Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 28 dicembre 2013

La “giusta battaglia” di Alexis Tsipras

– di Roberto Musacchio

Ora dopo ora la sfida di Alexis Tsipras viene raccolta da sempre piu’ uomini e donne. Ci sono intellettuali famosi come la Barbara Spinelli che, insieme ad altri, si dice pronta a dar vita ad una lista che lo sostenga. Ci sono le tante e i tanti che rilanciano da FB il messaggio di Tsipras presidente. Una parte del cammino dunque e’ stata fatta. Era un anno fa quando si comincio’ a pensare, in Germania ma anche in Italia e in giro per l’Europa, a questa possibilità. Quella cioè di cogliere l’occasione che si apriva con il nuovo modo di indicazione del Presidente della Commissione Europea, cioè attraverso il Parlamento Europeo e tenendo conto dei risultati elettorali in elezioni in cui potevano venire presentati dai partiti europei un candidato e un programma, per fare una battaglia simbolica e politica insieme. Una battaglia che partisse dal luogo simbolo della crudele insensatezza della austerità e della troika e della risposta politica piu’ radicalmente all’altezza che e’ stata messa in campo, cioè dalla Grecia e dalla Syriza di Alexis Tsipras.
L’idea era suggestiva ma non di facile realizzazione. In particolare passare dai simboli alla politica non e’ facile in questa Europa reale dove le forze dell’austerità agiscono non solo d’imperio ma anche esercitando una dura egemonia mentre quelle che resistono faticano a trovare la strada di una reale unita’. Difficile anche mettere insieme le lotte, e infatti ci si e’riusciti solo in alcuni momenti che pure sono stati di grande importanza. Difficile costruire una prospettiva comune sul che fare di questa Europa reale. Per questo l’essere arrivati alla candidatura di Alexis e’ un fatto molto importante. Molto merito va ad una realtà come il Partito della Sinistra Europea che ha saputo cucire una trama preziosa. Ne sono contento perche’ la sua esistenza e’ anche un po’ merito nostro, di quella sinistra radicale italiana che certo oggi non vive una stagione felice ma nella cui storia ci sono anche intuizioni che oggi si rivelano preziose come quelle di costruire Sinistra Europea.
Merito naturalmente di Alexis Tsipras che ha saputo mettersi a disposizione nel modo più intelligente, cogliendo il nesso che c’e’ tra la sua battaglia nazionale e quella Europea. E ha lanciato la sfida dicendo che vuole contribuire a liberare insieme la Grecia e l’Europa e che se Syriza sarà il primo partito in Grecia nelle elezioni europee il governo della austerità dovrà andare a casa.
Il buon lavoro fatto ha consentito che al congresso di Madrid la Sinistra Europea ha lanciato la candidatura di Alexis nel migliore dei modi. Con una larghissima convergenza, non affatto scontata visto il numero e lo spettro delle forze. E con un profilo forte, dove la radicalita’ si coniuga con una prospettiva politica concreta. Il tema della liberazione dal regime che opprime l’Europa reale, e dunque della rottura democratica da operare rispetto alla austerità e alla troika, si lega con la prospettiva di una nuova Europa democratica e sociale. Di questo parlano i documenti di Madrid.
Alexis Tsipras da’ a questa prospettiva la forza in piu’ che viene da essere il simbolo di una candidatura collettiva, come ha detto: quella dei popoli del sud, di tutti i cittadini europei, delle lotte di liberazione. E’ l’ identificarsi in ciò che fa scattare una connessione sentimentale, cioè il riconoscersi, il ritrovarsi, il solidarizzare e il voler prender parte che e’ tanta parte della politica. Quella che purtroppo, da tempo e specie in situazioni come l’Italia ma non solo, manca alla politica. Questa volta puo’scattare, sta anzi forse scattando. E’ questa connessione sentimentale che sta portando ai tanti “io ci sto” di cui dicevo all’inizio. L’appoggio di Barbara Spinelli, gia’ preziosissimo per come ha rotto il muro del silenzio che la parte italiana dell’Europa reale era pronta a stendere sulla sfida di Alexis, viene da una connessione politica oltreché sentimentale che una intellettuale da sempre impegnata a riflettere sull’Europa ha incontrato con Tsipras gia’ da prima della sua candidatura. Basta ripercorrere nel tempo i suoi editoriali per ritrovarci lo sgomento crescente per come la austerità e la troika stavano uccidendo il sogno europeo e poi l’incontro con le lotte e le proposte che arrivavano dalla Grecia. Una scelta di campo, quella della Spinelli, netta e forte come non siamo piu’ abituati a veder fare. Sceglie la radicalita’ come unica speranza per l’Europa scartando pubblicamente i distinguo minimalisti cui sono ridotte altre forze sempre piu’ coinvolte nelle larghe intese dell’Europa reale.
Naturalmente la connessione sentimentale non e’ scevra dalla politica, ma anzi se ne alimenta. Non c’è dubbio che la sfida di Tsipras si nutre si della identificazione in una lotta ma anche di una prospettiva politica. Ho già detto che Syriza vuole vincere le elezioni in Grecia per cacciare il governo della Troika. Noi dobbiamo aiutare questa battaglia perche’ essa e’ la nostra stessa battaglia. Dobbiamo sentire che le nostre lotte sono interconnesse e fanno tutte parte di una stessa lotta di liberazione. In gioco non c’è solo una rappresentanza ma molto di piu’, un pezzo di liberazione. Se sapremo farlo queste elezioni serviranno a farci recuperare un po’ di tempo perduto nel farci coalizione. E dunque non scartando dalla dimensione europea ma al contrario portando al suo interno il fronte di lotta per una rottura democratica capace di rifondare l’Europa a partire dal Sud, dai lavoratori, dai giovani, dai migranti, dai beni comuni, dal reddito di cittadinanza e dal salario europeo, dalla cittadinanza per tutti.
Connessione sentimentale e politica possono aiutarci anche in Italia a fare la cosa migliore per avere il migliore risultato. Che poi e’ dare il contributo piu’ forte alla battaglia comune. Senza nascondersi dietro un dito dobbiamo dirci che le nostre forme della politica sono tra le piu’ in difficoltà e tra le piu’ divise che ci sono in Europa. Ma questo non puo’ essere ne’ una condanna ne’ un alibi. Ho già detto che tra i nostri meriti c’e l’aver fatto nascere la Sinistra Europea. E Barbara Spinelli, ma molti altri con lei, ci dicono di forze disposte a mettersi in gioco. L’appello contro l’austerità, a primo firmatario Balibar ma con tante firme italiane, e’ un altro tassello. E tante voci arrivano da compagne e compagni pur collocati in soggetti politici diversi o fuori da tutti ma dentro i movimenti o la coscienza civile. Ci sono dunque le energie per farla questa battaglia. A patto di non disperderle come abbiamo fatto in casi anche recenti. Non dovrebbe essere impossibile arrivare ad un esito diverso, positivo se sapremo stare in questa sintonia sentimentale e politica. La candidatura, e il programma di Tsipras, definiscono con chiarezza che il campo e’ quello della lotta contro l’austerità e la troika, per una alternativa radicale e per una Europa di nuova generazione che nasce dalla liberazione dal regime attuale. E’ un profilo cosi’ forte che non ha bisogno di paletti identitari ma che deve vivere in un campo largo perche’ se lo merita. La genesi stessa della candidatura, viene dal Partito della Sinistra Europea, dice che il suo mettersi a disposizione non e’ negare il ruolo di SE ma premiare le ambizioni ad andare oltre perche’ convinti di averne la forza anche rispetto alle palesi contraddizioni di altri soggetti politici europei. E questo può’ aiutarci in Italia a non riproporre antiche diatribe devastanti ma, appunto, a mettersi in sintonia. Io vedo nella disponibilità della Spinelli e di tanti altri a rendere possibile questo andare oltre una ricchezza e non una sottrazione che non puo’ esserci per la stessa genesi storica della candidatura di Alexis di cui ho scritto. D’altronde abbiamo alle spalle l’esperienza del referendum dell’acqua, naturalmente con la sua diversità, a dirci che la sintonia e’ possibile e se c’e’ ci fa vincere tutte e tutti.

venerdì 27 dicembre 2013

Le alternative per un'altra Europa

di EuroMemorandum - sbilanciamoci -

Dalla politica fiscale e monetaria alla governance delle istituzioni europee, passando per l'accordo di libero scambio che Ue e Stati Uniti si preparano a firmare. La sintesi del Rapporto 2014 di Euromemorandum, presentato in anteprima sabato 14 nel corso del convegno "L'Europa Giusta"

