Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 15 settembre 2012

La Troika ai Greci: "Lavorate 13 ore"


di Giovanni Del Re - rifondazione -
«Sconcertante». La definizione usata da alcuni negoziatori greci nei confronti delle richieste dei rappresentanti della cosiddetta troika ( i tedeschi - guarda caso - Matthias Mors per la Commissione Europea e Klaus Masuch per la Bce, più il danese Poul Thomsen per il Fmi) non poteva essere più plastica. Non a caso, al termine di due ore di colloquio con i tre, il ministro ellenico del lavoro Yannis Vroutsis non ha voluto rilasciare dichiarazioni, sfilando scuro in volto di fronte ai cronisti. In effetti, stando a indiscrezioni rilanciate ieri mattina dalla stampa greca, si sono materializzate le indiscrezioni già filtrate alcuni giorni fa (anzitutto sul Guardian britannico), soprattutto sul fronte del mercato del lavoro.
E cioè la ricetta ultraliberista, all'insegna del padre del mercato senza freni Friedrich Hayek, che sembra voler cominciare in Grecia un esperimento per molti allarmante: la rottura di quelle che sono regole consolidate (sia pure con eccezioni) in tutte le democrazie europee, compreso nelle economie virtuose e competitive del Nord Europa, come Germania, Olanda o Finlandia: la settimana lavorativa di cinque giorni, e limiti chiari all'orario di lavoro.
In una lettera della troika rivelata dal Guardian, si trova scritta, in effetti, senza mezzi termini, all’insegna dell’«aumento della flessibilità del mercato del lavoro», questa ricetta: «aumentare il numero massimo di giorni di lavoro a sei settimanali per tutti i settori». Il sabato lavorativo dovrebbe diventare, insomma, la regola - almeno in Grecia. Non basta. Secondo quanto riferito dalla stampa greca, si sono materializzate anche le indiscrezioni che volevano una richiesta di allungare l’orario di lavoro, ad almeno 13 ore al giorno (se lo moltiplichiamo per sei giorni lavorativi arriviamo a una settimana di 78 ore lavorative, praticamente il doppio della settimana standard in tutta Europa). Ed ecco infatti le ricette nel documento della troika: «aumentare la flessibilità degli orari di lavoro; fissare il tempo di riposo minimo a 11 ore; scollegare le ore di lavoro dei dipendenti dagli orari di apertura al pubblica; eliminare restrizioni sul tempo minimo/massimo tra i turni del mattino e del pomeriggio». Tutto questo, naturalmente, secondo la troika per rilanciare la competitività ellenica e il mercato del lavoro. «La disoccupazione è troppo elevata - scrive la lettera -e sono necessarie politiche per impedire che essa divenga strutturale».
Richieste che si aggiungono ad altre drastiche, come ad esempio quella di ridurre anche le pensioni minime, ulteriori licenziamenti di pubblici impiegati e decurtazioni agli stipendi (in molti casi, soprattutto nel pubblico, il calo è stato fino al 40%). Se Atene sperava di impressionare la troika con la sua proposta di austerity di addirittura 17 miliardi di euro, contro gli 11,5 miliardi richiesti, ha drammaticamente fallito. Se poi l’“esperimento” all’insegna di Hayek sul corpo vivo della Grecia funzionerà, o invece ucciderà il paziente, resta ancora tutto da vedere. Come resta da vedere se la troika cercherà di applicare agli altri paesi in difficoltà la "ricetta" greca che spazza via le conquiste dell'economia sociale di mercato.

da L'Inkiesta.it

Portogallo. L'allievo prediletto.

di Goffredo Adinolfi - sbilanciamoci -

Portogallo, un anno con la troika -

 
Crisi del debito, intervento europeo, cambio di governo, protettorato tedesco sulla politica economica. Viaggio in un anno disastri per l'economia e la politica di Lisbona, quasi un paese modello per le politiche di austerità imposte della'Europa
Lo tsunami della crisi dei debiti sovrani si abbatte sul Portogallo a partire dall’ultimo trimestre del 2010 per raggiungere il suo apice nel marzo del 2011. Nel volgere di pochi giorni il governo cade, il parlamento è sciolto e, con un annuncio a sorpresa, il primo ministro dimissionario José Socrates, centrosinistra, dichiara lo stato di insolvenza e chiede l’intervento esterno della Troika – Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Unione Europea.
Questo significa che il negoziato per la concessione del prestito con la Troika si svolge al di fuori delle più elementari regole del gioco democratico. Né il vecchio parlamento, né il nuovo possono pronunciarsi su di un patto, il Memorandum, concordato tra un primo ministro dimissionario – che secondo la lettera delle costituzione avrebbe dovuto limitarsi al disbrigo dell’ordinaria amministrazione – dirigenti di partito e burocrati.
Dato il contesto in cui si è svolta la campagna elettorale, aprile-giugno 2011, la destra ha gioco facile a vincere anche se, in realtà, la vittoria è meno ampia di quanto ci si sarebbe potuti immaginare. Il Partido Social Democratico (Psd) governa ora in coalizione con l’altro partito di destra, il Centro Democratico Social (Cds-Pp) e ha una maggioranza parlamentare sicura.
Il prestito concesso dalla Troika è di 78 miliardi di euro, di cui 12 da convogliare al settore bancario e un’altra trentina dovrebbero servire allo stato per garantire i crediti emessi dalle banche; poi ci sono gli interessi che si dovranno pagare sul prestito: 5% per le tranches in arrivo dall’Fmi e 4% per il Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria.
Le politiche del governo si sono fin qui concentrate, sulla base del memorandum, sui tagli di spesa, sull’aumento delle entrate fiscali e su un ampio piano di privatizzazioni. Sul primo versante, i settori più colpiti riguardano welfare state, trasporto pubblico e stipendi pubblici. Questi ultimi sono stati ridotti, a seconda degli scaloni, di un 20% circa attraverso la cancellazione di tredicesime e quattordicesime – un provvedimento recentemente revocato dalla Corte costituzionale – a cui occorre aggiungere il 10% di taglio sui salari già effettuato dal precedente governo. Sul piano delle entrate fiscali la principale misura adottata è stata quella di aumentare, significativamente, le aliquote dell’Iva, contribuendo a ridurre il potere di acquisto di stipendi pubblici e privati e, quindi, a deprimere il consumo interno.

L'Islam e gli esportatori di democrazia

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Da decenni l'Occidente esporta democrazia nel Medio Oriente. Lo fa con i bombardamenti, con l'occupazione militare, con presidi, basi, portaerei. Lo fa sempre (chi lo può negare?) a fin di bene. E' per una questione di civiltà. E' nel nostro DNA civilizzare il mondo, dallo sterminio degli indiani d'America, al genocidio degli indios, alla caccia grossa agli aborigeni d'Australia, alla colonizzazione dell'Africa, oggi lasciata in eredità dagli Stati alle multinazionali. Immensi bagni di sangue per affermare la superiorità morale e religiosa degli europei, ma soprattutto quella economica.
Il film che insulta l'Islam e Maometto non è la causa dell'incendio che dilaga nei Paesi musulmani, è solo l'ennesima muleta rossa sventolata in faccia a chi non tollera più ingerenze da parte dell'Occidente. Forse si tratta di un salto, di un punto di non ritorno, di un "tipping point" per una situazione diventata insostenibile o forse no, ma le violenze si ripeteranno ancora e ancora fino a quando Stati Uniti e Europa non avranno levato le tende. L'Iraq è stato devastato da una guerra dichiarata dagli Stati Uniti a causa di "armi di distruzione di massa" inesistenti. Qualcuno ha chiesto scusa agli iracheni? Qualcuno ha processato Bush per crimini contro l'umanità? Non mi risulta. L'Afghanistan è occupato dalle forze della Nato, Italia inclusa, senza nessuna ragione. Non vi sono prove del coinvolgimento del governo afgano nell'attacco alle Torri Gemelle. L'Afghanistan era uno Stato sovrano a cui è stata dichiarata una guerra. Vi sono stati decine di migliaia di morti civili sotto le bombe dei droni. Qualcuno ha chiesto scusa agli afgani? La "No fly zone" per gli aerei libici è stata trasformata in una "Yes fly zone" per i bombardieri americani, francesi, inglesi e italiani. Solo pochi mesi prima Gheddafi, ricevuto con tutti gli onori al Quirinale e a Palazzo Chigi, aveva sottoscritto un solenne trattato di pace con l'Italia. Ora la Siria, dove si affrontano le spietate forze governative (e probabilmente lo sono), alleate, tollerate e giustificate per un quarto di secolo dall'Occidente, e i cosiddetti ribelli armati dai Paesi del Golfo con il sostegno di Al Qaeda e delle intelligence occidentali. Alla destabilizzazione completa del Medio Oriente mancano ancora l'intervento della Turchia nel teatro di guerra e un attacco all'Iran. Le primavere arabe volgono all'inverno. Forse, non ci sono mai state.

