamo dire ai nostri leader eletti che ne abbiamo abbastanza della loro incapacità e che stiamo arrivando per confrontarci con loro personalmente e pacificamente”.

Il 17 gennaio infatti, oltre a una grande manifestazione sul giardino del National Mall, sono previsti incontri tra i dimostranti e singoli deputati che accetteranno l’invito al confronto su temi come lo strapotere delle lobby, i finanziamenti alle campagne elettorali da parte di banche e aziende, gli stipendi e i limiti ai mandati dei parlamentari e la personalità giuridica che tutela gli interessi delle multinazionali.

domenica 15 gennaio 2012

TRE CRIMINALI E UN CRETINO

DI PAOLO BARNARD. Fonte: donchisciotte
paolobarnard.info
Sembra di impazzire, non si può più mantenere un lessico professionale, viene da urlare, Cristo! C’è il mondo intero che sta gridando all’Europa: “Non è il debito! E l’austerità peggiora le cose!”. E’ il mondo che conta, quello degli esperti, Cristo! Ok, guardate, finché sono i Barnard e i pochi altri in rete a dire quelle cose, ok, non siamo famosi, non siamo alla BCE o a Barclays Capital o alla City. Ma quando è tutta la costa est degli Stati Uniti finanziari che affacciati all’oceano urlano all’Europa “Non è il debito! E l’austerità peggiora le cose!”; quando è Standard & Poor’s (S&P) a gridare la stessa cosa, loro, quelli che ci hanno appena bocciati, loro Cristo! Quando è persino il front man dei mega speculatori, Charles Dallara dell’Institute of International Finance americano, a battere il pugno sul tavolo dei negoziati sulla Grecia dicendo “temiamo la loro impossibilità di onorare il debito denominato in una moneta straniera, cioè l’Euro, non il debito in sé!”.

Quando poi al coro si sono aggiunti i premi Nobel dell’economia, e poi i macroeconomisti della FED, e poi quelli della MMT… cosa aspettano i quattro a capire? Ma no. No, loro quattro no. In splendido isolamento dal resto del mondo, i tre criminali e il cretino insistono con questa demenza devastante secondo cui il dramma che stiamo vivendo in questa caduta ad avvitamento nel baratro è dovuto al debito. Quindi bisogna pareggiare i conti, quindi ci vuole ancora più austerità… loro quattro, Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, Mario Draghi e Mario Monti. Tre criminali e un cretino. Il cretino è Sarkozy.

Non è il nostro debito il problema, che se fosse denominato in una moneta sovrana, e NON in Euro, non causerebbe nulla, neppure fosse al 300% sul PIL. Ma Cristo, leggete l’evidenza: la Spagna dell’Euro non sovrano viaggia con un debito appena sopra il 60% del PIL, che è proprio il goal virtuoso del Patto di Stabilità voluto dalla Germania per l’Euro. Ma la Spagna è nella fossa dei leoni e alla gogna dei mercati. Perché? Dal 1994 al 1998 l’Italia della lira sovrana accumulò un debito stratosferico, fino a un picco del 132% del PIL (sic) ma nulla accadde, anzi. Perché? E fa venir voglia di sbattere la testa contro il muro che ieri La Repubblica, in uno show di intontimento olimpionico, abbia scritto senza capire cosa scriveva la seguente notizia: “A metà degli anni '90 l'Italia appariva, a giudizio della stessa agenzia di rating che oggi ha tagliato drasticamente il suo giudizio (proprio la Standard & Poor’s, nda), come una delle economie-leader dell'Unione europea con una crescita media annua superiore al 2% nell'ultimo decennio. S&P's apprezzava allora il record italiano di un tasso d'inflazione moderato (media del 5,8% nel decennio); la responsabile condotta della Banca d'Italia, nonostante il persistente elevato livello del disavanzo pubblico (stimato nel 9,4% del prodotto interno lordo nel 1994) ed il gravoso e crescente debito (124% del PIL); il forte tasso di risparmio (15% del PIL) e la concentrazione in mani nazionali ed europee del debito italiano”. Ora rileggete i grassetti qui sotto:

1) S&P's apprezzava allora il record italiano di un tasso d'inflazione moderato (media del 5,8% nel decennio) – Oggi l’Italia del ‘virtuoso’ Euro ha un’inflazione cha va dal 1,7% al 3%. Ma siamo alla gogna.