L'Unione Europea è in condizioni di uscire dalla recessione, ma alcune parti d'Europa sono ancora in depressione; la disoccupazione è particolarmente elevata nei paesi periferici della zona euro e non dovrebbe ridursi sensibilmente nel prossimo futuro. Le pesanti politiche di austerità hanno generato una profonda polarizzazione sociale in Europa e hanno indotto un processo di ristrutturazione industriale in cui si è rafforzata la posizione della Germania e degli altri paesi del Nord, mentre si è indebolita la posizione produttiva dell’Europa meridionale. La crisi ha determinato anche una significativa trasformazione della distribuzione del reddito. Nella maggior parte dei paesi esterna al “core” dell'area dell'euro i salari reali sono diminuiti, in maniera più intensa nella periferia dell'area dell'euro e in gran parte dell'Europa orientale. Allo stesso tempo, la gerarchia tra gli stati membri si è attenuata con la posizione della Germania e degli altri Stati del Nord che si è rafforzata, mentre la posizione degli Stati del Sud si è indebolita e in ampi settori la politica economica di Bruxelles è quella che vale in realtà. Le attività della Commissione europea sono sempre caratterizzate da un grave deficit democratico e da una mancanza di trasparenza. Decisioni chiave sono prese in riunioni a porte chiuse senza dover rispondere ai parlamenti nazionali o al Parlamento europeo, dove potenti lobbies possono esercitare notevole influenza. In un certo numero di paesi i partiti di destra – in alcuni paesi raggruppamenti neo-fascisti – sono stati in grado di capitalizzare la diffusa disaffezione nei confronti dell'Unione europea e delle politiche che Bruxelles impone agli Stati membri.
Politica fiscale e monetaria
La recessione economica nell'UE è in via di soluzione ma la produzione è ancora al di sotto dei livelli del 2008 e la situazione è nettamente caratterizzata in molti paesi da elevata disoccupazione e da riduzione dei salari reali. La fase acuta della crisi finanziaria è stata superata, ma il sistema finanziario resta molto fragile e le banche hanno nel 2013 ancora ridotto i prestiti. Le politiche fiscali fortemente restrittive imposte a molti Stati membri ha reso ancora più difficile soddisfare i rigorosi obiettivi di contenimento del deficit. Mentre la BCE ha stabilizzato le banche con circa 1.000 mld di euro con prestiti triennali in incondizionati, continua ad essere vietato il credito ai governi. Dato la rigida adesione dell'UE ai principi neoclassici, sono i salari che devono sostenere l’intero peso dell’aggiustamento. I salari reali stanno registrando una contrazione in alcuni paesi, e ciò sta sostenendo le pressioni deflazionistiche che stanno dilagando in gran parte dell'Europa. Piuttosto che ricorrere a maggiore austerità, la politica del governo dovrebbe concentrarsi su iniziative di sostegno dell'occupazione per promuovere la crescita di posti di lavoro socialmente e ambientalmente desiderabili. L'impatto regressivo dei tagli alla spesa pubblica dovrebbe essere evitato e andrebbe rafforzata l’istruzione pubblica e la sanità. Andrebbero finanziari maggiori livelli di spesa invertendo la tendenza degli ultimi 20 anni di continui tagli delle imposte. Il bilancio europeo deve tendere al 5% del PIL dell'UE in modo da avere un impatto significativo sulla produzione e sull'occupazione. Il finanziamento dei disavanzi pubblici andrebbe mutualizzato attraverso l'emissione di obbligazioni in euro emesse dall’insieme dei paesi in modo che la speculazione non possa concentrarsi sui paesi più deboli. L’attuale situazione del debito pubblico in diversi Stati membri non è sostenibile; il debito non può essere completamente rimborsato per cui andrebbe sottoposto ad un audit per determinare quali debiti sono legittimi e quali dovrebbero essere annullati. La pressante compressione dei salari andrebbe sostituita da una più diffusa contrattazione collettiva. Un aumento regolato dei salari può contribuire al superamento della debolezza della domanda interna in Europa oltre a garantire una maggiore giustizia sociale. Al fine di combattere la disoccupazione e creare condizioni in cui la vita delle persone non siano dominati dal lavoro salariato, la settimana lavorativa normale andrebbe riportata verso le 30 ore senza perdita di retribuzione.
Politica finanziaria e bancaria
Cinque anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, la crisi finanziaria e bancaria dell’UE non è ancora risolta. Nella maggior parte dei paesi dell'Unione, il sistema bancario si presenta ancora fragile, nonostante l'enorme quantità di liquidità fornita dalla BCE. La situazione del settore bancario è molto critica in alcuni paesi come la Spagna. A metà del 2012, la Commissione ha proposto la Banking Union (BU) come un nuovo progetto europeo per risolvere la crisi. A dispetto della sua struttura ambiziosa, la BU non cambia il paradigma dominante del settore bancario in Europa. Le riforme proposte dal rapporto Liikanen sul sistema bancaria rafforzano il ruolo delle banche universali nella UE, invece di spingere per una rigida separazione tra retail banking e investment banking. Le riforme sollevano anche interrogativi sulla democrazia e la governance nell'Unione europea in quanto aumentano il ruolo della BCE, che diviene il meccanismo unico di vigilanza sulle banche. Nonostante la BCE sia in parte responsabile per la profonda crisi del debito sovrano nella zona euro, in quanto si rifiuta di prestare direttamente ai governi sul mercato primario. La lentezza e la debolezza delle riforme finanziarie è stata aggravata dalla forte influenza che la lobby finanziaria è riuscita a contrastare una regolamentazione efficace. Le istituzioni europee dovrebbero perseguire con chiarezza l’obiettivo di ridurre il peso della finanza nell'economia. Le attività speculative dovrebbero essere vietate. Le banche commerciali devono essere isolate dai mercati finanziari e dovrebbero concentrarsi sul proprio core business: il credito al settore non finanziario. La direttiva sulla Financial Transactions Tax proposta dalla Commissione deve essere rapidamente attuata. La BCE dovrebbe essere sottoposta ad un effettivo controllo democratico e dare priorità agli obiettivi sociali ed ecologici.
La governance nell'Ue
L'entrata in vigore del Trattato di stabilizzazione, coordinamento e governance e la direttiva 'Two Pack' segnalano che la politica economica nei paesi della zona euro è ora assoggettata al pieno controllo centrale. Anche se i poteri dei parlamenti degli stati membri sulla politica economica sono stati radicalmente ridotti, non vi è alcun corrispondente aumento dei poteri del Parlamento europeo. La moltiplicazione dei rozzi vincoli aritmetici sulla spesa pubblica e sull'indebitamento è probabile che sia tanto poco funzionale in futuro quanto analoghe esercitazioni lo sono state quasi sempre in passato. Queste regole semplicistiche esprimono una sfiducia per le democrazia e una sovrastima della capacità dei processi di mercato di stabilizzare la vita economica. La retorica della competitività utilizzata dai leader europei per giustificare sia l’impostazione restrittiva della politica economica, sia la incalzante pressione sugli Stati membri più deboli ha anche la funzione di limitare il controllo democratico sull'economia. Le restrizioni legali in materia di politica economica sono ormai così pesanti che efficaci politiche alternative impongono sia l'abrogazione delle nuove misure di governance che il loro esplicito assoggettamento alle altre priorità, l'occupazione, la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale.
L’imposizione fiscale
La rilevanza economica e politica dell’imposizione fiscale è diventata sempre più evidente da quando la crisi in Europa ha inciso con più forza sulle finanze della maggior parte degli Stati membri e quindi la vita dei loro cittadini. I gruppi di difesa globali e regionali che si occupano di questioni di giustizia in materia di fiscalità e di questioni fiscali, hanno un seguito crescente all'interno delle società civili europee, rafforzate dalla denuncia di una diffusa evasione fiscale da parte delle multinazionali e dei ricchi. In risposta sia alla crescente indignazione dei cittadini europei per l’evasione su scala industriale degli obblighi fiscali e per l'emorragia delle entrate pubbliche a causa della recessione e della stagnazione, i governi europei hanno dato maggiore enfasi al contrasto dell'evasione fiscale e dalla “concorrenza fiscale sleale”. La Commissione europea, con il forte incoraggiamento del Parlamento europeo, ha approvato una serie di riforme fiscali volte ad accrescere la trasparenza delle relazioni fiscali transfrontaliere. Queste riforme comprendono lo scambio di informazioni secondo la Direttiva europea sul Risparmio fiscale, l'istituzione di una base imponibile consolidata comune e, all'interno dell'area dell'euro, una imposta sulle transazioni finanziarie. Mentre tali iniziative sono le benvenute nel confuso panorama dei sistemi fiscali europei, esse saranno insufficienti a porre termine alle politiche fiscali ‘beggar – thy – neighbor’ (scaricare le difficoltà sui vicini) che sono proseguite durante la crisi attuale e che certamente non contribuiranno ad una inversione di tendenza nella crescita delle disuguaglianze di reddito e della povertà in Europa. Solo una radicale armonizzazione delle imposte dirette basata sulla loro progressività che interessi tutti gli Stati membri, la rimozione dei regimi di fiscalità “piatta” nell’Europa centrale e orientale e la convergenza delle aliquote fiscali a livello europeo potranno garantire la sopravvivenza di una cultura della solidarietà sociale nella regione.
Occupazione e politica sociale
La crisi finanziaria ed economica ha avuto un impatto sociale profondamente regressivo per molte persone in Europa per l’alto tasso di disoccupazione, la povertà e per molti giovani la perdita di un futuro. Secondo gli ultimi dati, nell’UE un quarto della popolazione europea è in condizioni di povertà e un ottavo della sua forza lavoro è disoccupata. I livelli di disoccupazione giovanile sono particolarmente inquietanti: per l'intera UE è uno su quattro, mentre nei paesi colpiti dalla crisi del sud come Grecia, Spagna e Italia si sale a uno su due o uno su tre. L'elevata disoccupazione e la povertà hanno indebolito la posizione negoziale della forza lavoro nei confronti dei datori di lavoro e questo si è riflesso in condizioni di lavoro più precarie: uno su cinque contratti nell'Unione europea sono a tempo determinato e i lavori a orario ridotto e a part-time involontario sono aumentati dall'inizio della crisi. La risposta UE non è riuscita a fornire le risorse per attenuare l'impatto della povertà e della disoccupazione giovanile. Le sue stesse istituzioni, quale la DG per l’occupazione, gli affari sociali e l'inclusione, non sono state in grado di monitorare e sostenere gli Stati membri che si vivono una sempre più profonda crisi economica e sociale. Le istituzioni dell'UE dovrebbero, come misura immediata, valutare l'impatto sociale causato dai tagli alla spesa che essa ha imposto agli Stati membri. Essa dovrebbe quindi fornire un sostegno nei settori chiave, in particolare per l'assistenza sanitaria, e assicurare il necessario supporto per bambini e giovani che stanno subendo il peso della disoccupazione e della povertà. Per proteggere la popolazione attiva dalla crescente ondata di condizioni di lavoro precarie, i sussidi dei programmi di assicurazione sociale dovrebbero essere estesi con urgenza a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro tipo di contratto. L'UE dovrebbe inoltre avviare iniziative legislative per adeguare la legislazione del lavoro europea in linea con un mercato del lavoro in rapida evoluzione.
La politica industriale
L'urgenza di una politica industriale in Europa comincia ad essere riconosciuta dalla Commissione Europea. Ma le sue proposte restano confinati al quadro ristretto della politica di concorrenza orientata esclusivamente agli obiettivi di performance a breve termine del mercato. Si rende necessaria una alternativa capace di collegare l'obiettivo di performance industriale a lungo termine con l’interesse per una trasformazione socio-ecologica. Questo dovrebbe coinvolgere sei grandi dimensioni: (1) a livello europeo, un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione socio-ecologica al fine di stimolare la domanda europea, (2) una inversione di tendenza rispetto alla grave perdita di capacità industriale in Europa, (3) l'urgente riorientamento verso nuove attività ambientalmente sostenibili, a conoscenza intensiva, ad elevata competenza e salario, (4) il rovesciamento della politica di intense privatizzazioni degli ultimi decenni e un intervento pubblico a sostegno di nuove attività a livello comunitario, nazionale, regionale e locale; (5) l'impostazione di un diverso tipo di “sicurezza” in termini di disarmo, di maggiore coesione e di minori squilibri all'interno dell'UE e dei singoli paesi, e (6) la creazione di un nuovo importante strumento di politica per la trasformazione ecologica dell'Europa. Le attività specifiche che potrebbero essere coinvolte da questa nuova politica industriale comprendono: (a) la tutela dell'ambiente e delle energie rinnovabili, (b) la produzione e la diffusione delle conoscenze, le applicazioni delle TIC e le attività di web-based, (c) i servizi alla salute, al benessere e alle attività di cura, (d) il sostegno alle iniziative per dare soluzioni socialmente ed ecologicamente sostenibili alle questioni alimentari, mobilità, edilizia, energia, acqua e rifiuti.
Il partenariato Ue-Usa nel commercio e negli investimenti transatlantici
Negli ultimi anni l'Unione europea ha negoziato numerosi accordi commerciali bilaterali. Questo è stato superato dall’annuncio nei primi mesi del 2013 che l'UE e gli USA avevano deciso di avviare negoziati per un accordo commerciale bilaterale, il cosiddetto Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). L'accordo proposto non è destinato solo a ridurre le tariffe tra i due maggiori blocchi commerciali dell'economia mondiale, ma il suo scopo primario è quello di smantellare e/o armonizzare le normative in settori quali l'agricoltura, la sicurezza alimentare, gli standard tecnici dei prodotti, i servizi finanziari, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e gli appalti pubblici. Questione centrale sarà anche la liberalizzazione e la protezione degli investimenti. La Commissione europea, sulla base di studi prodotti, sostiene che l'accordo promuoverà la crescita e l'occupazione nell'Unione europea. Gli effetti economici del TTIP sono, tuttavia, insignificanti. I guadagni in termini di reddito sono stimati a meno dell'1% del PIL dell'UE e saranno realizzati gradualmente nel corso di un decennio. L’aumento dei costi in termini di disoccupazione e dell’adattamento alla liberalizzazione del commercio sono sottovalutati o trascurati del tutto. La deregolamentazione prevista dall’accordo commerciale minaccia la salute pubblica, i diritti del lavoro e la tutela dei consumatori. La soluzione proposta per regolare le controversia investitore-Stato privilegia i diritti degli investitori a scapito dell’autonomia della politica pubblica. Il TTIP non è altro che un attacco frontale al processo decisionale democratico nell'UE. Sono urgenti delle necessarie e profonde revisioni nell’agenda dei negoziati. Al momento, è molto dubbio se l'accordo commerciale produrrà dei benefici netti, economici e sociali, per i cittadini europei. Una valutazione dell'impatto globale attraverso dettagliati studi sulle molte questioni critiche e una rottura radicale con la mancanza di trasparenza che le caratterizza sono i primi passi essenziali per il necessario dibattito democratico sul TTIP.

