Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 25 agosto 2012

Il pellegrino Samaras non commuove

Fonte: il manifesto | Autore: Francesco Piccioni
        La Germania insiste: rispettare gli impegni presi, nei tempi stabiliti, senza deroghe né dilazioni Casse vuote. Da metà ottobre Atene potrebbe non pagare più stipendi e pensioni; come sta già facendo con i fornitori
Molti sorrisi e nessuna concessione. Antonis Samaras, premier conservatore di una Grecia al quinto anno di recessione, non ha trovato a Berlino – con l’altrettanto conservatrice Angela Merkel – nessuno spiraglio per ammorbidire o diluire il programma di «impegni» che aveva già sottoscritto con la troika (Bce, Ue, Fmi).
Il clima politico interno alla Germania non era affatto favorevole a una «concessione» del genere, come testimonia il solito titolo sprezzante dato dalla (conservatrice) Bild Zeitung al caso greco: «un pozzo senza fondo». Addirittura due giornali, ieri, attaccavano anche Mario Draghi, presidente della Bce, «colpevole» di pensare possibile l’acquisto di bond statali dei paesi in difficoltà da partedella banca centrale. Merkel, se vuole un futuro politico dopo le ormai prossime elezioni del 2013, non poteva non tenerne conto. E quindi ha ripetuto di attendersi che «la Grecia rispetti gli impegni presi: privatizzare gli asset pubblici e rispettare le indicazioni della troika». Per lo stesso motivo, non darà alcun giudizio – né prenderà alcuna «decisione affrettata» – prima di ottobre, quando i funzionari che monitorano le «riforme» di Atene presenteranno il loro rapporto.
Con raro tempismo, nelle stesse ore, il ministero dell’economia guidato da Schaeuble convocava una conferenza stampa per confermare quanto anticipato dall’edizione tedesca del Financial Times: «da oltre un anno è costituito un gruppo di lavoro che si occupa di tutti gli aspetti della crisi del debito di diversi stati; in questo quadro rientra l’attuazione del programma (imposto ai diversi paesi, ndr) gli sviluppi attuali o anche scenari, non importa quanto improbabili». Insomma, il viceministro e una decina di funzionari starebbero studiando la portate delle conseguenze di un’eventuale (o prossima) uscita della Grecia dall’euro.
Situazione opposta per il suo ospite: «più tempo» per il rientro nei parametri fissati dall’Europa era proprio la condizione postagli dalla sua fragile coalizione di governo. A nulla è valso «garantire» personalmente la restituzione dei prestiti ricevuti dalla Germania; né il ricordare che la Grecia «sta riducendo due deficit: quello di bilancio e quello di credibilità del paese». Ancor meno il fatto che Atene «ha bisogno di una sola cosa: della possibilità di ritrovare sviluppo e crescita», risolvendo in un sol colpo i propri problemi e dando «un grande contributo alla potenza dell’Europa».
Proverà oggi a cercare un margine maggiore tornando alla carica con Francois Hollande, nella speranza che l’immagine uscita dal «vertice» franco-tedesco non sia confermata anche nel faccia a faccia. Ci arriverà ancora più debole e in affanno, però. Il quotidiano ateniese Kathimerini, ieri, ha pubblicato voci provenienti dal ministero dell’economia secondo cui le «riserve liquide dello stato si esauriranno a metà ottobre». Lo stesso Samaras, più obliquamente, aveva accennato a «problemi di liquidità» se non verrà versata la prossima rata di aiuti (31,5 miliardi), subito dopo la fine dell’ispezione in corso da parte della troika.Il quotidiano parla chiaramente dell’impossibilità di pagare stipendi e pensioni, come anche del fatto che da inizio anno il governo ha bloccato una serie di pagamenti ai fornitori privati dello stato (oltre 900 milioni, pare), aggravando ovviamente la crisi generale di liquidità del paese e, indirettamente, la stabilità di quel che resta del sistema industriale. Per diminuire la pressione sui conti, Samaras starebbe valutando anche «la sospensione» dal servizio di tutti i dipendenti pubblici con una «valutazione bassa». Potrebbe in questo modo far vedere di stare rispettando l’impegno, preso a suo tempo con la troika, di tagliare almeno 150.000 posti di lavoro nel pubblico impiego.
I mercati avevano gradito poco l’eccessiva «riservatezza» – o scarsità di risultati – del «vertice» Merkel-Hollande, aprendo in negativo la giornata dall’Asia alle piazze continentali. Hanno dovuto anche subire la «sospensione di giudizio» da parte della Bce sulla piena operatività del fondo Esm in funzione «calma spread», in attesa della decisione della Corte costituzionale tedesca del 12 settembre. Solo in finale di seduta azzeravano le perdite. Un altro «giudizio sospeso». Per ora.

Ci vorrebbe una nuova Internazionale

Fonte: il manifesto | Autore: Alberto Burgio
        Per affrontare la guerra scatenata dal capitale per affermare il suo dominio sul lavoro è necessaria una forza che agisca su un piano globale, come fu la prima Internazionale. Concentriamoci su questo
Proviamo a guardare la crisi da lontano, come facciamo con i quadri di grandi dimensioni. Se ci sottraiamo per un momento all’incessante bombardamento di cifre (spread e indici di borsa, rendimento dei titoli pubblici e tassi d’interesse, debiti, deficit e percentuali di caduta del pil) che cosa vediamo?
Questi, dopo cinque anni di crisi, sembrano i principali effetti macroeconomici e sociali. In primo luogo, la caduta dei redditi da lavoro (salari, stipendi, pensioni) anche in conseguenza dei tagli del welfare e dell’aumento dei prezzi e della pressione fiscale. In Italia il fenomeno è esasperato dal record di evasione ed elusione fiscale (una scelta politica, non un accidente). In maggio l’Istat ha calcolato che dal 2007 i redditi delle famiglie sono diminuiti del 7%. In secondo luogo, l’esplosione dei debiti pubblici (detti «sovrani» con velenosa ironia, visto che la sovranità è volata altrove), provocata dalla socializzazione delle perdite private (il salvataggio di banche d’affari e imprese decotte). Dal 2008 a oggi, tra i 15 mila e i 20 mila miliardi di dollari (garanzie pubbliche comprese) sono stati mobilitati per far fronte ai disastri causati dalle banche. Seguono a cascata (per effetto della recessione, dei tagli alla spesa e delle cosiddette politiche anti-crisi) la moria delle imprese, la caduta dell’occupazione nel settore privato e nel pubblico impiego, l’adozione di misure che rendono ancora più facili i licenziamenti.
Tutto qui? Certo che no. Dall’altra parte della medaglia, la crisi determina la continua crescita della bolla speculativa. Oggi molte banche europee contraggono debiti per oltre il 4000% del proprio patrimonio, come se nel 2007-8 non fosse successo niente a causa della crisi dei mutui e dei derivati. Determina un’inedita concentrazione della ricchezza nelle mani dei grandi detentori di capitale (banche e fondi), proprietari del debito e beneficiari delle decisioni dei governi. Come ricordava qualche giorno fa Sarah Jaffe sul manifesto, l’ultimo rapporto del Tax justice network stima in oltre un terzo della ricchezza finanziaria privata il patrimonio posseduto dallo 0,01% della popolazione mondiale. La crisi determina quindi un aumento esponenziale delle disuguaglianze all’interno dei Paesi e tra loro. Anche nell’ambito dell’Unione europea si accresce la distanza tra i Paesi forti e «virtuosi» e i reprobi della periferia mediterranea. Una distanza che si traduce in potere decisionale, come mostra nel modo più limpido il rapporto di forze tra Germania e Grecia.
La crisi, insomma, è cattiva con alcuni e molto generosa con altri. Che cosa emerge, infatti, da questo quadro sommario, che omette qualsiasi accenno alle responsabilità pregresse di governi e imprenditori che nei decenni scorsi hanno posto le premesse per l’attuale disastro? Emerge che a causa della crisi moltissimi perdono molto: le classi lavoratrici (con un vistoso processo di proletarizzazione del ceto medio). Mentre pochi guadagnano moltissimo. Quello che chiamiamo «crisi» è in realtà un gigantesco processo di redistribuzione (verso l’alto) della ricchezza (e del potere politico). In linea col trentennio neoliberista, ma con un salto di quantità e di qualità. Le politiche deflazionistiche che stanno precipitando il mondo nella depressione non sono frutto di abbagli o di stupidità (benché siano indubbiamente distruttive). Sono pratiche di recupero-crediti a beneficio dell’oligarchia finanziaria. Non deve stupire che in cinque anni il volume di denaro amministrato dalle prime cinquanta banche private sia più che raddoppiato.
Ma tutto questo, «naturalmente», viene nascosto all’opinione pubblica. Passa rigorosamente sotto silenzio. Il discorso sul debito pubblico è paradigmatico. Televisioni e giornali non si stancano di diffondere un’immagine se vogliamo edificante, derivando l’entità dell’indebitamento pro capite dal rapporto tra debito e popolazione. Come se il debito fosse posseduto da qualche marziano o da dio in persona, e non da una pur piccola parte della popolazione stessa. Circa il 70% del debito del nostro paese è di proprietà di fondi, banche e imprese italiani, oltre che di privati possidenti. I «sacrifici» li fanno gli altri e sono costretti a farli a loro vantaggio.
Che cosa dovrebbe dire una stampa indipendente in un paese democratico? Dovrebbe spiegare che i paesi si sono indebitati perché hanno usato il denaro pubblico per salvare i privati, perché favoriscono l’evasione fiscale e l’esportazione di capitali nei paradisi fiscali, perché i governi si rifiutano – coerentemente – di socializzare profitti e rendite nazionalizzando le banche e imponendo imposte sui patrimoni e tetti ai redditi alti. Dovrebbe spiegare, innanzi tutto, che cosa significa «debito pubblico». Che non è un concetto economico, ma politico, poiché il debito nasce quando un governo decide di finanziare la spesa chiedendo soldi in prestito ai privati. Non ci sarebbe debito se un governo decidesse di finanziarsi prelevando la ricchezza privata per mezzo del fisco.
Ma «naturalmente» su tutto questo si tace (e per stare sicuri si piazza una banchiera alla presidenza della Rai). Del resto è noto che la verità è la prima vittima di una guerra, e questa è una guerra. L’attuale presidente del Consiglio ama rivolgere al popolo messaggi churchilliani e ciclicamente parla di guerra. La crisi è una guerra. L’Italia ha intrapreso «un durissimo percorso di guerra». E il governo, bontà sua, avrebbe in animo di combattere una guerra spietata contro gli evasori. Peccato che la guerra vera la stiano conducendo lui e il suo governo contro chi in questo paese non è in condizione di difendersi e perde reddito e lavoro. Come ha detto qualche mese fa Paul Krugman, quella in atto è una «guerra sociale scatenata dai super-ricchi che pretendono di essere esentati dal contratto sociale».
Qualunque cosa sia questo presunto contratto, l’idea è fondata. La guerra sociale si traduce in milioni di disoccupati e di nuovi poveri, un esercito che si moltiplica per garantire benefici all’oligarchia autoctona e globale. E non varrà liberarsi di Monti (ammesso che ci si riesca), data la natura strutturale degli interventi, a cominciare dal fiscal compact. La responsabilità di chi lo ha imposto (Napolitano) e lo sostiene (il Pd) è enorme, anche perché scientemente assunta. In un’interessante intervista rilasciata da Massimo D’Alema al Corriere della sera il I luglio scorso Monti è definito «una personalità liberale capace di mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti». È per questa sua virtù che il Pd lo sostiene? Lo Stato è buono se paga i soliti noti, e cattivo se tenta di imporre un minimo di giustizia sociale?
«Guerra», si badi, non è una metafora. In passato si combatteva a suon di bombe per colonizzare altri paesi. Oggi per commissariarli bastano troike e agenzie di rating. E governi zelanti. Solo che si tratta di una guerra di nuovo tipo, senza visibile spargimento di sangue. Si tratta della prima guerra capitalista in senso proprio, se è vero che il capitale aspira a comandare ricorrendo alla pura coazione economica. Il suo sogno è governare per mezzo del solo mercato. Il resto è arcaico. Buono per le «razze inferiori». Che infatti continuano a crepare sotto le bombe, come in Africa, in Medio oriente o in Asia centrale. O sotto le raffiche della polizia, come è capitato agli schiavi della miniera inglese di Marikana.
Ma perché è finalmente possibile questa nuova guerra, veramente fredda? Perché esistono finalmente le condizioni sistemiche per combatterla: la possibilità di delocalizzare ovunque le produzioni alla ricerca di condizioni più favorevoli per il capitale industriale; e la possibilità di spostare in tempo reale masse gigantesche di capitale finanziario, decidendo dei tassi d’interesse e di rendimento su tutti i mercati. Oggi il pianeta è unificato sotto il dominio del capitale. Questo non significa che non sussistano, al tempo stesso, fattori di crisi strutturale. La guerra contro i corpi sociali consegue alla caduta del saggio di profitto e a sua volta la riproduce, radicalizzandola. Ma finché la sovranità sarà esercitata dal capitale, ci troveremo a vivere in quest’incubo.
Qui viene fuori, per noi, la morale di tutta questa storia. La crisi è una guerra che il capitale scatena per consolidare il proprio dominio sui popoli e in particolare sul lavoro vivo. C’è una sola strada per combatterla sulla trincea contrapposta, una strada non nuova poiché, a ben guardare, non vi è nulla di inedito in questa vicenda, esito del processo di modernizzazione in corso dalla metà dell’Ottocento: creare un contropotere altrettanto globale, seguendo l’intuizione che il movimento operaio ebbe allora, quando diede vita alla prima Internazionale. Non è facile, e non soltanto per deficit soggettivi. Mentre la concorrenza tra i capitali ne favorisce la centralizzazione, quella, eteronoma, tra i diversi segmenti della classe operaia ostacola l’unità del lavoro. Resta la necessità. La sinistra anticapitalista dovrebbe quindi investire ogni sforzo per costruire la propria unità politica sul piano transnazionale, a cominciare dal livello europeo e, qui, dai paesi più esposti agli attacchi del potere finanziario. Il fatto che, purtroppo, i suoi gruppi dirigenti siano in tutt’altre faccende affaccendati è anch’esso un effetto della crisi. E una sua concausa.

