Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 5 ottobre 2013

Lampedusa, lo schermo della vergogna

Lampedusa, lo schermo della vergogna

( Testo pubblicato sul sito del Centro studi per la Riforma dello Stato, http://www.centroriformastato.org)
Lampedusa non è solo l’estremo lembo dell’Italia e dell’Europa, la cosiddetta porta della penisola e del continente sull’altra sponda del Mediterraneo. E’ anche, come sa chiunque ci abbia messo piede per poche ore, un microcosmo delle contraddizioni feroci della globalizzazione. E’ un posto dove la presenza spettrale dei migranti rinchiusi e stipati nel centro di accoglienza convive, per molti mesi dell’anno, con la presenza spensierata dei turisti in vacanza. Dove l’incombenza quotidiana della morte convive con l’eterno presente dell’industria dello svago. Dove accade – è accaduto, tante volte – che i corpi dei vivi che si immergono nel mare si imbattano con i cadaveri che il mare sospinge verso le spiagge o sbatte sugli scogli. E’ il posto dove i corpi che contano, e che si contano uno per uno perché equivalgono ad altrettanti consumatori di alberghi, bar, creme abbronzanti e spay antizanzara, si muovono contigui a quelli che non contano, e che si contano a grappolo, a decine o a centinaia quando arrivano dal mare vivi o morti, senza singolarità senza nome senza storia. E’ un posto dove noi europei arriviamo con un trolley carico di tutti i nostri (vacillanti) diritti, e loro, i migranti, arrivano senza neanche il diritto a essere sepolti e compianti.
Chiamata ”frontiera d’Europa” dai nostri politici che non sanno di che parlano, Lampedusa è dunque precisamente il posto dove l’idea di frontiera e di confine si vanifica, dissolta dal mare. Obbedendo a un nome più antico della geopolitica, il Mediterraneo – mare di mezzo, e di mediazione – rimescola quello che i confini della politica e della legge pretendono di dividere. Non c’è sovranità statuale che tenga, a Lampedusa. Non c’è legge di Schengen che valga, nel mare di mezzo. Non c’è barriera di cittadinanza possibile, dove il proprio dei diritti si perde nel nostrum del mare. Dove il mare restituisce la contiguità fra la vita e la morte che sta alla radice dell’umano, lì le politiche di distribuzione gerarchica e annichilente dei diritti, cento a noi e zero ai migranti, getta la maschera e si mostra per quello che è: una tanatopolitica basata, né più né meno che ad Auschwitz, sulla pretesa sadica di dividere gli umani in più umani, ”noi”, e meno umani, ”loro”.
Nessuna retorica dell’orrore, nessuna morale della vergogna, nessun elogio dell’eroismo dei lampedusani, nessuna proclamazione del lutto nazionale sono credibili se non sono sostenuti da una chiara ed esplicita autodenuncia delle connivenze della politica italiana con questa tanatopolitica che ha tristi e mai del tutto estirpate radici europee. Il Papa, che non legifera, può vergognarsi e appellarsi alla nostra vergogna, a un senso di colpa collettivo, a un collettivo desiderio di espiazione; il governo, il parlamento, la presidenza della Repubblica no. Se si vergognano, com’è auspicabile, hanno il dovere di dimostrarlo con gli atti, in primo luogo disfacendo quello che hanno fatto fin qui. L’immediata cancellazione della Legge Bossi-Fini e del reato di immigrazione clandestina sono la premessa necessaria, urgente e improrogabile di qualunque discorso sulla politica dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’asilo politico.
La piega che il discorso pubblico sta prendendo sui fatti di Lampedusa è invece tutta un’altra, e non solo a destra. Il ministro dell’interno, di fronte ai cadaveri allineati, sordo alle parole inequivoche della sindaca di Lampedusa e del governatore della Sicilia, dice e ripete che il problema non è la Bossi-Fini, che con ogni evidenza non intende toccare, ma il coinvolgimento dell’Europa ”nella condivisione della tragedia”. Ci si rivolge dunque all’Europa in una prospettiva doppiamente sbagliata: invocando a scopi meramente repressivi un di più di quella sovranità che le migrazioni sfidano, come se per superare la crisi dello stato sovrano bastasse allargarne i confini dalle singole nazioni alla Ue; e invocando la logica della riduzione del danno di fronte a un fenomeno che non è un danno e non è riducibile. Alla Ue bisogna imporre viceversa lo sfondamento dell’Europa-fortezza, la cancellazione delle leggi che consentono la libera circolazione delle merci ma impediscono quella degli esseri umani, la promozione di politiche dell’asilo nei confronti di masse di rifugiati che provengono da quegli stessi paesi in cui l’Europa fomenta le guerre, l’apertura di corridoi umanitari. E una completa rotazione del discorso sulle migrazioni, che finalmente le guardi come una risorsa necessaria per un continente altrimenti destinato a un inarrestabile declino demografico, e non come un danno da limitare o una tragedia da reprimere.
Riteniamo che su queste due discriminanti i partiti di centrosinistra debbano svolgere azioni parlamentari chiare e vincolanti ai fini della valutazione e della prosecuzione dell’attuale esperimento di governo.
Ida Dominijanni, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch

 

Settimana di azione contro il debito e le istituzioni finanziarie internazionali, 8-15 Ottobre 2013

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Dichiarazione comune per la settimana globale di azione sul debito e le IFI 2013
Il pagamento del debito, l’evasione fiscale e la fuga di capitali stanno impoverendo le popolazioni a vantaggio di pochi. Il denaro viene trasferito dal Sud al Nord del mondo, da coloro che vivono ai margini della società ai più potenti, dal 99% all’1%. Questo sistema finanziario devasta le vite e i mezzi di sostentamento di centinaia di milioni di persone attraverso l’impatto e le crisi che è capace di provocare.
Creditori incauti e rapaci sono invece protetti dall’impatto delle crisi di debito che essi stessi hanno causato, sebbene le popolazioni, a cui non mai stato chiesto il proprio parere sulle operazioni di prestito, ne stiano pagando il prezzo. Questo sistema di indebitamento predatorio e spericolato e il salvataggio bancario hanno accresciuto l’ineguaglianza e messo in pericolo la democrazia in ogni angolo del mondo.
Si deve porre un termine a questo sistema, perché si facciano dei passi avanti verso una vera democrazia, una maggiore uguaglianza e il compimento dei diritti umani fondamentali.
Siamo un movimento internazionale che sostiene cittadini e le cittadine di tutto il mondo che si battono per:
Degli audit pubblici o cittadini in grado di determinare quali debiti siano legittimi;
Il ripudio o la cancellazione dei debiti illegittimi e insostenibili;
La fine dell’imposizione di misure a vantaggio degli interessi dei creditori, come le banche e l’FMI
Un sistema di tassazione giusto e progressivo;
Prestiti pubblici e pratiche di gestione del debito che garantiscano la trasparenza e la partecipazione dei cittadini e delle cittadine;
Una spesa pubblica che dia la priorità ai servizi essenziali che promuova uno sviluppo sostenibile ed equo ;
La trasformazione del sistema finanziario allo scopo di scongiurare il continuo ripetersi delle crisi di debito

NON IL NOSTRO DEBITO!
Settimana internazionale contro il debito illegittimo e le istituzioni internazionali, 8-15 Ottobre
Mentre i creditori più potenti del mondo sono riuniti a Washington nella sede della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, noi, popoli tutti, rivendichiamo uniti un chiaro messaggio:
I debiti ingiusti non sono i nostri debiti!
Dall’America Latina, all’Africa e all’Asia, dall’Europa al Nord America, siamo costretti a vivere con i danni e le sofferenze provocate dai debiti illegittimi e insostenibili
In un mondo dove i debitori sono puniti e i creditori prendono le decisioni, noi diciamo ai creditori- assumetevi le responsabilità per averci portato verso il fallimento!
Vogliamo delle soluzioni alla crisi che siano centrate sulle persone, e non delle false soluzioni imposte da creditori esterni e dall’alto
In questa settimana, noi movimenti globali e locali diciamo, in modi diversi e creativi, e in lingue differenti: “Non è il nostro debito”
Non è il nostro debito quando siamo non siamo stati noi a crearlo
Non è il nostro debito quando non siamo stati consultati
Non è il nostro debito quando i diritti fondamentali vengono violati in nome del suo pagamento.