Traduzione della sintesi del Rapporto 2014 di Euromemorandum a cura di sbilanciamoci.info
Qui il rapporto integrale:
Qui il modulo per aderire a EuroMemo Group:

giovedì 26 dicembre 2013

Oggi e' la Grecia, e domani??

Crisi, il Natale in Grecia: in fila per riconsegnare le targhe delle automobili

(25 Dicembre 2013)
 
crisinat
 
Tra le tante file che caratterizzano queste festività – a Napoli ieri in duemila per la cena offerta dall’associaizione dei commercianti – c’è da segnalare sicuramente la Grecia. A causa della crisi economica che ormai da sei anni perdura in Grecia, migliaia di automobilisti stanno facendo la fila in questi giorni davanti agli sportelli degli uffici della motorizzazione o del fisco per riconsegnare le targhe dei loro veicoli ed evitare cosi' di pagare la costosa tassa di circolazione per l'anno prossimo.
Le Tv greche dedicano molto spazio alla vicenda e trasmettono le immagini delle persone in fila con le targhe in mano che ammettono davanti alle telecamere di non potersi piu' permettere di pagare alcune centinaia di euro di tassa sull'auto. Imposta che supera i 1.000 euro per le macchine di lusso.
"Solo quest'anno sono stati circa 70.000 gli automobilisti che hanno riconsegnato le targhe dei loro veicoli", ha detto Charis Theocharis, un funzionario del ministero delle Finanze.
Naturalmente i furbi non mancano mai e c'e' sempre chi, dopo aver riconsegnato le targhe vere, applica sulla propria autovettura targhe false. Come ha fatto Michalis Liapis, 60 anni, ex ministro dei Trasporti e della Cultura nei precedenti governi di Costas Karamanlis (Nea Dimokratia), fermato martedi' scorso dalla polizia stradale alla periferia di Atene per un controllo di routine mentre guidava un Suv con targhe false appunto per non pagare la tassa di circolazione ne' l'assicurazione.
I redditi dei lavoratori greci, come confermano studi condotti dai maggiori sindacati greci, sono diminuiti di circa il 40% dal 2009 mentre, secondo i rivenditori di auto, dallo stesso anno sono state riconsegnate le targhe di almeno un milione di autoveicoli. In forte sofferenza anche il mercato automobilistico ellenico: sempre secondo i concessionari di auto, nel periodo gennaio-novembre di quest'anno sono state registrate solo 55.000 mila nuove immatricolazioni con un calo delle vendite del 40% rispetto allo stesso periodo del 2012, il picco piu' basso fra tutti i Paesi dell'Ue.

Degradare per aiutarli-e a crescere


di DEVI SACCHETTO - connessioniprecarie -
I processi di spersonalizzazione e di degradazione messi in campo a Lampedusa nei confronti della «razza» migrante sono una forma di socializzazione all’Occidente. Essi permettono l’apprendimento e la regolazione dei propri comportamenti ed evidenziano le aspettative della società locale. Si tratta di pratiche che contribuiscono a creare tra i migranti e le migranti un senso di inferiorità che non finisce certo una volta che essi siano usciti da questi lager istituzionali. I processi di spersonalizzazione poi possono proseguire con diversa intensità nei luoghi di lavoro, nelle abitazioni loro riservate, nei rapporti sociali.
La violenza materiale e immateriale di queste pratiche stigmatizzanti mira a ricostruire nuove identità, ripulite dai germi che i migranti e le migranti, in quanto esseri inferiori, si portano appresso. Il corpo dei e delle migranti è così trasformato in uno spazio pubblico nel quale mettere in scena una cerimonia di degradazione. Senza alcuno sprezzo del ridicolo, Cono Gallipò, l’amministratore della cooperativa che gestisce il centro, ha definito una procedura l’igienizzazione a cui i migranti sono stati sottoposti: «è il protocollo da seguire quando si spruzza un prodotto come il benzoato di benzina». In questo caso, non è nemmeno possibile scaricare la colpa sulle cosiddette cooperative «spurie», cioè non gravitanti nell’orbita dell’Alleanza delle cooperative italiane. «Lampedusa Accoglienza» gestisce il centro di identificazione ed espulsione dal 2007, portandosi a casa quasi due milioni di euro all’anno: essa gravita dentro il circuito della gloriosa Legacoop, braccio politico ed economico della sinistra istituzionale. Non a caso deputati e ministri del partito di maggioranza relativa, compreso il Presidente del consiglio, sono indignati e chiedono la testa dei responsabili.
L’indignazione permetterà forse nuovi protocolli, ma non modificherà di molto la condizione dei e delle migranti rinchiusi all’interno di questi lager aggiornati alla morale post-moderna della pulizia del taglio dei costi.

mercoledì 25 dicembre 2013

L’ingiustizia fiscale e la recessione

di Guglielmo Forges Davanzati  - micromega -

Fin dal Rapporto Growing unequal del 2008, l’OCSE ha documentato la crescente diseguaglianza distributiva nella gran parte dei Paesi industrializzati. Dal 2008 a oggi, e con particolare riferimento all’Italia, la diseguaglianza distributiva è costantemente aumentata. A fronte della molteplicità delle cause del fenomeno, non appare irrilevante considerare il profilo sempre meno progressivo che ha assunto l’imposizione fiscale in Italia: detto diversamente, in termini percentuali si è notevolmente assottigliata la differenza fra le imposte pagate dalle famiglie con reddito elevato e quelle pagate dalle famiglie con basso reddito. In tal senso, la questione fiscale, in Italia, non attiene tanto agli oneri eccessivi che, in termini assoluti, gravano su imprese e famiglie, ma alla sua distribuzione in base al reddito disponibile.

E’ rilevante osservare che il grado di progressività delle imposte, in Italia, si è continuamente ridotto a partire dalla prima metà degli anni ottanta, in virtù di una sequenza di “riforme” che hanno fatto sì che all’aumentare del reddito imponibile l’imposta da pagare aumenti proporzionalmente sempre meno.

La massima accelerazione di questo processo si è avuta con il secondo Governo Berlusconi. La “riforma” attuata in quegli anni ha pesantemente accentuato il profilo di iniquità del sistema tributario, consentendo ai contribuenti più ricchi di pagare meno tasse dei contribuenti più poveri, e, di fatto, riportando il sistema tributario indietro di oltre un secolo, ovvero rendendolo sostanzialmente regressivo. L’ossimoro delle “riforme fiscali regressive” ha tratto la sua legittimazione ‘scientifica’ dalla tesi secondo la quale è solo riducendo la pressione fiscale sui lavoratori più produttivi (identificati con i lavoratori più ricchi) che si incentiva l’aumento della produzione. L’idea è apparentemente ovvia: se la tassazione – all’estremo – è del 100%, ciò significa che tutto il reddito disponibile ottenuto lavorando viene requisito dallo Stato, con il risultato di disincentivare l’impegno lavorativo. Che viene tanto più disincentivato quanto maggiore è la quota del prodotto del lavoro che deve essere destinata al pagamento delle tasse.