Siria: la BBC insabbia un crimine di guerra


di Paul Joseph Watson* - contropiano
 

 
Siria: la BBC insabbia un crimine di guerra
La BBC ha cucito una toppa peggiore del buco nei postumi della polemica su una censura che ha visto l'emittente ritirare un video sui ribelli siriani che costringevano un prigioniero a diventare un attentatore suicida inconsapevole.


* Prison Planet (Traduzione per Megachip a cura di Fanny Milazzo)

La BBC sostiene infatti che il reporter non ha mai definito l'episodio come un "crimine di guerra "quando in realtà è vero il contrario. Come abbiamo già sottolineato, un videoclip che mostrava un prigioniero costretto dai ribelli siriani a guidare un camion carico di esplosivo fino a un posto di blocco militare di Aleppo è stato ritirato sia dal sito web della BBC sia dal canale ufficiale su YouTube della BBC poche ore dopo la sua pubblicazione. I blogger sono stati in grado di registrare e caricare una copia del video che può essere visto qui di seguito.


Il redattore di «BBC World News» John Williams ha risposto alle polemiche in un blog del sito della BBC News, ammettendo che «la storia ha generato molto interesse in tutto il mondo arabo e oltre».

Sebbene Williams non riesca a spiegare perché la BBC abbia destinato la storia al dimenticatoio, tenta nondimeno di minimizzare il fatto che gli avvenimenti raffigurati nel filmato rappresentano palesemente un crimine di guerra, rilevando che a definire in tal modo il tentato omicidio di un prigioniero è Amnesty International.

«Alcune agenzie di stampa filogovernative in Siria hanno suggerito che la BBC e il New York Timeshanno definito l'atto come un "crimine di guerra". Questo non è vero», afferma Williams.

Eppure è vero.

Al minuto 2’13” del videoclip incorporato poco sopra, il reporter della BBC Gordon Corera afferma chiaramente: «L’uso di prigionieri come attentatori suicidi sarebbe certamente considerato un crimine di guerra.»

Quindi, in realtà è proprio così, la BBC ha definito l'atto come un "crimine di guerra", ed è John Williams ad essere sfacciatamente disonesto.

Perché la BBC mente nel sostenere di non aver definito l'atto come un crimine di guerra? Forse perché la sua rimozione della storia costituisce un insabbiamento di un crimine di guerra. Forse il fatto ha reso nervosi gli avvocati e i redattori più anziani.

Ricordiamo che questa non è la prima volta che la BBC è stata colta in flagrante mentre manipolava i reportage sugli eventi in Siria per dare una spinta a un piano di cambiamento di regime in chiave filo-Nato. Lo scorso maggio mostrammo il modo in cui la BBC aveva usato una foto di diversi anni prima di bambini iracheni morti per raffigurare le vittime di un presunto attacco delle forze governative nella città di Houla.

Il fotografo che aveva scattato la foto originale, Marco Di Lauro, pubblicò un post sulla sua pagina Facebook: «Qualcuno sta usando le mie immagini come strumento di propaganda contro il governo siriano per dimostrare il massacro.» Di Lauro dichiarò al Telegraph di Londra di essere "sconcertato" dal fatto che la BBC non fosse riuscita a verificare l'autenticità dell'immagine.

La scusa usata dalla BBC per rimuovere la sconvolgente storia di come i ribelli siriani sostenuti dall'Occidente utilizzano prigionieri all'oscuro per compiere attacchi terroristici è zoppicante per non dire altro.

«Secondo i termini dell'accordo con il New York Times abbiamo solo avuto il diritto di utilizzare il materiale su certi canali di trasmissione. Tuttavia il materiale è stato utilizzato online per errore. Non appena ci siamo resi conto dell'errore abbiamo immediatamente provveduto a rimuovere il materiale online», ha risposto la BBC.

Così ci viene chiesto di credere che la più grande organizzazione al mondo nel campo dell’informazione non disponga di una procedura con cui fare delle verifiche assieme alle altre importanti organizzazioni del mondo delle news prima di utilizzare il loro materiale.

Anche se decidessimo di accettare questa controversa spiegazione, il fatto che la BBC stia ora dicendo il falso apertamente al suo pubblico nel pretendere che il suo inviato non abbia mai qualificato l'episodio come un "crimine di guerra" (quando è vero il contrario) sottolinea ancora una volta come i media allineati con la Nato siano ansiosi di giustificare l'immagine delle forze di opposizione siriane come quella di gloriosi combattenti per la libertà, quando in realtà essi sono guidati da terroristi di Al-Qai'da, intanto che si misurano atti di brutalità che stanno alla pari con qualsiasi atto di cui le forze di Assad siano state accusate

Esperimento Grecia


venerdì 24 agosto 2012

Finalmente una Cosa Seria!