I debiti ingiusti non sono i nostri debiti!
Vi invitiamo a unirvi a noi per la settimana di azione dall’8 al 15 Ottobre per costruire una o più delle seguenti azioni allo scopo di esprimere le nostre rivendicazioni:
Organizzare dibattiti pubblici, conferenze, diffondere letteratura e materiali sulla tematica del debito
Organizzare incontri, manifestazioni o altre forme di azione nelle scuole, nei luoghi di lavoro, negli spazi pubblici
Inviare lettere o dichiarazioni ai vostri governi
Inviare messaggi elettronici attraverso i social network (facebook o twitter)
Organizzare conferenze stampa, far circolare comunicati stampa, inviare altri comunicati a giornali locali
Agisci:
Durante la settimana di azione contro il debito dall’8 al 15 ottobre, facciamo appello a tutte le popolazioni del mondo per rivendicare il nostro motto: “Non è il nostro debito”. Vi invitiamo per questo a mandare un messaggio sul perché pensiate che un particolare debito non è “il nostro debito” o “non dovrebbe essere pagato”.
1) Per prima cosa. Scrivete su un cartello/pezzo di carta perché pensate un particolare debito “non è il nostro debito” o “non dovrebbe essere pagato”. Per esempio:
- “Non è il nostro debito se serve per salvare banche irresponsabili”
- “Non è il nostro debito se il suo pagamento mette in pericolo la nostra salute… la vita prima del debito!’
- “Non è il nostro debito se è servito per comprare delle armi”
2) Scattate una foto con voi e il cartello. Come nelle immagini qui:http://www.flickr.com/photos/101919330@N02/with/9773614174/
3) Postate la foto su twitter, facebook o instagram, scrivendo il messaggio e usando l’hashtag #notourdebt. Un esempio qui: https://twitter.com/tkjones3434/status/379617689099968512/photo/1
(E’ molto importante usare l’hashtage sia in inglese #notourdebt che in italiano)
4) Se avete utilizzato l’hashtag #notourdebt il messaggio apparirà automaticamente su:http://tagboard.com/notourdebt
Lo scopo è quello di mettere insieme il maggior numero possibile di foto provenienti da tutto il mondo per dimostrare che l’opposizione ai debiti ingiusti e illegittimi è globale.
Se siete impossibilitati a fare la foto, potete comunque partecipare all’iniziativa scrivendo il vostro messaggio su twitter e/o facebook con l’hashtag #notourdebt. Se invece non potete postare la vostra foto su twitter or facebook, potete inviarla a events@jubileedebtcampaign.org.uk e Jubilee UK la posterà per voi.
Aiutateci a trasformare questa azione in un appello globale contro il debito condividendola con i tutti i vostri amici!

Vo Nguyen Giap

- marx21 -
Apprendiamo dalle agenzie della scomparsa di Vo Nguyen Giap, uno dei protagonisti della storia del novecento e simbolo della lotta di liberazione dei popoli di tutto il mondo. Se ne è andato un grande dirigente del movimento comunista e antimperialista mondiale. Un grande stratega della “Guerra di popolo” che ha saputo sconfiggere due formidabili eserciti imperialisti, dando così un contributo decisivo alla liberazione del Vietnam.
Pensiamo che il miglior modo di ricordare la vita e l'opera di Giap, sia riproporre l'articolo che il compianto compagno Sergio Ricaldone - che con Giap aveva instaurato un rapporto di collaborazione e amicizia durante gli anni della lotta di liberazione contro l'imperialismo statunitense – scrisse in occasione del 100° compleanno della grande figura vietnamita.
Al popolo del Vietnam e al suo Partito Comunista porgo le più sentite condoglianze, a nome dell'intera redazione di Marx21.it
Mauro GemmaDirettore di Marx21.it
GIAP, IL GRANDE STRATEGA DELLA GUERRA DI POPOLOdi Sergio Ricaldone
Si continua a dire che il comunismo è morto. Celebrando il compleanno di Giap e guardando al Vietnam di oggi direi che il comunismo è un soggetto politico e ideale assai difficile da seppellire.
La lunga vita di Van Nguyen Giap coincide con lo spazio temporale della storia contemporanea del Vietnam durante il quale il popolo vietnamita, per riconquistare l’indipendenza nazionale, ha dovuto lottare contro gli eserciti delle quattro maggiori potenze imperialiste del 20° secolo: quello francese, quello giapponese, quello inglese e quello americano. Tutte le generazioni vietnamite del 900’ sono state segnate e coinvolte da questo titanico confronto. Tutte le classi, ogni ceto sociale: gli intellettuali tradizionalisti, poi i modernisti, gli operai, i contadini, i bonzi, i preti cattolici e le diverse etnie. Nessuna forma di lotta è stata esclusa: scioperi, manifestazioni, forme diverse di cultura popolare, rituali religiosi, alfabetizzazione di massa. Ma solo quando si è potuta formare una strategia politica di lunga durata e di largo respiro, patriottica e socialista, e di intense relazioni internazionali, la scelta dell’opzione militare, imposta dalle circostanze storiche, è stata quella che alla fine ha prevalso e deciso le sorti del paese. Ciò è diventato possibile solo dopo la formazione nel 1930 del partito comunista indocinese e dall’emergere di due figure dirigenti di formazione marxista leninista e di eccezionale spessore politico, quali Ho Ci Minh e Giap, che hanno saputo portare a sintesi, rendendole complementari e vincenti, le loro geniali intuizioni politiche e militari.
Fino agli inizi degli anni 50 il Vietnam, nella sua dimensione geografica, storica e politica era scarsamente presente nell’immaginario collettivo della sinistra europea. Era ancora un paese marginale, conosciuto da pochi col suo vecchio nome coloniale, Indocina, collocato ai margini del campo socialista. L’indipendenza del Vietnam proclamata da Ho Ci Minh il 2 settembre 1945 era stata una parentesi di breve durata e pressoché ignorata dai mass media. Il suo popolo di guerriglieri era stato costretto a disperdersi nella giungla nel 1946 dalle cannonate della flotta, dai carri armati e dai bombardieri francesi, Braccato dai tagliagole della Legione straniera (imbottita di ex SS), sembrava non avere scampo. Nessuno sospettava che da quell’improvvisato esercito di “contadini straccioni”, affamati e peggio armati, potesse nascere un movimento di liberazione guidato da un gigante del pensiero strategico, di nome Giap, che nei decenni successivi, dopo 30 anni di guerra, sarebbe riuscito a mettere in crisi politica e militare la più grande potenza imperialista della storia contemporanea.
Il velo di mistero che avvolgeva quella “piccola” porzione di mondo chiamata Indocina fu sollevato dal movimento di lotta iniziato in Francia contro la “sporca guerra” d’Indocina nel nome di Henry Martin, il coraggioso marinaio francese che, nei primi anni 50, con il suo rifiuto di imbarco su una nave da guerra destinata in Vietnam, aveva scatenato la furibonda reazione dello Stato Maggiore di Parigi e della destra colonialista. Fu cosi, soprattutto a livello di movimenti giovanili comunisti, che cominciammo a conoscere quel movimento di liberazione che, pur operando in un paese molto più piccolo della Cina, finì per assumere nei decenni che seguirono un ruolo decisivo e trainante dei movimenti di liberazione e delle rivoluzioni antimperialiste che hanno inciso non poco sui cambiamenti geopolitici del pianeta e sulle lotte del movimento operaio in occidente.