Nuovi immaginari: «La città inedita»

Gianluca Carmosino - comuneinfo -
«La decrescita non è un’alternativa ma una matrice di alternative», per questo non ha dogmi «e spero non li abbia mai». Serge Latouche è piuttosto chiaro nel suo nuovo libro «Per un’abbondanza frugale» (Bollati Boringhieri): l’obiettivo dello slogan provocatorio della decrescita resta smantellare l’immaginario della crescita, soprattutto in tempi di crisi. E nel saggio da poco in libreria spiega come l’abbondanza frugale sia prima di tutto la rottura con la creazione illimitata di bisogni e di prodotti, ma anche con l’austerità imposta, che priva del necessario. Il testo analizza malintesi e controversie che accompagnano i temi della decrescita. Latouche indica, ad esempio, quali tecnologie ha senso incentivare (in questo senso appaiono ridicole e banali le accuse alla decrescita di «ritorno al passato»), analizza i nessi tra ecologia e democrazia con il pensiero di Cornelius Castoriadis e André Gorz, mette in guardia dai rischi di ecofascismo, spiega perché la decrescita è «profondamente di sinistra» e perché la critica al capitalismo non è sufficiente. E ancora, richiama la shock economy di Naomi Klein per ragionare sulla crisi e prende le distanze da Maurizio Pallante (e dalla sua corrente della decrescita felice), secondo il quale la decrescita è compatibile con l’economia capitalistica di mercato. Uno dei temi soltanto sfiorati nel libro, la relazione tra decrescita e città, è al centro di questa conversazione tra Latouche e la redazione di Comune-info. Quale relazione esiste tra architettura e i temi della decrescita? L’architettura oggi è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o di palazzi prestigiosi, ma è deludente nell’insieme. Fallisce «nel fare città» e soprattutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio e la distruzione dell’ambiente, per non parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Architetti e urbanisti sono complici di questo, tuttavia alcuni cercano di porvi rimedio. Di certo, viviamo ancora nella città produttivista, pensata e strutturata in funzione dell’automobile, con le sue segregazioni, le sue zone industriali, i quartieri residenziali senza vita.

venerdì 14 settembre 2012

Summer School: la moneta del comune

di CHRISTIAN MARAZZI - uninomade -

A me sta il compito di tentare di inquadrare la situazione così come si è venuta a determinare recentemente fino alle ultime decisioni prese dalla BCE. Quando si seguono le vicende monetarie e finanziarie si viene travolti dal divenire della situazione e molto spesso non si riesce a riflettere oltre queste stesse questioni finanziarie. La colonizzazione finanziaria della mente è qualcosa di reale, ma credo che almeno su tre cose sia importante soffermarsi:
la prima questione è come si è arrivati a queste ultime misure prese dalla BCE in questi giorni e con gli effetti euforici che hanno provocato sui mercati;
la seconda ha a che fare con il rompicapo della moneta unica. Come ci posizioniamo noi di fronte al dilemma relativo alla sopravvivenza dell’Unione Monetaria Europea?;
il terzo punto credo che sia un inizio di riflessione su questa categoria che abbiamo buttato lì, ma che mi sembra potenzialmente interessante per lo meno sotto un profilo politico, la moneta del Comune.
Come si è arrivati a queste misure in sede BCE, prese quasi all’unanimità ma con l’opposizione della Bundesbank, di intervenire in modo illimitato sul mercato secondario dei titoli pubblici al massimo a tre anni, con una serie di misure collaterali. Questa decisione era già circolata tra la fine del mese di Luglio e il 2 di Agosto, al vertice di Bruxelles. Per arrivare a questo compromesso all’interno del Board della BCE, era stato necessario, per lo meno per Draghi, cedere sulla questione delle condizionalità aggiuntive da accompagnare a qualsiasi forma di aiuto ai Paesi che ne hanno bisogno, l’Italia e la Spagna. Io credo che questa concessione, necessaria per ottenere il consenso della maggioranza nel Board della BCE, sia una concessione alla Bundesbank, agli ortodossi più incalliti, e che sia importante. Credo che sia questa la cosa più importante in realtà da sottolineare. La maggiore flessibilità della politica monetaria della BCE è altrettanto importante, ma bisogna considerare che questi interventi nel mercato delle obbligazioni pubbliche e dei titoli sovrani non sono stati presi per la prima volta. Sono misure attuate già l’anno scorso, sia nei confronti dell’Italia che della Spagna. Sono state poi riprese, con l’iniezione di 1000 miliardi, fra Dicembre ed inizio Febbraio, da parte della BCE. I precedenti ci dimostrano anche che queste misure sono durate quanto sono durate. Non sono state risolutive, insomma, dei problemi strutturali che affliggono l’Eurozona. Ci siamo confrontati da due anni a questa parti con una specie di finanziarizzazione emergenziale: credo che tutti condividano la conoscenza dei problemi fondamentali dell’architettura dell’Euro, però allo stesso tempo vediamo che si continua a procedere con misure di emergenza, tentativi di guadagnare tempo; ma non sappiamo bene per cosa si stia guadagnando tempo. Qual è l’orizzonte temporale di questo processo?

John Christopher Stevens e l’allegria di Hillary Clinton

Posted by Miguel Martinez

Apprendiamo dalla CBS che l’FBI, che ai tempi miei si occupava solo di fatti interni agli Stati Uniti, ha mandato una squadra per indagare sulla morte dell’ambasciatore statunitense a Benghazi: degli altri morti, pare tredici in tutto, non si parla.
Inoltre, gli Stati Uniti lanceranno una serie di droni sopra la Libia, e stanno mandando due incrociatori dotati di missili Tomahawk, come si fa insomma con i paesi amici e alleati.
Gli ambasciatori statunitensi si dividono in due categorie.
Nella prima categoria, troviamo ricchi imprenditori, che si comprano semplicemente il titolo, come Mel Sembler, un tempo proconsole in Italia, di cui abbiamo parlato qui e qui.
Nella seconda, troviamo i tecnici del dominio. Tra questi, John Christopher Stevens, il signore morto l’altro ieri a Benghazi.
Nel curriculum di John Christopher Stevens, ci sono due momenti simbolicamente fondamentali.
La carriera da giovane nel Peace Corps; un titolo ottenuto dal National War College. Peace and War.
Il Peace Corps è un immenso dispositivo, finanziato direttamente dal governo e messo in piedi dal presidente Kennedy in piena guerra fredda, per ottenere insieme diversi scopi.
Intanto, imbrigliare al servizio dell’Impero le sterminate risorse di buona volontà dei giovani liberal statunitensi, ai tempi delle lotte per i diritti civili e in anticipo sul Sessantotto. Il Peace Corps, infatti, sarebbe stato una bestia nera per la destra, che riusciva a vedervi solo un covo di potenziali sovversivi.
Il secondo scopo del Peace Corps era di diffondere nel mondo l’immagine degli Stati Uniti, in particolare attraverso quel bene simbolico, sorta di moneta globale, che ogni americano almeno in potenza possiede: la capacità di insegnare la lingua inglese.
Il terzo scopo, realizzare forme di progresso favorevoli alle imprese statunitensi, con l’invenzione di un ceto medio globale: il Peace Corps nasce in contemporanea con la fallimentare Alleanza per il Progresso, il dispositivo che avrebbe dovuto rivoluzionare la società dell’America Latina, inserendola nell’economia moderna e creando un vasto mercato per la produzione statunitense – gli aiuti americani venivano vincolati all’apertura agli investimenti e alla promessa di non produrre prodotti concorrenziali con quegli statunitensi.
Il Peace Corps doveva poi far conoscere poi il mondo a una generazione di potenziali operatori militari, spie e diplomatici.
E infatti, John Christopher Stevens ha iniziato la propria carriera come insegnante d’inglese per conto del Peace Corps, in Marocco.
Il National War College è invece un’istituzione stabilita subito dopo la Seconda guerra mondiale, per formare – come ci informa il suo sito – “grandi strateghi“:
“E’ l’unica scuola nel sistema di formazione professionale militare a concentrarsi soprattutto sulla strategia di sicurezza nazionale, sull’impiego integrato di tutti gli strumenti del potere nazionale – politici, economici, informatici e militari – al servizio dell’interesse nazionale”.
La formazione di strateghi imperiali richiede un sistema lontano da quello dei vecchi militarismi europei:
“L’aperta condivisione delle idee e degli approcci, l’analisi critica, il pensiero critico e la capacità di sintetizzare, e poi sostenere e difendere, nuovi concetti, sono al cuore di ogni discussione nei seminari”.
Persone come John Christopher Stevens o Muammar Gheddafi hanno scelto mestieri ad alto rischio; e come non piangiamo per chi precipita facendo bungy jumping, non piangiamo né per l’uno né per l’altro.
Ma non facciamo nemmeno come Hillary Clinton, quando ha commentato a caldo il fatto che Gheddafi era stato spogliato, torturato e picchiato a morte.
Per chi non si ricordasse la reazione della segretaria di Stato degli Stati Uniti (we came, we saw, he died!”), eccovela:

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Una carrozzella per far muovere il capitale

Una carrozzella per far muovere il capitale
di Francesco Piccioni
Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L'operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l'idiozia» - letterale - delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa - insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato - una pratica potentemente «progressiva». Nell'epoca dell'ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all'arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.
Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l'economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».
Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra - e l'affermarsi del «socialismo sovietico» - per convincere le classi dirigenti dell'Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».
Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c'è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.
Quando queste hanno preso a reagire meno - per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse - è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni '70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d'ordine è diventata «tagliare la spesa».

Braccia regalate all’agricoltura

Braccia regalate all’agricoltura
di Marco Zerbino
Ufficialmente non esistono. Eppure ci sono. Lavorano sotto il sole delle nostre campagne per quindici, sedici ore consecutive. Raccolgono angurie e pomodori in Puglia, agrumi nel siracusano e nella piana di Gioia Tauro, pesche e ortaggi nel casertano, uva in Veneto, mele in Trentino. Dormono nei campi o vivono stipati in condizioni di fortuna all’interno di capannoni e casali abbandonati, lontani dai centri abitati e da qualsiasi tipo di servizio. Sottoposti alla dura legge dei caporali, dipendono in tutto dai loro aguzzini: cibo, acqua, trasporto sul posto di lavoro, un medico quando ne hanno bisogno.

Il tutto per pochi spiccioli. Sono invisibili, ma senza di loro i pomodori e le arance che finiscono sulla nostra tavola non muoverebbero un passo.

Sono i braccianti, per lo più stranieri, in gran parte africani e magrebini, che lavorano stagionalmente nei campi degli imprenditori agricoli italiani, ed è per farli uscire da questa condizione di isolamento e di anonimato che la Flai, l’organizzazione che riunisce i lavoratori dell’agroindustria della Cgil, ha dato vita ai primi di luglio al progetto «Gli invisibili delle campagne di raccolta».

A «Fiumana 2012», la festa della Fiom in corso a Torino, è il lavoro ad essere al centro. Tutto il lavoro, anche quello che non risulta nelle statistiche ufficiali. Non poteva dunque mancare un momento dedicato a questa categoria di lavoratori ipersfruttati e costretti all’illegalità. Lo si è avuto con il dibattito «Le voci del lavoro migrante», organizzato dall’associazione Officine Corsare, cui hanno partecipato il comitato antirazzista saluzzese, Jean-René Bilongo, del dipartimento immigrazione della Cgil nazionale, e Yvan Sagnet.

Con quest’ultimo, ex bracciante agricolo e responsabile della campagna messa in piedi dalla Flai, abbiamo avuto modo di scambiare qualche battuta sia sull’iniziativa che coordina sia sull’episodio che ne è all’origine: lo sciopero dei braccianti di Nardò. Quella vertenza, sviluppatasi nelle campagne della provincia di Lecce ad agosto 2011, ha rappresentato di fatto il primo esperimento di organizzazione collettiva e di lotta vincente nel settore della raccolta agricola svolta da lavoratori immigrati. Originario del Camerun, trasferitosi in Puglia per lavorare come bracciante dopo aver perso, a causa della crisi, il lavoro che svolgeva precedentemente in nord Italia, Yvan era fra coloro che, a Nardò, hanno incrociato le braccia e si sono rifiutati di sottostare al diktat di caporali e proprietari.

La globalizzazione del potere.

La globalizzazione del potere
Intervista a Zygmunt Bauman
di Massimo Di Forti
«La ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come finirà, è il divorzio tra la politica e il potere». Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della "Vita liquida" e della "Modernità liquida" (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.

Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.

Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?

«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».

È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?

«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»

Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…

«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».

A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?

«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».

La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?

«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza».
il messaggero 11 settembre 2012

giovedì 13 settembre 2012

I tedeschi non sono mica scemi come noi ...

I tedeschi non sono mica scemi come noi 
              
MES ESM Corte Costituzionale Tedesca

Vi diranno che il Mes è passato: che la Corte Costituzionale tedesca lo ha giudicato compatibile con la Legge Fondamentale di Berlino. Con limitazioni. Balle.
"Con limitazioni" è un eufemismo per nascondere il fatto che la parte più pericolosa del Mes è stata viceversa inattivata, rimessa al volere del popolo. La limitazione in questione, infatti, è cosa non da poco. Nel trattato originale, di cui vi parlo sin dal 23 novembre 2011, è previsto che i singoli stati membri (gli aderenti al Trattato) versino secondo una certa percentuale di contribuzione. Nel nostro caso si tratta del 17,9%, mentre la Germania ha il 27,1464%: su 700 miliardi di capitale iniziale, le quote si traducono in 125 miliardi per noi e 190 miliardi per i tedeschi. Noi, per inciso, abbiamo già deciso di pagare: cinque miliardi all'anno di anticipo per i prossimi tre anni.
Ma il MES faceva ben di peggio: attribuiva ai 17 super-governatori un libretto virtualmente infinito di assegni tutti completamente in bianco che, a insindacabile giudizio della costituenda organizzazione Mes, avrebbero potuto essere riempiti con qualunque cifra, da pagarsi secondo condizioni di volta in volta stabilite e inappellabili, da qui all'eternità, senza possibilità di recesso (salvo ovviamente il recesso da tutta l'Unione Europea).

Bene, la Corte Costituzionale di Karlsruhe ha strabuzzato gli occhi e sentenziato che quella possibilità non era "costituzionale". Ovvero: bene per la quota parte tedesca di 190 miliardi, ma solo quella: mai e poi mai la Germania deve ratificare un trattato che concede carta bianca a una organizzazione finanziaria costituenda per prelevare capitali spropositati a piacere. Se il Mes deciderà per nuove ricapitalizzazioni, quella decisione dovrà obbligatoriamente passare per il Parlamento e, dunque, per la volontà popolare. Vi sembra poco?

In Germania, la grande Germania del rigore e dell'austerità, la ratifica del Mes ha sollevato un dibattito pubblico consistente che è arrivato fino alla Corte Costituzionale e che ha prodotto questo ridimensionamento nella volontà di potenza degli ideatori del trattato. Da noi? Non solo l'opinione pubblica non è stata informata dai media mainstream, non solo nessuno ha sentito l'esigenza di chiedersi se fosse compatibile con la nostra Costituzione la cessione programmata di parti della sovranità (residua), ma il nostro Parlamento ha addirittura approvato la ratifica del Mes, nel silenzio generale, senza colpo ferire, senza porre condizioni o sentire l'esigenza di porre un vincolo, un freno a un contratto di impoverimento collettivo senza possibilità di remissione per le generazioni a venire.

Abbiamo firmato senza neppure leggere. Liberamente servi.