24 agosto, 2012 -Claudio Grassi -

Abbiamo letto l’appello di Luca Sappino e altri compagni per la costruzione di una “Cosa Seria”.
Ciò che ci convince è il significato profondo della proposta, e cioè la definizione di una coalizione unitaria della sinistra italiana per le prossime elezioni politiche. Con all’incirca – azzardiamo noi – le seguenti caratteristiche.
1. Una coalizione che sia sociale prima ancora che politica: che sia in grado cioè di raccogliere le realtà più dinamiche del conflitto emerse negli ultimi anni. Dai metalmeccanici che non chinano la testa di fronte ai ricatti della Fiat agli studenti dell’Onda, dalla straordinaria mobilitazione per l’acqua pubblica e contro il nucleare alle lotte contro le grandi opere inutili e dannose. Una coalizione sociale che metta in rete questi soggetti e punti a rappresentare (come in Italia non avviene da troppi anni) gli interessi dei vasti settori sociali che vivono a contatto, soggettivamente od oggettivamente, con le lotte e i conflitti.
2. Una coalizione che metta al centro il lavoro e, dopo l’ubriacatura ideologica del decennio passato, il bisogno di ricostruire un soggetto politico che miri a determinare e affermare diritti, salario, garanzie di coloro i quali vivono vendendo la propria forza lavoro.
3. Una coalizione che definisca, intorno a questo perno, un programma di governo muovendo dalle proposte indicate in questi mesi dai metalmeccanici della Fiom-Cgil. Non allusioni metafisiche o illusioni politiciste, ma risposte concrete a problemi drammaticamente concreti: un piano pubblico per l’occupazione (connesso ad un più generale rilancio dell’intervento pubblico in economia, per una vera politica industriale che preservi e rafforzi l’apparato produttivo del Paese), un salario minimo garantito, forme di reddito garantito per disoccupati e studenti, una tassazione patrimoniale ordinaria, una seria tassazione delle rendite e delle speculazioni finanziarie per ricostruire pezzo dopo pezzo lo Stato sociale disaggregato da vent’anni di manovre finanziarie privatizzatici.
4. Una coalizione che assuma impegni chiari sui diritti civili e di cittadinanza (in primo luogo dei migranti), sulle tematiche connesse alla questione di genere, sulle spese militari, sull’ambiente e sul modello di sviluppo, sulla cultura e l’antropologia di un Paese distrutto e da ricostruire, su di unidea di Europa da salvaguardare e al contempo da riscrivere. Da questo punto di vista sarà decisiva la capacità di costruire relazioni stabili e iniziative di mobilitazione e di lotta a livello europeo, senza le quali ogni pratica politica e sociale sul piano nazionale rischia di risultare vana.
5. Una coalizione unitaria che deve proporsi di aggregare tutti coloro che sono oggi, da sinistra, allopposizione del governo Monti e che, in coerenza con questo, condividono un programma anti-liberista.
In questo la scelta precisa delle interlocuzioni è essenziale.
La maggioranza del Partito democratico ha compiuto una scelta diversa. La Carta d’Intenti, pur affermando spunti condivisibili, contiene due impegni che vanno in una direzione molto diversa dal vostro (e nostro) progetto: gli obblighi di carattere internazionale assunti dall’Italia (si intendono gli obblighi economici con l’Europa, a partire dal fiscal compact, e quelli militari, a partire dalla presenza in Afghanistan) andranno rispettati anche dal prossimo governo; e nella prossima legislatura il governo nascerà in virtù di un patto con i moderati, e cioè con l’Udc e ciò che – eventualmente – essa dovesse aggregare intorno a sé.
Allo stesso tempo è verosimile, come sostiene l’appello, che esista una parte consistente del Pd che non condivide questo impianto e le sue conseguenze.
Si tratta di una contraddizione che – ne conveniamo – va valorizzata. Per farla emergere riteniamo indispensabile e prioritario unire tutta la sinistra che è oggi all’opposizione del governo Monti, chiedendo a ciascuno di fare le proprie scelte e di ipotizzare, sulla base dei propri convincimenti e dei propri programmi, le interlocuzioni e le alleanze conseguenti.
Per parte nostra, abbiamo bisogno di un atteggiamento unitario che, fino in fondo, si metta alla ricerca del confronto e del dialogo più ampio. Ma allo stesso tempo del coraggio di chi sceglie di porsi, senza ambiguità, in alternativa agli orientamenti prevalenti nel gruppo dirigente del Partito democratico, che ha scelto – ad oggi – tutta un’altra strada, traducendo la giusta ambizione al governo del Paese nell’obbligo di governare a qualunque costo e con qualsiasi tipo di alleanza.
Costruire una “Cosa Seria” è una cosa seria. Una grande ambizione che non deve farci perdere coraggio, coerenza e realismo. La realtà non è come vorremmo che fosse, ma precisamente come è. Almeno fino a che saremo stati in grado di cambiarla.
Claudio Grassi
Simone Oggionni

"Una cosa seria a sinistra" intervista a Matteo Pucciarelli

- controlacrisi -
Matteo Pucciarelli noto blogger di Micromega è uno dei 6 firmatari dell'appello " Una cosa seria per la sinistra" che oggi è rimbalzato in rete un pò ovunque provocando un acceso dibattito dentro SEL sul tema delle alleanze. Controlacrisi lo ha intervistato.

CLC: L'appello che tu hai firmato sta viaggiando moltissimo in rete e molti giovani di SEL lo condividono. Tu però sei un "livornese sciolto" della sinistra diffusa, cosa ti ha spinto a sottoscrivere un appello con gli iscritti di SEL che però parla a tutta la sinistra?

MP: Più che «sottoscriverlo», lo abbiamo «scritto» in sei. E di sei, gli iscritti a Sel sono tre. Però condividiamo una visione aperta, direi d'area, della sinistra. Una volta si sarebbe chiamata radicale, adesso non saprei. O anzi, la chiamerei sinistra del buonsenso. Il buonsenso oggi sta nell'andare nella direzione opposta rispetto al montismo, di destra e di sinistra. I fatti stanno dimostrando che le ricette tecniche, che non sono tecniche ma liberiste e basta, lo stesso liberismo che ha causato la crisi, stanno fallendo. Com'era ovvio che fosse. Far finta di nulla, non è buonsenso, ma miopia.

CLC: A differenza di altri Paesi, come ad esempio in Olanda dove la questione del Fiscal Compact è al centro del dibattito della campagna elettorale, in Italia si parla di altro. Eppure saranno questi vincoli a condizionare la politica per i prossimi decenni. E' questa la miopia di cui parli?
MP: Il fiscal compact è un provvedimento di destra. Non lo dico io, né una cellula comunista combattente, ma un premio Nobel dell'Economia come Paul Krugman. Secondo il quale esso altro non è che un modo per realizzare il totem ideologico della dissoluzione del welfare. Che in Italia i "tecnici", o il Pdl, o l'Udc ne vadano orgogliosi, lo trovo assolutamente normale. Ma che lo stesso faccia il Pd, spacciandolo per un provvedimento intoccabile, mi sembra non miope: suicida. Ha fallito la Terza Via blairiana? Fa niente, adesso tentano la Quarta Via montiana. L'importante è ignorare la propria ragione sociale...


CLC: Il "montismo" sembra aver ottenuto l'obbiettivo che si era prefissato senza nessuna opposizione, leggendo l'appello si capisce chiaramente che secondo voi il centro sinistra dovrebbe allearsi con la sinistra ed i movimenti sulla base di una visione alternativa. Questa è una cosa positiva, ma la legge elettorale che arriverà a breve e l'ultimo scontro sulla giustizia sembrano aver costruito ancora più distanza tra il PD ed i non allineati. Come la mettiamo?
MP: Io sono convinto, o almeno voglio esserlo, che una buona fetta dell'elettorato del Pd abbia a cuore le cose elencate nella nostra lettera-appello. Parlare esclusivamente alla dirigenza sarebbe una sconfitta in partenza. Detto questo, da alcuni dirigenti ci aspettiamo un sussulto di coraggio e di rottura col recente passato. Anzi, con il presente. E sono convinto che sia il Pd ad aver bisogno della sinistra, non il contrario. Il successo del Movimento 5 Stelle dovrebbe far riflettere: l'elettorato non è mai stato così mobile. Vince l'alternativa, non la conservazione.

CLC: Il successo del vostro appello dimostra che la rete può essere uno strumento per costruire a sinistra uno spazio comune per discutere collettivamente senza farsi dettare l'agenda dai "padroni" della comunicazione. So che è difficile rispondere ma secondo te come possiamo fare?
MP: Devo essere sincero. Spesso a sinistra facciamo un po' di vittimismo sulla questione creando un corto circuito fatto di incomprensioni. I padroni della comunicazione sono pochi in Italia. Quelli che lavorano nella comunicazione, invece, sono migliaia. Sono persone normalissime, come noi, che non ordiscono complotti contro nessuno. A meno che non si chiamino agente Betulla ovviamente... Le idee serie, concrete, supportate dai fatti, attente a ciò che si muove nella società trovano sempre spazio. Magari faranno più fatica, magari non finiscono sulla prima del Corriere della Sera. Però se Luciano Gallino, per fare un esempio, scrive i proprio editoriali su Repubblica professando una visione completamente alternativa rispetto a quella "generale", allora è segno che se siamo all'altezza l'agenda potremo cominciare a modificarla anche noi. E personalmente sono convinto che sia così. Che sarà così