venerdì 4 ottobre 2013

Omicidio plurimo premeditato

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di PIERLUIGI SULLO
Quello che è successo a Lampedusa non è “una tragedia”, come ripetono tutti i media. Tecnicamente, è un omicidio plurimo premeditato, aggravato dalla reiterazione. Nel linguaggio cui ci hanno abituato le infinite serie televisive “crime”, attorno alle coste del sud Italia è al lavoro un “serial killer”, anche se non si tratta di un solo individuo sociopatico o maniaco depressivo o semplicemente ossessionato dal gusto di uccidere, ma un assassino a sua volta plurale. La soluzione di questo sanguinoso thriller, inoltre, non è così semplice come i media e i politici dicono. Gli “scafisti” e gli organizzatori del traffico di esseri umani sono certamente parte del killer seriale, ma ne sono solo l’ultimo anello. Sono – precisamente – coloro che mettono a frutto una merce che, in quanto clandestina, ha un assunto un valore sproporzionato: il viaggio verso l’Europa. Si tratta dei governi del Nord Africa e dei loro emissari, complici e inerti nella persecuzione, nello sfruttamento e nei furti ai danni di chi viene da ancora più a sud, e da paesi in cui avvengono massacri, come la Siria: è un questo brodo che galleggiano gli imprenditori privati dell’affare, quelli che allestiscono i barconi precari e assumono gli “scafisti”.
Ma chi permette loro di organizzare questo traffico siamo noi, governi e paesi del nord, dell’Europa. I personaggi ed interpreti di questo omicidio di massa non sono solo i migranti che annegano o gli aguzzini che li hanno stipati su quei barconi. Basta vedere scorrere i titoli dei telegiornali, per leggere – come nei titoli di coda di un film – i nomi dei protagonisti della vicenda.
Il presidente del consiglio, Letta, dice che si tratta di una “immane tragedia”: ma lui, lodato in queste ore per la sua furbizia democristiana nel mettere in angolo Berlusconi, cos’ha fatto, da quando è a Palazzo Chigi, per evitare queste morti? Non fa parte di un partito, il Pd, che ha sempre tollerato, per lo meno tollerato, la politica di chiusura, le leggi che impediscono a chiunque – fosse anche un rifugiato da un paese in guerra – di mettersi in salvo in Italia, o in Europa, senza dover percorrere la via crucis che conduce eritrei e somali e siriani ad affogare a qualche metro dalla riva della Sicilia o della Puglia? Perché l’ultimo governo Prodi, di cui pure faceva parte Rifondazione comunista, non solo non ha in nessun modo riformato la legge Bossi-Fini ma anzi ha varato un decreto d’emergenza contro i “romeni”?
Certo, Letta ha nominato ministro dell’”integrazione” (di chi? Di quelli che non sono annegati prima?) una persona di origine congolese, la ministra Kyenge, ora in visita a Lampedusa. Tutti l’abbiamo difesa degli insulti di leghisti, razzisti e nazisti, ma di fronte alle centinaia di morti di Lampedusa (e tutti gli altri, e le migliaia di cui non sapremo mai nulla) non possiamo non chiederci, provando un insopportabile disagio: cosa ha fatto, la ministra, per meritarsi quegli insulti?
A Lampedusa è accorso anche l’uomo che ha trionfato su Berlusconi, Angelino Alfano, che è incidentalmente anche ministro degli interni. Inutile dire che lui è, ed è sempre stato, favorevole alla micidiale legge che porta il nome di un suo ex dirigente, Fini, e dell’ex capo dei leghisti, Bossi. Legge che, semplicemente, chiude ogni porta in faccia ad ogni profugo. Come pensa, Alfano, di cambiare registro, a parte la comparsata sull’isola e oltre ai rituali lamenti sull’Europa che “ci lascia soli”?
E il presidente della Repubblica, Napolitano, che di nuovo si duole per la “tragedia” e chiede una revisione delle norme sull’accoglienza dei profughi, non diede a suo tempo il suo nome a una legge sui migranti, la Turco-Napolitano, che inventò i Cpt, oggi Cie, cioè i lager in cui i migranti “clandestini” vengono relegati in una zona senza legge, né diritti, né via d’uscita che non sia l’espulsione (verso dove?). Quella legge, mi spiegò la ministra Livia Turco quando andai a chiederglielo (lavoravo all’epoca al manifesto) era divisa in due parti: la prima, severa, voleva reprimere gli ingressi clandestini (allestendo appunto quei lager dal nome paradossale: Centro di permanenza temporanea), ma la seconda avrebbe dato diritti e offerto integrazione a chi si metteva in regola. Quella seconda parte è rimasta sospesa, ancora si fanno file umilianti per i permessi di soggiorno, ancora non abbiamo deciso che chi nasce in Italia è ovviamente cittadino italiano, ancora una giungla di regole contraddittorie rende la vita impossibile a milioni di nostri vicini di casa. Cosa vuol fare Napolitano in proposito e per evitare che il serial killer colpisca ancora?
Il papa Francesco ha fatto un coraggioso viaggio a Lampedusa, ha detto cose impegnative sul tema, ha detto che i conventi vuoti vanno usati non come alberghi ma come luoghi di accoglienza per i profughi e i migranti, dopo le centinaia di morti di Lampedusa ha fatto sapere: “Una sola parola mi viene in mente: vergogna”. E ha fatto una affermazione scandalosa (nel senso evangelico) nella conversazione con Eugenio Scalfari: non esiste un Dio cristiano, esiste Dio e basta, e dunque i somali e i siriani e gli eritrei, di qualunque religione siano, sono tutti figli di Dio da amare e proteggere e accogliere; papa Francesco cosa farà ora? Inviterà tutte le parrocchie, tutti i cristiani, a insorgere perché il massacro termini?
Ma ancora: l’Unione europea, tanto severa nel castigare chi viola le regole dlel’”austerità”, tanto occhiuta nell’esaminare i bilanci degli stati, cosa intende fare per i suoi vicini del sud? E’ evidente che fingere che non esistano, salvo fare affari con dittatori orrendi o partecipare a guerre “umanitarie”, comporta questo sgradevole sottoprodotto: esseri umani in fuga. In fuga, ovviamente, verso qualche posto in cui ci si possa salvare la vita, magari perfino lavorare per mantenere se stessi e le famiglie. Invece stabilisce che chi riesce ad approdare precariamente, ancora in vita, a un paese europeo del sud, Grecia o Italia, lì debba restare. Perciò i kurdi o i siriani acciuffati sui traghetti in arrivo dalla Grecia, ad esempio ad Ancona, vengono subito rispediti indietro. Qualcuno ha raccontato come vivono i migranti in Grecia, la favela del porto di Patrasso, per esempio, con le aggravanti del saccheggio economico e sociale che colpisce i greci e quello delle bande fasciste di Alba Dorata che danno loro la caccia. Ma il governo, i media, la Commissione europea si sono impressionati? No, hanno replicato con l’indifferenza e il cinismo. Migranti annegano non solo nel Canale di Sicilia, ma anche nello Stretto di Gibilterra, e nell’Atlantico, sulla rotta tra l’Africa e le isole Azzorre. Frega a qualcuno? Qualche giorno fa è passata inosservata anche la notizia che gruppi di migranti africani hanno dato l’assalto al Muro che divide il Marocco dalla colonia spagnola di Melilla, sul Mediterraneo: tempo fa andammo a Bamako, nel Mali, e persone che avevano cercato di percorrere quella via, prima il deserto, poi le persecuzioni dei marocchini, infine i reticolati di Ceuta e Melilla, ci mostrarono le cicatrici delle fucilate con cui i poliziotti spagnoli li avevano respinti. Il fatto è che l’Europa non lascia sola l’Italia, lascia sola se stessa, nega quel che racconta di sé, il suo riscatto dall’orrore tutto europeo dell’antisemitismo e dell’Olocausto, e del colonialismo, ciò che costituisce il fondamento morale dell’Unione.
Indignazione, certo, e stanchezza nell’osservare inerti gli omicidi di massa. Questi sono i sentimenti che dovremmo provare. Chiunque dice che vorrebbe un modo diverso di vivere, che si mobilita per uno qualunque degli insulti che questo modo di vivere infligge invece alla società, dovrebbe fare qualcosa, subito.

giovedì 3 ottobre 2013

Il nuovo matrimonio tra capitalismo e schiavitù

CARLO FORMENTI –
cformentiUn vecchio e radicato pregiudizio – che un certo marxismo “volgare” ha contribuito ad alimentare – attribuisce al capitalismo il merito di avere “liberato” (cioè di averli resi liberi di vendere la propria forza lavoro) i proletari, riscattandoli dal lavoro servile e dalla schiavitù.
Niente di più falso: il capitalismo ha spesso convissuto con la schiavitù e, in alcuni casi, ha addirittura costruito – come nelle Americhe – la propria fortuna sullo sfruttamento di milioni di schiavi. Cose vecchie, si dirà: dopo le Guerre Mondiali del secolo scorso, e dopo la caduta degli imperi coloniali, la schiavitù si è ridotta a un fenomeno marginale che coinvolge poche regioni economicamente e culturalmente arretrate, con alcune rare eccezioni (vedi il regime dell’apartheid in Sudafrica) nel mondo industriale. Semmai, aggiungono gli apologeti del liberal liberismo, certe forme di schiavitù sono sopravvissute nel mondo comunista fino alla sua recente caduta.
Non sarebbe difficile contestare questa tesi, ma non è questo il fine che qui mi prefiggo: il punto è che – ammesso e non concesso che capitalismo e schiavismo avessero mai divorziato – oggi è del tutto evidente che hanno celebrato un nuovo matrimonio. Come definire altrimenti quello che sta capitando in Qatar? Una recente inchiesta del “Guardian”, rivela che decine di giovani lavoratori di nazionalità nepalese e indiana stanno morendo di fame di sete e di stenti nel deserto del Qatar, dove vengono costretti a lavorare in condizioni disumane dalle imprese che stanno costruendo le infrastrutture per i campionati del mondo di calcio, previsti per il 2022.
Lo sfruttamento selvaggio di milioni di immigrati provenienti dall’Estremo Oriente non è una novità nei Paesi degli sceicchi del petrolio, ma qui si è superato ogni limite, anche perché viene impedito a chi vorrebbe sottrarsi al massacro di rimpatriare, sequestrando i passaporti alle vittime. Naturalmente le rivelazioni hanno scatenato le reazioni (ipocritamente) indignate dei politici occidentali e della FIFA (credete davvero che toglieranno al Qatar i campionati del 2022, danneggiando gli interessi delle imprese appaltatrici che si aspettano miliardi di profitti dall’affare?).
Una storia assai simile a quella delle migliaia di operaie tessili del Bangladesh perite negli incendi, o sepolte sotto le macerie delle fatiscenti fabbriche dei terzisti locali che lavorano per i marchi occidentali (ivi compresa l’indignazione a posteriori di chi sapeva benissimo). Ma sbaglierebbe chi pensasse che questo ritorno della schiavitù riguardi solo le periferie del capitalismo globale.
In una precedente puntata di questo blog ho raccontato l’incredibile storia delle carceri private trasformate in riedizioni delle working house di settecentesca memoria, e della complicità fra questi nuovi negrieri e le amministrazioni disposte ad “arruolare” carne fresca per alimentare i loro profitti (per inciso, ho ricevuto molte segnalazioni di lettori che volevano giustamente ricordarmi che il fenomeno non riguarda solo gli Stati Uniti).
E ancora: sulle pagine del Corriere di qualche giorno fa ho letto un servizio sull’annuncio del cancelliere dello scacchiere George Osborne in merito alla svolta del governo inglese in materia di welfare: d’ora in avanti i sussidi di disoccupazione saranno erogati solo a chi “dimostrerà” di voler veramente cercare lavoro, peccato che per dimostrarlo occorrerà adempiere a una serie di condizioni talmente vessatorie da configurare una vera e propria induzione a forme di lavoro coatto (gratuito per le imprese che ne usufruiranno, oneroso per i contribuenti poveri che lo finanzieranno, visto che ai ricchi il governo Tory offre ampi sgravi fiscali). Insomma la schiavitù avanza in tutti i Paesi capitalisti, non solo nelle cayenne delle periferie del mondo.
Carlo Formenti
(3 ottobre 2013)

Tanto tuonò che piovve

Leonardo Mazzei - sinistrainrete -

«Se ne vadano tutti!» e un bel «vaffa!» all'Europa. Una formula semplice e probabilmente vincente.