Questa tesi viene presentata come rispondente non solo a un obiettivo di efficienza ma anche a un obiettivo di equità. Se, infatti, la detassazione dei redditi più alti accresce il prodotto interno lordo, in quanto la “torta” aumenta, è possibile ridistribuirne parte a favore dei lavoratori meno produttivi e, per questo, maggiormente tassati. Si osservi che questa logica impone di considerare il raggiungimento di obiettivi di efficienza prioritario rispetto a obiettivi di equità. Questi ultimi, peraltro, potrebbero non essere mai raggiunti, giacché la scelta di operare politiche redistributive – in quanto scelta esclusivamente politica – risponde a un puro criterio “caritatevole”, che può farsi valere solo quando la “torta” ha raggiunto dimensioni sufficienti da poter consentire di darne briciole a chi non ha collaborato a produrla. E a decidere quando l’ampiezza della “torta” è sufficiente non sono certamente coloro che aspettano di ottenerne una parte.

E’ necessario chiarire che la ripartizione del carico fiscale risente significativamente del potere contrattuale che imprese e lavoratori hanno nella sfera politica. In un contesto di elevata disoccupazione e di crescente precarizzazione, appare del tutto evidente che non solo i lavoratori hanno un basso potere contrattuale nel mercato del lavoro (il che implica una dinamica al ribasso dei salari), ma hanno anche un basso potere di negoziazione in ordine alla distribuzione dell’onere fiscale. In più, soprattutto in condizioni nelle quali esiste un’ampia platea di imprese che è in condizione di delocalizzare le proprie produzioni, è del tutto ovvio che i maggiori oneri fiscali ricadano sul lavoro dipendente e siano poco gravosi per il capitale. E’ il c.d. sciopero del capitale: la minaccia di delocalizzazione spinge il Governo a creare un ambiente favorevole alla permanenza delle imprese nel Paese, dal momento che dai loro maggiori investimenti ci attende un aumento del reddito pro-capite e un aumento della probabilità di rielezione [1].

A ben vedere, la tesi dominante secondo la quale è la diseguaglianza distributiva a trainare la crescita è falsificata sia sul piano teorico, sia sul piano empirico.

1) Sul piano teorico, essa si fonda sull’idea in base alla quale è produttivo chi è ricco, rinviando a una logica per la quale chi è ricco oggi lo è perché ha lavorato in modo più produttivo rispetto a chi ha oggi un reddito più basso. Si può obiettare che non vi è alcun nesso necessario fra produttività e ricchezza, potendo, ad esempio, la ricchezza disponibile oggi dipendere da lasciti ereditari. Si può anche obiettare che il nesso che viene istituito (maggiore produttività = maggiori retribuzione) può, al più, ritenersi accettabile all’interno di un particolare framework teorico – di segno neoclassico – che, proprio in quanto è uno dei possibili orientamenti teorici in campo, non è generalizzabile, ed è peraltro molto problematico per la sostanziale impossibilità di fornire una misurazione della produttività del lavoro. La produttività del lavoro è data, per definizione, dal rapporto fra la quantità di beni e servizi prodotta e il numero di lavoratori occupati. L’impossibilità di misurazione discende da due dati di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma, essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori all’interno del processo produttivo. In secondo luogo, le economie contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile, se non quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini monetari. In terzo luogo, è praticamente impossibile ‘isolare’ il contributo del singolo lavoratore dalla dotazione di capitale della quale dispone, così che non è possibile imputare al singolo lavoratore il suo specifico contributo alla produzione. Da ciò discende che, per entrambi i casi, non è possibile fornire una misurazione fisica della sua produttività.

2) E’ ampiamente documentato che la crisi in corso dipende, in ultima analisi, proprio dalla crescente diseguaglianza distributiva su scala globale [2] e che la recessione accresce la polarizzazione dei redditi, come evidenziato nell’ultimo Rapporto OCSE [3].
L’aumento della tassazione, in Italia, è stato realizzato prevalentemente con un aumento delle imposte indirette, che, in quanto pagate su beni e servizi, sono per loro natura regressive, ovvero vengono pagate in egual misura (a parità di quantità acquistate) da individui con alto e con basso reddito. Questa strategie è palesemente in conflitto con l’obiettivo dichiarato di generare crescita economica, per due ragioni. In primo luogo, la tassazione riduce la domanda interna e, per questa via, contribuisce ad accentuare la recessione. In secondo luogo, e soprattutto, poiché le famiglie con redditi bassi hanno maggiore propensione al consumo, l’aumento della tassazione a loro danno riduce i consumi più di quanto si ridurrebbero se venissero tassati i redditi elevati, con effetti di segno negativo sulla dinamica della domanda aggregata, sull’occupazione e sul tasso di crescita.

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NOTE

[1] V. S.Bowles and H.Gintis, (1986). Democracy and capitalism. Property, community and the contradictions of modern social thought. New York: Routledge.

[2] Non è questa la sede per dar conto delle relazioni che intercorrono fra diseguaglianze distributive e crisi economiche. La letteratura sul tema è estremamente ampia. Può essere qui sufficiente il rinvio a http://temi.repubblica.it/micromega-online/micromega-32013-almanacco-di-economia-il-ritorno-delleguaglianza-il-sommario-del-nuovo-numero-in-edicola-e-su-ipad-da-giovedi-21-marzo/

[3] Nel quale si legge che, per effetto della crisi globale, “il 10% più ricco della popolazione, nei Paesi OCSE, guadagna 9.5 volte in più rispetto a quanto guadagnava il 10% più povero della popolazione nel 2010”.

Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno

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- di Alessandro Gilioli -
Felicemente in piedi accanto all’albero di Natale, Enrico Letta ha tenuto una conferenza stampa di fine anno inventando per gli italiani incazzati e depressi una narrazione che probabilmente si può riassumere in una sola frase: tutto sta per cambiare, anche se non ve ne siete accorti.
Per cominciare, il premier si è intestato al volo il «cambiamento generazionale» già avvenuto nell’establishment: lui (47 anni) a Palazzo Chigi, con Matteo Renzi (38) come principale azionista e il sostegno fondamentale di Angelino Alfano (41). «È una svolta iniziata il 24 aprile», ha esultato il premier, riferendosi appunto alla sua nomina. E poi: «In questi otto mesi l’Italia ha cambiato pagina», di questo «all’estero si sono già tutti accorti», «è quindi una grande occasione per una generazione», «come nel dopoguerra, appena finito il fascismo», anzi a dire il vero «una svolta generazionale così non è mai avvenuta», pertanto «potremo fare riforme che non sono mai state fatte prima» grazie appunto «alle nuove leadership».
A sentirlo parlare sembrava che lui e i suoi soci fossero quasi il risultato di una rivoluzione scoppiata nelle università, di una sorta di “primavera italiana”: non di un accordo di Palazzo imposto a calci dal tuttora dominus Napolitano (ah: 88 anni), sulla falsariga della coalizione presieduta da Monti (70) e molto voluto ad aprile da Silvio Berlusconi (77).
Già, Berlusconi: sì, c’era anche lui all’inizio e in effetti «la sentenza che ha riguardato uno dei tre leader che avevano fatto nascere questo governo ha provocato delle turbolenze», ha ammesso in puro lettese il presidente del consiglio, ma d’altro canto «nessuno si sceglie il tempo in cui vivere» e quello che è avvenuto (la sentenza) «è un fattore esterno che si è intrecciato con fattori interni», e ciao.
Acqua passata, fa capire il premier, così come alle spalle è (ovviamente) «la fase peggiore della crisi economica», per spiegare la quale Letta si lascia andare a un’ardita metafora sanitaria: «L’Italia è un Paese incidentato, che però non è più al Pronto soccorso né in sala operatoria, ma ormai in fisioterapia». Nessun accenno ovviamente alle cause dell’incidente, né ai suoi eventuali corresponsabili nostrani. Quello che conta è che siamo in riabilitazione e lui sta reinsegnandoci a camminare.
Insomma, da un punto di vista comunicativo il messaggio è chiaro: qualcosa tipo “con quello che c’era prima io non c’entro niente, perché rappresento il nuovo e i giovani”, nonché «la capacità di autoriforma delle istituzioni». A proposito, «già da tempo» lui ha «fatto un discorso forte sui costi della politica per togliere gli elementi di privilegio», naturalmente «senza demagogie», perché «sono vicende su cui è facile scrivere dei tweet» mentre ora c’è «una nuova legge sul finanziamento pubblico grazie alla quale agli italiani che non vogliono sostenere i partiti non verrà tolto un euro», una piccola balla date le robuste detrazioni per le donazioni, tutte a carico dello Stato.
Ma transeat, è Natale e nessuno fra i presenti glielo fa notare. Così Letta può ricominciare a cantare il futuro migliore che ci aspetta: «I conti pubblici non sono più fuori controllo e quindi si è in condizione di guardare al 2014 come a un anno in cui cala la disoccupazione, inizia la crescita, si fanno le riforme». Perché, di nuovo, «ci sono le condizioni per cogliere le opportunità» (parola mantra della conferenza stampa) e «l’anno prossimo ci occuperemo di chi è stato distrutto dalla crisi, dei poveri, delle famiglie bisognose che stanno sotto la soglia di povertà»: forse un’ammissione implicita che finora non se n’è occupato nessuno, ma anche questa passa come acqua e quindi Letta può ribadire «ai tanti San Tommaso» che «sarà presto evidente che la prospettiva è positiva».
Ultimo capolavoro di ipocrisia, la risposta su Renzi: lo appoggerà o no come candidato premier? «Una nuova generazione mostrerà che è in grado di vivere in modo diverso la capacità di fare gioco di squadra», replica Letta con una frase che nemmeno Forlani nei suoi giorni migliori.
Amen: è tutto. Il tizio educato in cravatta ha cercato di far dimenticare di essere stato ministro tre volte, nonché vicepresidente del Consiglio e per quattro anni numero due del Pd. Ha parlato come se fosse appena sbarcato da Marte per riparare i guasti fatti da altri.
Che poi in giro ci si creda o no, questo è tutto da vedere.

