Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 24 novembre 2012

"Due o tre cose non secondarie a proposito delle primarie", di Raul Mordenti

Autore: raul mordenti
        - controlacrisi -
Dunque, ci siamo: a conclusione di un battage mediatico senza precedenti, si vota per le primarie del centrosinistra. Il quotidiano-Vangelo (vulgo: “Repubblica”) garantisce a p. 13 del “Venerdì” del 23/11 che le primarie piacciono a tutti, ma piacciono ancora di più agli elettori del centrosinistra: il 79 % di amore per le primarie contro una media del 55%. Noi, che siamo comunisti e dunque rompiscatole, ci consoliamo con il gradimento più basso fra gli elettori “Altri/non collocati”, al 19% dei quali le primarie non piacciono per niente, mentre al 33% piacciono poco; ma (dobbiamo essere sinceri) ci consoliamo ancora di più leggendo due righe scritte in piccolissimo che ci svelano come il sondaggio di riferisca a 900 persone (sì, avete letto bene: novecento) e che si tratta insomma del solito sondaggio con cui “Vangelo-Repubblica” maschera le proprie direttive ai lettori.
Abbiamo argomentato altrove come le primarie siano “un’americanata a Roma” degna di Alberto Sordi, e però un’americanata tutt’altro che innocua, perché le primarie alludono allo stravolgimento della Costituzione (anzi lo praticano già!) prefigurando un Presidente del Consiglio (loro dicono: premier) eletto direttamente dal popolo, e non invece designato dal Presidente della Repubbica e votato dal Parlamento, come la nostra Costituzione invece prescrive. Non tornerò ora su questo argomento, anche perché se la Costituzione valesse qualcosa per i compagni del PD essi non darebbero vita alla legge elettorale “porcellum bis” a cui lavorano in questi stessi giorni. Vorrei limitarmi a far notare alcune cose, a proposito delle primarie, che forse sono trascurate da quei compagni (e ce ne saranno tanti) che andranno disciplinatamente a votare convinti (e non solo da “Repubblica”) di fare una cosa buona e giusta per la democrazia e per la sinistra.
Anzitutto per votare bisogna (oltre a versare due euro) sottoscrivere con la propria firma un documento e ci si impegna fin d’ora a votare per il centro-sinistra alle elezioni del 2013, chiunque sia il premier che vincerà, dichiarando altresì di approvare la “Carta d’intenti per l’Italia Bene Comune”; si diventa così a pieno titolo “elettore del centrosinistra”, ci si iscrive a un “Albo” (sic!) e si riceve anche il relativo “Certificato di elettore di centrosinistra” (sic!). Che anche questo pubblico impegno a votare qualcosa rappresenti una violazione del carattere libero e segreto del voto prescritto dalla Costituzione appare di certo una quisquilia ai compagni del PD. E se da qui alle elezioni (sei mesi circa!) l’elettore o l’elettrice cambiasse idea? Dovrebbe violare un impegno preso per iscritto, con la propria firma, oppure dovrebbe rinunciare a esprimere liberamente il proprio voto seguendo le convinzioni maturate nel frattempo? “Pinzillacchere!”, risponderebbero certo a questa obiezione, con un’alzata di spalle, i disinvolti sostenitori delle primarie.
Soffermiamoci allora su due questioni che mi paiono, francamente, non secondarie.
Primo: votando ci si impegna (come già hanno fatto Bersani, Vendola, Renzi, Puppato e Tabacci) a sostenere il premier che vincerà le primarie, chiunque egli sia, anzi – cito - “a collaborare pienamente e lealmente, in campagna elettorale e per tutta la durata della legislatura con il candidato premier scelto dalle primarie”. E pensare che c’è chi dice che va a votare per impedire la vittoria del pessimo e berlusconico Renzi! Ma se Renzi (per non dire del bravo democristiano Tabacci) vincesse le primarie, ebbene costui andrebbe sostenuto “pienamente e leamente”, e “per tutta la durata della legislatura”. Oppure la soluzione sarà l’italianissimo spergiuro? D’altra parte il documento già sottoscritto dai candidati e, al momento del voto anche dagli elettori delle primarie, chiarisce bene che se in futuro ci fossero discussioni nella coalizione, queste saranno risolte con una votazione...nei gruppi parlamentari. Dopo di che l’eventuale minoranza si impegna ad adeguarsi alla maggiornaza: una singolare riscoperta del centralismo democratico, che però avviene qui in una coalizione non in un Partito, e per giunta in Parlamento!
E veniamo alla seconda questione, cioè alla “Carta d’intenti per l’Italia Bene Comune” che si sottoscrive votando. Mi permetto di invitare i compagni e le compagne che intendono votare alle primarie a leggere almeno questo documento, e a leggerlo per intero.
È un programma di legislatura, e siccome in politica le cose che sono scritte contano tanto quanto le cose che sono taciute, non si può non notare che in questo programma non c’è una sola parola sul recupero dell’art.18, non c’è una sola parola sul folle “pacchetto” firmato con l’Europa,
non c’è una sola parola sulla necessità di porre fine alle missioni di guerra all’estero, non c’è una sola parola sulla tassa patrimoniale o sull’IMU da far pagare al Vaticano, e l’elenco potrebbe continuare. Questi silenzi significano semplicemente che tutte queste cose non fanno parte del programma di Governo del centrosinistra e del suo premier. Si è detto che, grazie all’eroico impegno del compagno Vendola, si è ottenuto che nella “Carta d’intenti” non fosse scritto, a chiare lettere, che occorre proseguire la politica di Monti. Non è vero neanche questo: leggo, addirittura nella solenne premessa, che: “L’Italia perderà se abbandonerà l’Europa e si rifugierà nel suo spirito corporativo...” (chi ha orecchie per intendere, intenda..). E nel punto 4 del capitolo finale intitolato “Responsabilità” leggo: “Assicurare la lealtà istituzionale agli impegni internazionali e ai trattati sottoscritti dal nostro Paese...”. È abbastanza chiaro? Se qualcuno ancora non avesse capito, o piuttosto facesse finta di non capire, la “Carta d’intenti” fa ulteriore chiarezza nel punto dedicato all’Europa: “La prossima maggioranza dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa”, e prosegue: “Qui vive la ragione più profonda che ci spinge a cercare un terreno di collaborazione con le forze del centro lberale. I democratici e i progressisti si impegnano a promuovere un accordo di legislatura con queste forze.” Dunque l’accordo (anzi un accordo di legislatura!) con l’UDC e simili “montiani” non è affatto un’eventualità, è – al contrario – un impegno già assunto solennemente con la “Carta d’intenti” dal PD, dalla sua coalizione, e da tutti quelli che, votando alle primarie, aderiranno alla “Carta d’intenti”.
Noi siamo certi che il compagno Salvi (il quale ha detto che andrà a votare Bersani) e il compagno Diliberto (il quale ha detto invece che andrà a votare Vendola, ma solo al primo turno) non avevano ancora letto la “Carta d’intenti” né il regolamento delle primarie e non sapevano che per votare avrebbero dovuto mettere la loro firma a questa robaccia.