Lo stato confusionale tedesco

Fonte: il manifesto | Autore: Vincenzo Comito
 
Che sta succedendo alla Germania? L’inaugurazione del nuovo aeroporto di Berlino, fissata per l’inizio di giugno, è stata all’ultimo momento spostata al marzo 2013, e ora si parla di un nuovo rinvio. Stato federale, regione del Brandeburgo e comune di Berlino litigano su chi debba farsi carico degli extra-costi, forse 1,3 miliardi di euro in più rispetto ai preventivi. Segni di confusione, in un paese da cui non ce li aspettiamo. E proprio questa è l’immagine che offre l’attuale dibattito sull’Europa, sull’euro, e sulle prossime elezioni politiche del 2013, mostrando una Germania molto divisa e incerta. Intanto, l’economia inizia a perdere colpi.
«Il motore affaticato dell’Europa», così titolava di recente l’Economist sulla Germania: la congiuntura resta più positiva di altri paesi europei, ma l’economia sta rallentando, con una crescita del Pil soltanto dello 0,3% nel secondo trimestre dell’anno. Dopo un lungo periodo nel quale il paese ha tenuto alla larga la recessione, ora la crisi sembra stia per arrivare anche a Berlino. Da una parte, il livello della disoccupazione rimane contenuto ma, in un mercato sempre più nervoso, un numero crescente di indici che misurano le aspettative delle imprese e degli economisti segnano un peggioramento. L’istituto Ifo di Monaco registra una pericolosa caduta di fiducia del mondo del business, un numero crescente di imprese teme una riduzione degli ordini e riduce gli investimenti in macchinari. Si sussurra di possibili tagli nell’occupazione alla Siemens, mentre alcune catene della grande distribuzione, da Karlstadt a Schlecker, sono in difficoltà.
Secondo l’istituto Destatis, in giugno la produzione industriale si è ridotta dello 0,9% e gli ordini all’industria dell’1,7%, mentre quelli provenienti dalla zona euro sono diminuiti del 5% e quelli di origine interna del 2,1%. Le esportazioni verso i paesi della zona euro rappresentano ora circa il 40% del totale, con un certo ridimensionamento rispetto al passato, ma la Germania è riuscita a sostituire tale calo, grazie anche alla debolezza dell’euro, con la crescita delle vendite verso l’Europa orientale, l’Asia, l’America latina. Ora, con il rallentamento (forse temporaneo) dell’economia anche nei paesi emergenti (i Bric), le cose si potrebbero complicare.
I consumi interni reggono ancora e sono aumentati del 2,9% in giugno rispetto a un anno prima, grazie anche al rinnovo di alcuni contratti di lavoro di categoria che ha portato ad aumenti degli stipendi del 4,5%. Anche tale incremento sembra sia peraltro in corso di ridimensionamento. Un rilancio dell’economia tedesca – e di quella di tutto il continente – avrebbe bisogno di una crescita decisa della domanda interna, insieme a un grande piano di investimenti a livello di Unione Europea, ma l’élite di Berlino non sembra all’altezza dei problemi.
Iniziamo dagli economisti. In luglio circa 200 tra loro hanno firmato una lettera aperta che definisce sbagliata la politica di Angela Merkel nei riguardi dell’euro; nel documento si avverte l’opinione pubblica dei pericoli di un’unione bancaria e di una socializzazione dei debiti delle banche. Secondo i firmatari, le misure di salvataggio previste in sede di istituzioni europee, porterebbero beneficio soltanto a Wall Street, mentre danneggerebbero tutti gli altri. A questo punto altri 200 economisti hanno redatto una seconda lettera aperta, nella quale si sostiene che l’unione bancaria è essenziale per il salvataggio dell’euro. Sono seguite altre prese di posizione, con le proposte più varie, senza che emerga un consenso su che cosa dovrebbe fare il paese.
Veniamo ai politici. La discussione tra (e dentro) i partiti sembra non meno incerta di quella accademica. Angela Merkel e gran parte del governo, consci forse del vicolo cieco in cui si erano cacciati, ora appaiono più possibilisti sul salvataggio dei paesi in difficoltà – sempre peraltro a condizione dell’inasprimento di politiche di austerità – mentre la Csu bavarese e i liberali, nonché la Banca Centrale, che gode di grandissimo prestigio nel paese, appaiono ferocemente contro. La discussione si concentra in questo momento sul funzionamento del Fondo salva stati e sul parallelo ruolo della Bce. Va sottolineato che nelle tre votazioni in parlamento sull’Europa avvenute nel corso di quest’anno, la Merkel ha ottenuto l’avallo alla sua politica solo con il voto determinante dell’opposizione.
Apparentemente il partito socialdemocratico (Spd) gioca la carta della solidarietà europea. Ha affidato a Jurgen Habermas e a due altri esperti (un altro filosofo e un economista) la preparazione di contributi per il programma del partito, e tali studiosi sono a favore di un deciso trasferimento di sovranità, che non dimentichi peraltro il principio democratico. Tale cessione di poteri dovrebbe essere sanzionata da un referendum da effettuare in tutti i paesi dell’euro. Per diversi mesi la Spd sembrava molto aperta alle misure di sostegno ai paesi deboli, compresa l’emissione di eurobond, ma di recente le prese di posizione di qualche suo esponente – forse marginale? – sembrano invece collocarsi vicino alle idee degli oltranzisti dell’altro fronte.
La scadenza elettorale dell’autunno 2013 inizia a condizionare i comportamenti. Appare difficile immaginare che, nonostante l’attuale grande popolarità personale di Angela Merkel, i risultati delle elezioni possano permettere la formazione di un nuovo governo Cdu-liberali come quello attuale; la soluzione più plausibile sembra una grande coalizione, nella quale la Cdu dovrà venire a patti con i socialdemocratici, mentre un po’ meno probabile appare la vittoria piena di una coalizione di sinistra, viste anche le divisioni esistenti tra i partiti dell’area. In ogni caso, qualcosa nella politica tedesca verso l’euro potrebbe presto cambiare in maniera significativa.
Nelle decisioni politiche europee, la Germania ha per tanto tempo – per comprensibili ragioni di opportunità – mantenuto un basso profilo; ora si è ritrovata all’improvviso con la responsabilità della guida di fatto dell’Europa, senza che le sue élites politiche ed economiche avessero una preparazione adeguata. La memoria corre, a questo proposito, al caso del Giappone che, alla fine degli anni ottanta aveva raggiunto l’obiettivo di ottenere lo stesso livello di sviluppo economico dell’Europa e degli Stati Uniti, obiettivo che inseguiva da più di un secolo; a quel punto il paese si è ritrovato smarrito, non sapendo più che nuovi traguardi porsi. La Germania si trova di fonte ad un bivio; potrebbe decidere di fare come le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale, che imposero al paese riparazioni di guerra alla lunga insostenibili, e che contribuirono a portarla verso l’avventura nazista, oppure potrebbe ispirarsi al secondo dopoguerra, quando gli alleati concessero, con un accordo del 1953, la riduzione del 50% del debito tedesco, contribuendo così in misura rilevante al decollo dell’economia.
* Quest’articolo continua il viaggio del manifesto nella politica e nell’economia dei paesi europei, aperto dal caso spagnolo ( Agenor , 18 agosto) e dall’inchiesta sulle elezioni olandesi ( Francesco Bogliacino , 23 agosto)

La Grecia chiede tempo Schäuble: sono soldi

Autore: Fr. Pi.
- controlacrisi -
Anche Hollande invita Samaras a «fare gli sforzi necessari» perché Atene possa restare nell’euro
Un vertice a due, come quando bisogna far presto a decidere. Tanto tutti gli altri paesi possono solo seguire, accompagnando quello dei due che offre migliore sostegno ai propri interesse.
L’asse franco-tedesco si è confermato ieri sera (una cena di lavoro terminata troppo tardi per potervene dar conto) intorno alla questione tornata ormai centrale per il futuro dell’eurozona: cosa fare con la Grecia?
La vigilia aveva riproposto due visioni non sempre facilmente convergenti, con Angela Merkel a fare la faccia dura come pretendono i custodi di Bundesbank e il suo ministro delle finanze. La richiesta del premier greco Antonis Samaras, che tra oggi e domani vedrà sia Merkel che Francois Hollande, è nota: servono due anni in più per portare a termine il programma imposto dalla troika (Bce, Ue, Fmi). Ma si accontenterebbe probabilmente anche di qualcosa di meno. In diverse interviste a media tedeschi ha voluto «garantire personalmente che Atene restituirà tutti i soldi» ai contribuenti europei. Ha cercato di terrorizzare i propri concittadini che contestano i tagli parlando di uno «scenario devastante» l’uscita della Grecia dall’euro.
Ma ha sollevato anche un argomento più serio: come possiamo privatizzare (spuntando un prezzo accettabile, ndr) quando ogni giorno i funzionari europei speculano pubblicamente su una potenziale uscita»? Il rischio per i greci è di svendere asset che altri (tedeschi, francesi o inglesi) gradirebbero per l’appunto ceduti in saldo.
Ma Wolfgang Schaeuble ha sbarrato la porta spiegando che «più tempo non è una soluzione del problema, ma solo più soldi da spendere». Altri 20 miliardi di aiuti, hanno quantificato gli analisti. Anche Hollande, entrando nel palazzo della Cancelleria, ha dovuto premere sul tasto della responsabilità di atene, che «deve naturalmente fare gli sforzi necessari»; anche se «è mio auspicio che la Grecia resti nell’eurozona; questa è la nostra volontà e lo diciamo da quando la crisi è iniziata». Ma Merkel ha messo un paletto preciso: per poter prendere qualsiasi decisione si dovrà prima analizzare il rapporto che i funzionari della troika in questo momento al lavoro ad Atene presenteranno ai leader europei. Il margine è insomma molto stretto, i rischi politici, oltre che economici, per l’Europa tornano alti. Il ministro finlandese degli affari europei è arrivato a denunciare – in controtendenza con gli umori prevalenti nel suo governo – la tentazione di erigere un «nuovo muro di Berlino» che separerebbe questa volta nord e sud del continente.
Non solo Citigroup, ormai, considera vicine al 90% le probabilità che Atene esca dalla moneta unica entro 12-18 mesi. Persino i bookmakers britannici quotano le scommesse in merito a 1,15 (l’Italia è data a 9). L’unica consolazione è che le scommesse sarebbero restituite se dall’aeuro uscissero tutti contemporaneamente.

giovedì 23 agosto 2012

"Arrestato senza un motivo". Ora il poliziotto risponde e spiega...