La questione MUOS

La questione MUOS valica i confini regionali. I Comitati sono stati ascoltati da due Commissioni Parlamentari

“Finalmente la questione MUOS sta diventando di ordine nazionale. Uno degli obiettivi più importanti dei Comitati No MUOS era quello di far uscire la problematica dalla dimensione locale: oggi è stato compiuto un enorme passo in avanti in questo senso”. Questo il commento a caldo di Peppe Cannella e Rino Strano, delegati dei Comitati No MUOS, dopo le due audizioni alle Commissioni di Camera e Senato, a cui hanno preso parte anche il giornalista Antonio Mazzeo, il sindaco di Vittoria Nicosia con l’assessore Caruano, il sindaco di Niscemi La Rosa insieme all’assessore Ficicchia, e Giuseppe Maida.
In audizione alla Commissione Difesa della Camera e alla Commissione d’Inchiesta sull’uranio impoverito del Senato i delegati hanno spiegato, fornendo una vasta documentazione, le ragioni di quanti si oppongono fermamente alla costruzione della stazione di terra del sistema MUOS all’interno della Riserva Naturale Sughereta di Niscemi. Hanno altresì denunciato i pericoli rappresentati dalle radiazioni elettromagnetiche emanate dalle quarantuno antenne americane già esistenti e il processo di militarizzazione che i territori e i cittadini siciliani sono costretti a subire.
La Commissione d’Inchiesta sull’uranio impoverito ha ritenuto che sussistono le basi per una moratoria, sia per quanto riguarda la costruzione del MUOS, sia per il sistema di antenne già presente nella riserva.
Il Senatore Scanu ha sottolineato l’importanza del principio di precauzione mentre l’Onorevole Costa, presidente della Commissione, si è impegnato a convocare il Ministro della Difesa e il Presidente della Regione Sicilia, o chi per loro, per avere informazioni dettagliate su quanto sta accadendo a Niscemi, oltre che per sollecitare l’invio di dati completi e attendibili sui livelli di inquinamento elettromagnetico già in atto.
La Commissione ha compreso la gravità della situazione che vede il sorgere del MUOS, sistema parabolico satellitare ad alto impatto elettromagnetico, in un contesto già pericoloso e disfunzionale.
Il presidente della Commissione ha preso atto della preoccupazione dei Comitati No MUOS. “Il nuovo sistema di parabole della Marina Militare americana non può essere costruito se prima non si hanno dati certi sull’impatto delle antenne già in funzione. Oggi, nelle Commissioni, sono stati assunti degli importanti impegni formali”, concludono Cannella e Strano.
Enrica Frasca

“NON CI FERMEREMO”. I Comitati “No MUOS” saranno ascoltati domani da due Commissioni Parlamentari

Domani, martedì 11 Settembre 2012, una rappresentanza dei Comitati No MUOS parteciperà alle ore 15 all’audizione della Commissione Difesa della Camera e alle ore 16 alla Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito del Senato. Le due audizioni, che si terranno alla presenza anche del Sindaco di Vittoria Nicosia e del sindaco di Niscemi La Rosa, rappresentano il frutto dell’intenso lavoro fatto in questi mesi dai Comitati No MUOS. Antonio Mazzeo, Peppe Cannella e Rino Strano, partecipanti all’audizione in quanto delegati dai Comitati No MUOS, hanno dichiarato:
“Parteciperemo alle Audizioni senza fare sconti a nessuno. Saremo intransigenti e porteremo le ragioni di chi denuncia oramai da anni il grave pericolo delle 41 antenne americane funzionanti dentro la Sughereta di Niscemi e delle parabole militari del MUOS in costruzione. Difenderemo senza paura la Sughereta e i cittadini siciliani vittime di un processo di militarizzazione dei territori e dell’inquinamento elettromagnetico delle antenne e delle future parabole. C’è in gioco la salute di migliaia di cittadini e anche lo sviluppo economico della Sicilia. I Governi nazionali e regionali non possono fare finta di niente. Consegneremo anche le firme della petizione popolare contro il MUOS. La mobilitazione dei Comitati No MUOS sarà permanente e agli inizi di Ottobre organizzeremo un’importante manifestazione davanti alla Base americana di Niscemi che ospita le antenne e le parabole del MUOS in costruzione. Ci fermeremo solo quando i lavori del MUOS verranno bloccati e solo quando l’intera area sarà bonificata e restituita ad usi civili. Anche le attuali 41 antenne vanno smontate.”
Coordinamento Regionale dei Comitati No MUOS

mercoledì 12 settembre 2012

Se anche Hollande si “montizza”

 
Liberation, sabato 8 settembre 2012. ”Levati dalle scatole, ricco coglione”
di Vladimiro Giacché, da Pubblico
La storia è questa: il presidente francese Hollande annuncia una tassa straordinaria del 75% sui redditi da lavoro superiori al milione di euro annuo, dando seguito a quanto promesso in campagna elettorale. Il 23 agosto, 12 industriali francesi con aziende quotate alla Borsa di Parigi criticano la proposta.

Anche Bernard Arnault, amministratore delegato di LVMH e numero uno del lusso a livello mondiale, “mette in guardia” il premier Ayrault sugli effetti del progetto. E fa filtrare la notizia che la sua società starebbe organizzando la fuga all’estero dei suoi manager di primo piano.
Il 6 settembre le Figaro annuncia alcune modifiche alla tassa: il tetto di applicazione della tassa sarà alzato a 2 milioni di euro per le coppie; saranno (chissà perché) esclusi sportivi e artisti; si conferma invece che la tassa varrà solo per i redditi da lavoro (quelli da capitale, notoriamente, sono intoccabili).
Purtroppo però il reddito annuo di Arnault, la cui ricchezza è stimata da Forbes in 41 miliardi di dollari (è il quarto uomo più ricco del mondo e il primo di Francia), è ancora superiore alla nuova soglia di 2 milioni. E non stiamo parlando dei dividendi (335 milioni di euro già nel 2007), che appunto non rientrano nella nuova tassa, ma dei soli redditi percepiti in quanto manager del suo gruppo: i 4 milioni di euro ricevuti ne facevano già nel 2008 il manager più pagato di Francia.
Ed ecco il colpo di scena: l’8 settembre il quotidiano belga Le libre belgique annuncia che Bernard Arnault ha fatto richiesta di cittadinanza in Belgio. Una richiesta che il quotidiano Libération ha commentato con la bella copertina che abbiamo riprodotto.
Ora sembra che Arnault abbia fatto marcia indietro. Vedremo. Anche Hollande in un’intervista a TF1 sembra tornare (ancora) sui suoi passi. Riconferma la soglia del milione di euro per l’applicazione dell’aliquota maggiorata. E parla – senza entrare troppo nel dettaglio – anche di tassazione dei redditi da capitale.
Ma non dice solo questo. Annuncia una manovra straordinaria di bilancio da 30 miliardi di euro, così ripartita: 10 miliardi a carico delle famiglie (tutte, quindi soprattutto quelle sotto il milione di euro), 10 a carico delle imprese (in modi non chiariti), e 10 in tagli alla pubblica amministrazione (ad eccezione di scuola e sicurezza).
Dimentica di aggiungere che una parte di questi miliardi la sta già spendendo in questi giorni. Per salvare dal fallimento l’ennesima banca: il Credit Immobilier de France. Che ha obbligazioni per 1,75 miliardi di euro in scadenza a ottobre che non è in grado di ripagare.
Attendiamo le prossime puntate di questa telenovela. Ma almeno tre cose sono già chiare:
1) Gli Stati continuano a socializzare le perdite maturate da imprese finanziarie private.
2) Tra tasse e riduzione della spesa pubblica, la parte maggiore del carico delle manovre correttive di bilancio continua a gravare sulla classe media e su chi vive del proprio lavoro (al di sotto del milione di euro…).
3) I tentativi di imporre aliquote straordinarie di tassazione per i ricchi si scontrano con le differenti normative fiscali dei diversi paesi europei, che dovrebbero essere rese omogenee almeno tra i paesi che hanno una moneta in comune.
Ma, guarda caso, di unione europea in questo senso non si parla mai.

Reddito di base

Comunicato del BIN Italia su
- fonte -

Iniziativa europea per il reddito di base (ICE) e la Proposta di legge di iniziativa popolare per un reddito minimo garantito in Italia.

Cari amici ed amiche,

Diamo notizia del fatto che la Commissione europea ha rifiutato la registrazione della Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) in merito al reddito di base promossa da una serie di associazioni a carattere europeo. La Commissione ha valutato che l’attuale formulazione della proposta non è compatibile con le competenze che il diritto comunitario assegna all’Unione.Â

L’ICE è uno strumento innovativo per permettere ai cittadini europei di poter prendere parola e proporre alla Commissione europea delle iniziative per l'adozione di atti normativi a carattere continentale. Infatti attraverso questo iniziativa e con la raccolta di un milione di firme in per lo meno 7 Stati membri della UE la proposta presentata alla Commissione europea può portare all'adozione di un atto normativo europeo.