2) nonostante il persistente elevato livello del disavanzo pubblico ed il gravoso e crescente debito (124% del Pil) ... apprezzava il forte tasso di risparmio (15% del Pil) – Avete letto bene? Sì, benissimo, avete letto la parola ‘risparmio’, non ‘debito’ dei cittadini. E allora permettetemi di gridarlo: CON LA MONETA SOVRANA IL DEFICIT E L’ALTO DEBITO DELL’ITALIA ERANO IL RISPARMIO DEI CITTADINI, IL RISPARMIO! NON IL DEBITO DEI CITTADINI. Lo scriveva S&P, non Paolo Barnard o chissà chi altro. Esattamente ciò che la Modern Money Theory di cui io incessantemente parlo sostiene. Il deficit e il debito pubblico italiani sono diventati il debito dei cittadini, e grido di nuovo, SOLO CON L’INTRODUZIONE DEL CATASTROFICO EURO, che è moneta non sovrana che l’Italia deve prendere in prestito dai mercati privati, e che non può emettere.

3) nonostante … la concentrazione in mani nazionali ed europee del debito italiano – esattamente come oggi, ma allora era debito in moneta sovrana, ecco la differenza.

Ma no, i tre criminali e il cretino insistono contro l’evidenza universale. No, la Terra è piatta, e come tale dobbiamo comportarci. E allora dobbiamo rimanere nell’Euro a qualsiasi costo, anche se ci stimo decomponendo da vivi, gridando di dolore per le piaghe da decubito dell’austerità. E anche qui, non è solo Paolo Barnard o i suoi MMTisti che denunciano quanto sopra come non solo inutile, ma anche devastante per le nostre speranze di crescita. Ecco cosa ha dichiarato ieri proprio Standard & Poor’s, leggete bene, ma bene! “Le riunioni dei leader della UE si concentrano sui temi sbagliati. L’adozione di pacchetti di austerità per ridurre i deficit NON IDENTIFICANO I RISCHI REALI (mia enfasi, nda). Infatti durante i primi 10 anni dell’Euro la Germania aveva uno dei deficit più alti in assoluto, mentre la Spagna aveva pareggio di bilancio”. Le parole non sono confondibili: ci hanno detto, loro, i super esperti di debito e affidabilità, che tutta sta menata distruttiva e assurda predicata dai tre criminali e dal cretino non ha senso. La Spagna era un modello di disciplina di bilancio, ed è finita alla gogna. La Germania, ipocriti falsari, aveva una pagella pessima e ha sempre volato. Quindi NON E’ IL DEFICIT, NON E’ IL DEBITO, E’ ALTRO. La Germania vola perché esporta valanghe di cose in tutto il mondo, e non perché l’Euro funzioni. I mercati ancora (per poco) prestano alla Germania SOLO perché sanno che essa può ripagare i debiti grazie a quell’export immenso. NON perché abbia l’Euro. Se i tedeschi non avesse la carta delle esportazioni da giocarsi, avremmo i PIIGGS, e cioè Portogallo Italia Irlanda Grecia Germania e Spagna. Pari pari. E infatti la Francia del cretino è sotto attacco dai mercati sempre di più, perché ha questo sciagurato Euro senza possedere un’arma potente come quella dei tedeschi.

Non è il debito pubblico il problema, non è il deficit. E’ l’Euro non sovrano, e solo quello. Dio santo, è ovvio!! Ma no, i tre criminali devono consegnarci nella mani dei barracuda dei mercati, massacrando il destino di milioni di famiglie e di centinaia di migliaia di aziende. Ne Il Più Grande Crimine 2011 da pagina 60 è spiegato nei dettagli come e il perché. Il cretino fa il cretino e segue a ruota. Ma lo capirebbe un tordo che è impossibile risanare un’economia tassandola a morte e però impedendo allo Stato qualsiasi spesa pro cittadini che sia anche di un centesimo superiore a quanto i cittadini devono restituire in tasse, cioè imponendo il pareggio di bilancio. Lo capirebbe un fagiano scemo che se lo Stato spende 100 per noi ma poi ci tassa 100, cioè fa il pareggio di bilancio, noi cittadini e aziende andiamo a zero nel portafogli. E come faranno cittadini e aziende a rilanciare l’economia se per anni andranno a zero coi loro risparmi? Lo dovete capire: la ricchezza di cittadini e aziende (risparmi), senza l’apporto dei soldi dello Stato è una quantità fissa chiusa un contenitore stagno. Non aumenta, cioè i risparmi non aumentano da sé. Gira in tondo, passa da mano a mano, passa da qui a là, e da là a qui, e basta. E se, come oggi, quella ricchezza è scarsa e in calo, chi può investire in produzione e in posti di lavoro? Nessuno, zero. E se, come oggi, un Monti ce la restringe ancora di più quella ricchezza attravers l’Austerità, saranno crisi e ancora crisi, ma volute a tavolino da sto sistema demente e criminale. Solo se lo Stato può iniettare denaro nuovo in quel contenitore PIU’ DI QUANTO GLI TOLGA IN TASSE, cioè se NON farà il pareggio di bilancio, noi cittadini e aziende avremo risparmio da investire in economia e occupazione. Ma questa iniezione vitale è possibile solo con una moneta che lo Stato può creare per sé, cioè una moneta sovrana, NON l’Euro.