domenica 22 dicembre 2013

Nonostante la crisi, i ricchi sono sempre più ricchi

Fonte: Liberazione.it | Autore: Romina Velchi                    
Ancora una volta Fabrizio Saccomanni non resiste al fascino irresistibile della metafora del tunnel per fare professione di ottimismo. Oggi, con i forconi in piazza, le proteste sia del mondo industriale che di quello sindacale, Saccomanni si dice persino soddisfatto della Legge di Stabilità e convinto che l’Italia stia vedendo la luce. Certo, «dipende dalla velocità del treno e dalla lunghezza del tunnel», spiega il ministro ai microfoni di Radio anch’io, ma «siamo vicini alla fine: se la locomotiva vede la luce anche i vagoni di coda alla fine la vedranno». Il ministro mente sapendo di mentire, perché non solo non è detto che se c’è qualcuno che sta uscendo dalla crisi, presto questo accadrà anche a tutti gli altri, ma ci sono tanti (e sono in aumento) che la luce non hanno mai smesso di vederla, mentre tutti gli altri sprofondavano nel buio.
La smentita più clamorosa delle parole ottimistiche del ministro dell’economia sono contenute in uno studio della Banca d’Italia, anticipato oggi da Repubblica , dal quale emerge che le diseguaglianze sono in inarrestabile aumento e dunque gli effetti della crisi non sono uguali per tutti: non è che si sono impoveriti un po’ tutti; al contrario c’è chi si è arricchito ancora di più segnando una distanza forse ormai incolmabile con chi è all’altro capo del… tunnel: i poveri sempre più poveri.
Lo studio di Bankitalia è netto e inequivocabile. L’ultima Italia egualitaria (o forse sarebbe meglio dire un po’ più egualitaria) è quella dei primi anni Ottanta, cioè quella che arriva dopo le conquiste sociali degli anni Settanta. Nel 1983, calcola lo studio (che considera le dichiarazioni dei redditi), il 10 per cento più ricco (4 milioni di italiani) disponeva del 26 per cento del reddito nazionale. Dieci anni dopo tale reddito era già salito al 30 per cento. E anche se nel frattempo la crescita economica si è fermata, il trend è proseguito: nel 2003 siamo al 33 per cento; nel 2007 al 34. Vuol dire, in parole povere e senza tema di smentite, che la ricchezza è passata dai più poveri ai più ricchi.
Come lo studio dimostra, del resto, andando a vedere cosa è accaduto per i super ricchi, cioè quello 0,1 per cento di fortunati (40mila persone) che dichiara dai 250mila euro in su (e c’è da scommettere che sia lo stesso anche per chi questi soldi non li dichiara ma li guadagna). Ebbene, sempre nel 1983, questa categoria rappresentava l’1,50 per cento del totale delle dichiarazioni, per salire a quasi il 2 nel 1993 e balzare oltre il 3 per cento nel 2007. Costoro, in sostanza, della crisi non si sono nemmeno accorti.
Ma intanto è un’intero paese ad uscire completamente stravolto e su questo ha ragione il presidente di Confindustria a dire che la crisi lascia danni come quelli di una guerra. Perché, infatti, lo studio della banca d’Italia segnala anche quanto si sia allargata la forbice tra il centro-nord e il resto del Paese: Sicilia, Calabria, Campania, Molise registrano livelli di diseguaglianza paragonabili a quelli di nazioni in via di sviluppo.
«I dati della Banca d’Italia parlano chiaro: la maggiore eguaglianza in Italia la si aveva fino agli anni ’80, quando sinistra e sindacati erano forti – ha buon gioco a sottolineare Paolo ferrero (Prc) – Man mano che la sinistra è stata sconfitta, i ricchi sono diventati sempre più ricchi, fino ad arrivare alla vergogna attuale. In questa situazione – conclude Ferrero – noi comunisti proponiamo la patrimoniale sulle grandi ricchezze e di mettere un tetto a stipendi e pensioni a 5.000 euro al mese: che dice Renzi, che esterna su tutto, su questo punto fondamentale della vita italiana?».

Grecia, a causa della crisi aumenta l'inquinamento da polveri sottili

Autore: RedAzione                                        
E' la crisi a causare l'inquinamento dell'aria in Grecia. Sembrerà un paradosso ma con i prezzi del gasolio alle stelle, ci si riscalda bruciando
combustibili piu' economici, come il legname o i materiali di scarto. Il risultato e' che dall'inizio della crisi ad oggi il livello delle polveri sottili e' aumentato del 30%.
A lanciare l'allarme e' uno studio condotto dall'universita' della California meridionale (Usc) insieme all'universita' Artistotele di Salonicco e pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology. I ricercatori hanno analizzato la qualita' dell'aria greca negli ultimi due inverni,
riscontrando un'impennata delle polveri sottili che dimostrerebbe la sempre piu' diffusa pratica di riscaldarsi bruciando legno e spazzatura.
''Le persone hanno bisogno di stare al caldo, ma si trovano a fronteggiare una crescente disoccupazione e l'aumento dei prezzi del gasolio'', spiega l'autore dello studio Constantinos Sioutas della Usc. ''Le difficolta' economiche hanno cosi' costretto i cittadini a bruciare combustibili di bassa qualita', come il legno e i materiali di scarto, che inquinano l'aria''. Nel 2013 la disoccupazione in Grecia e' arrivata al 27%, mentre il prezzo del gasolio da riscaldamento e' quasi triplicato, in parte a causa dell'aumento delle tasse sui carburanti. La scelta di usare legname e spazzatura per riscaldarsi porta a un risparmio economico ma comporta anche - avvertono i ricercatori - potenziali danni alla salute causati
nel lungo periodo dall'aumento del particolato, che puo' depositarsi in profondita' nel tessuto dei polmoni.