Come BIN Italia abbiamo partecipato alla rete europea che proponeva l’introduzione di una misura di reddito di base continentale. Dalle istituzioni preposte è arrivato però il respingimento di questa proposta e dunque al momento l’Iniziativa dei Cittadini Europei per il reddito di base non può essere avviata. Resta inteso che sarà necessario elaborare quanto prima un nuovo testo che sappia recepire le indicazioni della Commissione e così riavviare la campagna per il reddito garantito nelle sedi continentali.

Riteniamo di estrema importanza la battaglia per il riconoscimento dei diritti sociali fondamentali per tutti i cittadini d’Europa, ancor più in un momento di crisi economica, e soprattutto sociale, e di estrema difficoltà di sopravvivenza per un numero sempre maggiore di persone. Come BIN Italia cercheremo di lavorare, insieme alle altre reti europee che hanno elaborato la proposta, affinché si riprenda da subito il cammino per individuare la proposta di una nuova ICE per il diritto al reddito garantito come diritto fondamentale europeo.

Però abbiamo anche un’altra grande opportunità di fronte a noi, in particolare per quanto riguarda lo scenario italiano. Da giugno 2012 infatti è iniziata una grande mobilitazione per una proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione di un Reddito Minimo Garantito nel nostro Paese. A questa raccolta di firme per l'iniziativa legislativa popolare hanno aderito (e continuano ad aderire) tantissime associazioni, movimenti civici, realtà sociali, partiti politici e singole personalità che nel corso di questi mesi estivi hanno già dato vita a momenti di confronto, dibattito, iniziativa sociale e politica e di fatto l’avvio della raccolta delle firme per la proposta di legge.

Dopo la battuta d’arresto sulla proposta di ICE sul reddito di base a carattere europeo, riteniamo sia ancora più importante ed urgente sostenere e partecipare alla campagna per una legge sul reddito minimo garantito in Italia. Si tratta di dare un segnale forte in questo Paese sia dal punto di vista dell’iniziativa sociale che dal punto di vista della rinascita di una nuova idea di società basata sui nuovi diritti a partire dal reddito garantito.

Per far sì che la proposta di legge di iniziativa popolare abbia seguito c’è bisogno di raccogliere 50mila firme, ma è evidente che se la risposta sarà più ampia (magari raggiungendo e superando le 100mila firme) significherà dare un segnale forte alla società e alla politica italiana. Per questo, ed ancor più oggi dopo il rifiuto della ICE, riteniamo urgente e necessario dare ancora più forza alla proposta di legge di iniziativa popolare che terminerà a dicembre 2012. Per questo invitiamo tutte e tutti, in particolare associazioni, realtà sociali, movimenti per i diritti, reti di studenti, sindacati etc. ad attivarsi e partecipare alla raccolta di firme per un reddito minimo garantito in Italia. E’ una grande occasione che non possiamo perdere ed è necessario arrivare alla scadenza di Dicembre 2012 che oltre ad aver raccolto decine di migliaia di firme, vi sia stato in questo paese una forte mobilitazione e presa di parola per il diritto al Reddito Garantito.

A tal proposito potete seguire il sito ufficiale della campagna www.redditogarantito.it aderendo ed organizzando iniziative per la raccolta firme nelle vostre città , nelle piazze, nei mercati, fuori le scuole etc.

Per vedere le adesioni arrivate sino ad oggi http://www.redditogarantito.it/#!/adesioni

Per vedere i luoghi di raccolta firme e le iniziative sino ad oggi realizzate http://www.redditogarantito.it/#!/dove-firmare

Ripartiamo dall'estensione dei diritti sociali, ripartiamo dal reddito garantito in Italia ed in Europa.

BIN Italia

"Schiavo per colpa della crisi"

"Schiavo per colpa della crisi"
di globalist.it
Pur di lavorare, anche in condizioni di schiavitù. A confermarlo, una storia raccontata dal Corriere del Veneto. Una storia che entra nell'album della crisi. Foto che arriva da quella parte di paese dove fino a quattro anni fa si parlava di miracolo del Nord Est, di locomotiva d'Europa.
La storia è quella di Paolo Sinigaglia, un padovano di 42 anni. "Ho lavorato per due anni in una azienda agricola sui Colli Euganei - racconta lo stesso Paolo - oltre ad accudire gli animali ed occuparmi della cura dei campi e del bosco dovevo anche fare il custode. Di fatto lavoravo 24 ore su 24. E questo, per 600 euro.
Il cellulare aziendale che ero tenuto a portare sempre con me serviva alla datrice di lavoro come un geolocalizzatore: era in grado di vedere sempre dove mi trovavo, giorno e notte. Non potevo nemmeno andare a trovare mia figlia. Quando mi sono ammalato, dopo due anni di lavoro senza ferie, senza riposi, e senza una pausa, sono stato costretto alle dimissioni".

Ad occuparsi del caso è stata Federcontribuenti del Veneto. Un legale ha istruito una causa di lavoro per far recuperare a Paolo Sinigaglia straordinari e ferie non godute. Lunedì Paolo andrà in tv per raccontare la sua storia: "Spero che la mia vicenda raccontata in tv possa dare la forza a chi si trova nelle mie condizioni di far valere i propri diritti. Io mi sono adeguato a lavorare per uno stipendio che, a conti fatti, non era superiore a 50 centesimi all'ora, perché quando sei senza lavoro ti va bene tutto, anche condizioni simili alla schiavitù. Ora spero che qualche imprenditore mi dia la possibilità di far vedere quanta sia la voglia di lavorare che ho dentro".

L’impresa di un’economia diversa

- rifondazione -
di sbilanciamoci.info
Pubblichiamo il documento finale decimo forum di Sbilanciamoci! tenuto a Capodarco di Fermo 7-9 settembre 2012
La crisi italiana si fa più grave, la recessione è estesa in tutta Europa, la disoccupazione supera il 10% e colpisce un terzo dei giovani. È questo il risultato di cinque anni di crisi e delle politiche di austerità imposte dalla finanza e dall’Europa. Il governo Monti le sta realizzando in Italia all’insegna di un neoliberismo ideologico che non risolve i problemi, aggrava la crisi, minaccia la democrazia. È necessario un cambio di rotta.
Dalle iniziative di questi mesi e dalle discussioni alla “contro-Cernobbio” di Sbilanciamoci di Capodarco sono emerse sette proposte:

1. L’Europa. È essenziale che l’Europa fermi la speculazione e ridimensioni la finanza, vietando le operazioni ad alto rischio, tassando le transazioni finanziarie; il problema del debito si può affrontare con la Banca Centrale Europea che assuma il ruolo di prestatore di ultima istanza e introducendo gli eurobond; lo scudo anti-spread introdotto di recente non risolve i problemi ed espone i paesi fragili al ricatto di un Memorandum che renderebbe permanenti le politiche di austerità; per le stesse ragioni va rifiutato il “Fiscal compact” che impone pareggio di bilancio e taglio del debito. L’Europa deve ritrovare la strada della democrazia.

2. La crisi e il lavoro. Per uscire dalla recessione è necessaria una ripresa della domanda con un maggior ruolo della spesa pubblica, da utilizzare per affrontare l’emergenza occupazione. Dobbiamo difendere i lavoratori che rischiano di perdere il posto nelle 161 crisi industriali del paese. E si possono creare 500 mila nuovi posti di lavoro attraverso investimenti sociali e migliaia di “piccole opere” di cui il paese ha bisogno: infrastrutture di base, messa in sicurezza delle scuole, riassetto idrogeologico, tutela del territorio, mobilità ed energia sostenibile, welfare e salute, istruzione e ricerca. Sono necessarie politiche che tutelino i diritti del lavoro e combattano la precarietà. La legge Fornero va rifiutata.

3. La protezione sociale. Chi è colpito dalla crisi e dalla precarietà, chi è senza lavoro deve disporre di una rete di protezione sociale e tutela del reddito, dall’estensione degli ammortizzatori sociali per i lavori atipici, fino all’introduzione del reddito di cittadinanza. Bisogna difendere la spesa sociale dalle riduzioni dei trasferimenti agli enti locali, ristabilendo i fondi per le politiche sociali; bisogna difendere i diritti dei migranti e chiudere i CIE.