Lo scontro è su chi paga

 
 
 
 
 
Gabriele Pastrello - ilmanifesto -
Molti accolsero con favore il rapporto del Fmi in cui si mettevano in discussione i dogmi sottostanti alle politiche della Commissione europea verso i paesi i cui debiti sovrani sono sotto attacco. Politiche ossessivamente sostenute sia dall'opinione pubblica tedesca che da dal governo tedesco che, nell'assecondarla, ha visto la garanzia della rielezione, rimediando al calo di consensi registrato fino al 2010. Circa un mese fa il Fmi ha affermato che politiche di austerità hanno effetti negativi sulla crescita molto maggiori di quelli presunti.
Di conseguenza l'austerità non può essere neppure il mezzo per la riduzione del debito; rafforzando questa tesi con esempi storici contrari di grande peso. Naturalmente non si poteva se non accogliere con favore questo rovesciamento delle posizioni storiche del Fmi. Ma gli sviluppi successivi, e soprattutto il contrasto attuale tra Fondo e Commissione mettono in luce un aspetto meno incoraggiante delle conseguenze di quel rapporto. Il conflitto Fondo-Commissione ha motivazioni molto meno preoccupate del rilancio dell'economia europea e molto più di quali istituzioni finanziarie dovranno subire perdite per la crisi. Naturalmente il prezzo che le popolazioni greche, spagnole, portoghesi e italiane stanno pagando non interessa a nessuno.
Stiamo infatti assistendo a uno strano rovesciamento di posizioni. Nonostante abbia affermato che la terapia dell'austerità non è in grado di ridurre il peso del debito, il Fmi non intende dare proroghe sulla data in cui la Grecia dovrebbe raggiunger il magico livello di 120% del debito sul Pil, il 2020. Mentre la Commissione si ostina nelle sue previsioni rosee dicendo che il Fmi è pessimista. Di conseguenza sostiene che basta una piccola proroga di due anni nella data di rientro del debito greco nelle dimensioni accettabili, cioè al 2022.
In realtà lo scontro è solo su chi paga. Il Fmi vuole smettere di finanziare il bilancio ellenico, e vuole che la Commissione prenda atto del fallimento della politica di austerità - a questo serviva il rapporto - e di conseguenza affronti il problema che alla fine inevitabilmente si porrà: chi dovrà sostenere le perdite per l'ineludibile cancellazione di parte del debito? Il debito dovrà essere ridotto, insieme agli interessi che stanno pesando sul bilancio greco in modo insostenibile. Dato il peso dei finanziatori europei, statali e privati, queste perdite dovranno ricadere soprattutto su di loro. Ma né la Commissione europea né la Bce ne vogliono sentir parlare. Da cui anche gli ipocriti complimenti rivolti alla Grecia e al Portogallo, come pure a Italia e Spagna. Giusto ora la Merkel sta dicendo a Lisbona che ha piena fiducia nella capacità dei portoghesi di far fronte agli impegni. Tradotto: se non trovate i soldi voi, noi non intendiamo metterci un euro. Le banche greche stanno faticosissimamente trovando in questi giorni i miliardi di euro necessari per far fronte ad impegni non finanziati dalla Troika, e quindi per non fallire a breve termine. Sembra che ci riescano, così come il governo greco faticosamente ha trovato i voti per approvare il nuovo pacchetto di sacrifici. Ma sia le risorse finanziarie delle banche greche che quelle politiche del governo sono in via di esaurimento. Forse la Grecia non fallirà prima di Natale, ma nelle condizioni attuali difficilmente può reggere fino a Pasqua.
La scommessa della signora Merkel di riuscire ad arrivare alle elezioni dell'autunno prossimo senza allentare le condizioni capestro imposte ai paesi debitori per soddisfare l'opinione pubblica tedesca, e al tempo stesso tenendo sotto controllo le crisi via via emergenti rischia seriamente di fallire. Una delle ragioni per cui aveva pur controvoglia accettato gli interventi di Draghi era che comunque sono stati in grado di guadagnare tempo. Ma un fallimento della Grecia potrebbe mettere a dura prova le stesse misure di Draghi. Cosa farà? I mercati sono stati buoni dopo settembre perché gli Stati in difficoltà, Spagna e Italia, erano lontani dal default, e quindi la minaccia di acquisto illimitato di titoli era efficace contro la speculazione al ribasso. Ma se fallisse la Grecia, Draghi dovrebbe agire davvero da prestatore di ultima istanza, o lasciare che la Grecia esca dall'euro. Potrebbe generarsi una fuga generalizzata dai debiti di paesi come Spagna e Italia. Tutto questo ben prima che la Merkel approdi al lido sicuro della rielezione.
A prima vista sembra impossibile che Draghi possa prendere una tale decisione, ma in realtà potrebbe avere la maggioranza nel Consiglio della Bce. E allora sarebbe la Germania a dover decidere se uscire o no. Difficile che il quadro politico tedesco regga a un simile dilemma. Una Nemesi per l'avventata e cinica scommessa della Merkel sulla pelle dei paesi mediterranei.

La lotta per la pace e la violenza della crisi

di COLLETTIVO UNINOMADE

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0. La crisi si approfondisce, accelera, blocca l’orizzonte e allo stesso tempo cambia continuamente i quadri di riferimento. É ormai chiaro a tutti che, nonostante i disperati tentativi di rassicurazione dei vari attori della governance, vie di uscita non se ne vedono. La novità della crisi odierna è che perde la sua forma ciclica e diventa permanente: in questa trasformazione, come abbiamo ripetuto più volte contro le illusioni di una sinistra incapace di ripensare perfino la propria funzione riformista, non ci sono soluzioni keynesiane lineari. Crisi permanente non significa di certo che sia prossimo il “crollo” del capitale: sono ipotesi che lasciamo volentieri ai teologi della storia. Ciò non toglie, però, che la crisi mostra una evidente incapacità del capitale di far funzionare il comune che il lavoro della moltitudine produce.
Gli ordinamenti costituzionali attuali, sia a livello dell’integrazione europea sia a livello di stati nazionali, non permettono di aggredire con efficacia questo tipo di crisi: la loro unità si è definitivamente infranta, pensare a una loro restaurazione oppure alla difesa di singoli brandelli è una mossa semplicemente improduttiva. Tutto ciò non è avvenuto per una sorta di complotto o tradimento delle rappresentanze governative, come spesso si sostiene, ma perché sono state le lotte a rompere la mediazione costituzionale ed è stata la finanziarizzazione a rispondere imponendo una nuova convenzione. In Europa la BCE assume così un ruolo politico fondamentale sovradeterminando ogni decisione politica e distruggendo ogni opposizione, al tempo stesso riproducendo indefinitamente la crisi. Che i margini della mediazione siano continuamente erosi i padroni lo dicono in termini chiari. Semmai, è qualche voce, sempre subalterna, delle sinistre ufficiali che si ferma a rimpiangere il vecchio nesso welfaristico “classico” cittadinanza-lavoro, senza mai voler prendere atto di come esso sia stato già battuto in breccia, prima ancora che dai padroni, dalle modificazioni stesse della produzione e da una cooperazione sociale che non può essere trattenuta entro quel binomio. Così, se Marchionne, senza paura, usa il linguaggio della rappresaglia (un operaio licenziato per ognuno che torna in fabbrica), la Fornero non è stata incauta con la sua esternazione sui giovani “choosy”, perché i governanti “tecnici”, a differenza dei nostalgici e impotenti ideologi delle socialdemocrazie e delle sinistre tradizionalmente “lavoriste”, non hanno bisogno di giri di parole per dire come stanno le cose: mangiate merda e tacete. Siamo addirittura oltre i lessici mistificatori della meritocrazia e della libertà di scelta: che abbiate studiato oppure no, titoli o non titoli, abituatevi a una mobilità sociale che sarà solo verso il basso. Il potente imprenditore ed economista Warren Buffet lo aveva già detto qualche tempo fa senza infingimenti: naturalmente la lotta di classe c’è, ed è la mia classe che l’ha vinta. Poi Occupy Wall Street ha cominciato a fargli capire che ha ragione solo per metà. Per l’altra parte, non ha fatto i conti con il 99%.
1. Il 14N ci sembra debba essere letto in questo quadro. Uno dei principali soggetti protagonisti è stata una generazione che si è socializzata nella crisi, nella precarietà e nell’impoverimento, e non conosce altro al di fuori di essa. Proprio perché un futuro non ha mai immaginato di poterlo possedere e dunque non può avere ansia per la sua perdita, pretende di essere assolutamente “choosy” rispetto al proprio presente. Per questa generazione, il rimpianto per la vecchia coppia cittadinanza-lavoro non ha alcun senso: si muove in tutta naturalezza, dopo, fuori e contro le costituzioni del lavoro, fuori e contro i modi e ritmi delle mediazioni sindacali. Che i precari di seconda generazione riescano a situarsi dentro una composizione allargata, come avviene in Spagna, o se riusciranno a farsi motore di processi di ricomposizione, per nominare la scommessa politica in Italia, questo è un nodo decisivo. Ci pare comunque che il 14N costituisca una prima conferma del discorso sulla “leva meridionale” delle lotte, incarnatosi nei recenti incontri di Agora99 a Madrid e di “orizzonti meridiani” a Palermo. Non a caso, la settimana di lotta era cominciata, in Italia, proprio a Napoli, con le contestazioni rivolte al ministro Fornero, ma ancora più significativamente, a un vertice italo-tedesco dedicato al tema dell’“apprendistato”: da Sud è arrivato un messaggio molto chiaro di rifiuto di un workfare che vorrebbe costringere le vite ad una perpetua disponibilità a qualsiasi condizione, in cambio di un futuribile inserimento lavorativo, e si è affermata una richiesta di reddito universale e incondizionato, già del resto radicata in una lunga serie di lotte per la riappropriazione di luoghi e di servizi. Evidenziamo questo baricentro mediterraneo della geopolitica contemporanea delle lotte perché, sarà bene ribadirlo ancora una volta, affermare il carattere pienamente globale della crisi non significa affermarne un’omogeneità degli effetti e delle sue linee di sviluppo: esistono evidenti asimmetrie spaziali e temporali, sia dentro l’Europa, sia su scala intercontinentale. É fin troppo banale, ad esempio, sottolineare come la situazione in America Latina e le questioni che i movimenti devono affrontare sono molto differenti e in alcuni casi rovesciate rispetto al Nord America o all’Europa. E tuttavia, queste differenze compongono e alimentano una dimensione comune sul piano globale, senza comprendere la quale rischiamo l’illeggibilità politica dei quadri territoriali. É proprio in questo rapporto di tensione che lo “sciopero europeo” ci mostra come le lotte dei piigs abbiano in questa fase la possibilità di divenire motore di ricomposizione, a patto che non si chiudano nella trappola del particolarismo identitario e sappiano allargare il processo della lotta di classe verso sud e verso nord, o – per dirla in termini politici prima ancora che geografici – verso il Mediterraneo e verso l’Atlantico.