Un dirigente di Rifondazione, viene arrestato dalla polizia municipale durante una festa. Lo racconta sul nostro sito. Ora risponde uno degli agenti: sono anch'io di sinistra, e ho fatto il mio lavoro

- ilmanifesto -
Luigi Perna - 23.08.2012
Caro compagno Morvillo,
mi chiamo Luigi Perna e sono uno degli agenti della polizia municipale di Napoli che nella notte tra il 15 e il 16 agosto scorsi hanno preso parte al tuo arresto. Ho ritenuto doveroso intervenire sull'argomento dopo aver letto i resoconti parziali e male informati di alcuni quotidiani e il tuo corposo resoconto inviato al manifesto, quotidiano a me caro a causa del mio recente passato in cui, come te, sono stato dirigente di uno dei partiti della sinistra napoletana.
Nelle ore successive ai fatti da te raccontati avevo deciso di starmene in disparte e non occuparmi dell'argomento, tuttavia le tue considerazioni esigono una risposta, se vuoi da compagno a compagno.
Partiamo dall'inizio: una macchina della polizia municipale arriva presso il locale da te frequentato alle 3 del mattino in seguito alle proteste degli abitanti dovute alla musica troppo alta e agli schiamazzi: sappi che è una cosa che capita molto spesso, purtroppo anche a causa della proverbiale incapacità delle diverse amministrazioni comunali di trovare una mediazione definitiva tra il diritto al divertimento e quello, consentimi, sacrosanto, delle persone che si svegliano presto la mattina per andare a lavorare, di riposare in pace almeno per qualche ora. In ogni caso, nella quasi totalità delle occasioni, si preferisce non intervenire con sanzioni amministrative, anche laddove ci sono violazioni della legge, e chiedere civilmente di andare incontro alle esigenze dei cittadini e abbassare il volume. Quella notte i colleghi entrarono nel locale con lo stesso intento e tuttavia, contrariamente a quanto tu racconti, furono essi ad essere trattati in modo irriguardoso e provocatorio, in particolare dalla persona che gestiva la musica, che quasi cacciò fuori con parole offensive la collega che aveva chiesto di abbassare la musica. Da un compagno come te mi sarei aspettato che prendessi le difese di una lavoratrice notturna trattata male nell'esercizio delle sue funzioni... e invece tu, concentrando la tua attenzione su quello che rappresenta la «divisa» ai tuoi occhi, ti sei unito fin dall'inizio, in modo arrogante, a quelli che si ribellavano contro una normalissima attività di routine.
I colleghi sono stati costretti a chiedere i rinforzi perché, in quello stato di agitazione generale e nell'impossibilità di giungere ad una pacifica soluzione del problema, c'era bisogno di maggiori unità: se tu, quale compagno politicamente impegnato, ti fossi attivato con gli altri partecipanti alla festa nella direzione di una mediazione, la questione si sarebbe risolta in cinque minuti.
Come sempre avviene in questi casi, quando dall'altra parte si riscontra solo incomprensione ed ostilità, si decide di fare fino in fondo il proprio dovere nell'esercizio delle proprie legittime competenze. Ed è a quel punto, quindi, che tre colleghi sono entrati dentro per effettuare un normale e banalissimo controllo della documentazione amministrativa del locale. Non potendo effettuare tale operazione con venti persone addosso che inveivano contro di noi, si è chiesto a tutti di uscire fuori per il tempo strettamente necessario (cinque minuti) al controllo dei permessi e all'eventuale redazione di una contravvenzione. Nessuna ispezione, compagno Morvillo, solo un controllo dei permessi.
Tu però non eri d'accordo e non volevi che facessimo il nostro dovere, urlavi davanti al portone del locale agitando il tuo tesserino di giornalista insistendo sul fatto che era un tuo diritto assistere a quello che stavamo facendo: cosa assolutamente falsa, come forse ti avranno spiegato in seguito. A più riprese hai cercato di forzare il blocco alla porta e a più riprese un collega ti ha gentilmente allontanato invitandoti a non perseverare nel tuo intento, per il tuo bene. Ricordo bene che tu urlavi: «Arrestatemi! Fatemi vedere, voglio essere arrestato!». Nell'unico momento in cui il collega si è distratto tu hai quasi sfondato la porta, sei piombato all'interno e urlando ti sei scaraventato contro il collega che stava controllando i documenti, che non è caduto a terra solo grazie alla sua mole. A quel punto, nell'impossibilità di farti ragionare - eri una furia - ti abbiamo caricato su una delle auto di servizio e condotto presso il nostro comando centrale.
Ho chiesto personalmente al personale di turno di aprire una stanzetta di servizio dove ti ho fatto accomodare - ti ricordi? - e subito dopo sono andato a comprarti una bottiglietta d'acqua. Abbiamo contattato il magistrato di turno e insieme a lui abbiamo convenuto che non era il caso di accompagnarti presso le camere di sicurezza della questura di Napoli (al buio e con letti di pietra), come si fa in questi casi, e ti abbiamo trattenuto al comando pur non essendo forniti di strutture adeguate. Ti abbiamo piantonato, caro compagno Morvillo, al di là dell'obbligo legale di fare ciò, soprattutto perché il tuo persistente stato di agitazione non garantiva sul fatto che te ne saresti stato buono al tuo posto senza provocare ulteriori danni prima di tutto a te stesso, e quindi anche a tutela della tua incolumità. Ti abbiamo chiesto di fornirci il numero o anche solo il nome del tuo avvocato di fiducia, per avere il tempo necessario per cercarlo e convocarlo, e ti sei rifiutato di darcelo. Ti abbiamo chiesto un numero di casa tua, di un parente, di una amico o di una persona di tua fiducia da contattare per informarla di quanto stava accadendo, di dove ti trovavi e di cosa ti aspettava, e ti sei rifiutato di darcelo. Pretendevi di avere il tuo telefonino, cosa che non era possibile. Per venirti incontro ho anche telefonato in piena notte ad un nostro ufficiale esperto della materia per verificare se nella normativa ci fosse qualche appiglio che ci consentisse di farti fare direttamente le telefonate, ma la risposta è stata assolutamente ed inderogabilmente negativa.
Quanto alle manette che ti sono state messe prima di essere portato in tribunale, sappi che i colleghi che ti hanno assistito sono stati sonoramente rimproverati per non avertele messe fin dall'inizio, cosa che va fatta ogni volta che una persona viene tratta in arresto.
Nel complesso, quindi, dal mio punto di vista tu sei stato trattato in modo assolutamente umano e rispettoso dei tuoi diritti, e se ti è capitato un fatto del genere è solo perché non hai capito che il tuo diritto al divertimento doveva conciliarsi con il rispetto dei lavoratori in divisa con cui sei venuto in contatto e con i tuoi concittadini che avevano bisogno di dormire.
Detto questo, mi consentirai di non condividere i tuoi reiterati riferimenti ai fatti di Genova 2001 e ai casi Cucchi, Aldrovandi, Sandri, Giuliani, etcc... Io a Genova c'ero, come te, sicuramente, e ho visto cose terribili, tanto terribili che quando son tornato a casa volevo a tutti i costi licenziarmi e non indossare mai più una divisa. Per fortuna non l'ho fatto: ero stato assunto da pochi mesi e negli anni successivi ho avuto la possibilità di conoscere, dall'interno, una realtà complessa fatta di persone in carne ed ossa che si confrontano quotidianamente con una serie di contraddizioni che la classe politica scarica esecrabilmente sulle loro spalle.
Ma tu, compagno Morvillo, credi davvero che alla maggioranza di noi piaccia sgomberare i clandestini o smantellare i mercatini degli extracomunitari? Ma tu pensi davvero che queste operazioni nascano nella testa di un comandante e non siano, invece, il frutto di una scelta politica chiara e deliberata e tuttavia non ammessa pubblicamente a causa delle contraddizioni interne alla maggioranza?
Caro compagno Morvillo, mi consentirai come chiosa una considerazione un po' provocatoria: Pier Paolo Pasolini, come ben sai, all'indomani degli scontri di Valle Giulia si schierò dalla parte dei poliziotti figli di contadini ed operai e contro gli studenti figli di borghesi. Ebbene, nella notte tra il 15 e il 16 agosto scorsi, confrontandomi con te ed i tuoi amici io, da comunista, sono stato felice di essere dalla parte dei gendarmi.
Spero comunque di rivederti in migliori occasioni.
Fraterni saluti,
Luigi Perna

Non è tutto oro ciò che è tedesco

  
Se è vero che non è più il tempo delle crescite miracolose, come sottolineava Dani Rodrik qualche giorno fa, sarà bene allora concentrarsi sulla precaria situazione dell’Europa e, in particolare, sulle prospettive di crescita della Germania, fino ad oggi considerata il “paese forte” dell’Unione, quello capace di esercitare il ruolo di “locomotiva”, giustificando in tal senso anche la propria autorità nel dettare l’agenda politica di tutta l’area.
Il campanello d’allarme è suonato il 14 agosto (cfr. Spiegel), quando sono stati resi noti dall’Ufficio statistico federale tedesco i dati macroeconomici che mostrano per la Germania una crescita nel secondo trimestre dell’anno (rispetto a quello dell’anno precedente) pari allo 0,3%. Si tratta certamente di un risultato positivo se confrontato con la “crescita zero” della Francia, e con la recessione dell’Italia (-0,7%) e della Spagna (-0,4%). Ma – si chiede l’Economist in un editoriale del 18 agosto – a queste condizioni, in che misura e fino a quando potrà la Germania fungere da “locomotiva dell’Europa”? Si tratta, è vero, di una situazione relativamente recente, poiché fino alla fine del 2011 la crescita dell’economia tedesca mostrava perfino segni di accelerazione.