4. Giovani, formazione, conoscenza. Abbiamo bisogno di un “piano giovani” che progetti il futuro di questo paese. L’accesso e la diffusione della conoscenza sono la base per offrire ai giovani nuove possibilità di lavori di qualità. Per l’istruzione e la conoscenza serve un miliardo di euro per migliorare la scuola pubblica – tagliando i 700 milioni di sussidi alle scuole private – assicurare l'obbligo formativo, finanziare università e ricerca, estendere le borse di studio per gli studenti universitari, bloccando gli aumenti delle tasse d’iscrizione e le barriere poste dal numero chiuso nell’accesso all’università.

5. Cambiare produzioni. Il vecchio modello di sviluppo non può più funzionare, lo dimostra il tramonto della Fiat e i problemi dell’Ilva. Serve una politica industriale che orienti le scelte pubbliche e private su che cosa e come produrre, riservando incentivi e riduzioni del cuneo fiscale alle imprese che investono e creano occupazione in produzioni di qualità, con nuovi prodotti e servizi, sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale. Va sostenuto l’impegno per la produzione e l’accesso ai beni comuni, il ruolo dell’economia solidale e di relazioni sociali fondate su sobrietà e solidarietà.

6. Tagliare la spesa militare. All’interno della spesa pubblica i tagli vanno fatti sulla spesa militare, non quella sociale: si possono risparmiare 12 miliardi di euro cancellando il programma di acquisizione dei 90 cacciabombardieri F35 e riducendo di un terzo le Forze Armate.

7. Redistribuire il reddito. Nuove risorse per la spesa pubblica si devono trovare tassando la ricchezza finanziaria e immobiliare e riducendo le imposte sul lavoro. I patrimoni superiori al milione di euro vanno tassati con un’aliquota progressiva che parta dal 5 per 1000. Va innalzata al 23% l’imposizione fiscale sulle rendite e bisogna tassare i redditi superiori ai 200 mila euro con l'aliquota del 50%. Serve una lotta sistematica all'evasione fiscale. La legalità è un fondamento essenziale per ricostruire il paese: servono misure contro la corruzione e fermare l’espansione dell’economia criminale.

È questo il “cambio di rotta” che Sbilanciamoci! chiede alla politica e all’economia italiana. È in questo modo che si può uscire dal paradigma neoliberista e dalle politiche di austerità. È in questo modo che si può estendere la partecipazione politica e rinnovare la democrazia. È questa l’agenda che deve essere al centro della discussione politica nelle prossime elezioni italiane.

STATE/ MAFIA
The plot thickens; Judge Ingroia (swallow) versus the President Napolitano
 
 

martedì 11 settembre 2012

di Yugoslavia ma non solo ...

Il debutto in società

di Elisabetta Teghil

La Jugoslavia, quando è stata aggredita, non aveva un ruolo strategicamente importante né con riferimento ai criteri del passato, cioè vantaggi militari, accesso al mare o ad un fiume navigabile, stretti, canali, alture……né a quelli odierni, cioè controllo di particolari ricchezze , petrolio, gas, carbone, ferro, acqua….

Per gli Stati Uniti, il Kosovo, che è stato il pretesto/occasione, non presentava e non presenta un interesse strategico nel senso passato e presente del termine.

Allora perché?

Per tre buoni motivi.

Il primo è la nuova legittimazione della Nato. Quest’ultima, concepita in funzione anti patto di Varsavia, una volta sciolto questo, non avrebbe avuto più motivo di esistere.L’aggressione alla Jugoslavia ha fornito agli Stati Uniti l’occasione per avviare il nuovo concetto strategico della Nato, e lo ha applicato alla nuora, la Jugoslavia, perché suocera intenda e cioè l’Europa, perché gli USA vogliono conservare ed accentuare la loro egemonia nel vecchio continente e non c’è spazio per un’organizzazione militare specifica dell’Europa occidentale.

Da qui, anche, la cooptazione nella Nato di paesi dell'Est europeo.

“La Nato deve esistere in quanto blocca lo sviluppo di un sistema strategico europeo rivale a quello degli Stati Uniti.”( William Pfaf -International Herald Tribune-maggio 1999)

Ed ancora.

“Gli Stati Uniti sono il solo paese che abbia interessi globali e, quindi, il leader naturale della comunità internazionale”.
Questa dichiarazione, così sfrontata, di chi poteva essere se non del segretario alla Difesa del presidente Clinton, William G. Perry?

Il secondo motivo è la balcanizzazione di tutti quegli Stati che, per densità demografica ed ampiezza del territorio, possono essere di un qualche ostacolo, soprattutto quelli non allineati alla politica statunitense e asimmetrici agli interessi delle multinazionali anglo-americane. Ce lo ricorda Ignacio Ramonet nel maggio 1999 “:

...la Serbia rifiuta di adottare il modello neoliberista imposto dalla globalizzazione. Perciò costituisce, a un tempo, un bersaglio ideale per la Nato e un pessimo esempio per alcuni dei suoi vicini dell'Europa dell'Est, sui quali pure grava pesantemente la crisi economica e politica.

Questa, in fondo, è la vera ragione dell'intransigenza della Nato mentre,sotto i nostri occhi, si sta instaurando un nuovo ordine mondiale.”

Si creano, così, piccoli Stati dove gli USA possono collocare enormi basi militari, Stati che sono il crocevia di tutti i traffici illeciti possibili, guidati da corrotte mafie locali e trasformati in “case chiuse” e in sentina dei capricci dei soldati della Nato.

Infatti, la più estesa concentrazione di prostituzione, non certo volontaria, si trova in Kosovo.


Il terzo è la trasformazione della Nato in polizia internazionale che interviene là dove i governi e i popoli hanno l'ardire di sottrarsi, o almeno di tentare, al dominio imperiale.

Ma, per fare ciò, era necessaria una costruzione semiotico-simbolica, cioè ideologica, che nobilitasse questo suo nuovo ruolo.

E, qui, è stata essenziale la socialdemocrazia che, trasformandosi in destra moderna e reazionaria, si è scoperta filo atlantica e ha debuttato in società mostrando la propria affidabilità all'impero proprio in occasione dell'aggressione alla Jugoslavia.

La svendita del nostro patrimonio

di Piero Bevilacqua - DKm0 -

E’ già accaduto che l’Italia si sia trovata in condizioni di gravi difficoltà finanziarie, gravata da un considerevole debito pubblico. Anzi, si può dire che il nostro Stato-nazione sorge, nel 1861, su una montagna di debiti contratti per sostenere le nostre guerre d’indipendenza. L’Italia, dunque, nasce indebitata, ma per ragioni ben diverse da quelle dei nostri anni. E tuttavia, allora come oggi, i gruppi dirigenti pensarono di trovare una soluzione mettendo in vendita il nostro patrimonio: in quel caso il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali. Si trattava di un immenso complesso di terreni ed annessi che si pensò di vendere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario.
Come ha ricordato una giovane storica, Roberta Biasillo, sulle pagine del manifesto (3 aprile 2012 ) contro questa scelta si levò la voce di un giurista dell’Italia liberale, Antonio Del Bon, che in un “manifesto“ del 1867 elencava con grande saggezza e competenza le ragioni che sconsigliavano la vendita del nostro patrimonio immobiliare. Egli consigliava, al contrario, di offrire ai privati le terre demaniali con un contratto di fitto venticinqunnale, così da non prosciugare i capitali di chi investiva, stimolando al contrario l’utilizzo produttivo dei terreni e lasciare tuttavia i demani in proprietà dello Stato, quale « Tesoro della Nazione… un tesoro produttivo indefinitivamente .>> da conservare anche per le future generazioni.
Ora, a consigliare di non vendere i nostri beni pubblici, ma di utilizzarli in altro modo per abbassare il livello del nostro debito, concorrono più ragioni che è bene non dimenticare.
Innanzi tutto – e questo è noto anche agli uomini del governo – nell’attuale situazione di mercato l’operazione si configurerebbe come una vera e propria svendita. E ciò a prescindere dalla riuscita tecnica dell’operazione. L’obiezione secondo cui tramite un fitto di lungo periodo la somma che lo Stato incasserebbe sarebbe insufficiente, ha scarso valore, perché questo accadrà comunque. Vendere beni pubblici è difficile. E il rischio che lo Stato corre è di privarsi di un immenso patrimonio, con manufatti anche di grande valore, ricavando alla fine somme irrisorie.
Questo è accaduto anche negli anni ’60 dell’ 800. Come ha ricordato Biasillo, nel 1872 l’allora ministro delle Finanze Quintino Sella dichiarò alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. Non diverso esito si è avuto dalle vendite recenti. Dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del ministro Tremonti, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo 2. Ma occorre richiamare alla memoria una lezione storica che vale perfettamente anche per il presente. Tutte le esperienze di vendita di beni, sia statali che ecclesiastici, lungo l’intera la storia nazionale, mostrano un effetto che costituisce una costante per così dire perversa di simili operazioni. Esse producono un generale rafforzamento dell’attitudine redditiera dei privati e deprimono, di converso, l’ardimento imprenditoriale e l’attitudine al rischio. E’ un fenomeno elementare, facile da comprendere anche per gli economisti neoliberali. Chi esborsa un significativo capitale per l’acquisto, è poi in genere restìo a impegnarsi in ulteriori investimenti di valorizzazione produttiva. E’ facile immaginare che la vendita creerebbe una nuova manomorta in mano privata e sottrarrebbe capitali all’iniziativa imprenditoriale.