Grecia, Syriza in testa nei sondaggi. E Tsipras premier per il 33%

Autore: fabrizio salvatori
       
Syriza, il partito della sinistra radicale greca che alle ultime elezioni si è aggiudicato la seconda posizione rimane sempre in testa nei sondaggi con il 22,3% delle preferenze, mentre il partito conservatore Nea Dimokratia, che ha vinto le elezioni prendendosi il diritto di formare l’attuale coalizione di governo, segue con il 20,1%.
E' quanto risulta da un sondaggio di una Tv privata. Nelle preferenze seguono ad una lunga distanza il partito filo-nazista Chrysi Avgi' (Alba Dorata) con il 10,2%, il socialista Pasok con 7,5%, Greci indipendenti (destra) con il 6,5%, Sinistra Democratica (Dimar) con il 5% e per ultimo il Partito Comunista di Grecia (Kke) con il 4,6%.
Alla domanda su quale sarebbe il migliore primo ministro in questo momento per il Paese, il 44,5% degli intervistati ha risposto Samaras, contro il 33% che preferisce il leader di Syriza, Alexis Tsipras. Il 71,2% degli intervistati si e' detto contrario a elezioni anticipate perché‚ - a loro parere – non risolverebbero i problemi della Grecia, mentre il 61,6% pensa che il governo non concluderà l'intera legislatura.
Il sondaggio contiene risultati contraddittori: secondo il 73,9% degli intervistati, infatti, Syriza non e' ancora pronto a governare il Paese, mentre il 60% si e' dichiarato favorevole alla permanenza al potere dell'attuale coalizione governativa. Riguardo le misure di austerità approvate pochi giorni fa dal Parlamento, la stragrande maggioranza dei cittadini (83,3%) ritiene che non saranno le ultime mentre il 77,9% crede che l'economia del Paese non sarà stabilizzata nemmeno dopo queste misure. Significativo il fatto che, in base alla ricerca, secondo il 62,7% degli intervistati la Grecia deve rimanere ad ogni costo nella zona dell'euro, quando tale percentuale cinque mesi fa era dell'80,9%

Un milione di famiglie evade. Milioni di pensionati alla fame

- pubblico - 
121121beferadi Domenico Moro
A quanto pare, in Italia pagano le tasse i poveri e non i ricchi. Secondo Befera, direttore dell ’Agenzia delle entrate, ben un milione di famiglie dichiarano reddito zero, mentre oltre 4,3 milioni di dichiarazioni (il 20% del totale) risultano incoerenti, presentando uno scarto tra reddito
dichiarato e consumi effettivi. Le incoerenze sono maggiori per le imprese ed i lavoratori autonomi, che, al contrario di lavoratori dipendenti e pensionati, hanno
maggiori possibilità di sfuggire al fisco. Proprio sulle pensioni il bilancio sociale 2011 dell’Inps rivela un quadro penoso. La pensione media mensile è di 1.131 euro, che scende a 930 euro per le donne e a 920 euro nel Mezzogiorno.
Fra i pensionati, a fronte di un misero 2,9 per cento con pensioni sopra ai 3.000 euro, oltre la metà si posiziona sotto i mille euro. Il 35 per cento prende tra 500 e 1.000 euro e ben il 17 per cento sta sotto i 500 euro. Si tratta di un dato preoccupante, se consideriamo che, secondo l’Istat, la soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è di 1.011 euro (2011). La povertà assoluta, ovvero la difficoltà a pagarsi il necessario per vivere, per un single è tra i 785 euro mensili di una area metropolitana del Nord e i 590 euro di un piccolo comune del Sud. Non è, quindi, un caso se tra 2010 e 2011, la povertà relativa tra i ritirati dal lavoro, spesso anziani soli o in coppia, è aumentata dall’8,3 al 9,6 per cento, mentre quella assoluta è salita dal 4,5 al 5,5 per cento. Drammatica è la situazione del Mezzogiorno, dove gli anziani poveri oltre i 65 anni salgono in un anno dal 18,6 al 21 per cento. In questa situazione, la questione dell ’evasione fiscale, che vale 120 miliardi annui, si intreccia sia con l’equità fiscale sia con la possibilità di avere risorse sufficienti per sostenere pensioni e redditi bassi e pagare servizi sanitari e di assistenza per le famiglie di lavoratori ed in particolare per gli anziani. Per incitare i più ricchi a fare dichiarazioni dei redditi maggiormente coerenti con il proprio stile di vita, l’Agenzia delle entrate sta introducendo il redditest. Questo sarà imperniato su 100 indicatori di spesa suddivisi in 7 categorie, dall ’abitazione ai mezzi di trasporto, agli investimenti mobiliari, alle spese per il tempo libero, ecc. Da questi indicatori si ricaverà un reddito presunto che non dovrà discostarsi dal reddito dichiarato di oltre il 20%. Anche il nuovo redditometro, lo strumento utilizzato direttamente dal fisco, sarà fortemente incentrato sulle spese effettivamente sostenute dal contribuente. Tutte queste iniziative
sono valide ma presentano un punto debole: non sono accompagnate da una riforma del fisco, che rimoduli lapressione fiscale in modo progressivo rispetto al reddito. Anzi, vengono usate per far meglio accettare la stretta sociale in atto ed in particolare il forte inasprimento della pressione fiscale sui settori più poveri, dovuta all ’aumento dell’Iva e dell’Imu. Ad esempio, l’Imu sulla prima casa peserà anche su chi ha perso il lavoro o ha una pensione a livelli bassi o bassissimi. A Roma, in un quartiere non centrale, l’Imu per una prima casa di 100mq ammonta mediamente a 1.154, a Torino a 1.132 euro, a Napoli a 828 euro, ovvero l’equivalente di una e mezza o due delle mensilità delle pensioni più basse. Quanto al lavoro autonomo, giustamente si pone l’accento sulla sua alta irregolarità, ma non è azzardato dire che anche la tassazione sugli autonomi è, in non pochi casi, veramente eccessiva. Ad esempio, un contratto di collaborazione di pochi mesi come dipendente subisce una pressione fiscale sensibilmente maggiore rispetto ad un contratto come partita Iva, anche se il lavoro è lo stesso. L’evasione fiscale è un fenomeno complesso, che attraversa stratisociali molto diversi tra loro. Certamente è molto più difficile, ma anche socialmente più equo e maggiormente redditizio per il fisco ed il bilancio statale, andare a colpire le multinazionali e le finanziarie che giocano anche sui diversi regimi fiscali esistenti a livello internazionale.
Pubblico - 21.11.12