Dunque il cerino si è consumato del tutto. Con le dimissioni dei berluscones il classico giochetto del teatrino bipolare italiano, durato addirittura due mesi interi, è giunto al termine. Chi si è scottato le dita? Secondo i più, il solo Silvio Berlusconi. Non siamo d'accordo: se le sono scottate tutti, tutte le forze della maggioranza che hanno fin qui sostenuto il governicchio presieduto da Letta. Ma c'è uno sconfitto che è più sconfitto degli altri. Ed è il sant'uomo che siede al Quirinale.
Egli, con una pervicacia senza limiti, ma certamente sostenuta in sede europea, ha preteso di veder volare gli asini, pensando di poter trasformare il più raccogliticcio dei governi in un esecutivo capace di reggere, di affrontare la crisi, di approvare le (contro)riforme costituzionali.

Il bluff, dietro il quale si manifestava tutta questa presunzione quirinalesca, lo si è visto nell'afoso pomeriggio del 1° agosto. Quel giorno la Cassazione, anziché cassare la condanna al secondo azionista del governo in carica, ha cassato le speranze del presidente della repubblica, che certamente non aveva mancato di esercitare le sue pressioni sui giudici di Piazza Cavour.

Come annotammo a caldo, la vera notizia di quel giorno, più che la stessa sentenza, fu la sconfitta del bis-presidente. E' da quel momento che il conto alla rovescia è iniziato.
Ed ogni tentativo di ignorare questo fatto ha veramente del patetico. Adesso, dopo due mesi, siamo alla resa dei conti.

Non avevamo dunque torto a definire come governicchio l'esecutivo guidato da Letta. Qualcuno nell'estrema sinistra, sempre portato a considerare come invincibili i piani del blocco dominante, ce lo ha rinfacciato, quasi accusandoci di sottovalutare l'operazione "larghe intese". Bene, oggi l'esito di quell'operazione è sotto gli occhi di tutti. Il nemico è perfido e diabolico, ma non invincibile. Ricordiamocelo.

Le «larghe intese» non hanno funzionato e non potevano funzionare. Non perché tra Pd e Pdl vi sia chissà quale differenza di programma e di prospettiva. Anzi, da questo punto di vista - in una situazione "normale" - l'alleanza avrebbe potuto felicemente funzionare per qualche decennio. Ma, ci sono due "ma". In primo luogo c'è la "variabile B", come Berlusconi, che rende palesemente impossibile una qualsivoglia navigazione al governo. In secondo luogo, ma ancora più importante, c'è la "variabile C", come crisi. E' vero, sia Pd che Pdl sono uniti dall'assenza di idee su come venirne fuori, ma proprio per questa comune incapacità ad affrontare le questioni di fondo, sono giocoforza destinati a scontrarsi sulle questioni palesemente secondarie, come l'IMU.

Certo tutto questo era ben noto agli "addetti ai lavori", ma dalla regia del Colle si riteneva forse di poter riuscire a mandare in porto almeno la nuova legge elettorale. Un'ipotesi che ha retto fino alla decapitazione del Pdl. Fino a quel punto, infatti, lo scambio era quello tra una legge elettorale favorevole al Pd ed un salvacondotto assicurato al buffone di Arcore. Ma ora che il salvacondotto è venuto meno, perché il Pdl dovrebbe fare un favore così grosso al Pd?

Dunque il governicchio messo in piedi in primavera è alla frutta. Mancano solo le dimissioni, a questo punto una mera formalità. Ma i giochi sono tutt'altro che fatti.

Sta infatti per iniziare una torbida partita. O meglio, essa sta soltanto per venire alla luce, dato che - dietro le quinte - è in corso già da alcune settimane. Di che cosa si tratti lo abbiamo già scritto: del trasformistico cambio di casacca di un buon numero di senatori (deputati non ne servono, e vedrete che lì ci saranno ben pochi passaggi), in modo da consentire la nascita di un governicchio bis in grado di approvare la Legge di stabilità e, soprattutto la nuova legge elettorale.

Saranno sufficienti questi transfughi per dar vita ad un nuovo esecutivo? Al momento non lo sappiamo. Movimenti si annunciano dalle truppe berlusconiane (siciliani in specie), ma anche tra i senatori del M5S. Pochi dubbi sul fatto che, alla bisogna, si aggiungerebbero pure i pochi senatori di Sel. Basteranno costoro, rafforzati anche dalle 4 nomine a senatore a vita (tra le quali una cinquantenne!) recentemente decise dal bis-presidente? Lo vedremo ben presto.

I dubbi riguardano i senatori pidiellini. Dal loro miserabile punto di vista, i tanti potenziali Scilipoti hanno infatti un drammatico problema. Il tradimento avviene in genere sia per conservare la poltrona (ad esempio prolungando una legislatura altrimenti al lumicino), che per garantirsi la rielezione, attraverso una trattativa col "compratore". In questo caso entrambi gli obiettivi sono problematici.

Se prolungamento della legislatura ci sarà, sarà solo per alcuni mesi, al massimo fino alla prossima primavera. Troppo poco per le aspettative di questi saltimbanchi. Tuttavia il problema potrebbe risolversi con la garanzia della rielezione. Ma anche qui non mancano i problemi. A meno che costoro siano disponibili a passare immediatamente, armi e bagagli, al centrosinistra, la prospettiva più "naturale" sembrerebbe quella di un passaggio verso "Lista Civica" e Udc. Ma questo, più che altro, sembra un vero e proprio viaggio verso il nulla. Un rischio che i tanti piccoli Scilipoti non possono permettersi. Da qui le incertezze del momento, senza considerare che Berlusconi potrebbe aver utilizzato queste settimane per riaprire generosamente il suo portafoglio, che però non è detto sia l'unico della partita...

Ecco a quali calcoli, a quali virtuosi gentiluomini, si aggrappano le speranze del Quirinale e del Pd. Del resto anche l'attuale polemica col noto evasore è assai penosa. «Gesto folle e per motivi personali», ha tuonato Letta il nipote, dopo le dimissioni dei ministri del Pdl. Ma non è proprio con questo folle, che agisce solo per interessi personali, che egli avrebbe voluto continuare a governare?

E' una vergogna. Una vergogna che Napolitano ha costruito con le sue mani. Il capolavoro politico di un autentico golpista, che certo non si fermerà proprio ora.

In questo momento così delicato è fondamentale che chi guida il M5S tenga dritta la barra. Innanzitutto cercando di ridurre al minimo i transfughi al Senato, che è poi il modo concreto per arrivare al voto al più presto, come il movimento già chiede.

La natura del governicchio bis va subito smascherata. Se nascerà, sarà solo per arrivare al Super-Porcellum ideato da Violante, una legge truffa al cubo, ultra-maggioritaria ed antidemocratica.

«Se ne vadano tutti, e subito!»
, questa parola d'ordine è oggi più forte di ieri. Il disastro politico compiuto da Napolitano, dal suo pupillo Letta e dal suo grande elettore Berlusconi, non può rimanere impunito.

Ma per vincere - perché questa sarà la posta in palio - occorre qualcosa di più: occorre dire basta a questa Europa che ci impone sacrifici, tasse, tagli, disoccupazione e percentuali del debito. E che per ottenere questi obiettivi ha prima imposto Monti, reimposto Napolitano, benedicendo Letta e il suo matrimonio con Berlusconi. «Se ne vadano tutti!» e un bel «vaffa!» all'Europa. Una formula semplice e probabilmente vincente.

mercoledì 2 ottobre 2013

Francobollo

Naturalmente contento è il governo tedesco dell’Europa.
Questa è la nuova maggioranza che l’Europa vuole, ben felice
di una classe dirigente che tanto più sarà di questo spessore,
tanto più sarà supina di fronte ai diktat della Troika. Che
infatti Letta ha subito riverito: tranquilli, paghiamo tutto e di più.

La modernità è inceppata

di Rino Genovese - sinistrainrete -

Bisogna partire dalla constatazione che ciò cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è un mutamento paragonabile soltanto a quella che, a suo tempo, fu la rivoluzione industriale, che cambiò radicalmente le forme di vita in Occidente. Il neoliberismo è molto più di una dottrina economica: è una cultura in senso antropologico, i cui momenti plasmanti sono l’iperconsumo come mitologia estetizzata e la finanziarizzazione dell’economia. L’estetizzazione delle merci, il loro potere di fascinazione, la loro fantasmagoria “sensibilmente sovrasensibile”, sono tutti fenomeni ampiamente noti, e non da ieri. A introdurre una differenza qualitativa, è stata la diffusione massiccia dei media elettrici ed elettronici. Risultato: l’intera comunicazione sociale è oggi sottoposta, in particolare dalla parte dei riceventi o dei fruitori, alla prevalenza di un codice estetico elementare, sintetizzabile nella secca alternativa mi piace / non mi piace, che esclude tendenzialmente ogni argomento di ragionevole giustificazione delle scelte in qualsiasi campo, aprendo un vasto spazio politico alle semplificazioni leaderistiche e populistiche basate sull’immediato sì/no di un plebiscitarismo tradotto in sondaggi di opinione.

L’ulteriore aspetto quasi del tutto inedito offerto dalla combinazione della finanza con il computer, è quello del gioco d’azzardo. Certo, nelle operazioni finanziarie c’è sempre stato un rischio, accompagnato da un sommario e fantastico calcolo delle probabilità che conferiva loro una tensione da tavolo verde. Ma, con le nuove tecnologie, l’ebbrezza del gioco “in tempo reale” è diventata l’alfa e l’omega della vita di uno speculatore. Questo non cancella la possibilità che, come in tutti i giochi, dietro l’angolo facciano capolino la delusione e l’inganno, e che soltanto forze economiche cospicue possano permettersi di vincere e perdere senza tremare. Però il capitalismo contemporaneo, privilegiando l’estetizzazione e il gioco in borsa, ha reintegrato i mercati nella cultura, nel simbolico, camuffandone, anche grazie alla magica razionalità dell’azzardo, la spaventosa anarchia – addomesticandone il brivido ma, al tempo stesso, lasciando i suoi “spiriti animali” allo stato brado –, e potendo così permettersi di non fornire alcun preciso fondamento normativo alle proprie istituzioni. Perché, se “la vita è un ottovolante”, stando a quanto dichiarava già un personaggio di Frank Wedekind, non c’è tempo per le pretese di validità e le richieste di giustificazione. Il capitalismo, in mancanza di alternative, si autogiustifica. C’è perché c’è.