Il colpo di Stato di banche e governi

Fonte: sbilanciamoci | Autore: Luciano Gallino                         
 
La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di accidentale. E stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di ordine finanziario ma fondata su una larga piattaforma legislativa, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale che era in corso per ragioni strutturali da un lungo periodo. Alle radici della crisi v'è la stagnazione dell'accumulazione del capitale in America e in Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde dell'Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro fittizio. Questo singolare processo produttivo ha il suo fondamento nella creazione di denaro dal nulla vuoi tramite il credito, vuoi per mezzo della gigantesca diffusione di titoli totalmente separati dall'economia reale, quali sono i «derivati», a fronte dei quali – diversamente da quanto avveniva alle loro lontane origini – non prende corpo alcuna compravendita di beni o servizi: sono diventati di fatto l'equivalente dei tagliandi di una lotteria. Tuttavia, essendo possibile venderli e trasformarli cosi in moneta, essi rappresentano una nuova forma di denaro che insieme con la creazione illimitata di denaro mediante il credito ha invaso il mondo, rendendo del tutto impossibile stabilire quanto denaro sia in circolazione, tolta la piccola quota – pochi punti percentuali – di monete e banconote stampate e di denaro elettronico creato dalle Banche centrali. Il problema è che il denaro creato dal nulla può sì essere prontamente convertito in beni e servizi reali, ma altrettanto velocemente può scomparire in ogni momento, come avvenne con straordinaria ampiezza tra il febbraio e l'ottobre del 2008.
Fatta eccezione del contante e del denaro creato dalle Banche centrali per le loro finalità istituzionali, quasi tutto il denaro in circolazione viene creato da banche private mediante la concessione di crediti o la confezione di titoli. Nella Ue, le banche private sono arrivate a concedere in totale trilioni di euro di crediti ovvero di prestiti, mentre possedevano nei loro caveau reali o elettronici non più del 4-5 per cento di capitale proprio, o in riserva presso la Bce non più dell'1-2 per cento del totale dei prestiti erogati. Sono in ciò insite due distorsioni del sistema finanziario in essere che si collocano persino al di là della creazione patologica di fiumi di denaro dal nulla che ha concorso a causare la crisi. Su di esse si ritornerà ampiamente nel testo. Basti annotare per ora, in primo luogo, che il potere di creare denaro è uno dei poteri fondamentali di uno Stato. Averlo lasciato da lungo tempo per nove decimi alle banche private, e averne anzi favorito con ogni mezzo l'espansione, è un vizio che sta minando alla base l'economia mondiale. In secondo luogo, le banche creano denaro dal nulla con pochi tocchi sulla tastiera di un Pc, ma poi da coloro che ricevono quel denaro in prestito – famiglie, imprese, lo Stato – pretendono sostanziosi interessi. E nel caso di mancato pagamento degli interessi o delle quote di capitale in scadenza hanno diritto di sequestrare a essi ogni sorta di beni mobili e immobili, per tal via convertendo il nulla in case o terreni o impianti industriali che diventano una loro proprietà. È una (il)logica che sfida l'immaginazione più accesa (1).
In questo modo la politica ha attribuito alla finanza, non da oggi bensì da generazioni, un potere smisurato. Negli anni Cinquanta del Novecento si parlava di «complesso militare-industriale» facendo riferimento agli stretti rapporti economici, politici, ideologici stabilitisi nelle società industriali avanzate tra le forze armate e le maggiori aziende industriali. Fu il presidente Eisenhower, nel suo discorso di congedo (gennaio 1961) a sollecitare gli Stati Uniti e il mondo a guardarsi dal «disastroso aumento di potere» che tale complesso lasciava intravedere (2). Dagli anni Ottanta in poi si dovrebbe invece parlare di «complesso politico-finanziario», in presenza dei rapporti sempre più stretti che si sono sviluppati tra politica e finanza, nella Ue come negli Usa.
Stabilito che la crisi in atto è un fenomeno strutturale, non un incidente di percorso, e che ha alle spalle distorsioni profonde dell'intero sistema finanziario e monetario, per vari aspetti connesse con la stagnazione dell'economia reale, va precisato che le «strutture» non operano da sole. Hanno bisogno di persone che ne interpretano le logiche, le modificano per adattarle ai tempi e le applicano. Sebbene vi siano notevoli differenze tra politica ed economia quanto a possibilità di imputare determinate azioni a certi gruppi o individui, la crisi è stata ed è l'esito di azioni compiute da un numero ristretto di uomini e donne che per lungo tempo, tramite le organizzazioni di cui erano a capo o in cui operavano, hanno perseguito consapevolmente determinate finalità economiche e politiche. Hanno compiuto quelle azioni in parte perché l'ideologia da cui erano guidate non consentiva loro di scorgere alternative; in parte per soddisfare i propri interessi o quelli di terze parti. Azioni compiute con la possibilità di avvalersi di risorse enormi, in campo economico come in quello politico, senza però darsi minimamente pensiero delle conseguenze che le azioni stesse potevano produrre a danno di un numero sterminato di individui. Il sistema che tali soggetti hanno costruito e guidato, il complesso politico-finanziario, era affetto sin dagli inizi da gravi difetti progettuali e aveva già manifestato nei decenni precedenti ripetuti segnali di malfunzionamento. Dinanzi alle sue cause e conseguenze, la crisi esplosa nel 2007 può essere definita come il più grande fenomeno di irresponsabilità sociale di istituzioni politiche ed economiche che si sia mai verificato nella storia (3).
Nel sistema economico i principali attori di tale fenomeno sono stati i dirigenti di vari generi di mega-entità finanziarie. L'elenco di queste è molto lungo. Inizia con Banche centrali quali la Bce, la Fed americana, la Banca d'Inghilterra, e organizzazioni intergovernative come il Fondo monetario internazionale. Poi viene una folla di altri enti, a cominciare dai conglomerati formati da «società che controllano banche» (bank holding companies), enti che nel dominio della finanza svolgono attività di ogni genere concepibile, comprese quelle bancarie. Seguono le «banche universali» sia private come, per dire, Bnp-Paribas o Unicredit, sia pubbliche, quali le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le une come le altre impegnate per decenni a trarre maggiori entrate dagli investimenti e dalla speculazione per conto proprio che non dai risparmi che gestiscono; gli investitori istituzionali, quali fondi pensione pubblici e privati, fondi di investimento e compagnie di assicurazione (4).
E ancora, tra gli attori economici i quali, ne fossero consapevoli o no, hanno concorso sia a scatenare la crisi sia a protrarre senza fine la ricerca di soluzioni pur parziali e temporanee, troviamo le società immobiliari lanciatesi sui mercati finanziari; i fondi del mercato monetario; i fondi speculativi (hedge funds); i fondi detti sovrani perché il loro capitale è formato soprattutto da titoli di Stato; le società specializzate nel creare e trattare sul mercato titoli commerciali che hanno alla base crediti ipotecari; le casse di risparmio e quelle di depositi e prestiti, attive in tutti i maggiori Paesi; le società pubbliche o sponsorizzate dallo Stato con il compito di assicurare e riassicurare le ipoteche sulla casa, tipo le americane Fannie Mae (che sta per Federai National Mortgage Association), Ginnie Mae (Government National Mortgage Association) e Freddie Mac (Federal Home Loan Mortgage Corporation). A chiudere, numerose fondazioni che hanno come capitale una grossa quota di azioni bancarie, più quote cospicue di fondi di investimento, un genere che comprende anche le fondazioni su cui si reggono alcune delle maggiori università private del mondo, come Harvard o Stanford.
Nel sistema politico hanno contribuito alla crisi, sin dagli anni Ottanta quando ne elaborarono tramite i Parlamenti le fondamenta legali, un buon numero di componenti dei governi Usa e Ue che si sono succeduti da allora a oggi; nonché membri di organizzazioni intergovernative, tra le quali spicca la Commissione europea. Più alcuni capi di Stato, fra i quali sono stati in primo piano ai loro tempi democratici come Bill Clinton e François Mitterrand. Agli attori suddetti vanno ancora aggiunti i dirigenti dei partiti politici che hanno espresso e sostenuto i governi in questione, nonché i parlamentari che ne hanno seguito le direttive, votando in quasi tutti i Paesi Ue alcune leggi presentate come sicuri rimedi alla crisi, mentre in realtà hanno finito per aggravarla. Basti pensare agli inauditi interventi nel tessuto stesso delle sovranità politica ed economica degli Stati, costituiti dall'inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio o dall'approvazione parlamentare del cosiddetto «patto fiscale», che saranno esaminati in dettaglio in un apposito capitolo.
Se le strutture sono lo scenario e la trama che hanno bisogno di attori economici e politici affinché il dramma si svolga, gli attori medesimi hanno bisogno di aiutanti al fine di meglio individuare, legittimare, alimentare, eseguire passo passo, per anni e decenni, le linee di azione che hanno condotto alla crisi. Si sono prestati a esercitare tale ruolo in modo diretto i traders, gli addetti ai trilioni (in dollari come in euro) di transazioni finanziarie giornaliere le quali, moltiplicando per miliardi i centesimi guadagnati su ogni transazione con l'ausilio dell' high frequency trading, capace di effettuare per via informatica decine di migliaia di operazioni al secondo, recano sostanziosi profitti alle banche; gli esperti della confezione di titoli strutturati, formati ciascuno da migliaia di ipoteche di malcerta origine; i legali che hanno elaborato le vesti giuridiche dei titoli e dei veicoli (società di scopo create dalle banche per far portare fuori bilancio i crediti concessi e poterne cosi concedere altri) che li hanno immessi in commercio. Mentre in ruoli indiretti hanno operato stuoli di consiglieri economici dei capi di governo e dei capi di Stato; gli economisti che hanno inventato, proposto agli enti finanziari, insegnato nelle università e nelle scuole di amministrazione aziendale le teorie del rischio, dei mercati del capitale, delle funzioni del denaro ovvero della moneta meglio idonee a orientare le azioni dei dirigenti finanziari o quantomeno a conferirvi parvenza scientifica. A essi vanno aggiunti gli intellettuali che hanno elaborato il corpus ideologico, formato in gran parte dalle dottrine neoliberali, volto a dimostrare la superiorità non solo tecnica, ma persino morale, dell'agire dell'Homo oeconomicus in tutti i settori della vita sociale.
A causa dei difetti strutturali del sistema finanziario, connessi a quelli del sistema produttivo, a creare e aggravare i quali il personale politico ed economico ha contribuito in modo diretto e indiretto – nel secondo caso per la palese incapacità di affrontare la situazione soprattutto in tema di occupazione –, la crisi iniziata nel 2007 ha devastato l'esistenza di un'immensa quantità di persone nei soli Paesi sviluppati. Quale che sia l'indicatore considerato, coloro alla cui drammatica situazione esso rimanda si contano sempre a milioni. A milioni hanno perso il lavoro e stentano a ritrovarlo: su 36 Paesi sviluppati, a fine 2011 soltanto 6 facevano registrare un tasso di occupazione uguale o più alto a quello del 2007. In tutti gli altri risultava diminuito, e l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) stima che ben difficilmente esso tornerà ai livelli pre-crisi prima della fine del 2016 e oltre – una previsione che a fine 2013 appariva oramai troppo ottimistica. Sommando i disoccupati che cercano attivamente lavoro a quelli che hanno smesso di cercarlo dopo troppi tentativi andati a vuoto, si tratta di 50 milioni di persone, divisi pressappoco a metà fra Stati Uniti e Unione europea. Appartengono quasi tutte alla classe operaia e alle classi medie. L'Oil ha stimato che nel 2012 il 40 per cento dei disoccupati fosse senza lavoro da oltre un anno. Nella sola Ue a 27, Eurostat stimava che a febbraio 2013 i disoccupati fossero oltre 26 milioni; nel 2000 erano meno di 20. Alla stessa data, in Italia e Portogallo la disoccupazione dei giovani (15-24 anni) sfiorava il 40 per cento, e in Spagna e Grecia superava il 55.