La Striscia brucia: ecco l'incendiario

- Ilmanifesto -
121119gazadi Manlio Dinucci
Jamal, un commerciante di Gaza, era fuori domenica mattina quando una potente testata israeliana a guida di precisione ha centrato la sua casa, sterminando la famiglia: nove persone tra cui quattro bambini di 2-6 anni. Tre generazioni spazzate via in un attimo. Oltre 5mila palestinesi sono stati uccisi in dieci anni dagli israeliani a Gaza, di cui 1.200 solo nel 2009, più altri 2mila in Cisgiordania. Dei 70mila rapiti, oltre 6mila, tra cui più di 400 bambini, sono ancora imprigionati. Un prezzo altissimo, considerando che la popolazione dei Territori palestinesi occupati è di 5,5 milioni.
Ma non si muore solo per gli attacchi militari nel ghetto di Gaza e in quello di Cisgiordania, circondato dal Muro di 750 km. Si muore ogni giorno di povertà, per mancanza di cibo, acqua potabile, medicine. L'alternativa è scomparire o resistere.
I palestinesi resistono, rivendicando il diritto a uno stato libero e sovrano che, secondo la decisione delle Nazioni unite, avrebbe dovuto nascere 64 anni fa accanto a quello israeliano. In termini militari, però, l'armamento palestinese equivale a quello di chi, inquadrato da un tiratore scelto nel mirino telescopico di un fucile di precisione, cerca di difendersi lanciandogli il razzo di un fuoco artificiale. Sulla scia di Washington, la Ue condanna invece «il lancio di razzi da Hamas e da altre fazioni, che hanno iniziato questa crisi». E il ministro Terzi, spacciando i razzi per missili, sottolinea che sono «i lanci di missili all'origine della crisi» e che «la limitazione della forza da parte di Israele deve poggiare sulla sicurezza assoluta che i lanci di missili non si ripetano». Sceneggiata che sarebbe grottesca se non fosse tragica. La nuova crisi, volutamente innescata da Tel Aviv con l'assassinio a Gaza del comandante militare di Hamas, rientra nella strategia dell'asse Nato-Israele. Mentre i governanti statunitensi ed europei recitano sulla scena internazionale il ruolo dei moderati che cercano una soluzione pacifica al conflitto, la Nato sostiene sempre più le forze militari israeliane. Non a caso l'attacco a Gaza è iniziato il 14 novembre, il giorno dopo che si è conclusa in Israele la grande esercitazione congiunta Austere Challenge 2012, con la partecipazione di 3.500 specialisti statunitensi della guerra. Contemporaneamente nei cieli della Sardegna si sono intensificate, secondo varie testimonianze, le esercitazioni cui partecipano cacciabombardieri israeliani che usano la base di Decimomannu anche come scalo tecnico. In Sardegna, spiega un pilota, disponiamo di un'area più grande dell'intero Israele. E tra poco l'aeronautica israeliana disporrà di 30 velivoli M-346 da addestramento avanzato, forniti da Alenia Aermacchi. Così le incursioni su Gaza saranno ancora più micidiali. Il tutto rientra nel potenziamento della macchina bellica Nato/Israele nell'area mediterranea. Dagli Usa stanno arrivando altre unità navali e aeree per le forze speciali, che opereranno da basi sia sulla sponda nord (soprattutto Sigonella) che su quella sud (in Libia e altri paesi). Mentre il Pentagono annuncia che occorrono 75mila uomini da inviare in Siria, formalmente per impadronirsi delle armi chimiche prima che cadano in mano a Hezbollah. L'incendio di Gaza si allarga, spinto dallo stesso Vento dell'Ovest.
Il Manifesto - 21.11.12
GAZA PHOENIX
 

giovedì 22 novembre 2012

Anticapitalismo, antimperialismo e questione nazionale

di Rodolfo Monacelli - sinistrainrete -

La genesi di quest’articolo deve molto al pensiero di Costanzo Preve che ringrazio per gli spunti, le riflessioni, i consigli e la stima. (r.m.)
La crisi dell’Eurozona e dell’Euro ha fatto tornare in voga una parola, «sovranità nazionale», dimenticata, se non rifiutata in toto da parte della sinistra italiana. Una prospettiva politica che va ben al di là della questione dell’Euro e della UE e su cui è bene ritornare sopra. A parere di chi scrive, infatti, la «questione nazionale» sarà un concetto ineludibile per ogni coerente politica e pratica anticapitalistica.
Questo perché, in un mondo sempre più dominato dalle oligarchie finanziarie e sovranazionali, difendere le identità culturali dei popoli, le sovranità politiche e monetarie degli stati sarà l’elemento che oggettivamente si porrà in contrasto con gli interessi del capitalismo internazionale e dei suoi strumenti (FMI, Banca Mondiale, UE, ecc). Come cercheremo di spiegare in questo articolo, una questione nazionale correttamente intesa non va però confusa in nessun modo con il nazionalismo ma è, anzi, la premessa per un vero e reale Internazionalismo, l’asse portante di una corretta politica antimperialistica come punto di raccordo per una reale liberazione sociale.
Purtroppo in Italia non è stata, però, ancora compresa dalle forze antisistema l’importanza di tale questione ed è, probabilmente, una delle cause dell’immobilismo politico e delle condizioni di sudditanza imperialistica in cui si trova il nostro Paese.
Prima di iniziare a parlare della questione nazionale sarà utile rispondere preventivamente alle obiezioni che ci verranno poste rispetto alle tesi che verranno esposte in questo articolo.
Chi contrasta con queste tesi ritiene, infatti, che l’idea di Nazione sia un’invenzione artificiale, il risultato della modernità capitalistica e che oggi, superato quel momento storico, non abbia più nessuna validità. A tali posizioni non vogliamo opporre una discussione sull’origine “culturale e non statuale” delle nazioni (che le lotte per l’indipendenza basca, irlandese, scozzese, ecc comunque avallerebbero), ma un principio ben più importante, lasciando però la parola a Costanzo Preve:
«La genesi è sempre ed in ogni caso particolare, la validità è universale, laddove naturalmente questa universalità sia logicamente costruita come momento di una verità reale. Gesù di Nazareth si mosse in un contesto storico ultraparticolare, oggi completamente tramontato, ma la validità del suo messaggio non è riducibile a questa genesi storica particolare, ma possiede una sua validità veritativa metastorica. Facciamo ancora l’esempio del Liberalismo, della Democrazia e del Socialismo. Storicamente, nella loro forma moderna, queste tre tradizioni hanno avuto una genesi storica particolare, rispettivamente borghese (il Liberalismo), piccolo-borghese (la Democrazia) ed operaia e proletaria (il Socialismo). Ebbene, questa genesi storica particolare in tutti e tre i casi trapassa in validità universale, non nella totalità delle loro componenti storiche, ma in quelle che la razionalità logica convalida e conferma. È esattamente questa la realtà dell’Identità Nazionale, statuale o etnica che ne sia stata la genesi particolare».[1]
Un’altra tesi (probabilmente politicamente la più seria ed importante) è quella secondo cui l’idea di nazione sarebbe stata lo strumento ideologico per la politica imperialistica degli stati colonialistici dell’800 e del ‘900. Questo è assolutamente vero, ma una lotta per la sovranità e la liberazione nazionale non ha nulla a che vedere con il Nazionalismo che, per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo, è stato piuttosto la «negazione assoluta» della realtà nazionale.
Il Nazionalismo colonialistico ottocentesco e novecentesco è, infatti, il più grande nemico dell’identità nazionale che «ha come sua prima caratteristica il riconoscimento dell’altro come DIFFERENTE e perciò UGUALE, che è cosa ben diversa, ed anzi opposta, dal considerarlo DIVERSO e perciò DISEGUALE».[2]