Oggi, a distanza di quarant’anni, viene da sorridere con una dose di affettuosa nostalgia rileggendo i testi di James O’ Connor, Claus Offe, Jürgen Habermas circa il “capitalismo maturo” che, grazie all’intervento dello Stato nell’economia, avrebbe superato le sue crisi cicliche esponendosi, piuttosto, alle crisi di legittimazione conseguenti a un sovraccarico di inputs nel sistema politico[1]. Negli ultimi tempi è accaduto giusto il contrario: si è ripresentata una classica crisi da sovrapproduzione, innescata in maniera non canonica dall’esplosione di una bolla finanziaria riverberatasi in una crisi dei debiti pubblici statali; e però di una crisi di legittimazione neppure l’ombra. Il capitalismo non è diventato “maturo”, anzi, mentre la modernità nel suo complesso si faceva sempre più tardomoderna, il capitalismo è sembrato ringiovanire: pazzo e frenetico, piratesco e corsaro quasi come ai tempi della conquista delle Americhe. Suo obiettivo dichiarato: emanciparsi dallo Stato – ma fino a un certo punto. Poco Stato, sempre di meno – ma quando serve serve… Come il figliuol prodigo che dopo avere sperperato ritorna all’ovile, così il capitalismo ha richiesto il paterno intervento statale per salvare le banche. È questo, come si sa, che ha innescato la crisi dei debiti pubblici a catena, non certo quegli investimenti che – denunciati da taluni come improduttivi – già con la semplice assistenza sociale o la costruzione delle infrastrutture avrebbero condotto lo Stato – secondo alcuni – nell’abisso.

Al tempo stesso il capitalismo, senza falsi pudori, riattiva l’intero suo passato, decretando definitivamente che la modernità è inceppata. Ci fu un’epoca in cui la giornata lavorativa era di dieci ore; oggi in Cina è magari pure di undici, mentre, nell’enorme migrazione interna dalle campagne alle città, un’urbanizzazione rapidissima, con centri abitativi costruiti in pochi mesi, sconvolge le vecchie forme di vita del contadino maoista. Con i processi di delocalizzazione industriale, gli smartphone progettati in California sono assemblati in Cina sotto la semischiavitù organizzata da un’élite comunista.

Sono i prodigi di un passato che non passa, pronto a essere ripreso all’occorrenza. Ne sappiamo qualcosa in Europa, specialmente in quella del Sud, dove, nonostante il consumismo sfavillante, si assiste da alcuni anni a una contrazione dei consumi, perfino di quelli alimentari. Non dello champagne, però, le cui vendite sono in aumento anche grazie alle esportazioni verso la Russia e la Cina dei nuovi ricchi. L’odierno iperconsumo contempla pur sempre il lusso come consumo esclusivo di pochi.

Euro al capolinea?

Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo

C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari.
Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari”
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)

Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perchè la fine della moneta unica salverebbe salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur , Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.

Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole ristretta a minoranze tecnocratiche.

In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992; Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento generale Toporowski 2010 e Wray 2012)

Non era difficile, in verità, predirlo. Durante la fase del cosiddetto SME credibile (dal 1987 agli inizi del 1992), con cambi fissi fra le valute aderenti, situazione allora vista come una sorta di antipasto della moneta unica, le contraddizioni si andarono accumulando sino all’esplosione.


Prima di passare alle nostre osservazioni critiche vanno messi nella dovuta evidenza i punti importanti che il libro mette in luce.

Dice innanzi tutto una cosa sacrosanta. Ogni economia vive di debito. Può essere il debito che l’imprenditore schumpeteriano ottiene dall’autentico banchiere che scommette su di lui, e che si vede ormai poco in giro. Anche il debito pubblico ha i suoi meriti. Basta vedere come nella crisi, benché tutti parlino male del debito pubblico, anche quando la crisi si dice provenga dalla crisi della finanza pubblica, nell’incertezza la caccia è innanzi tutto ai titoli di debito pubblico. Dopo di che giustamente Bagnai dice, attenzione che il debito privato è più rischioso e pericoloso del debito pubblico, e aggiunge, ancora a ragione, il vero problema è il debito estero.

E’ evidente che se c’è un debito c’è un credito. I bilanci dei macro-operatori – il settore privato, il settore pubblico ed il settore estero – sono connessi tra di loro, e tutti e tre insieme danno un saldo nullo. Se, per esempio, il settore estero fosse in pareggio, e se ci fosse un surplus del settore privato, ci deve essere un corrispondente deficit del settore pubblico. Se l’area dell’eurozona avesse un bilancio con l’estero pari a zero (ed è stato grosso modo così fino a un paio d’anni fa, ora il saldo è in leggero attivo), allora, perché ci sia un avanzo del settore privato, questo richiederebbe un bilancio negativo dell’operatore pubblico. Da questo punto di vista, si deve dire, i movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore elementare, si dimenticano che non pagare il debito vuol dire non pagare il creditore, ed è rilevantissimo a questo punto chi sia il creditore, e se sia possibile discriminare i creditori; tra i creditori dello stato vi sono spesso famiglie di classe media, non particolarmente ricche. La crisi dell’Europa, come altrove, non è affatto una crisi del debito pubblico ma è semmai una crisi del debito privato scaricata sulle finanze dei governi.

Il terzo punto importante – ed è questo, a noi pare, il fuoco del discorso di Alberto Bagnai – è l’attenzione prevalente, qualche volta addirittura esclusiva, al bilancio con l’estero, cioè alla bilancia dei pagamenti, ma forse più ancora alla bilancia delle partite correnti, e forse più ancora alla bilancia commerciale.

Indubbiamente, si tratta di un punto di vista importante per capire cosa sta succedendo in Europa, e nell’eurozona. Alcuni di noi – Bellofiore, assieme a Joseph Halevi – lo sostennero nel 2005 per un convegno di economisti italiani eterodossi, i quali ritenevano all’epoca che il problema cruciale fosse il Patto di Stabilità e la proposta da farsi la stabilizzazione del disavanzo dello stato. Noi lo vedevamo piuttosto come un’imposizione di natura prettamente politica, tant’è che fu infranto a ripetizione senza che ne subissero conseguenze paesi come la Germania e la Francia, e ritenevamo che i problemi strutturali richiedessero nel medio-termine di concordare, o imporre, un aumento del rapporto disavanzo/PIL in una logica di piano del lavoro. La questione dei disavanzi di partite correnti è sicuramente cruciale per comprendere come si configurano le relazioni tra nazioni e aree regionali in questo continente. Dopo un paio d’anni il tema degli squilibri commerciali interni all’eurozona è entrato nell’orizzonte degli economisti critici prendendosi la rivincita, perché quegli squilibri sono a questo punto diventati per loro il problema, attribuito per di più sic et simpliciter alla moneta unica; come più avanti argomenteremo meglio, questa tesi, che sembra condivisa da Bagnai, a noi pare una semplificazione eccessiva, come hanno ben messo in evidenza, in un loro recente saggio, Simonazzi (et al. 2013)1.

Alberto Bagnai nel suo libro disegna molto bene la situazione squilibrata dell’economia europea, per cui c’è un’area, grosso modo il Centro Nord, in attivo sistematico, difeso ferreamente, e c’è l’area dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia), il Sud Europa più l’Irlanda, che invece è in passivo. Bagnai quasi identifica la prima area con la Germania, si tratta invece della Germania con i suoi “satelliti”, una cosa un po’ diversa ora che anche quel blocco sta disgregandosi. E’ vero comunque che ereditiamo una divisione dell’Europa in due blocchi, da un lato quelli che esportano più di quanto importano, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’area, e dall’altro quelli che importano più di quanto esportano. Tra i satelliti vi erano, almeno fino a poco tempo fa, l’Olanda, il Belgio, cui si aggiungevano la Svizzera e la Danimarca, che però stanno fuori dall’euro, vi erano poi l’Austria, la Finlandia, e ancora la Svezia che è fuori dall’euro. Bagnai chiarisce gli effetti devastanti di questa frattura, come questa divisione in due esistesse prima della nascita dell’euro, come sia stata aggravata dalla moneta unica.

Un quarto punto, infine, è il giusto rilievo dato da Bagnai al divorzio Tesoro-Banca Centrale del 1981, come un vero e proprio spartiacque nella storia italiana recente. Tale decisione – il divieto per la Banca centrale di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro e il ricorso quindi, senza salvagenti, al mercato finanziario per finanziare lo Stato, con il conseguente aumento vertiginoso dei tassi d’interesse – è, infatti, assimilabile alla controrivoluzione reaganiana e thatcheriana. Un evento catastrofico nelle sue conseguenze, all’origine dell’esplosione del debito pubblico, un segno del cambio di regime, assieme alla sconfitta alla Fiat nel settembre-ottobre 1980, che sanzionò la svolta nei rapporti di forza tra le classi, nel senso che “chiuse” i primi conti di una strategia di normalizzazione iniziata a metà degli anni Settanta, aprendo così la nuova fase.