Si aggiunga che il rovescio positivo del tasso di disoccupazione, la quantità di occupazione che ancora rimane, nasconde il peggioramento della qualità di quest'ultima. Infatti quasi tutti i Paesi sviluppati hanno ridotto negli ultimi anni i dispositivi a protezione del lavoro a tempo indeterminato, per cui molti, i giovani e anche i meno giovani, hanno trovato lavoro solo accettando contratti di breve durata e sottopagati, quelli che caratterizzano l'universo dell'occupazione precaria. Da tempo, in Italia, l'8o per cento delle nuove assunzioni avviene ogni anno con tali contratti.
L'elenco dei costi sociali della crisi comprende ovviamente altre voci. I tassi di povertà sono aumentati quasi ovunque. A fine decennio i poveri erano 50 milioni negli Stati Uniti (un sesto della popolazione), e 6-7 milioni in Spagna, in Italia, nel Regno Unito (5). Altri dati sono stati diffusi da Eurostat a fine 2012. Nel 2011 si annoveravano, entro la Ue a 27, 120 milioni di persone, un quarto della popolazione, a rischio di povertà o di esclusione sociale. Eurostat contempla in tale categoria coloro che presentano almeno una di queste condizioni: 1) il reddito disponibile dopo i trasferimenti sociali li colloca sotto la soglia di povertà del loro Paese; 2) sono affetti da severa deprivazione materiale; 3) sono individui tra zero e 59 anni facenti parte di famiglie con una bassissima intensità di lavoro, quelle cioè in cui gli adulti hanno lavorato l'anno prima erogando meno del 20 per cento del loro potenziale di lavoro effettivo totale. Si tratta di 12 milioni di famiglie in cui c'erano uno o più membri che potevano lavorare in media 40 ore la settimana a testa, ma hanno lavorato appena 8 ore.
Occorre altresì sottolineare che, mentre vi sono rilevanti differenze tra i Paesi quanto a rischio di povertà e tasso di deprivazione materiale, la quota di persone facenti parte di famiglie a bassissima intensità di lavoro varia solamente, con l'eccezione di Cipro e Lussemburgo, tra il 7 per cento della Repubblica Ceca e il 14 per cento del Belgio. Poiché coloro che lavorano oltre i sessant'anni sono relativamente pochi, si può quindi stimare che il numero di persone toccate in totale da una bassissima intensità di lavoro si aggiri nel complesso, nella Ue, tra i 40 e i 45 milioni (6). Ad accrescere il tasso di povertà contribuisce pure il numero dei lavoratori poveri – coloro che hanno un lavoro più o meno regolare, ma pagato talmente poco da far ricadere loro e i conviventi al di sotto della soglia di povertà (7). Se si allarga il quadro al di là delle condizioni di lavoro, si scopre che a causa della chiusura delle fabbriche di cui vivevano, della disoccupazione e della precarietà che ne è seguita, della caduta dei consumi, della scomparsa di artigiani e commercianti, intere comunità sono state disastrate.
Negli Stati Uniti, in Spagna, nel Regno Unito, in Irlanda almeno sei milioni di famiglie hanno perso la casa perché non riuscivano più a pagare le rate del mutuo che erano state indotte dalle banche a sottoscrivere benché non avessero le risorse economiche necessarie. Altri milioni di famiglie hanno perso gran parte dei loro risparmi, del valore del fondo pensione, o dell'assicurazione sanitaria, a causa della caduta del corso dei titoli in cui erano stati investiti, oppure del tracollo dell'impresa cui il fondo o l'assicurazione facevano capo. In totale, fra Paesi sviluppati e Paesi emergenti, si stima che il valore di immobili e di titoli che è evaporato soltanto nei primi due o tre anni della crisi si aggiri su 50-60 trilioni di dollari – una cifra prossima al Pil del mondo. Una parte di tali perdite ha coinvolto grandi patrimoni, che però dal 2009 in poi le hanno in genere rapidamente recuperate. Per contro, quelle che riguardavano i risparmi di milioni di famiglie sono rimaste o si sono aggravate.
Ove si ponga mente alla quantità e tipologia delle vittime della crisi, raffrontandole con gli attori che insieme con i loro aiutanti l'hanno provocata e legittimata, diversi aspetti colpiscono. Il primo è che le vittime di oggi sono in gran parte figli e nipoti di membri della classe operaia e della classe media che furono colpiti, soprattutto negli Usa, dalla stagnazione dei salari intervenuta sin dagli anni Settanta. Una condizione alla quale cercarono di sottrarsi, con l'aiuto dei loro governi e delle istituzioni economiche, accrescendo in misura spropositata i loro debiti – una delle maggiori concause dirette della crisi. In altre parole, non solo la crisi quando arriva suona sempre due volte, ma quando ritorna sta ben attenta a suonare sempre alla stessa porta di prima.
In secondo luogo va rilevata la relativa esiguità del numero degli attori e dei loro aiutanti rispetto al numero enorme delle vittime. Gli attori che si possono considerare veri protagonisti della crisi, nell'insieme dei Paesi sviluppati, sono poche decine di migliaia; con gli aiutanti, gli attori di secondo piano e però indispensabili per lo svolgimento del dramma, si arriva forse a qualche centinaio di migliaia. Per contro le vittime assommano, come s'è visto, a parecchie decine se non centinaia di milioni. Si potrebbe dire, parafrasando (e rovesciando) il famoso detto di Churchill, che mai cosi pochi hanno inflitto danni cosi gravi a un numero cosi grande di persone.
È vero che si potrebbe accrescere la stima del numero dei responsabili notando che i dirigenti economici responsabili della crisi agivano, in realtà, non solo per conto proprio ma pure per conto di milioni di proprietari di grandi patrimoni, una intera classe sociale che ha affidato loro il compito di moltiplicare i suoi capitali. Peraltro pare opportuno stabilire una distinzione tra chi ha manovrato direttamente le leve della macchina che ha portato alla crisi, e chi su tale macchina si è limitato a caricare i propri capitali. Sono due livelli di responsabilità, correlati ma non assimilabili se si vogliono analizzare le origini prossime della crisi. Per questo motivo il testo che segue intende compiere un esame soprattutto delle azioni compiute dal primo gruppo, gli attori della finanza, senza ovviamente ignorare l'importanza del secondo gruppo, la classe sociale più benestante del pianeta. Formata da circa 29 milioni di adulti, lo 0,6 per cento della popolazione del mondo, che detiene oltre il 39 per cento della ricchezza globale, quasi 88 trilioni (cioè ottantottomila miliardi) di dollari. E la sola classe cui la crisi abbia recato vantaggi cospicui.
Un terzo aspetto che colpisce è il fatto che a sei anni dallo scoppio della crisi (agosto 2007), erano pochissimi i responsabili economici e politici di essa che fossero stati chiamati a rispondere dei danni che hanno concorso a provocare. È vero che a seguito dei tracolli di grandi gruppi industriali susseguitisi tra il 2000 e il 2003 – dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat – un periodo da considerare di fatto come il prologo della crisi attuale, è stato riconosciuto colpevole e condannato a pene severe un certo numero di dirigenti. Per contro, dal 2007 a oggi nemmeno un singolo procedimento istruttorio o accusatorio paragonabile a quelli del periodo anzidetto è stato avviato in America o in Europa. Con una sola eccezione: nel 2011 il titolare di un fondo speculativo, Bernie Madoff, si è visto infliggere da un tribunale federale statunitense centocinquant'anni di carcere. Ma va subito rilevato che in questo caso, come in quelli menzionati sopra, si trattava di autentici truffatori, dirigenti e finanzieri che avevano falsificato all'ingrosso i bilanci e ingannato in modo macroscopico gli investitori. Non a questi ci si vuole qui riferire, bensì alle decine di migliaia di dirigenti e operatori i quali hanno condotto l'economia al disastro globale che sappiamo, sfruttando le leggi predisposte appositamente per loro dai politici. Al riguardo il presidente Obama è stato chiaro. Ha detto infatti, sia pure in una conversazione informale: «La condotta dei grandi gruppi finanziari va considerata riprovevole sotto il profilo etico, ma dal punto di vista legale non si può imputare loro nulla».
Il fatto è che, da un lato, le leggi che hanno permesso di disastrare l'economia sono state concepite e fatte approvare dai governanti in carica a quel momento, spesso in accordo preventivo con i dirigenti del mondo finanziario e industriale; dall'altro, l'espansione forsennata e rapidissima della finanza dagli anni Ottanta in poi ha aperto nuovi territori che per il diritto penale, secondo i giuristi che da qualche tempo hanno iniziato a occuparsene, sono tuttora terra incognita. Il risultato è quello che si diceva: i dirigenti di gruppi finanziari nei cui bilanci si sono aperte voragini a causa delle loro manovre sono giunti a esprimere al più un tot di dispiacere – per la verità lo hanno fatto solo in qualche caso – in merito ai danni arrecati a risparmiatori e contribuenti. Al massimo è avvenuto che le loro società abbiano sborsato ciascuna centinaia di milioni alla Fed o alla Banca d'Inghilterra al fine di evitare che una causa civile – avviata, ad esempio, da risparmiatori danneggiati dai cosiddetti titoli tossici – si trasformasse in una causa penale. Però di tasca loro, in genere, i massimi dirigenti non ci hanno rimesso un dollaro o un euro. Persino nei casi in cui sono stati forzati alle dimissioni, se ne sono andati recando intatti con sé i loro compensi e risparmi miliardari. In sintesi, nessun responsabile della crisi è stato riconosciuto come tale, né sottoposto a una qualsiasi sanzione che non fossero le critiche di una quota marginale dei media. Dal 2010 in poi, è intervenuto nei Paesi dell'Unione europea un altro paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è una catena che comprende diversi anelli. I principali sono cosi formati e disposti:
  1. Le maggiori banche europee, in stretto rapporto con quelle americane, hanno accumulato debiti colossali prima e durante la crisi, in specie per via della finanza ombra e del denaro che esse medesime hanno privatamente creato dal nulla o ampiamente utilizzato allo scopo di continuare a concedere montagne di crediti senza avere in bilancio i relativi fondi. In diversi Paesi Ue il totale di codesti debiti privati è pari o addirittura grandemente superiore al rispettivo debito pubblico.
  2. I bilanci pubblici, compreso in parte quello della Bce, hanno sofferto prima di un forte calo delle entrate a causa dei vantaggi fiscali concessi dai governi ai contribuenti più ricchi e alle imprese nell'ultimo decennio del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo; poi, dopo il 2007 e dal lato delle uscite, sono stati prosciugati a causa delle somme spese o impegnate anzitutto per salvare le banche (oltre 4 trilioni di euro a livello Ue nel periodo 2008-11, di cui almeno 2 realmente utilizzati), nonché a causa dell'accresciuto volume dei sussidi di disoccupazione e similari, dovuto principalmente agli effetti della crisi.
  3. Le banche hanno convinto i governi e i politici che li sostengono che se anche solo alcune di esse avessero dovuto fallire, e neppure delle maggiori, ne sarebbe seguito un disastro per l'intera economia e società europee.