Questione nazionale, questione sociale e cultura di sinistra

La questione della sovranità nazionale, come anticipato nell’introduzione a quest’articolo, è stata posta nuovamente in rilievo a causa della crisi dell’Eurozona e dei diktat europei. Nonostante questo, però, salvo rari e sporadici casi, a sinistra la questione della sovranità e dell’indipendenza nazionale non viene ancora considerata come la battaglia fondamentale dei prossimi anni.
Sarebbe sbagliato ritenere questa mancata presa di posizione come un’ingenuità politica o un abbaglio. Tutto ciò deriva, piuttosto, da una questione culturale. Ha ragione, ancora una volta, Costanzo Preve a ritenere la sinistra come «il luogo culturale dello sradicamento», e perciò «il referente culturale privilegiato per l’attuale globalizzazione capitalistica», per l’americanizzazione forzata del pianeta e per l’europeismo senza Europa. È dunque perfettamente normale, per chi abbia come prospettiva politica quella di rafforzare il cosmopolitismo capitalistico (magari credendo in questo modo di fare la rivoluzione!), non comprendere l’importanza della questione nazionale.
L’obiezione più forte che viene da sinistra è quella secondo cui la nazione sarebbe una falsa unità interclassista, «un’identità borghese e capitalistica, mascherata e travestita, venduta ai proletari dagli apparati ideologici di stato per trasformare i proletari stessi in carne da macello per le guerre imperialistiche».[3]
Tale posizione è politicamente molto debole (e che nega, del resto, la stessa storia del comunismo storico novecentesco, dall’URSS alla Cina di Mao), ma è ormai senso comune da parte del vasto popolo della sinistra italiana. È doveroso, quindi, rispondere.
La lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale, come abbiamo anticipato, non è la negazione dell’Internazionalismo, ma ne è il suo presupposto. L’Internazionalismo prevede, infatti, un rapporto «fra nazioni differenti ed uguali» e non certo la negazione dell’identità nazionale, contrariamente a ciò che ritiene il luogocomunismo del ceto semicolto politicamente corretto di sinistra.
Liberazione nazionale e liberazione sociale dicevamo. Due elementi non in contrapposizione, ma assolutamente complementari. Senza l’elemento sociale, che prevede il conflitto (esterno ed interno), infatti, le istanze emancipatorie di una lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale rischierebbero di sfociare nella xenofobia, nel razzismo e nel nazionalismo. Così, quello che potrebbe essere uno strumento di liberazione dei popoli dall’oppressione capitalistica e dal mercato mondiale si trasformerebbe in un mezzo utilizzato dai dominanti per integrare la nazione all’interno degli stessi meccanismi di oppressione e discriminazione.
È necessario, quindi, integrare e far interagire tra di essi i due piani (la questione nazionale e la questione sociale). Per far questo è, però, al contempo, importante ridefinire il concetto di Classe che, proprio grazie alla questione nazionale, sappia adattarsi al mutamento delle realtà sociali.

Temperare" il capitalismo, la più vecchia delle illusioni

di L.Vasapollo- J. Arriola -R.Martufi - sinistrainrete -

Una divaricazione sempre più evidente sulle vie d'uscita dalla crisi del capitalismo. Una, di rottura, viene da esperienze come l'Ecuador, l'altra, all'insegna della compatibilità, è riemersa al Social Forum di Firenze. Il contributo di tre economisti marxisti che indicano come necessaria la “rottura”, anche in Europa

Nei primi giorni di novembre abbiamo verificato la divaricazione strategica (oltrechè pratica e teorica) sulle soluzioni e le alternative alla crisi delle principali economie capitaliste. Mentre a Milano il presidente dell'Ecuador Correa riaffermava che il debito non va pagato, che occorre procedere alle nazionalizzazioni e a forme di integrazione tra i vari paesi che rompano i vincoli imposti dalle istituzioni finanziarie del capitale, al Social Forum di Firenze, ancora una volta, una serie di economisti riformisti lanciano attraverso la Rete europea degli economisti progressisti proposte in chiave tardo-keynesiana come cura possibile della crisi sistemica del capitalismo in atto. Dimostrando così ancora una volta o di essere in mala fede, e quindi non meriterebbero in tal senso alcuna risposta, o di essere speranzosi in una futura uscita dalla crisi in chiave riformista (ma di quale riformismo sono figli?), ignorando che non ci sono più i presupposti economici, politici e sociali per una crescita equilibrata e con capacità redistributive attraverso i vecchi e non più proponibili modelli di Stato sociale; improponibili sia per le dinamiche del conflitto capitale-lavoro che vedono avanzare sempre più un conflitto di classe dall’alto, sia poiché si tratta di politiche economiche incompatibili con la strutturazione stessa della competizione globale interimperialistica.


Anche questa volta associazioni, sindacalisti ed economisti hanno discusso a tavolino, fuori dai problemi di vita reali e quotidiani reali del mondo dei lavoratori in carne ed ossa , contro le politiche della Troika per esaminare le possibilità alternative alla crisi, o meglio per dare indicazione di come uscire “a sinistra” dalla crisi, come si trattasse di un bel gioco a Risiko per i dopocena della sinistra salottiera.

Andiamo per ordine.

Ancora una volta, ma la mamma del cretino è sempre incinta!, nelle interpretazioni sull’attuale crisi mondiale, assistiamo ad una polifonia diretta dalla evoluzione apparente e specifica degli avvenimenti; di volta in volta, la crisi internazionale dei paesi centrali è stata spiegata come una crisi finanziaria globale, una crisi di debito, una crisi fiscale e di passaggio, una conseguenza dei salari eccessivi (crisi della competitività) o dei salari troppo bassi (crisi di domanda).

Questa ultima interpretazione ha un certo seguito tra le organizzazioni che si considerano “di sinistra”, le quali propongono come alternativa all’aggiustamento fiscale e dei salari, un aggiustamento fiscale più lento che permetterebbe di generare un volume di investimento pubblico che si trasformerebbe in motore della crescita, e grazie alla crescita, si potrebbe spalmare nel tempo “l’aggiustamento” delle altri componenti della crisi: i prezzi, le finanze, il credito, il commercio estero.