L'economia che verrà. Benessere e non Pil

di Mauro Gallegati - sbilanciamoci -
Serve una nuova Weltanschauung: un modo di vivere che, sostituendo il benessere al Pil, rimodelli le nostre vite. Un estratto del libro di Mauro Gallegati che uscirà prossimamente
Questo piccolo libro è un lavoro visionario. Che immagina di guardare oltre la "siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude". Che immagina quello che potrà essere, per offrire un orizzonte di scelte possibili che privilegino il benessere al consumo delle merci. Solo illudendoci di vivere in un mondo di risorse non-riproducibili infinite o in un contesto di decoupling assoluto possiamo sperare di allontanare la nostra morte economica (attraverso innovazioni risparmiatrici di energia e risorse), o di colonizzare altri pianeti. O di cambiare il nostro modo di vivere. E, per quanto difficile, quest'ultima rimane una strada meno improbabile che sfruttare economicamente Plutone o qualche luna di Giove.
Siamo quindi destinati ad uno stato stazionario, destinato a riprodursi quasi per partenogenesi identico a se medesimo nel tempo? Io credo di no, ma a volte la speranza prende il sopravvento sulla realtà, e così desideri e realtà spesso si confondono, come nei sogni mattutini. Anche dovessimo raggiungere, ed io credo l'abbiamo già fatto, il limite della sostenibilità, lo stato non sarà stazionario, ma caratterizzato da continue innovazioni che lo muteranno. Inoltre la produttività che ha stravolto le nostre esistenze, ci consentirà di lavorare poche ore al giorno, di godere di un reddito di cittadinanza che ci emanciperà dalle pensioni e dai sussidi di disoccupazione, a partecipare altresì alla vita delle imprese, superando la necessita di avere organizzazioni di categoria, a patto che la re-distribuzione del reddito assuma un ruolo centrale nella nuova economia.
Dobbiamo quindi abituarci non alla prospettiva di decrescere, ma, semmai ad a-crescere, a crescere qualitativamente e a vivere per gustarci la vita, non per consumare merci.
La sparizione della necessità di lavorare per via della produttività che ha sostituito il lavoro con le macchine deve essere vissuta come una liberazione dal lavoro, e non con l'incubo della disoccupazione. Si potrebbe però pensare ad un futuro prossimo dove essere disoccupati non è una tragedia perché il reddito da lavoro, che sostiene la domanda, è sostituito da una qualche forma di reddito di cittadinanza, la cui erogazione passa attraverso la fiscalità ed il cui godimento è vincolato alla fornitura di servizi socialmente utili. Una rivoluzione sociale che consenta la realizzazione di un antico progetto "lavorare poco, lavorare tutti" in un momento storico di passaggio caratterizzato da una progressiva carenza di domanda e di vincoli ecologici all'offerta.
La disoccupazione diventa il Nirvana dell'economia. Soddisfare i bisogni essenziali per tutta la popolazione del pianeta si può fin d'ora; è la soddisfazione dei bisogni indotti [1] che richiederà attenzione, se l'abbastanza oltrepassa i limiti della sostenibilità.
La questione ambientale è estremamente complessa e gli attuali equilibri politici ed economici non sono stabili. La questione globale della gestione risorse e di quale economia verrà [2] è al tempo stesso la più importante e la più complicata che il pensiero scientifico si troverà ad affrontare, viste anche le numerose discipline che sono coinvolte. Non esiste ancora alcuna idea condivisa fra gli economisti o fra gli scienziati in genere. È evidente che, a livello globale, la soluzione di mercato non è più valida.
A seguire il mercato, sembra attuale l'osservazione di More "le pecore mangiano gli uomini". Un apparente paradosso dovuto al fatto che, in seguito allo sviluppo dell'industria laniera, i contadini sono cacciati dalle terre coltivabili, ora trasformate in pascoli. La ricerca del profitto è un incentivo da conservare, ma da vincolare alla sostenibilità dell'ambiente e dell'umanità. Per questo, come ho cercato di dimostrare, non possiamo far governare le nostre esistenze dal Pil, ma dal benessere.
Lo "steady state" che ho in mente è il flusso di materia ed energia che proviene dall'ambiente e che si metabolizza attraverso il sub-sistema economico della produzione e del consumo per poi ritornare all'ambiente come rifiuti. Nicholas Georgescu Roegen proponeva di tener conto dei vincoli che provengono dall'applicazione delle leggi della termodinamica all'economia: più materia ed energia vengono assorbite dall'economia, e maggiore e la creazione di entropia [3] dei suoi manufatti, meno materia ed energia rimangono per ricostruire le strutture e i servizi degli ecosistemi che sostengono l'economia. L'attività economica può solo trasformare le risorse, e nel trasformarle genera una dispersione di energia.
Se, da un lato, le innovazioni tecnologiche risparmiano forza lavoro, dall'altro, i problemi della sostenibilità ambientale rendono sempre più difficile raggiungere l'equilibrio di piena occupazione attraverso la sola espansione della domanda.
Esiste una crescente difficoltà nel capitalismo di oggi a portare la domanda effettiva al livello di pieno impiego. Ciò avviene per una serie di contraddizioni che, rendendo il nostro modello di sviluppo sempre meno sostenibile, spingono il sistema verso "una società del tempo libero". È quindi necessaria una politica economica capace di favorire queste trasformazioni. Per tutti questi motivi, la soluzione di fondo consiste nell'instaurare una società del tempo libero, basata sullo sviluppo delle attività sociali e culturali [4].
Tale trasformazione potrebbe contemplare la riduzione dell'orario di lavoro, il sostegno del reddito per i disoccupati, lo sviluppo di forme cooperative e partecipative, la promozione della ricerca e della cultura, la trasformazione in senso sostenibile del sistema economico.
Purtroppo, la stragrande maggioranza degli economisti, e i politici gli fan eco, sostiene che per uscire dalla Lunga Recessione sembra esistere una sola possibilità: crescere, ovvero aumentare il Pil. Coniugato differentemente (secondo COM, 2010, deve essere "intelligente, sostenibile ed inclusiva", certo meglio di "stupida, insostenibile ed esclusiva" non si fatica a crederlo), il mantra della crescita è continuamente recitato.
Secondo la visione liberista, il mercato del lavoro costituisce il primum movens, il nucleo da cui deriva il buon funzionamento (ovvero la crescita) del sistema economico. Come raccontano i manuali più à la page, dovrebbe essere flessibile, con libertà di entrare ed uscire, scevro da "lacci e lacciuoli", così che l'offerta possa dispiegare pienamente la sua forza propulsiva [5].
In realtà, il modello standard parifica il lavoro ad un mezzo di produzione, ad una macchina, dimenticando che le macchine non consumano né domandano beni, e che l'economia è una scienza sociale, e che, come tale, non ha leggi di natura (come la gravità che resta valida in periodi di guerra o di pace). Quel che più preoccupa l'uomo comune è che da questo discende una politica economica che privilegia (vedi capitolo 3) l'1% della popolazione, e che prevede una sola ricetta di politica economica (one size fits all) buona per tutte le stagioni. Si può leggere, senza che gli scriventi mainstream dimostrino alcun imbarazzo, che la disoccupazione è volontaria e dipende dal fatto che chi non ha lavoro vuole stare senza impiego, preferendo il tempo libero. La flessibilità si traduce in Italia in precarietà dei rapporti di lavoro, con l'esclusione da prospettive occupazionali di giovani, donne e cinquantenni (troppo vecchi come neo-disoccupati per riconvertirsi e trovare un nuovo impiego, ma altresì troppo giovani per la pensione). I lavori precari (non flessibili si badi bene) si traducono in basse remunerazioni e contributi previdenziali inadeguati. A mio parere, tale precarizzazione produrrà almeno 3 conseguenze:
1. Ci saranno trattamenti pensionistici inadeguati (poveracci da giovani e morti di fame da vecchi) dovuti alle basse contribuzioni di oggi ed ai versamenti previdenziali saltuari;
2. Emolumenti non sufficienti implicano poi un consumo corrente più basso (ovvero un aumento del risparmio precauzionale) e quindi una minor domanda aggregata;
3. Le aspettative di reddito futuro da parte dei lavoratori (riduzione dei sussidi di disoccupazione e licenziamenti più facili in recessione, ad es.) amplificano gli effetti di una congiuntura negativa.
Se la flessibilità si traduce in job insecurity, ci saranno inoltre importanti conseguenze negative sui consumi e, via investimenti, sulla domanda aggregata: un meccanismo di retroazione auto-propulsivo (da bassi consumi a scarsi investimenti, a debole domanda aggregata, ad alta disoccupazione, e di nuovo a bassi consumi) che il mercato fallisce di risolvere.
Ciò che emerge è la necessita di una nuova Weltanschauung: un modo di vivere che, sostituendo il benessere al Pil, rimodelli le nostre vite, il modo in cui interagiamo con gli altri e con l'ambiente del quale siamo solo una componente.
Come abbiamo visto nel corso di queste pagine, la tecnologia ha cambiato il corso della storia, ponendo quasi ai margini dell'economia capitalista il lavoro. Il Pil è aumentato dopo la rivoluzione industriale esponenzialmente, spesso
1. Distruggendo l'ambiente;
2. Usando miopicamente le fonti energetiche non rinnovabili e le risorse non riproducibili;
3. Mettendo a rischio la vita di quanti lavorano in impianti non sicuri o vivono nelle loro vicinanze.
Le produzioni del futuro dovranno esser costruite attorno a questi elementi perché rischiare la vita per vivere torni ad essere una tragica contraddizione, mentre la crescita non potrà che essere qualitativa, magari indossando un po' meno camicie di quanto facciamo oggi, ma avendo la possibilità di curarci con cellule staminali e nano-tecnologie. Cercheremo di innovare con l'attenzione alla riproducibilità delle risorse ed all'ambiente, che costituiscono altrimenti i limiti alla crescita quantitativa, pur non dovendo necessariamente collassare in uno stato stazionario.
Sosteneva Marx che il salto mortale del capitalismo consisteva nella vendita della merce, nella domanda che permetteva di realizzare il profitto. Il problema che abbiamo di fronte oggi è proprio questo: come conciliare i progressi mirabolanti della tecnologia che garantiscono un'offerta quasi infinita (limitata solo dalla non riproducibilità delle risorse) con la continua espulsione di lavoratori mano dalle produzioni esistenti (e la conseguente diminuzione della domanda aggregata). Domanda che verrà alimentata solo tramite la creazione di nuovi lavori (soggetti anch'essi ai vincoli di riproducibilità delle risorse) o da una politica redistributiva come sopra ho cercato di delineare immaginando una economia possibile.
Non guardiamoci indietro: è poco interessante, se non altro perché ci siamo già stati.