La difficile situazione degli altri paesi europei, sta però ora sortendo i suoi effetti, anche se alcuni margini di manovra sembrano ancora esistere. La consistenza del surplus commerciale della Germania è infatti è ancora significativa, anche per effetto dell’avanzata sui mercati del centro Europa, dell’Asia e del continente americano e del vantaggio offerto da un euro debole. Per diversi esponenti del governo, anzi, questa è considerata una situazione florida, tale da non richiedere interventi correttivi per aumentare il ruolo di traino della domanda interna. Ma per molti economisti, così come per la confederazione generale del sindacato tedesco, la situazione appare molto meno rosea, e sarebbero piuttosto necessari interventi di stimolo sugli investimenti. I consumi interni, infatti, nel complesso stanno mostrando una discreta stabilità, mentre gli investimenti in nuova capacità produttiva stanno languendo.
In effetti anche i segnali in questo senso non sono tutti univoci, come risulta dalle tendenze del mercato dell’auto, per il quale si registra una nuova espansione nei mercati extra – europei, ed in Cina ed India, in particolare. Ma, di nuovo, sono da porre all’attenzione le prospettive di lungo periodo, poiché, allo stato attuale, i paesi dell’UE rappresentano ancora il 40% dell’export tedesco di auto.
Luci e ombre, dunque, sull’economia tedesca. Ma, soprattutto, una sostanziale incertezza, che si alimenta dell’instabilità del traino esercitato dalle esportazioni in prospettiva (volendo aggiungere – cosa che l’Economist non menziona, ma che è divenuta ormai dominio comune – anche il rallentamento della crescita delle economie emergenti verso le quali la Germania ha diretto progressivamente quote maggiori di export) e della sostanziale debolezza della componente dei consumi in quanto centro propulsore della domanda interna, poiché – come sottolinea l’Economist – i settori del commercio al dettaglio e dei servizi in Germania non sono efficienti nel “catturare” i consumatori.
Stefan Schneider, economista della Deutsche Bank, chiosa il tutto ricordando che è molto difficile per la Germania avere prospettive di crescita sotto siffatte condizioni. E ricorda così che negli anni ’90, ai tempi dell’unificazione, fu fatta proprio una politica di incentivazione dell’investimento nell’Est del paese. Oggi sarebbe il caso di ridare vita a quegli incentivi per gli investire nelle aree della periferia europea.
Ma, aggiungiamo noi, i tempi e i modi stando ai quali – e stando al quadro presentato – la Germania può essere autonomamente in grado di dare impulso alla propria economia, sembrano di là da venire. Mentre sembra assai più realistico il condizionamento che lo scenario negativo dell’economia mondiale tutta è in grado di esercitare nell’immediato, con effetti non trascurabili sulla consistenza e sulla diversificazione delle scelte di investimento.

Il tragico debito che il capitalismo fa finta di non vedere

Autore: MASSIMO ROSSI* - controlacrisi - 
        La Global Footprint Network Information ci fa sapere che cade proprio oggi, mercoledì 22 agosto il giorno in cui l’impronta ecologica mondiale oltrepassa quet'anno la soglia biologica della Terra (“la capacità di un ecosistema di rigenerare risorse e di assorbire i rifiuti generati dagli umani”). “Da domani”, sostengono gli autorevoli curatori dello studio, “sosterremo il nostro deficit ecologico dando fondo alle riserve naturali e accumulando anidride carbonica nell'atmosfera”. Per far fronte all'attuale sistema di produzione/spreco/consumo/inquinamento... occorrerebbero le risorse di una Terra e mezza.
Di certo Mario Monti e gli altri sacerdoti europei ed internazionali del liberismo non ci parleranno di questo tragico debito con la natura prodotto dal saccheggio e dallo spreco consumistico dell’economia capitalistica. Questo, per loro, serve a far girare i mercati e a produrre il massimo profitto nel minor tempo possibile, fine primario di questo barbaro modello socio economico... quindi non può essere fernato.
Ma mentre il debito finanziario viene drammatizzato come pretesto per demolire i diritti e la civiltà dei popoli, quello con l’ecosistema che non è sanabile ne riscattabile viene rimosso.
Se non ci ribelleremo lo lasceremo per intero ai nostri figli insieme alla nuova schiavitù ai padroni del vapore nella quale ci sta sprofondando l’attuale classe dirigente.
* Portavoce Fds
 
FUNERAL PUMP
Good-bye my dear

mercoledì 22 agosto 2012

martedì 21 agosto 2012

L’aut aut che Monti non vede

il manifesto | Autore: Guido Viale
«It’s the economy, stupid»: era stato questo lo slogan vincente di Bill Clinton nella campagna contro George Bush (senior) vent’anni fa. Forse oggi è il caso di riprendere quelle stesse parole contro il ragionier Monti, economista di fama mondiale, che non riesce a spiegarsi come mai, avendo «messo i conti in ordine», lo spread italiano continui a essere il triplo di quello di altri paesi quasi altrettanto indebitati e senza quell’avanzo primario (la differenza tra entrate e spese dello Stato destinata al pagamento degli interessi) che nessun altro in Europa può vantare.
Le borse non sono cieche: spread alto ed economia a pezzi vanno insieme Il fatto è che con le sue misure «salvaitalia», «crescitalia», spending review e «spremilavoro» Monti ha letteralmente strangolato, e continua a strangolare, l’economia italiana: la sua base produttiva e occupazionale, le sue imprese, le sue potenzialità; mentre con il pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact ha posto le premesse perché nei prossimi anni e decenni l’economia italiana non possa mai più riprendersi: esattamente come in Grecia. Perché allora la finanza internazionale (e nazionale), che guarda alla sostanza delle cose e non ai discorsi, non dovrebbe aspettarsi che un programma del genere porti diritto al fallimento?
Lo spread è la dimostrazione che, in barba ai cosiddetti «fondamentali», la scommessa è proprio questa. A difesa di Monti si potrebbe argomentare che a non capire questa cosa elementare (o a fingere di non capirla, per nascondere altri obiettivi) non è solo lui ma che è in buona compagnia.
Innanzitutto del suo governo e dei partiti che lo sostengono; che continuano a blaterare di un “dopo Monti”, come se questo governo non stesse mettendo le premesse (addirittura in Costituzione!), perché il dopo non si differenzi minimamente dal prima (compreso il «prima di Monti», con cui è sempre più evidente la sostanziale continuità, a parte lo «stile» al posto del carnevale). Ma dietro o accanto a lui, a confermarlo nella sua pretesa di salvatore della patria, c’è tutto l’establishment della finanza internazionale, a partire da Goldman Sachs che lo ha allevato insieme al suo socio Draghi. Entrambi si presentano come i demiurghi dalle cui decisioni dipendono le sorti non solo dell’Italia ma anche quelle dell’euro, e insieme all’euro, dell’Unione europea – e per inevitabile contagio, come ben ha capito Obama, prigioniero anche lui, però, dello staff di finanzieri nelle cui mani si è messo contando di addomesticarli e non di esserne addomesticato – dell’economia mondiale. Ma entrambi cominciano a capire che il gioco in cui si sono messi è più grande di loro (nonostante tutta la «potenza di fuoco» che Draghi sostiene di voler mettere in campo); e forse più grande di chiunque altro al mondo.
Perché il modo di operare della finanza non è una congiura, ma un meccanismo cieco che nessuno in realtà governa: giacché è un contesto in cui ciascuno, anche le maggiori potenze del mondo, non può più agire se a difesa del proprio, per quanto immenso, «particulare»: che nel corso del tempo si è andato riducendo sempre più alla contabilità dei margini realizzati giorno per giorno: magari e per lo più, come si sta scoprendo giorno per giorno, attraverso meccanismi truffaldini: come la manipolazione del libor e dei rating, le scommesse contro governi o investitori di cui si è consulenti (i famigerati Cds, spacciati per il loro contrario, cioè assicurazioni contro il fallimento). O le modificazione delle regole delle vendite allo scoperto: quella con cui Draghi, allora ancora Governatore di Banca d’Italia, ha a suo tempo spianato la strada alla nomina di Monti.
Le regole con cui tenere sotto (parziale) controllo gli spiriti mortiferi della finanza, messi a punto tra la crisi del 1929 e la conferenza di Bretton Woods (a favore, per la verità, di una parte ridotta e privilegiata delle nazioni) sono state abolite da tempo in nome del pensiero unico, della deregolamentazione e della libera circolazione dei capitali. E con un solo obiettivo: privatizzare tutto e riprendere ai lavoratori quel poco che avevano conquistato in più di un secolo di lotta di classe.
Non saranno quindi né Monti né Draghi a porre un freno o a invertire questo processo. La partita tornerà ben presto in forme drammatiche e in un contesto tumultuoso e privo di mediazioni – distrutte o rese insignificanti dalla degenerazione della «politica» – nelle mani delle vittime del loro operato: ma in un contesto nazionale e internazionale carico di rischi autoritari e di elementi di confusione. È questo il quadro di riferimento di ogni possibile discussione sulla «ripresa» d’autunno

Allarme suicidi? In Italia oltre 2000 richieste di aiuto. Telefono, il mezzo per raccontare fallimenti e disperazione