Enzensberger: La Bce è peggio della Mafia

- controlacrisi -
Un attacco duro e senza giri di parole quello del poeta e saggista tedesco, Hans Magnus Enzensberger, contro l'istituto di Francoforte, pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz).
Per Enzensberger i componenti dell'organo direttivo della Bce "si definiscono governatori come era in uso nei vecchi regimi coloniali e non devono rendere conto in alcun modo all'opinione pubblica. Sono al contrario tenuti alla massima segretezza e cio' ricorda l'omerta', il codice d'onore della mafia. I nostri padrini sono sottratti ad ogni controllo giudiziario e legislativo, un privilegio non consentito nemmeno al capo della camorra, l'assoluta immunita' giudiziaria".

Ma non finisce qui. Per Enzensberger "l'esproprio politico dei cittadini ha raggiunto ora il suo culmine, ma era iniziata gia' molto prima, al piu' tardi con l'introduzione dell'euro. Questa moneta e' il risultato di un mercato delle vacche politico", ha denunciato Enzesberger, "che ha ignorato le differenze di peso delle economie dei Paesi partecipanti, le loro divergenti competitivita' ed il loro carico debordante di debiti. Il piano di omogeneizzare l'Europa non ha tenuto nemmeno conto delle differenze di cultura e di mentalita' del Continente".
Per lo scrittore "a pochissimi viene in mente che da qualche tempo i Paesi europei non sono piu' governati da istituzioni democraticamente legittimate, ma da sigle come Efsf, Esm, Bce e Fmi". Per lo scrittore "senza costi, scontri e dolorose limitazioni non sara' possibile tornare indietro dal vicolo cieco in cui ci hanno condotto gli ideologi dell'interdizione". Quando si arrivera' alle cifre, spiega lo scrittore, "i popoli si risveglieranno dalla loro siesta politica, poiche' gia' cominciano a sospettare che alla fine dovranno assumersi il carico di cio' che hanno causato i salvatori".

Imposimato: a 11 anni da quell'11 settembre: era Strategia della Tensione

di Ferdinando Imposimato - megachip -
Gli attentati dell'11/9 sono stati un'operazione globale di terrorismo di Stato consentita dall'amministrazione degli USA, che sapeva già dell’azione ma è rimasta intenzionalmente non reattiva al fine di fare la guerra contro l'Afghanistan e l'Iraq. Per dirla in breve, gli eventi dell'11/9 erano un caso di Strategia della Tensione messa in atto dai poteri politici ed economici negli Stati Uniti per perseguire vantaggi in capo all'industria petrolifera e delle armi. Anche l'Italia è stata una vittima della "Strategia della Tensione" della CIA, attuata in Italia dai tempi della strage di Portella della Ginestra, in Sicilia, nel 1947, fino al 1993. Ci sono molte prove di una tale strategia, sia circostanziali che scientifiche. Le relazioni del National Institute of Standards and Technology (NIST), del 20 novembre 2005, hanno sancito le conclusioni di seguito esposte. Gli aerei che hanno colpito ciascuna delle torri gemelle hanno causato tanto una breccia quanto un'esplosione evidenziata da una gigantesca palla di fuoco. Il carburante rimanente fluiva verso i piani inferiori, alimentando gli incendi. Il calore degli incendi deformava le strutture degli edifici così che entrambe le torri sono crollate completamente da cima a fondo. Molto poco è rimasto di quanto era di qualsiasi dimensione dopo questi eventi, a parte i frammenti in acciaio e in alluminio e i detriti polverizzati provenienti dai pavimenti in cemento. Anche l’edificio 7 del World Trade Center crollò: lo fece in un modo che risultava in contrasto con l'esperienza comune degli ingegneri. Il rapporto finale del NIST ha affermato che gli attacchi aerei contro le torri gemelle erano la causa dei crolli per tutti e tre gli edifici: WTC1, WTC2 e WTC7. Tutti e tre gli edifici sono crollati completamente, ma l'edificio 7 non fu colpito da un aereo. Il crollo totale del WTC7 ha violato l'esperienza comune ed era senza precedenti. Il rapporto del NIST non analizza la reale natura dei crolli. Secondo gli esperti intervenuti nel corso delle Udienze di Toronto (“Toronto Hearings”, 8-11 settembre 2011), i crolli avevano caratteristiche che indicano esplosioni controllate. Sono d'accordo con l’architetto Richard Gage e l’ingegnere Jon Cole, entrambi professionisti di grande esperienza, che sono arrivati alle loro conclusioni attraverso test affidabili, prove scientifiche, e la testimonianza visiva di persone insospettabili, tra cui i vigili del fuoco e le vittime. L'autorevole teologo David Ray Griffin ha descritto con grande precisione perché l'ipotesi di demolizione controllata dovrebbe essere presa in considerazione. Vari testimoni hanno sentito raffiche di esplosioni. Secondo il NIST il crollo dell'edificio 7 è stato causato da incendi provocati dal crollo delle torri gemelle. Il chimico e ricercatore indipendente Kevin Ryan, tuttavia, ha dimostrato che il NIST ha dato versioni contraddittorie del crollo dell'edificio 7. In un rapporto preliminare del NIST dichiarava che il WTC7 fu distrutto a causa di incendi provocati da gasolio conservato nel palazzo, mentre in una seconda relazione questo combustibile non era più considerato come la causa del crollo dell'edificio. Ulteriori commenti sulla versione degli eventi data dal NIST sono stati formulati da David Chandler, un altro testimone esperto intervenuto nel corso delle Udienze di Toronto. Nonostante la presunzione del NIST in merito a tre distinte fasi di crollo, Chandler ha sottolineato che molti video disponibili dimostrano che per circa due secondi e mezzo l'accelerazione dell’edificio non può essere distinta da una caduta libera. Il NIST è stato costretto a concordare con con questo fatto empirico come sottolineato da Chandler, e ora comprensibile per chiunque.
 
THE OTHER 9/11 CHILE, 60.000 DEAD

lunedì 10 settembre 2012

Hugo Chavez

Hugo Chavez e l’era dell’alternativa
di Fabio Marcelli
L’elezione a presidente della Repubblica di Hugo Chavez, nel 1998 e l’approvazione della nuova Costituzione venezolana nel 1999 hanno certamente aperto una nuova era per il Venezuela e l’America Latina. Epoca segnata da importanti affermazioni dei diritti sociali e della partecipazione democratica. Fatto sta che mai come negli anni dal 1998 ad oggi in Venezuela si è votato per elezioni presidenziali, politiche, locali, referendum costituzionali e revocatori e sempre Chavez ne è uscito vittorioso, con l’unica eccezione del referendum del dicembre 2007, perso per un’incollatura, probabilmente perché prospettava, insieme alla rieleggibilità, una serie di modifiche di troppo ampia portata.

Contemporaneamente sono cresciuti momenti di partecipazione popolare diretta ed è stato grazie alla mobilitazione del popolo venezolano che è stato sconfitto, poco più di dieci anni fa, il tentativo di golpe con il quale oligarchie locali, potere imperiale statunitense e governo spagnolo, fra gli altri, avevano tentato di far fare a Chavez la fine di Salvador Allende. Senza riuscirci.