[1] La tecnologia affranca dai lavori più pesanti e permette di creare nuovi lavori. A mo' di esempio si pensi all'agricoltura ed al lavoro di personal trainer. Un secolo fa, il lavoro agricolo era così pesante e richiedeva uno sforzo muscolare tale da rendere quantomeno superfluo l'esercizio fisico da palestra.
[2] La attuale crisi economica ed ambientale ha palesato che efficienza ecologica ed efficienza ambientale spingono il sistema globale in direzioni opposte: l'ecologia ci dice che un sistema chiuso non può crescere senza limiti, l'economia ci dice che invece questo è possibile, grazie al decoupling.
[3] Energia disordinata che si disperde.
[4] E già immagino la gioia e l'imbarazzo della scelta del fu-metalmeccanico che potrà scegliere tra 3 ore al tornio e 3 ore di tempo libero da dedicare alla lettura delle poesie dell'onorevole poeta: non riesco ad indovinare la scelta però.
[5] Alan Kirman ha recentemente ricordato un sintomatico episodio. Di fronte all'obiezione di un giornalista, secondo il modello dell'economia mainstream, il tasso di disoccupazione dovrebbe essere molto più elevato di quanto è nella realtà, la replica di un economista ortodosso è stata: certo, il mercato del lavoro non è abbastanza flessibile.

martedì 1 ottobre 2013

Francobollo

Cominciano i giochi pirotecnici. Il delinquente, che ha la stessa
vis criminalis di un boss mafioso (se disponesse di uomini armati
sarebbe un padrino ed i suoi avversari li ucciderebbe senza alcuna
esitazione), ha dato fuoco alle polveri per distruggere ciò che
resta di questa repubblica di stracci.

Euro al capolinea?

Fonte: INCHIESTA | Autore: RICCARDO BELLOFIORE, FRANCESCO GARIBALDO
                                
“C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari.
Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari”
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)
Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perchè la fine della moneta unica salverebbe salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur , Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.
Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole ristretta a minoranze tecnocratiche.
In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992; Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento generale Toporowski 2010 e Wray 2012)
Non era difficile, in verità, predirlo. Durante la fase del cosiddetto SME credibile (dal 1987 agli inizi del 1992), con cambi fissi fra le valute aderenti, situazione allora vista come una sorta di antipasto della moneta unica, le contraddizioni si andarono accumulando sino all’esplosione.
Prima di passare alle nostre osservazioni critiche vanno messi nella dovuta evidenza i punti importanti che il libro mette in luce.
Dice innanzi tutto una cosa sacrosanta. Ogni economia vive di debito. Può essere il debito che l’imprenditore schumpeteriano ottiene dall’autentico banchiere che scommette su di lui, e che si vede ormai poco in giro. Anche il debito pubblico ha i suoi meriti. Basta vedere come nella crisi, benché tutti parlino male del debito pubblico, anche quando la crisi si dice provenga dalla crisi della finanza pubblica, nell’incertezza la caccia è innanzi tutto ai titoli di debito pubblico. Dopo di che giustamente Bagnai dice, attenzione che il debito privato è più rischioso e pericoloso del debito pubblico, e aggiunge, ancora a ragione, il vero problema è il debito estero.
E’ evidente che se c’è un debito c’è un credito. I bilanci dei macro-operatori – il settore privato, il settore pubblico ed il settore estero – sono connessi tra di loro, e tutti e tre insieme danno un saldo nullo. Se, per esempio, il settore estero fosse in pareggio, e se ci fosse un surplus del settore privato, ci deve essere un corrispondente deficit del settore pubblico. Se l’area dell’eurozona avesse un bilancio con l’estero pari a zero (ed è stato grosso modo così fino a un paio d’anni fa, ora il saldo è in leggero attivo), allora, perché ci sia un avanzo del settore privato, questo richiederebbe un bilancio negativo dell’operatore pubblico. Da questo punto di vista, si deve dire, i movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore elementare, si dimenticano che non pagare il debito vuol dire non pagare il creditore, ed è rilevantissimo a questo punto chi sia il creditore, e se sia possibile discriminare i creditori; tra i creditori dello stato vi sono spesso famiglie di classe media, non particolarmente ricche. La crisi dell’Europa, come altrove, non è affatto una crisi del debito pubblico ma è semmai una crisi del debito privato scaricata sulle finanze dei governi.
Il terzo punto importante – ed è questo, a noi pare, il fuoco del discorso di Alberto Bagnai – è l’attenzione prevalente, qualche volta addirittura esclusiva, al bilancio con l’estero, cioè alla bilancia dei pagamenti, ma forse più ancora alla bilancia delle partite correnti, e forse più ancora alla bilancia commerciale.
Indubbiamente, si tratta di un punto di vista importante per capire cosa sta succedendo in Europa, e nell’eurozona. Alcuni di noi – Bellofiore, assieme a Joseph Halevi – lo sostennero nel 2005 per un convegno di economisti italiani eterodossi, i quali ritenevano all’epoca che il problema cruciale fosse il Patto di Stabilità e la proposta da farsi la stabilizzazione del disavanzo dello stato. Noi lo vedevamo piuttosto come un’imposizione di natura prettamente politica, tant’è che fu infranto a ripetizione senza che ne subissero conseguenze paesi come la Germania e la Francia, e ritenevamo che i problemi strutturali richiedessero nel medio-termine di concordare, o imporre, un aumento del rapporto disavanzo/PIL in una logica di piano del lavoro. La questione dei disavanzi di partite correnti è sicuramente cruciale per comprendere come si configurano le relazioni tra nazioni e aree regionali in questo continente. Dopo un paio d’anni il tema degli squilibri commerciali interni all’eurozona è entrato nell’orizzonte degli economisti critici prendendosi la rivincita, perché quegli squilibri sono a questo punto diventati per loro il problema, attribuito per di più sic et simpliciter alla moneta unica; come più avanti argomenteremo meglio, questa tesi, che sembra condivisa da Bagnai, a noi pare una semplificazione eccessiva, come hanno ben messo in evidenza, in un loro recente saggio, Simonazzi (et al. 2013)1.
Alberto Bagnai nel suo libro disegna molto bene la situazione squilibrata dell’economia europea, per cui c’è un’area, grosso modo il Centro Nord, in attivo sistematico, difeso ferreamente, e c’è l’area dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia), il Sud Europa più l’Irlanda, che invece è in passivo. Bagnai quasi identifica la prima area con la Germania, si tratta invece della Germania con i suoi “satelliti”, una cosa un po’ diversa ora che anche quel blocco sta disgregandosi. E’ vero comunque che ereditiamo una divisione dell’Europa in due blocchi, da un lato quelli che esportano più di quanto importano, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’area, e dall’altro quelli che importano più di quanto esportano. Tra i satelliti vi erano, almeno fino a poco tempo fa, l’Olanda, il Belgio, cui si aggiungevano la Svizzera e la Danimarca, che però stanno fuori dall’euro, vi erano poi l’Austria, la Finlandia, e ancora la Svezia che è fuori dall’euro. Bagnai chiarisce gli effetti devastanti di questa frattura, come questa divisione in due esistesse prima della nascita dell’euro, come sia stata aggravata dalla moneta unica.

Il moscone e la sinistra

Un'analisi sulla crisi della politica

di Mauro Casadio

Il presente scritto è un tentativo di fornire un contributo per approfondire l’analisi di una condizione politica che sembra sfuggire alla comprensione della sinistra e dei comunisti; questi, senza molte distinzioni tra di loro, tendono a ripetere in modo meccanico concezioni e scelte politiche che, invece, hanno portato esattamente al punto in cui siamo. L’abitudine a volare basso, il tatticismo estremo e l’incapacità di alzare lo sguardo ha impedito di fare astrazione sul mondo e su se stessi e ci ha portato ad essere come quei mosconi che continuano a sbattere pervicacemente su una lastra di vetro che essi non possono vedere a causa dei loro limiti fisiologici.

Questo contributo ovviamente non ha la presunzione di dare risposte certe o lezioni a qualcuno, ognuno deve essere cosciente dei propri limiti, ma si prende la responsabilità di entrare nel merito con più chiarezza possibile, anche rischiando di sbagliare, per tentare di riconnettere la teoria con la pratica ed uscire da quel vicolo cieco in cui si è incappati. La riflessione proposta intende essere una sollecitazione generale ma vuole anche aprire una discussione dentro la nuova realtà di Ross@ che, per quanto appena nata, si colloca dentro la giusta traiettoria nella ricomposizione politica e sociale necessaria in questo paese.