  4. In vista del suddetto pericolo, accresciuto dal fatto che dopo le spese e gli stanziamenti a loro garanzia nei bilanci statali non esistono più risorse sufficienti per salvare una seconda volta le banche, la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale hanno dato manforte ai governi nel diffondere una rappresentazione della crisi dei bilanci pubblici come se fosse dovuta all'eccessiva generosità dello stato sociale nei decenni precedenti.
  5. In presenza dei vuoti scavati nei bilanci, i governi hanno pertanto deciso di avviare una severa politica di austerità volta a ridurre soprattutto le spese, a cominciare dalla voce principale formata dai capitoli pensioni-sanità-istruzione, che sono i pilastri del cosiddetto modello sociale europeo.
  6. Le politiche di austerità si sono concretizzate sia in riforme nazionali, sul genere della riforma delle pensioni introdotta in Italia dal governo Monti nel giro di pochi giorni nell'autunno 2011, sia in severi diktat forgiati a Bruxelles. Tra questi spiccano vari documenti su cui si ritornerà (al cap. vii): il Memorandum di intesa imposto alla Grecia; il precitato «patto fiscale» (per la precisione «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance») firmato dai capi di governo Ue nel marzo 2012 e approvato a larga maggioranza dal Parlamento italiano, senza minimamente discuterne la micidiale portata, il 20 luglio dello stesso anno; infine l'istituzione del Meccanismo europeo di stabilità.
  7. In appena tre anni, 2010-12, le politiche di austerità, congegnate e presentate come se fossero sicuri antidoti alla crisi, in realtà l'hanno aggravata e prolungata. La stagnazione dell'economia si è trasformata in una severa recessione. Il caso italiano è indicativo al riguardo, ma lo stesso si constata in altri Paesi europei e financo in Germania.
  8. Come conseguenza dell'aggravamento della crisi, il numero delle vittime di questa, in specie quello dei senza lavoro e delle legioni di precari, è ulteriormente cresciuto.
  9. Nessuno potrebbe seriamente credere nel 2013, a sei anni di distanza dal suo inizio, che una fine reale e definitiva della crisi sia prossima.
Se ci si chiede come una simile paradossale concatenazione di decisioni e di eventi sia stata possibile, vien fatto di pensare sulle prime a una colossale serie di errori commessa dai governi Ue. In effetti bisogna essere piuttosto ottusi in tema di politiche economiche per credere di poter rimediare alla crisi ponendo in essere, nel pieno corso di questa, robusti interventi dagli effetti recessivi affatto certi. Ciò nonostante, sebbene l'ottusità economica di parecchi governanti Ue sia fuor di dubbio, sarebbe far torto ai loro stuoli di consiglieri e funzionari supporre che non siano riusciti a far comprendere a ministri e presidenti del Consiglio e capi di Stato che l'austerità, nella situazione data, era una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico.
In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l'economia. E piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l'alto in corso da oltre trent'anni. Essa è stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull'espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l'esplosione della crisi finanziaria nel 2007. I cittadini della Ue, al pari di quelli Usa, hanno già sopportato pesanti oneri prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti, in seguito per le conseguenze dirette della crisi. I loro governi debbono aver pensato che difficilmente avrebbero sopportato senza opposizione alcuna altri costi sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui hanno goduto per almeno due generazioni. Però questo è l'ultimo territorio da conquistare per poter proseguire nel drenaggio delle risorse dal basso in alto. Esso è formato dalle migliaia di miliardi spesi ogni anno per i suddetti sistemi – gran parte dei quali, a cominciare dalle pensioni, rappresenta salario differito, non elargizioni da parte dello Stato.
I governi Ue hanno quindi posto in opera, al fine di ottenere che la classe da essi rappresentata possa proseguire senza troppi ostacoli la distribuzione dal basso in alto, due strategie che si sono rivelate negli anni post-2010 assai efficaci. La prima è consistita, come ricordato sopra, nel camuffare la crisi come se questa volta non avesse origini nel sistema bancario, bensì fosse dovuta al debito eccessivo degli Stati, provocato a loro dire dall'eccessiva spesa sociale. In secondo luogo, nella previsione che tale schema interpretativo non fosse sufficiente per tenere mogi i cittadini, hanno imboccato la strada dell'autoritarismo emergenziale. Cosi come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all'emergenza denominata «debito eccessivo dei bilanci pubblici» le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri. Ai suoi lavori collaborano la Commissione europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e la Bce. Inoltre godono dell'apporto esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le misure da prendere sono poi messe a punto dalla Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi e inviate ai rispettivi Parlamenti per l'approvazione. Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia; il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus; il cosiddetto «patto fiscale» ovvero Trattato sulla stabilità ecc.; la creazione del Meccanismo europeo di stabilità. Essendo l'approvazione «chiesta dall'Europa», i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza. Sono i governi a comandare.
Mediante codesto processo che è guidato a livello Ue da poche dozzine di persone, la democrazia nell'Unione appare in corso di rapido svuotamento. Persino il Trattato della Ue, nel quale il concreto esercizio della democrazia riceve assai meno attenzione del libero mercato e della concorrenza, appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika. Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato come alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell'euro, dei bilanci sovrani, dell'intera economia europea. Posti dinanzi a simili minacce, che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente, i cittadini degli Stati cardine della Ue hanno finora subito si può dire a capo chino gli interventi dell'autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles, sebbene esso stia assumendo sempre più il profilo di un colpo di Stato a rate (ne tratta ampiamente il cap. vii).
Quando si espongono le considerazioni di cui sopra si arriva sempre alla domanda sul che fare. E inutile nascondersi che per coloro i quali pensano che potrebbe esistere un altro mondo al di là del totalitarismo neoliberale, la situazione è pressoché disperata. Il fatto è che codesta ideologia ha stravinto, a cominciare dall'ambito della cultura, delle idee, dell'informazione. Istruttivo a questo proposito è il caso del Powell Memorandum. Lewis F. Powell, un avvocato poi giudice della Corte suprema americana, nel 1971 inviò un memorandum confidenziale al presidente del Comitato Educazione della Camera di commercio Usa per contrastare quello che definiva l'attacco al sistema della libera impresa. Oggi sarebbe deliziato nel vedere come le sue proposte siano state applicate con successo, oltre che negli Usa, in tutta la Ue.
Il Powell Memorandum, reso pubblico soltanto vari anni dopo, proponeva anzitutto di intervenire sulle università, in specie sulle facoltà di scienze sociali, dato che scienziati, politici, economisti, sociologi e molti storici erano orientati nell'insieme in senso liberal, «anche là dove non siano presenti dei sinistrorsi» . Da esse si doveva pretendere un tempo uguale per i conferenzieri; i libri di testo dovevano essere assoggettati a revisione e critica da parte di eminenti studiosi che «credono nel sistema»; lo squilibrio esistente fra dimensioni e peso delle facoltà doveva essere corretto. Indicazioni analoghe forniva il memorandum per quanto riguarda la televisione, la radio, la stampa, le riviste scientifiche, la pubblicità. Il testo proponeva persino di intervenire sulle edicole, perché queste esponevano ogni sorta di libri e riviste «inneggianti a tutto, dalla rivoluzione al libero amore, mentre non si trova quasi nessun libro o rivista attraente e ben scritto che stia "dalla nostra parte"» (9).
Nel volgere di alcuni decenni le dettagliate proposte del Powell Memorandum sono state messe in pratica negli Usa e in Europa, facendo registrare uno straordinario successo. I pensatoi o think tanks neoliberali sono passati da poche decine ad alcune centinaia. Le modeste somme in dollari o euro investite in campagne di lobbying per ottenere dai Parlamenti leggi favorevoli al mercato, alla libera impresa, alla privatizzazione di tutti i beni comuni sono diventati miliardi l'anno. Nella stessa misura sono aumentati i contributi versati ai candidati idonei al momento delle elezioni. Nelle università americane ed europee si sono salvate le facoltà di economia, previa una colonizzazione pressoché totale da parte dei «ragazzi di Chicago», gli ultraliberali discendenti di Milton Friedman. Invece tutte le facoltà di scienze sociali, e più in generale di scienze umane, sono state ridotte ai margini. Lo mostrano le classifiche concepite per selezionare quelle che dovrebbero essere le migliori università del mondo. L'eccellenza nei suddetti campi, quale possono vantare, per dire, la Sorbona o la Normale di Pisa, garantiscono in tali classifiche una posizione collocantesi fra il centesimo e il trecentesimo posto (10).
Quanto alla Tv e a ciò che espongono le edicole, il predominio dell'informazione neoliberale non potrebbe essere più evidente. La fabbrica dell'egemonia, gramscianamente parlando, del consenso che non ha bisogno (quasi mai) di ricorrere alla violenza, gira a pieno regime. Senza di essa il colpo effettuato da banche e Stati europei contro lo stato sociale e il lavoro non sarebbe stato possibile. Anche se in una prospettiva propriamente politica a un certo punto si dovrà pur arrivare a riforme profonde del sistema finanziario, del Trattato Ue, delle politiche economiche, appoggiate da adeguate forze elettorali, è forse dallo smontaggio di tale fabbrica che bisognerebbe cominciare.
(1) Su codesta illogica ( Unlogik ) cfr. H.R. Haeseler e F. Hörmnan , Banken (überwachung) am Pranger. Inkompetenz, Betrug oder Systemische Krise?, in «Jahrbuch für Controlling und Rechnungswesen», 2010, n. 29, pp. 6 sgg.
(2) Cfr. L. Gallino, Complesso militare-industriale, in Dizionario di Sociologia, Utet Libreria, Torino 20043.
(3) Su teoria e pratica di fenomeni del genere rinvio a Id., L'impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005.
(4) Per definizioni e approfondimenti vedi L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il ca pitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino 2009.
(5) Economic Policy Institute, «Issue Brief», 24 luglio 2012, n. 339, p. 3.
(6) Eurostat, In 2011, 24 per cent of the population were at risk of poverty or social exclusion, in «newsrelease», n. 171, 3 dicembre 2012, passim.
(7) E considerato soglia della povertà relativa un reddito personale netto pari o inferiore al 60 per cento del reddito mediano pro capite.
(8) L. F. Powell, Confidential Memorandum. Attack on American Free Enterprise System, inviato il 23 agosto 1971 a E. B. Sydnor jr, Chairman of Education Committee, US Chamber of Commerce, p. 8. Cito dalla riproduzione autentica del testo dattilografato ricostruito da Thwink.org ( www.thwink.org/ sustain/articles/017_PowellMemo/index.htm). Il numero delle pagine è stato ridotto da 37 a 20, pur mantenendo intatti testo e note dell'originale.
(9) Ibid., p. 14.
(10) Si veda la classifica, molto apprezzata dagli esperti, diffusa nell'estate 2012 dall'Università di Shanghai.
© 2013 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione al libro di Luciano Gallino, "Il colpo di Stato di banche e governi. L'attacco alla democrazia in Europa" (2013, Einaudi, pp. 352, 19,00 euro)

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