Per questi motivi suonano un po’ patetiche le strida che si levano da qualche parte per denunciare la presunta natura dittatoriale del governo venezolano. Se per dittatore si intende, come si dovrebbe per dare un senso comune alle parole, qualcuno che governa contro la volontà del popolo, questo non è certamente il caso del presidente Chavez. Eletto più volte ad ampia maggioranza e fortemente amato da moltissimi venezolani. Non tutti ovviamente, perché c’è anche chi con Chavez ci ha rimesso, ma è la legge della democrazia e della lotta di classe, o stai da una parte o stai dall’altra. E Hugo ha deciso, in omaggio alle sue origini popolare e meticce, ai suoi studi approfonditi e fruttuosi all’Accademia militare, alle sue riflessioni di ufficiale patriottico, di stare dalla parte del popolo.

E il popolo lo ha capito. Per questo motivo è molto probabile che, nonostante i suoi problemi di salute, Hugo Chavez, come dicono anche i sondaggi, verrà rieletto presidente della Repubblica bolivariana di Venezuela alle elezioni del prossimo ottobre.

Ma la portata della sua esperienza non si ferma certo lì. Innanzitutto perché Hugo è uno dei protagonisti, insieme ad altri leader come l’ecuadoriano Rafael Correa, l’argentina Cristina Fernandez, la brasiliana Wilma Roussef, il boliviano Evo Morales, l’uruguayano Pepe Mujica, il nicaraguense Daniel Ortega, il cubano Raul Castro e altri, di una nuova stagione di integrazione e protagonismo dell’America Latina sulla scena mondiale, che segna un indubbio rinascimento di quel bellissimo continente dopo gli anni tristi delle dittature e del neoliberismo. Pur con sfumature differenti e sistemi che mantengono sensibili diversità, gli Stati dell’America Latina costituiscono oggi degli avamposti a livello mondiale nella lotta al liberismo e per una democrazia effettivamente partecipata. Essi sono inoltre definitivamente usciti da quasi due secoli di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Cosa della quale Obama dovrebbe prendere finalmente atto anche per conferire maggiore forza d’attrazione alla sua candidatura, abbandonando ogni velleità imperialista e dedicandosi ai gravi problemi del suo Paese.

Ma anche perché l’esperienza venezolana, contrassegnata come detto da partecipazione popolare e diritti sociali, attraverso la formula inedita delle misiones nei campi di salute, istruzione, abitazione, lavoro, alimentazione, ecc. va studiata e applicata anche nell’Europa oggi soggetta a un preoccupante declino della sua coesione e dei suoi livelli di civiltà, nel segno delle privatizzazioni dei beni pubblici e del dominio incontrastato della finanza.

E sul piano politico? Anche qui si possono cogliere alcuni parallelismi tra la storia del Venezuela, nel quale ogni progresso sociale e democratico è stato a lungo pregiudicato dal patto di Punto Fijo tra forze solo apparentemente alternative come il democristiano COPEI e il socialdemocratico Ad, e quella italiana degli ultimi mesi, con il patto bipartisan che sostiene il governo Monti e che durerà ancora a lungo. In Venezuela l’era dell’alternativa è cominciata quando è emerso l’elemento in grado di scardinare il governo del pensiero unico, un leader carismatico sostenuto da un movimento popolare. E in Italia?
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Hollande. Retromarcia sulla maxi-tassa per i ricchi

Hollande verso la retromarcia sulla maxi-tassa per i ricchi
di Leonardo Martinelli
E la tassa sui super ricchi, dov’è finita? Era una delle promesse più eclatanti di François Hollande durante la campagna delle presidenziali: una di quelle giudicate più «di sinistra», che di sicuro hanno contribuito a portare al secondo turno al leader socialista i voti (determinanti) di Jean-Luc Mélenchon, del Front de gauche. Ebbene, entro la fine del mese il Governo francese deve presentare il suo progetto per la finanziaria 2013, da far approvare al più presto al Parlamento. Dovrebbe consistere in una profonda riforma fiscale, proprio l’occasione per introdurre anche la tassa sui super ricchi. Ma, dalle prime indiscrezioni in circolazione, Hollande e compagnia starebbero per alleviare le condizioni previste inizialmente: insomma, vorrebbero fare retromarcia. Mentre in questi giorni, pressione in più in questo senso, è emerso che proprio Bernard Arnault, il più ricco di tutti in Francia (ma pure il numero uno a livello euopeo e quarto nel mondo), ha chiesto la nazionalità belga. In fuga dal fisco del suo Paese.

Quale imposizione per i Paperoni di Francia – Per il momento Oltralpe l’imposta sui reddti personali arriva a un’aliquota massima del 45%, applicata sopra i 150mila euro lordi annui. In più, però, va calcolata la patrimoniale. Nicolas Sarkozy, nel 2007, appena eletto, aveva introdotto uno scudo fiscale che limitava al 50% massimo l’imposizione complessiva, ma questo, già smantellato in parte dall’ex Presidente, è stato fatto fuori del tutto con l’arrivo di Hollande. Il nuovo Presidente, nel febbraio scorso, in piena campagna, era andato oltre annunciando (aveva sorpreso perfino alcuni dei suoi consiglieri) una nuova aliquota del 75% per tutti i redditi oltre il milione di euro annui. Nei prossimi giorni dovrebbe essere resa nota la nuova normativa. Ma, secondo le prime indiscrezioni, Hollande si appresterebbe a fare retromarcia, almeno in parte. Nel caso di una coppia, ad esempio, il limite del milione sarebbe aumentato a due milioni. E si escluderebbero in generale dal calcolo i redditi da capitale.

Arnault, il più ricco di tutti, farà le valigie? – Nel contesto di queste polemiche arriva una notizia bomba. Bernard Arnault, il patron di Lvmh, il colosso del lusso francese, che comprende fra gli altri Louis Vuitton e i maggiori marchi di champagne, ha fatto domanda per ottenere la nazionalità belga. Mercoledì scorso è stato addirittura ricevuto dal premier francese, il socialista Jean-Marc Ayrault, per protestare contro la nuova aliquota in arrivo (a lui, nonostante le probabili eccezioni, si applicherà). In un comunicato, Arnault, che ha fama di spietato uomo della finanza, ha comunque sottolineato che la sua decisione non ha niente a che fare con l’imminente riforma fiscale, ma è legata «alla volontà di realizzare più investimenti in Belgio». Una prospettiva difficile da credere. Tanto più che, se ottenesse la cittadinanza belga, potrebbe andare a risiedere a Monaco e sfruttare i suoi vantaggi fiscali (lì le tasse sui redditi personali sono pari a zero, ma al vantaggio, secondo una convenzione firmata tra Parigi e il Principato, non possono accedere i cittadini francesi, anche se residenti). «La Francia non ama chi ha successo – ha sottolineato François Fillon, ex premier, ai tempi di Sarkozy -. La volontà di Arnault è il frutto delle decisioni stupide del Governo».

I limiti imposti dalla lotta al deficit - Tutta questa vicenda si annuncia un campo minato per Hollande, che proprio in questo periodo sta andando male nei sondaggi: secondo un’inchiesta di Bva, resa nota oggi, il 59% dei francesi non è soddisfatto dal suo operato. Il Presidente deve trovare per la finanziaria 2013 almeno 33 miliardi, fra tagli alla spesa pubblica e crescita del gettito dell’erario (da quest’ultimo fronte dovrebbero arrivare tra 15 e 20 miliardi di euro). Il problema è vedere, appunto, quali saranno le modalità. Nei giorni scorsi il Presidente ha escluso «aumenti delle imposte generali e indifferenziati», precisando che «chi ha di più, deve pagare di più». Ma un’eventuale fuga di capitali, forse già in corso, sarebbe un problema: per questo Hollande tentenna sull’aliquota del 75%. L’obiettivo della finanziaria 2013 è riportare il deficit pubblico al 3% del Pil, dalla stima del 4,5% prevista a fine anno. Da sottolinare: Arnault se ne era già andato dalla Francia per tre anni nel 1981, quando François Mitterrand era arrivato al potere. Già ricco, ma non ricchissimo come oggi, trascorse tre anni negli Stati Uniti. Per poi ritornare a casa dopo che Mitterrand aveva frenato le sue «eccessive» aspirazioni di sinistra.
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