Non è il debito pubblico il problema, non è il deficit. Non ci salveremo con le austrità, il contrario. E’ l’Euro non sovrano, e solo quello. Dio santo, è ovvio!!

Cristo! Svegliatevi. Ce lo stanno gridando da mezzo mondo, da Wall Street, dal Financial Times, da Standard & Poor’s, da Paul Krugman, persino la Goldman Sachs lo ammette, leggete Jan Hatsius, che alla Goldman è il miglior macro analista che ci sia. Ma no, dobbiamo essere spolpati vivi. Svegliatevi, Cristo! E' la vostra vita, ma non lo capite?

Paolo Barnard
Fonte: /www.paolobarnard.info
Link: http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=307
15.01.2012

La chiusura del cerchio

di Elisabetta Teghil. sinistrainrete
In questa fase neoliberista del capitalismo, lo scontro tradizionale che avveniva per la conquista delle materie prime e la penetrazione nel mercato dei paesi del terzo mondo, oggi investe anche i paesi occidentali.

Questa è la chiave di lettura dell'improvvisa apparizione del debito nel panorama economico dei paesi dell'Europa occidentale.

I paesi più indebitati al mondo, sia in assoluto che in rapporto alla popolazione locale e alla ricchezza produttiva, sono gli Stati uniti e l'Inghilterra.

Allora vediamo che la vicenda- debito è strumentale e fa parte di un unico progetto: svendere l'economia dei paesi così detti indebitati alle multinazionali anglo- americane.

L'obiettivo, per rimanere in Italia, è di appropriarsi delle riserve auree dello Stato e mettere mano ai risparmi delle famiglie, due aspetti che caratterizzano il nostro paese rispetto agli altri, perché alcuni non hanno riserve auree consistenti come quelle italiane e, in altri, le famiglie sono fortemente indebitate e non ci sono risparmi da saccheggiare.

Lo stesso avviene per la casa. Anche in questo campo, in Italia, c'è una grande tradizione rispetto alla proprietà della casa. E anche questa è nel mirino di banche e finanziarie.

Per fare ciò, l'Italia si è dotata di un iperbolico apparato di controllo e, accanto alla guardia di finanza, ha messo su Equitalia, una struttura mastodontica, per mezzi e uomini, per poter raggiungere questo obiettivo.

Per poterlo, poi, far passare a livello di opinione pubblica ha coniato la "caccia all'evasore", fermo restando che non saranno certo toccati gli interessi delle multinazionali, delle banche e delle finanziarie.

Il vero obiettivo sono le tasche degli italiani.

Tutti gli italiani "avrebbero" tremila euro di debito a testa, compresi bambini, disoccupati, sottoccupati e precari.

Da che mondo è mondo, il debito dovrebbe pagarlo chi lo ha contratto: ma, questo, non è stato accumulato per la sanità, l'istruzione, le pensioni e lo stato sociale.

Sorvoliamo, poi, su spese, ICI e privilegi accessori e contributi a vantaggio del vaticano, anche se, rispetto a questo, correnti laiche trasversali il problema lo hanno sollevato.

E parliamo dei costi delle 113 basi americane in Italia, perché il mantenimento lo paghiamo noi e nessuno ha il coraggio di dirlo.

E parliamo dell'esercito che è evidente che non deve difendere i confini dell'Italia da nessuna minaccia, ma serve ad occupare militarmente la Val di Susa e la zona di Rho dove stanno piazzando l'Expò 2015 e a partecipare alle guerre neocoloniali in giro per il mondo, sia pure in ruolo subalterno e di appoggio agli Stati Uniti.

Da qui, la proposta del ministro della difesa dell'ultimo governo Prodi di reintrodurre la leva obbligatoria.

Quella del debito è una scusa, perché di scusa si tratta, per smantellare lo stato sociale e per la privatizzazione dei servizi pubblici, maniera elegante per darli in mano alle multinazionali.