L'allarme suicidi in Italia è all'ordine del giorno. Gli imprenditori sino sempre più sull'orlo della crisi, ma non solo economica.
Sono più di 30 le vittime che nel 2012 si sono tolte la vita dopo aver perso il lavoro e le associazioni che si occupano del fenomeno oggi lanciano l'allarme sul pericolo di altri gesti estremi.
I dati elaborati dall'Adnkronos mostrano oltre 2mila le persone che, negli ultimi mesi, si sono rivolte a progetti di ascolto e supporto psicologico, nati a livello regionale o nazionale.
Cause? Il peso del fisco, la perdita del lavoro, la difficoltà di far quadrare bilanci e di ottenere credito tolgono il sonno a centinaia di migliaia di persone e contro i gesti estremi è boom di telefonate alle associazioni di sostegno come 'Speranzaallavoro', voluta da Adiconsum e Filca Cisl per rompere il silenzio e la solitudine dei piccoli imprenditori e delle loro famiglie.
L'iniziativa, partita il 16 aprile scorso,continua a registrare numeri preoccupanti.
"Sono oltre un migliaio le persone -spiega Pietro Giordano, segretario generale di Adiconsum- che già hanno chiamato per chiederci aiuto". Cifre da aggiungere a realtà come il progetto 'Terraferma', nato per volere dell'imprenditore Massimo Mazzucchelli, che dallo scorso marzo ha risposto agli 'Sos' di oltre 550 lavoratori in difficoltà.
Ma c'è anche altro: iniziative a livello locale (quasi ogni regione dispone di un servizio ad hoc) come 'InOltre' finanziato dalla Regione Veneto. Dallo scorso 11 giugno, il numero verde ha raccolto l'appello disperato di circa 80 imprenditori di una delle zone più colpite dalla crisi.
A livello nazionale dunque la somma supera la cifra di 2mila messaggi di aiuto e il telefono diventa il mezzo per raccontare i propri fallimenti e la dipserazione che si vive.
Il Nord Italia in maggioranza si rivolge a 'Speranzaallavoro', mentre sono "le figlie soprattutto a chiedere aiuto, spezzando quel senso di fallimento che pesa sui padri. Per loro -svela il segretario generale di Adiconsum, Giordano- è più dura ammettere la fine di un progetto imprenditoriale". Più diversificato, invece, l'identikit di chi contatta lo spazio di ascolto e di supporto 'Terraferma' che offre sostegno, 24 ore su 24, grazie al contributo di 30 tra psicologi e psicoterapeuti. "In prevalenza si rivolgono a noi gli imprenditori -spiega Mazzucchelli-, ma chiamano anche lavoratori disoccupati di tutte le età. Telefonano soprattutto da Veneto, Lombardia e Piemonte, anche se non mancano richieste di aiuto da Lazio e Campania".
Circa il 10% delle telefonate, aggiunge il responsabile del progetto "viene fatto da mogli o figlie, le quali si accorgono del disagio di chi si ritrova a fare i conti, oltre che con la crisi, con l'ansia e la depressione".
Imprenditori, familiari o dipendenti con l'incubo di perdere il lavoro sono le persone a cui presta aiuto anche Emilia Laugelli, responsabile dell'Unità operativa di Psicologia clinica dell'ospedale di Santorso e del progetto 'InOltre'. "Il nostro -spiega - è un supporto psicologico soprattutto verso i piccoli imprenditori. Anche per 'Terraferma' l'idea di fornire, "con tariffe agevolate, un percorso di sostegno a chi si sente strozzato dal peso delle tasse, a chi pensa a gesti estremi pur vantando crediti nei confronti della pubblica amministrazione", sottolinea Mazzucchelli. Se al via dell'iniziativa c'è stato un "boom di contatti per i nostri consulenti -avvocati, psicologi e fiscalisti- l'estate non rende più felici gli imprenditori", sottolinea il segretario generale di Adiconsum, Giordano. "I numeri di chi ci contatta è costante, così come costante è la pressione fiscale a cui sono sottoposte le pmi e che finisce per strozzarle", evidenzia. Dopo l'accordo con l'ordine degli psicologi, Adiconsum ipotizza un intervento anche economico attraverso il coinvolgimento degli istituti di credito.
"Penso -dice Giordano- a un fondo di solidarietà finanziato dalle banche, grazie a un euro versato per l'apertura di un conto corrente, per realizzare un microcredito con tassi vicini allo zero. Una formula che consentirebbe, insieme a uno stop temporaneo della rivalsa di crediti passati, di aiutare molti imprenditori e scongiurare gesti estremi. Alcune persone - ricorda- si sono suicidate per debiti di poche migliaia di euro". E a una sorta di welfare sociale pensa anche il responsabile di 'Terraferma', progetto promosso dal movimento 'Impresecheresistono'. "Sarebbe importante creare un fondo di garanzia pubblico finanziato, ad esempio, dalle regioni. Non soldi a fondo perduto, ma temporaneamente a favore delle Pmi che hanno bisogno di piccoli importi, ad esempio 5mila euro, per risollevarsi". Non bisogna dimenticare, sottolinea Mazzucchelli "che spesso le piccole e medie imprese, pur vantando crediti nei confronti di altre o dello Stato, si ritrovano a fare i conti con l'Agenzia delle Entrate e con Equitalia". E di fronte alle banche "che hanno 'chiuso' l'accesso al credito, l'imprenditore non riesce più a far fronte ai pagamenti dei fornitori e agli stipendi dei dipendenti. A peggiorare la possibilità di ripartire la segnalazione alla 'centrale rischi'". Per uscire dal circuito vizioso "è fondamentale una riduzione delle imposte -conclude- per garantire una maggiore competitività e far ripartire il mercato interno". Mentre il governo sembra vedere la luce in fondo al tunnel della crisi, il buio sembra ancora dominare tra lavoratori in difficoltà, disoccupati e imprenditori, ma una telefonata a volte può davvero allungare la vita

The Merkel memorandum

  

- economist -
ANGELA MERKEL, the German chancellor—and also, in effect, the euro area’s boss—has always insisted that she wants to preserve the euro area in its current form. But as the euro crisis intensifies and the potential bills for Germany mount, she would be imprudent not to be considering a Plan B. Drafted in utmost secrecy by a few trusted officials for the chancellor’s eyes only, this is what the memorandum outlining a contingency plan might say.

THE CURRENT IMPASSE
I. Since the euro crisis started over two years ago you have said that Germany will defend the single currency, based on your conviction, shared by business and the political class, that its survival is in our national interest. To that end Germany has pledged large amounts of public money, both in our contributions to various rescue funds and through the Bundesbank’s share of risks taken by the European Central Bank (ECB). At the same time you have tried to minimise the bill for German taxpayers by insisting that bailed-out states implement strict austerity programmes and, more generally, by resisting calls for debt mutualisation—code for Germany underwriting the euro area—while demanding greater central control over all national budgets.
II. Bluntly, the plan isn’t working. Greece is a disaster zone. Ireland and Portugal are making some progress (it was encouraging that Ireland was able to raise some money from the markets in July) but they still have a long way to go and could easily be knocked off course. Worse, Spain looks as if it may need a full bail-out rather than the partial one for its banks you had hoped would suffice. And Spanish sickness is infecting Italy, undermining all the good work that Mario Monti has been doing since the Italians saw sense and got rid of Silvio Berlusconi, as you had been urging behind the scenes. Meanwhile François Hollande isn’t doing enough to get France into shape and is playing the usual French game of calling for Germany to do more while resisting your attempts to centralise control at the European level. Mario Draghi, the ECB’s president, has calmed things down for the moment, but his plan could easily come unstuck.
III. The position is dangerously unstable. If capital flight from the peripheral economies gathers pace, it could trigger runs on entire banking systems. That would put the ECB—and thus, indirectly, the Bundesbank and Germany—on the hook for deposits worth trillions of euros. The domestic politics are already ugly in several countries, notably Greece. This is poisoning our position in southern Europe, where our help is increasingly seen as a new form of German tutelage. The situation is deteriorating in Germany, too, where your ability to act is being limited by a backlash against bail-outs and against the euro itself. If anything, the backlash in Finland and the Netherlands is even more vicious.
THE CASE FOR PLAN B
IV. Hence the need to consider an alternative strategy. The aim of this contingency plan is not the complete break-up of the 17-country euro area. That would be against the German national interest, destroying the hard-won respect we have achieved since the second world war by embracing European integration. And it would needlessly damage our economy by bringing back currency risk for trade with countries such as Austria and the Netherlands, which have adapted perfectly well to the euro. Plan B seeks to save the euro by surgery, excising states that cannot cope rather than clinging to the vain hope that they can regain their health within the euro zone.
V. We propose two options. First, the one that may be forced on you anyway: an exit by Greece arising from gross dereliction of its duties under the various bail-out agreements. We have taken as a given that MPs in the Bundestag will not sanction a single euro more in bail-out money to Athens. If that forces the Greeks out, so be it. Second, we also consider a wider exit of other countries that have failed the euro test. We think this should include all the states that have already been rescued, or are requesting bail-outs, because those countries share with Greece a fundamental loss of competitiveness and vulnerability to foreign capital flight. This means that they cannot be cured within a reasonable period of time while staying within the euro.
VI. In assessing the two options we have relied mainly on a cost-benefit analysis. That has been informed, where relevant, by historical precedents and the legal position (we are well aware of your concern that Germany must at all times be seen as law-abiding). We also look briefly at some of the practical issues involved in an exit. Naturally, we have taken into account the political constraints you face both at home and among your fellow European leaders. Caution is your watchword, so we’ve highlighted the risks of things going wrong if you adopt Plan B.
CAN AN EXIT HAPPEN IN THE FIRST PLACE?


ITALY BURNS,ITALIANS IGNITES THEMSELVES

lunedì 20 agosto 2012

"Il mio incubo di mezza estate io giornalista processato in 12 ore.