In base a questa visione ( proprio di una fantascientifica visione si tratta), puntare su un aggiustamento fiscale e sulla riduzione drastica dei salari a breve termine, porterebbe solo alla contrazione della domanda, all’arresto della crescita del PIL e all’aumento del peso del debito sul prodotto.

Il problema di questa interpretazione è che parte da una analisi sbagliata, molto spesso volutamente sbagliata,perché la crisi non è affatto una crisi della domanda come pensano gli economisti di impostazione keynesiana e tanti che dicono di richiamarsi all’analisi marxista. La domanda mondiale continua a crescere anche oggi, ed è cresciuta anche nei momenti più gravi della crisi (2008-2009). In termini correnti, il PIL mondiale si è ridotto solo nel 2009, quando fece registrare una caduta di 3,5 bilioni di dollari rispetto all’anno precedente, dato che dice molto della profondità della crisi. Però, nonostante questa caduta, l’investimento mondiale è rimasto sui livelli abituali (21,7% del PIL) e ha continuato ad aumentare nel 2010 e nel 2011 (22,9% e 23,6%) di fronte ad una media del 22,3% nei dieci anni precedenti allo scoppio della crisi (1998-2007). Di conseguenza, nel 2010 il PIL mondiale è cresciuto di 5,2 bilioni di dollari e di 7,1 nel 2011: dove sta quindi la crisi della domanda?

Questo vuol dire che i capitalisti su scala mondiale non hanno identificato un problema keynesiano di “domanda effettiva”, di realizzazione del valore (di fatto, in parità di potere d’acquisto, anche nel 2009 il PIL mondiale è aumentato di 68 mila milioni di dollari) e hanno continuato ad investire, come sempre, nel capitale – ovviamente cambiando sostanzialmente la geografia dell’investimento, sia da un punto spaziale che settoriale (Dati dell’FMI: World Economic Outlook database 09/2011) .

2013:Under 21 EUROPEAN FOOTBALL CHAMPIONSHIP TO BEL HELD IN ISRAEL !
Is that a joke?
to spread, please!


mercoledì 21 novembre 2012

Israele contro Gaza: una “cupola di ferro” per difendere un popolo e una “colonna di nuvola” per distruggerne un altro

Israele sta usando i social media per spiegare la “moralità” della guerra che sta combattendo nella Striscia di Gaza

20 novembre 2012 - Rossana De Simone - peacelink -
Israel-Gaza strikes. Anonymous
Dopo sei giorni dall’inizio dell’operazione militare “colonna di nuvola”, a cui Israele ha voluto offrire una immagine biblica con particolare riferimento all’Esodo, Raji Sourani, Direttore del centro palestinese per i diritti umani con sede a Gaza, ha dichiarato: “Con l'Operazione Piombo Fuso abbiamo creduto che il mondo avrebbe risposto. Doveva. Ma ancora una volta, il diritto internazionale è stato ignorato”.
Secondo il direttore del quotidiano arabo"al Quds al Arabi". il conflitto in corso nella striscia di Gaza "sta provocando più paura tra i capi dello stato arabi che tra i cittadini israeliani". In un editoriale pubblicato oggi spiega che "il panico a cui stiamo assistendo non riguarda solo i coloni israeliani per i razzi lanciati da Gaza contro le loro città o Tel Aviv, ma pervade ora i cuori di tutti i governanti arabi senza eccezione, specialmente nei paesi che sono sotto pressione per le manifestazioni di protesta e per le possibili rivoluzioni, oltre che per i rapporti con l'occidente che custodisce i loro miliardi". Tuttavia, vi è stato un riavvicinamento tra il leader egiziano e quello turco a sostegno di Hamas, per cercare un cessate il fuoco che non sia troppo dannoso per l'organizzazione palestinese. Anche il passaggio di 500 attivisti egiziani con aiuti umanitari dall’Egitto verso Gaza sarebbe stato impensabile nel 2006 o nel 2008 con Mubarak, tanto che Debka file (sito israeliano specializzato in notizie di Intelligence), ha dovuto rilevare che le contrattazioni per un cessate il fuoco, si sono chiuse con un nulla di fatto quando Israele, sostenuta dagli Stati Uniti, ha chiesto l’esclusione di Hamas dall’accordo che avrebbe visto insieme Stati Uniti, Egitto, Turchia e Israele. Fra l’altro, Erdogan, ha chiesto che fosse presente anche il presidente russo Vladimir Putin. http://www.debka.com/article/22539/Israel-launches-fresh-major-air-sea-attack-in-Gaza-after-Hamas-spurns-ceasefire-
Particolare invece la posizione del Qatar, l’agenzia di stampa iraniana Fars ha pubblicato un articolo che mette in relazione la visita a Gaza dell’emiro nell’ottobre scorso, con la capacità di Israele di individuare edifici e residenze di Hamas http://english.farsnews.com/newstext.php?nn=9107119940 Un caso di spionaggio oppure è sincera la chiamata dell’emiro alla resistenza del popolo di Gaza contro Israele? http://www.presstv.ir/detail/2012/11/19/273197/qatar-calls-for-resistance-against-israel/
Vi è almeno una differenza rispetto all’operazione Piombo fuso del 2008 in cui morirono 1436 persone, questa volta Israele non conduce solo una guerra brutale come suo solito, e certamente il primo ministro israeliano "Bibi" Netanyahu non può non usare i suoi “giocattoli” (ma il sistema antimissile Iron Dome non sostituisce la diplomazia), ma una vera e propria guerra psicologica e dell’informazione. Nell’articolo “Israel pushes for “no war, no peace” state with Gaza”, si legge che gli attacchi devono colpire la resistenza e la volontà del popolo palestinese col fine di isolare Gaza. In questo contesto, continua l’articolo, la politica di assassinare i leader palestinesi compreso Ahmed Al Djaabari, può essere capito. Israele cerca di sfruttare i buoni rapporti fra l'Egitto, che è sotto il controllo dei Fratelli Musulmani, e Hamas. Il suo obiettivo è affidare all'Egitto il compito di convincere Hamas e altri movimenti di resistenza a mantenere una tregua a lungo termine con l'occupazione. Lo Stato ebraico vuole ostacolare il tentativo palestinese di ottenere l'adesione come Stato alle Nazioni Unite. L’articolo finisce con una nota: i timori esposti in questo articolo non negano il fatto che i movimenti di resistenza palestinese stiano conducendo una battaglia onorevole e unica nel suo genere. La storia potrà registrare che Israele non sopravviverà dopo la seconda battaglia di Gaza. Abbiamo esposto questi timori per spingere i leader palestinesi e arabi a riflettere attentamente sulle politiche israeliane. http://www.echoroukonline.com/ara/articles/148022.html?print&output_type=txt
L’operazione “colonna di nuvola” o di “difesa” è stata lanciata da Israele su Twitter e YouTube attraverso il video dell’uccisione del capo militare di Hamas Ahmed al-Jabari “il 14 novembre 2012 l'IDF ha mirato Ahmed Jabri, il capo dell’ala militare di Hamas nella Striscia di Gaza.
Jabri era un operativo di Hamas che ha prestato servizio col grado superiore nel comando di Hamas ed è stato direttamente responsabile dell'esecuzione di attacchi terroristici contro Israele in passato”.
http://www.huffingtonpost.com/2012/11/14/israel-defense-forces-twitter-youtube-ahmad-jabari_n_2130927.html

DEADLINE (the film)
"That's the press, baby"
 (italian writer and  mathematician having his article cancelled from that newspaper because "…Israeli ten times worse than the nazis"
 

martedì 20 novembre 2012



Avram Noam Chomsky  (* 7. Dezember 1928 in Philadelphia, Pennsylvania, USA) ist Professor für Linguistik am Massachusetts Institute of Technology (MIT), einer der weltweit bekanntesten linken Intellektuellen und seit den 1960er Jahren einer der prominentesten Kritiker verschiedener Aspekte der US-amerikanischen Politik.