Grillo & Rich's

Standard & Poor's ha declassato l'Europa. La Francia ha perso la tripla A. Italia. Portogallo e Spagna sono scesi alla tripla B. Chi è S&P? "Nell'azionariato compaiono in evidenza, a fine 2009, oltre all'azionista di controllo McGraw-Hill, uno dei primi gestori indipendenti di fondi negli Usa Capital World Investors, la società di asset management State Street; altre come la società d'investimento BlackRock, la società finanziaria Fidelity Investments e Vanguard Group" (da Wikipedia). Una sicurezza!
S&P è una delle tre parche insieme alle agenzie di rating Moody's e Fitch Ratings. Una fila il tessuto, la seconda lo assegna e la terza lo taglia. Le tre parche sono tutte americane, hanno sede negli Stati Uniti. Fanno gli interessi della Fed e del Governo degli Stati Uniti. Di loro non dovrebbe fottercene di meno (scusate il francesismo). Prima della disastrosa crisi del 2008 (di cui quella attuale è solo la conseguenza) dove erano i presidenti, i manager, gli analisti di queste agenzie? I fondamentali economici della UE sono migliori di quelli degli USA. Gli Stati Uniti si sono salvati dal default lo scorso agosto aumentando di 2.400 miliardi di dollari il livello massimo del loro debito, stampando moneta e riempiendo il mondo di "junk money", soldi spazzatura.
Le Agenzie sono tempestive, quando l'Europa migliora, loro intervengono. Proteggono il petroldollaro dal petrol-euro, dal petrol-renminbi. Il gioco si è fatto pesante e anche scoperto. Se la sopravvivenza della UE deve dipendere da tre funzionari di Washington prestati alla finanza siamo alle comiche finali.
"Quante divisioni ha il Papa?" si chiedeva Stalin? Ecco, rifacciamo la domanda. "Quante divisioni hanno gli Stati Uniti in Europa?" E' ora per la UE di tagliare il cordone ombelicale con gli Stati Uniti. Non abbiamo più bisogno della copertina di Linus. Propongo l'istituzione della "Grillo & Rich's" (sono un megalomane). Un'agenzia europea, italiana e genovese per retrocedere gli Stati Uniti alla C: "Altamente vulnerabili, forse in bancarotta o in arretrato ma continua ancora a pagare le obbligazioni". E sono generoso!

Come cresce (e dove va) la ricchezza dei ricchi.

Piero Ricci sbilanciamoci
Anche con la crisi la ricchezza aumenta, soprattutto per i più ricchi. Ma, con patrimoni meno liquidi, l’effetto sui consumi in paesi come l’Italia è modesto

Alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane (attività reali e attività finanziarie, al netto delle passività finanziarie), è risultata di circa 8.640 miliardi di euro e, secondo stime preliminari, nel primo semestre 2011 è leggermente aumentata in termini nominali, secondo i dati della Banca d’Italia (Supplementi al Bollettino Statistico anno 2011 - La ricchezza delle famiglie italiane 2010 p. 5).

La variazione della ricchezza complessiva reale può essere riferita a due fattori: il flusso di risparmio (al netto degli ammortamenti) e i capital gains (variazioni dei prezzi delle attività reali e di quelle finanziarie al netto della variazione del deflatore dei consumi). Nel 2010 il risparmio delle famiglie è stato di circa 50 miliardi di euro mentre i capital gains sono stati negativi essenzialmente per il forte calo dei corsi azionari avvenuto nel corso dell’anno. Tra il 1995 e il 2010 il risparmio incide nella crescita del valore della ricchezza netta in misura lievemente superiore rispetto ai capital gains. Questi ultimi sono interamente ascrivibili alle abitazioni e agli altri beni reali, essendo i capital gains sulle attività finanziarie pressoché nulli.

Nella seconda metà degli anni ‘90 è la componente finanziaria a costituire la principale determinante dell’aumento della ricchezza complessiva delle famiglie. La ricomposizione della ricchezza verso le attività finanziarie è un fenomeno comune a tutti i paesi del G7, tanto è vero che negli anni ‘80 la gran parte della ricchezza delle famiglie era costituita da attività reali mentre nel corso degli anni ‘90 i risparmiatori si indirizzarono verso le attività finanziarie, in particolare le azioni. L’aumento risultò disomogeneo, con una crescita del peso delle attività finanziarie inferiore nel Regno Unito e in Canada dove era già molto elevato, e maggiore in Francia e in Italia, dove la partecipazione al mercato azionario era più limitata. Dal 2000 è iniziata invece una fase di riduzione dei corsi azionari, con l’interruzione della crescita del rapporto tra attività finanziarie e attività reali sino al 2003, come mostrano i dati Banca d’Italia.

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