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VINCENZO MORVILLO* - ilmanifesto -
"Nella notte di Ferragosto in una Napoli deserta i vigili urbani mi hanno portato in cella e processato per direttissima. La mia unica colpa aver chiesto di assistere ai controlli in un locale". Succede a Napoli.
Ore 3.00 del mattino. Notte di ferragosto. In un locale del centro storico di una Napoli semideserta, il Vecchio Perditempo, una trentina di persone ascolta musica, balla, flirta, beve qualcosa: insomma si diverte. A qualcuno però, evidentemente, questa cosa non piace, ed ecco arrivare una macchina della polizia municipale. Gli agenti dicono di essere stati chiamati da chi, a causa della musica troppo alta, non riesce a dormire; e ci può anche stare. Il problema è che, sin da subito, assumono un tono un po' arrogante, provocatorio, insomma non consono a quella circostanza ferragostana e di sostanziale festa. In pratica, sarebbe bastato forse chiedere di abbassare un po’ la musica. E invece, gli agenti sembrano voler andare oltre: entrano, accusano i proprietari, dicono di voler effettuare controlli. A quel punto, uno dei presenti, Vincenzo Morvillo, giornalista pubblicista, responsabile cultura provinciale della FdS di Napoli e membro del collegio di garanzia, gli si oppone e chiede, dopo aver mostrato il tesserino dell’ordine per identificarsi, il motivo di quella perquisizione e di poter presenziare alla stessa. Gli agenti, allora, fanno uscire tutti, compreso Morvillo, che però non ci sta e continua a protestare vivacemente si, ma servendosi del democratico strumento della parola. Anche i vigili, però, non mollano e gli chiudono la porta del locale in faccia, lasciandolo sulla strada con gli altri. Morvillo cerca di riaprire la porta per rientrare e il vigile che è dietro gli si oppone nuovamente. Entrano in contatto e si tirano leggermente per un braccio. Nel frattempo, arriva un’altra macchina. I vigili che scendono chiedono spiegazione di quanto stia succedendo, Morvillo protesta anche con loro e, a quel punto, viene portato in macchina e messo in stato di fermo. Per la cronaca, Vincenzo Morvillo è l’estensore del presente articolo e, il sottoscritto, quella sera, stava festeggiando anche il suo quarantaquattresimo compleanno. Non mi aspettavo certo di passare il resto della notte e metà di quel “fausto” giorno tra il comando della polizia municipale di Capodichino, l’ospedale Loreto Mare, dove mi sono sottoposto volontariamente all’alcolemia, e il palazzo di giustizia, aula 416, dove sono stato tradotto in manette, messo dietro le sbarre, processato per direttissima e condannato a 6 mesi. Ma certo, con sospensione della pena! Ma andiamo per ordine. Quando sono stato fermato e fatto salire in macchina, mi è stato detto che mi sarei ricordato del compleanno. Ovviamente, ho risposto se volessero rinverdire i fasti della Diaz, ma non c’è stata aggressione. Arrivato al comando, sono stato fatto accomodare in una stanza dove, per circa mezz’ora, sono stato tenuto d’occhio da due, tre agenti che, dato che dicevo di non capire quale grave reato avessi commesso per trovarmi in quella incresciosa situazione, e che era mio diritto fare una telefonata, mi ricordavano che io, in quel frangente, non avessi diritti. Anche qui, come in macchina, ho fatto cenno –con un po’ di ironia, non nascondo- ai fatti di Genova, visto che il clima non mi sembrava, almeno all’inizio, troppo sereno. Comunque, le acque dopo un po’ si sono calmate ed è arrivato un agente più anziano, col quale ho chiacchierato per un’altra mezz’ora. Poi, uno degli agenti che mi avevano fermato mi ha riferito che era stato avvisato il magistrato e che questi aveva formalizzato l’arresto. Stupito, ho detto che la cosa mi sembrava incredibile ed eccessiva, visto che avevo solo tirato per una manica un collega e che, se le cose stavano così, volevo fare una telefonata per avvertire un avvocato, ma nessuno mi ha dato ascolto. L’incubo era cominciato ed io non me ne rendevo conto. Quindi, mi è stato chiesto se volessi fare l’alcolemia al Loreto Mare, dicendomi, come da prassi, che avrei anche potuto rifiutare. Ho acconsentito e così siamo andati in ospedale, dove mi è stato fatto un prelievo di sangue. Il referto parla di soggetto lucido, presente a sé stesso, che sa dove si trova e collaborativo. Si sospetta –ma cosa vuol dire?- uso di alcool.

Pigs! La crisi spiegata a tutti.

di Paolo Ferrero - deriveapprodi -
Ci dipingono la crisi come un fenomeno naturale. E, come cura, ci propongono le ricette che sono all’origine della crisi: il neoliberismo. Tutto questo produce sofferenze tanto drammatiche quanto inutili, perché la loro ricetta non funziona e aggrava la crisi. Tutto questo possono farlo perché le persone, anche quelle informate, non capiscono nulla di economia e finanza.
Così la nostra vita, il nostro futuro e quello dei nostri figli vengono lasciati nelle mani di «tecnici» e apprendisti stregoni che si comportano come i medici medioevali: dicendo di curare la malattia, uccidono il paziente.
Questo libro prova, con un linguaggio elementare, senza usare termini incomprensibili, a spiegare cosa ci sta succedendo davvero: le origini della crisi, le balle che ci raccontano, come fare a uscirne.
È un libro che confida nella razionalità degli umani, nel fatto che dalla comprensione della realtà possa scaturire una coscienza, e quindi un comportamento diverso. È un libro che confida nel fatto che gli schemi di gioco delle squadre di calcio siano più complicati dell’economia. Se tutti discutono con competenza dei primi, potranno capire anche la seconda. Ed evitare di delegare a «tecnici» venduti la gestione della loro vita.
 
Un Assaggio
Sganciate il nastro rosso! Qualche settimana fa sono andato a Torino in aereo. Sono sceso tra gli ultimi e dopo aver percorso qualche decina di metri ho trovato una gran coda di persone: tutti i passeggeri scesi prima di me dall’aereo erano fermi davanti a una porta a vetri, chiusa. Qualcuno protestava, qualcuno vociava ma senza ottenere alcun risultato: eravamo impossibilitati a entrare nell’atrio dell’aeroporto per potere finalmente andare a casa. Nel punto in cui sono rimasto fermo, in fondo alla coda, partiva un altro corridoio sul quale spiccava la scritta exit. A quel corridoio era però impedito l’accesso da un nastro rosso, di quelli che normalmente si utilizzano negli aeroporti per delimitare i passaggi consentiti. Conoscendo l’aeroporto ho pensato che gli addetti allo scalo avevano dimenticato di togliere il nastro rosso e che la strada giusta per uscire non era quella imboccata da tutti i passeggeri ma quella che il nastro vietava. Avendo le mani occupate da un paio di bagagli ho chiesto a una persona in piedi vicino a me di sganciare il nastro rosso in modo da poter imboccare il corridoio che io ritenevo portasse all’uscita. Il mio vicino mi ha guardato un po’ di traverso e si è ben guardato dal rimuovere il nastro. Ho quindi posato la borsa, ho tolto il nastro e – all’inizio un po’ titubante – mi sono incamminato per il corridoio «proibito». Come avevo previsto quello aveva le porte aperte e permetteva di raggiungere l’uscita senza problemi. Dopo qualche esitazione tutti mi sono venuti dietro e senza particolari problemi siamo usciti dall’aeroporto. Non ci sono state proteste né urla contro gli addetti allo scalo, e per la verità credo che molti di coloro che intasavano il corridoio non si siano nemmeno accorti di cosa fosse successo. Semplicemente hanno visto che la coda defluiva in un’altra direzione e l’hanno seguita. Quando mi sono messo a scrivere questo libro ho pensato sovente a quell’episodio, perché a mio parere rappresenta la metafora della situazione che viviamo nella crisi. In primo luogo la gente tende a seguire le indicazioni delle autorità, specie quando ci si trova in un terreno sconosciuto. Talvolta però quelle indicazioni sono sbagliate. In secondo luogo chi non sa come è fatto l’aeroporto non ha strumenti per pensare di fare una cosa diversa da quella predisposta – magari per errore, come in questo caso – dalle autorità. Per questo si lamenta, urla o si arrabbia, ma non avanza di un millimetro verso la soluzione del problema. In terzo luogo, pur incazzati, di fronte al nastro rosso che rappresenta il divieto posto dalle autorità ci si ferma impotenti. «Chi l’ha messo aveva l’autorità per farlo e sicuramente ne saprà più di noi». Infine, per uscire dall’impasse, occorre quindi ragionare, conoscere un po’ il territorio in cui si deve orientarsi e – soprattutto – decidere di togliere il nastro rosso, decidere cioè di infrangere il divieto dell’autorità. Questo libro prova ad affrontare la crisi da questo punto di vista. Nella prima parte affronta i luoghi comuni più diffusi sulla crisi e prova a mostrarne l’infondatezza. Cerca cioè di dimostrare che le cose non stanno come vengono raccontate dal governo e da larghissima parte dei mass media. Nell’economia – a differenza che nell’aeroporto – le vie sbagliate non sono indicate per errore o per sbadataggine, ma perché vi sono in gioco interessi enormi. Chi ha il potere, chi gode di privilegi, non vuole mollarli e sovente ci indirizza su una strada completamente sbagliata. In genere è anche molto contento se ci disperiamo e ci incazziamo tra di noi. Nella seconda parte del libro è contenuta una mappa grezza dell’aeroporto. Cerco cioè di raccontare «come effettivamente stanno le cose» dal mio punto di vista. A scanso di equivoci, il mio punto di vista si «appoggia» – non so quanto fedelmente – agli insegnamenti di Marx, che è a mio parere insuperato analista del capitalismo. Nella terza parte cerco di indicare una via di uscita. A differenza di quanto avvenuto in aeroporto imboccare la via di uscita non è così agevole. Non basta individuarla, occorre battere resistenze e interessi consolidati, occorre quindi avere il progetto – le ragioni – ma anche la forza. Lo scopo di questo libro è quello di spingervi a sganciare il nastro rosso e di fornirvi gli elementi fondamentali di orientamento per sganciare il nastro giusto, evitando di andare a sbattere in una nuova porta chiusa o, addirittura, di oltrepassare una porta spalancata sul vuoto. La scelta di sganciare il nastro rosso e di incamminarsi per la corretta via di uscita, di battersi per poterla raggiungere, non la può però fare questo libro. La dovete fare voi, perché alla base del cambiamento non vi può che essere la libera scelta, basata sul libero convincimento, di ogni uomo e di ogni donna.

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