The incursion and bombardment of Gaza is not about destroying Hamas. It is not about stopping rocket fire into Israel, it is not about achieving peace.

The Israeli decision to rain death and destruction on Gaza, to use lethal weapons of the modern battlefield on a largely defenseless civilian population, is the final phase in a decades-long campaign to ethnically-cleanse Palestinians.

Israel uses sophisticated attack jets and naval vessels to bomb densely-crowded refugee camps, schools, apartment blocks, mosques, and slums to attack a population that has no air force, no air defense, no navy, no heavy weapons, no artillery units, no mechanized armor, no command in control, no army… and calls it a war. It is not a war, it is murder.

When Israelis in the occupied territories now claim that they have to defend themselves, they are defending themselves in the sense that any military occupier has to defend itself against the population they are crushing. You can't defend yourself when you're militarily occupying someone else's land. That's not defense. Call it what you like, it's not defense.

 Noam Chomsky

NAPOLITANO PARROT
from the Colony Italia
Israel have the right of self-defence
"as Germany used to say to the "terrorists of Warsaw ghetto"
 

lunedì 19 novembre 2012

Israele è lo "stato" più Razzista e Terrorista del Pianeta !!

Crisi, i nuovi poveri sono i cinquantenni in giacca e cravatta che dormono in aeroporto

- controlacrisi -
Chi sono i nuovi poveri di oggi? raggiungono l'aeroporto in serata, dopo il lavoro con il loro trolley alla mano, si lavano nei bagni e lì rimangono per la notte fino alla mattina seguente, quando si prepararano, rimettono le loro cose in valigia, salgono su un autobus e si recano a lavoro.

Questa è la vita degli uomini di mezza età che a seguito di una separazione perdono la casa di famiglia e, anche se hanno ancora un lavoro non hanno la possibilità di pagare un altro affitto.

A descrivere questa nuova sfaccettatura della povertà italiana è Alberto Bruno, Commissario provinciale di Milano della Croce Rossa. "Nel 2011 sono state 250mila quelle assistite continuativamente - ma per quest'anno si stima un notevole incremento fornendo loro aiuti alimentari ma non solo. Negli ultimi 2-3 anni - spiega il Commissario Straordinario della Cri, Francesco Rocca - registriamo un forte aumento dei bisogni da parte delle famiglie, che chiedono oltre a beni primari come il cibo, aiuto nel pagamento delle bollette, o per l'acquisto degli occhiali o dei libri per i figli".
"Solo nell'area metropolitana di Milano - dichiara Bruno -distribuiamo aiuti alimentari a 50mila nuclei familiari in stato indigenza, di povertà conclamata e certificata, con un aumento esponenziale di anno in anno. Ma il nostro lavoro rappresenta solo un terzo del fabbisogno, coperto da altre realtà associative, facendo salire dunque a 150mila le famiglie in difficolta' solo nella nostra zona".

"Il welfare - spiega Bruno - è ormai un termine vuoto e una chimera nel nostro Paese, e la crisi colpisce anche il sistema di solidarieta' dei cittadini, così come dell'industria".

Un esempio per tutti: "i supermercati e le catene della grande distribuzione oggi non hanno più eccedenze alimentari, i cibi restano sugli scaffali fino a poco prima della data di scadenza, e le associazioni non possono piu' contare sulle donazioni di quel surplus di cibo da distribuire quotidianamente agli indigenti. Se prima avevamo due uova per due persone, oggi abbiamo un solo uovo per una frittata da dividere in due".
"Le nuove povertà - afferma Rocca - sono una delle principali nuove sfide che stiamo affrontando e dovremo affrontare sempre più nel prossimo futuro. La geografia della povertà, ridisegnata dalla crisi economica è in continuo cambiamento e purtroppo con dati statistici destinati ad aumentare sempre di più. Gli effetti -aggiunge - si fanno sentire infatti sulla classe media italiana che si impoverisce sempre più, ma anche sull'esercito degli 'invisibili', gli immigrati che, magari perdendo il lavoro, faticano ancora di piu' ad integrarsi, e i poverissimi che vengono ancora più marginalizzati. Noi dobbiamo ripartire da lì, da quella zona scura, scurissima, dove migliaia di persone sono costrette a vivere".

"I nuovi poveri devono rappresentare la nostra priorità - aggiunge il Commissario straordinario della Cri - e per loro dobbiamo ridisegnare i nostri interventi, affinche' essi possano recuperare una dimensione di dignita' e di umanita' che le difficolta' economiche e l'emarginazione sociale tendono ad annullare. Anche in Spagna - riferisce - la Croce Rossa ha avviato una campagna, battezzata "Ora più che mai", per far fronte a quella che ormai è più che un'emergenza poverta'".

Quanto alle forze e alle risorse da destinare alla solidarieta': "Oltre al problema economico, amplificato da un welfare carente - sostiene Rocca - la crisi ha toccato in generale anche il volontariato, perche' il precariato diffuso e le difficolta' lavorative si riflettono sulla gestione del tempo degli italiani da dedicare ad attivita' benefiche. Noi siamo abbastanza fortunati - conclude - perché abbiamo circa 25mila giovani e registriamo un aumento del numero di pensionati volontari".

Fiscal cliff, l’economia Usa sull’orlo del burrone

di Nicola Melloni - sbilanciamoci -

Le cause e le conseguenze del buco di bilancio degli Stati Uniti e delle politiche che si preparano ad affrontarlo. Se l’austerità sbarca in America, la recessione diventa inevitabile

L’inizio del secondo mandato di Obama non sarà certo dei più facili. I Democratici hanno mantenuto il controllo del Senato ma i Repubblicani sono ancora in maggioranza al Congresso e questo vuol dire che, una volta di più, che il Presidente dovrà trovare un compromesso con il Great Old Party per far passare i suoi provvedimenti. Ed il primo test sarà il tanto temuto fiscal cliff.
La politica e il debito in America
Vediamo l’antefatto: un anno e mezzo fa, nell’estate del 2011, il debito americano veniva affossato da Standard&Poor’s che toglieva la tripla A agli Stati Uniti. In effetti i conti macro-economici sembravano, almeno in parte, fuori controllo ed erano diventati terreno di scontro politico. Il problema è che in America il debito ha un tetto determinato per legge e solo una votazione di Congresso e Senato può aumentare lo stock di debito esistente, cosa ben diversa dalla situazione europea (o giapponese, tanto per dire) dove il debito, come ben sappiamo, può crescere ad libitum. Nel passato i legislatori americani avevano alzato il tetto massimo senza particolari problemi, ma durante il primo term di Obama le cose furono ben diverse, con i Repubblicani decisi alla guerra totale contro un presidente che, ai loro occhi, cercava di trasformare l’America in una socialdemocrazia europea[i], soprattutto alla luce del piano sanitario nazionale che era divenuto il provvedimento simbolo della politica di Obama.
E dunque i Repubblicani, travolti dal successo dei Tea Party che avevano dominato le mid-term elections, si fecero portavoci di una intransigenza fiscale mai vista prima di allora. Anche perché negli ultimi 30 anni era proprio stato il partito dei Reagan e dei Bush a dimostrare indisciplina fiscale, soprattutto con i tagli alle tasse, mirati soprattutto alle classi più agiate, accompagnati da una spesa pubblica in continua crescita, soprattutto per guerre (Bush junior) ed armamenti (Reagan). Mentre il debito di Obama era invece frutto di una situazione contingente, la crisi che aveva messo in moto tutti gli ammortizzatori sociali del caso a fronte di una ovvia frenata nelle entrate dovuta alla recessione.
Il fiscal cliff e le sue conseguenze
La situazione nell’estate del 2011 era di stallo. Entrambi gli schieramenti riconoscevano l’importanza di ridurre, almeno in termini relativi, il debito, ma le strade che volevano seguire erano opposte. Dalla parte democratica si volevano cancellare i Bush tax cuts, cioè le esenzioni per i più ricchi, da parte Repubblicana, invece, si chiedevano sostanziali tagli nella spesa sociale. Pressati dalla necessità di votare, in ogni caso, un innalzamento del tetto del debito, pena l’impossibilità per il governo federale di pagare i propri debiti, i contendenti raggiunsero una sorta di accordo di mutua distruzione. A cominciare dal Gennaio 2013 sarebbero entrati in vigore sia i tagli che le tasse maggiori – il tanto temuto burrone fiscale.
Un recente studio di Bank of America – Merrill Lynch quantifica il fiscal cliff come segue:

Fonte: The Cliff, the Economy and Capital Markets, p.7. www.washingtonpost.com
Ovviamente una manovra di questo genere avrebbe effetti devastanti sull’economia americana, che entrerebbe rapidamente in recessione, e, di conseguenza, su quella mondiale. Le stime dell’effetto cumulativo variano tra 600 e 800 miliardi, con un impatto sul PIL fino al 6% ed una recessione prevista nell’ordine dell’1%.
Nonostante il fiscal cliff sia stato fondamentalmente assente dalla campagna elettorale per le presidenziali americane, la preoccupazione tra gli investitori è salita esponenzialmente negli ultimi mesi, superando addirittura la crisi europea. Molte imprese, infatti, vedranno tagliati i fondi governativi che hanno ricevuto in questi anni. Sanità e difesa saranno i settori più colpiti (quasi il 75% dei tagli saranno rivolti a queste industrie) con un calo diretto di quasi il 10% delle entrate[ii]. Altri settori cruciali, come l’energia e soprattutto l’educazione (con oltre 180 mila bambini che rischiano di perdere l’accesso a programmi come Head Start e Child Care Assistance) soffriranno per i tagli.
Anche lavoratori e consumatori saranno colpiti dal fiscal cliff. In particolare espirerà l’estensione dell’assicurazione per i disoccupati, misura particolarmente penalizzante in una America dove la disoccupazione è ancora quasi all’8% (ed il 40% di questa è di lungo periodo). E le tasse si alzeranno non solo per i ricchi ma anche per la middle class che in America è ormai in continua riduzione. L’incremento fiscale colpirà in assoluto più i ricchi che i poveri – una crescita del 5.8% contro il 3.7%. Ma le tasche dei poveri saranno molto più leggere: il reddito per il 20% più povero si ridurrà del 2% mentre per il 40% più benestante il reddito disponibile calerà di solo lo 0.1%[iii]. Molto semplicemente i risparmi governativi si tradurranno in un minor reddito disponibile per i lavoratori più poveri, affossando l’economia reale.

TEL-AVIV
Project for a due monument
THE CIVILISED WORLD TO THE HEROES OF THE ISRAELI AIR FORCE

domenica 18 novembre 2012

Anonymus si schiera con Gaza.

Anonymous, infatti, ha lanciato una campagna, denominata #OpIsrael, che ha attaccato circa 700 siti istituzionali israeliani in segno di protesta contro la nuova offensiva dell'esercito di Tel Aviv.
L'attacco più eclatante è stato al sito del Ministero degli Esteri il cui database è stato cancellato dall'organizzazione pirata. Oltre a questo sono stati attaccati anche il sito di Kadima, il partito centrista che fa parte della coalizione di governo guidata da Netanyahu, quello della Banca di Gerusalemme e della città di Tel Aviv.
Molti di questi siti sono semplicemente inaccessibili mentre alcuni riportano delle immagini e dei messaggi a favore dei palestinesi. Uno di questi, ad esempio, riportava il messaggio: "Questo attacco è in risposta all'Ingiustizia perpetrata contro il popolo palestinese".
Anonymous, inoltre, sta cercando di dare supporto, come può, alla popolazione palestinese. Sul proprio account Twitter, infatti, l'organizzazione ha messo a disposizione il "Gaza Care Package", una sorta di pacchetto di salvataggio, che contiene informazioni in arabo e inglese in caso di caduta della connessione internet. Il pacchetto contiente anche informazioni su come evadere la sorveglianza dell'esercito israeliano ed istruzioni di primo soccorso.


Read more: http://it.ibtimes.com/articles/38490/20121117/israele-palestina-anonymous-gaza.htm#ixzz2CbG8zWQE

La fame sta aumentando a Washington

- oscarb1 -


 

Questo il titolo di un'intervista fatta a Lynn Brantley che per 32 anni ha lavorato nella Capitale dando da mangiare a a giovani e vecchi che non avevano e non hanno mezzi di sostentamento. L'intervista e' apparsa sul Washington Post. Quella di Lynn Brantley e' una tipica storia americana. Nel 1980 ha creato la Capital Area Food Bank dopo che il governo federale aveva tagliato i food stamps, corrispondenti alle carte annonarie della seconda guerra mondiale in Italia.

Quando creo' questa iniziativa umanitaria aveva con se' due volontari che spalavano il cibo che i camion portavano con i resti delle grandi cucine degli alberghi o la verdura ritirata dagli scaffali dei supermercati.

Oggi la Capital Area Food Bank e' ospitata in una struttura di 123mila piedi quadrati vicino alla Catholic University e conta 123 dipendenti.

Quello che colpisce nell'intervista fatta dal Post e' la dichiarazione di questa donna di settanta anni che ha deciso di lasciare per trasferirsi in una comunita' quacchera nella cittadina di Lewis, Delaware.

Alla vigilia del Thanksgiving Day che sara' per tutti gli americani un'occasione di grandi mangiate innaffiate da giganti bevute, quando il giorno dopo i piu' coraggiosi saliranno sulle pesapersone constatando di avere messo su un paio di chili, bene: allora nessuno pensera' minimamente che nella Capitale degli Stati Uniti ci sono migliaia di bambini che la sera siedono mettendosi le mani in bocca per tappare i morsi della fame che li tormenta perche' i genitori, la mamma single o la nonna non hanno soldi per preparare la cena.

"Oggi, dice Lynn Brantley, la situazione e' almeno dieci volte peggiore di quando ho cominciato piu' di trenta anni fa. La crisi economica ha aggravato e aumentato il numero di coloro che non sanno come sopravvivere. Si tratta in gran parte di persone della middle class che hanno perduto il lavoro, vivono di carita', non hanno un presente ne' un futuro.

Capital Area Food Bank vive grazie ai camion di cibo che le organizzazioni di diversa fede religiosa, le chiese, le associazioni di volontariato, le catene di supermercati inviano alla centrale che poi distribuisce capillarmente.

Una delle tante contraddizioni di questa America in cui il numero degli obesi e' pari al 30% della popolazione di 311milioni di abitanti.

Ricordiamo una stroria che ci e' capitata alcuni anni fa quando con altre quattromila persone partecipavamo ad un mega gala. Notammo che alcuni camerieri rierntravano nelle cucine con grandi vassoi di carne e contorni che non erano stati toccati in quanto i clienti gia' erano stati serviti.

Facemmo cenno ad un capo cameriere e gli chiedemmo se quel cibo sarebbe stato distribuito ai senza casa. Si mise a ridere e ci disse: "Non posssiamo. Se qualcuno dichiarasse che si e' sentito male, potrebbe farci causa."

Siamo convinti che oggi quei vassoi trovano la strada dell'organizzazione creata tanti anni fa da Lynn Brantley.
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