Dentro una ormai lunga fase di crisi, quel che si impone alla percezione e reazione di massa è la “crisi della politica”, sia “la politica in generale” (che riguarda i partiti), sia la rappresentanza, che riguarda l’assetto dello Stato. È stato insomma rimesso in discussione un ceto dirigente che non appartiene soltanto alla “seconda repubblica”, ma all’intera storia repubblicana. Non è certo un caso che negli attuali partiti, incluso quello “anomalo” di Berlusconi, proliferano gli stessi individui che hanno caratterizzato la prima repubblica, dai democristiani del PD (oltre agli eredi del PCI) ai socialisti, quasi tutti berlusconiani, fino alla new entry Renzi, anche lui di solide radici scudocrociate. La crisi è una crisi profonda che non si fonda tanto su quella dei partiti, ma principalmente su motivazioni strutturali che vanno indagate anche nella loro dimensione storica. Siamo dentro un passaggio di queste dimensioni, e la sua rimozione non aiuta a capire come affrontare un simile frangente.

Va però evidenziata una questione; parlare della crisi della politica significa parlare del nostro paese e di quelli europei, che sono in particolare difficoltà nella crisi generale; ma si parla anche della ancora indefinita “prospettiva politica unitaria” rispetto al progetto di costruzione dell'Unione Europea per le classi dominanti, che puntano ad una nuova entità statuale. Lo spessore della questione, dunque, va oltre la nostra dimensione “provinciale” di nazione subalterna e va inquadrata dentro un processo che, di nuovo, ha un carattere storico oltre che dimensioni continentali.

Non è un caso che a questa crisi corrisponda quella ancora più profonda della “sinistra” in tutte le sue varianti. Non siamo più di fronte soltanto alla fine dei nostrani partiti comunisti, ormai ampiamente verificata, ma anche di quanti volevano fuggire da tali esperienze pensando che “innovazione” e moderazione fossero la soluzione. In realtà la macina della competizione globale capitalistica rende possibili solo le espressioni politiche strettamente compatibili; dunque la subordinazione al PD, che assume forme diversificate e talvolta anche in apparente antagonismo, è per certa “sinistra” l’unico spazio che può essere coperto allo scopo di continuare ad avere un qualche ruolo. Di fronte questa deriva verso l’evaporazione, purtroppo, diventa molto difficile, in alternativa, costruire le esperienze di una sinistra di classe che apra una prospettiva politicamente indipendente.

Bisogna dire che, per arrivare a questo punto, c’è stata una responsabilità soggettiva delle diverse forze politiche che si sono succedute nei venti anni trascorsi fino alla nascita di SEL. Al di là dell'immagine “radicale” che si è voluto dare, in realtà è stata introiettata la sconfitta, l’accettazione della subordinazione culturale come condizione data e invalicabile, ma soprattutto c’è stata una mancata storicizzazione dei processi che hanno portato alla crisi del movimento comunista e di classe, e quindi alla successiva fase di ripresa di egemonia del capitale.

Forse è utile fare un esempio concreto di come questa assenza di storicizzazione impedisca di cogliere persino le indicazioni politiche da praticare concretamente. Mi riferisco al dibattito sull’euro e sulle prospettive della moneta unica. Nella sinistra più radicale si è usi scommettere sulla fine e sulla rottura dell’euro ed anche dell’Unione Europea; a queste conclusioni si arriva, generalmente, sulla base di una serie di analisi economiche, spesso anche corrette, che dimostrano come le contraddizioni di questo progetto sono tali da portare inevitabilmente a un esito fallimentare. Tutto ciò nonostante che nel mondo reale la moneta unica esista ormai da circa quindici anni, che allarghi la sua influenza e che l’Unione Europea raccolga nuove adesioni nei paesi dell’ex campo socialista; e a conferma di tutto ciò arrivano oggi i risultati elettorali della Germania dove le forze “europeiste” sono la maggioranza assoluta.

Qual è il difetto di questi ragionamenti? È che il tutto viene affidato alle contraddizioni economiche senza accorgersi che così si accettano di fatto i parametri di ragionamento dell’avversario; ovvero, mantenendo i riferimenti dell’analisi tutti dentro l’economia capitalistica, si incappa in quel “meccanicismo economicista” che presuppone le contraddizioni materiali come motore principale dei cambiamenti, rimuovendo la loro reale funzione che è invece quella di essere solo “condizione” per le trasformazioni.

Questo modo di ragionare dimentica i soggetti concreti di questi processi, che sono storicamente l’umanità stessa, l’evoluzione dei suoi modelli sociali e forze produttive, le classi nei loro interessi reali; in sintesi, affidandosi alla contraddittorietà delle dinamiche del capitale, si rimuove la centralità della soggettività delle classi e delle condizioni storiche in cui queste agiscono. Certamente questo rinnovato vigore del meccanicismo ha le sue radici nella sconfitta subita, nell’assenza di fiducia per le soggettività politiche fino a sperare, in fondo, che siano gli “intoppi” interni a superare i limiti del movimento di classe. Nello specifico dell’Unione Europea, se si dà peso strategico alla sola dimensione economica, si rimuove o si sottovaluta il ruolo politico della borghesia continentale in via di formazione, quello delle alleanze sociali che questa va costruendo dentro la crisi, e non si capisce che la rottura dell’euro e della Unione Europea è possibile solo se scendono in campo forze sociali e politiche antagoniste che si scontrano con questa prospettiva.

E’ sull’insieme dei processi che bisogna concentrarsi per capire come la “crisi della politica” possa essere affrontata anche dal nostro punto di vista; utilizzando naturalmente tutte quelle chiavi di lettura marxiste che ci parlano di “sovrapproduzione generale”, “imperialismo”, di “uso capitalistico della scienza”, “modifica della composizione di classe”, ecc, ma che sappia inquadrare anche le dinamiche storiche e politiche più strutturali che ci hanno portato a questo punto. Messi in evidenza questi elementi e quest’obiettivo bisogna cominciare a dipanare una matassa complicata, senza la garanzia di poter arrivare a soluzioni certe, ma con la quale dobbiamo comunque fare i conti. Inquadrare le tendenze della situazione politica in Italia e a livello europeo ci obbliga ad alzare il livello qualitativo di analisi e ragionamenti rispetto ai quali dobbiamo, in via preliminare, individuare il bandolo della matassa. Può tornarci allora utile, in questo senso, riprendere alcuni concetti elaborati da Gramsci che possono avere attinenza con la nostra attuale situazione.

lunedì 30 settembre 2013

Gli Stati Uniti non fanno più paura

di Thierry Meyssan

Mentre l’Assemblea generale del’ONU doveva dibattere della realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, era tutta un’altra questione a preoccupare i diplomatici: gli Stati Uniti sono ancora la superpotenza che sostengono di essere dopo il crollo dell’Unione Sovietica, oppure è giunto il tempo di liberarsi dalla loro tutela?
Nel 1991, gli Stati Uniti avevano considerato che la fine del loro grande rivale liberava il loro budget militare e permetteva loro di sviluppare la propria prosperità. Il presidente George H. Bush (il padre) aveva cominciato, dopo l’operazione Desert Storm, a ridurre le dimensioni delle sue forze armate. Il suo successore, Bill Clinton, rafforzò questa tendenza. Tuttavia, il Congresso repubblicano, eletto nel 1995, rimise in questione questa scelta e impose un riarmo senza nemici da combattere. I neo-conservatori lanciarono il loro paese all’assalto del mondo per creare il primo impero globale.
Fu solo in occasione degli attentati dell’11 settembre 2001 che il presidente George W. Bush (il figlio) decise di invadere successivamente l’Afghanistan e l’Iraq, la Libia e la Siria, poi la Somalia e il Sudan, e di terminare con l’Iran, prima di volgersi verso la Cina.
Il bilancio militare degli Stati Uniti ha raggiunto oltre il 40 per cento delle spese militari del mondo. Tuttavia, questa stravaganza ha una fine: la crisi economica ha costretto Washington a fare delle economie. In un anno, il Pentagono ha licenziato un quinto del suo esercito e ha fermato diversi suoi programmi di ricerca. Questo drastico calo è appena all’inizio e ha già disarticolato l’insieme del sistema. È chiaro che gli Stati Uniti, nonostante la loro potenza superiore a quella dei venti più grandi paesi del pianeta, Russia e Cina incluse, non sono più in grado di dedicarsi attualmente a delle vaste guerre convenzionali.
Washington ha così rinunciato ad attaccare la Siria non appena la flotta russa è stata dispiegata lungo la costa mediterranea. Per lanciare i suoi missili Tomahawk, il Pentagono doveva a quel punto farli partire dal Mar Rosso sorvolando l’Arabia Saudita e la Giordania. La Siria, ei suoi alleati non statali, avrebbero risposto con una guerra regionale, facendo precipitare gli Stati Uniti in un conflitto troppo grande per loro.
In un articolo pubblicato dal New York Times, il presidente Putin ha aperto il fuoco. Ha sottolineato che «l’eccezionalismo americano» è un insulto all’uguaglianza degli esseri umani e può portare solo al disastro. Sul podio delle Nazioni Unite, il presidente Obama gli ha risposto che nessun’altra nazione, nemmeno la Russia, avrebbe desiderato portare sulle proprie spalle il fardello degli Stati Uniti. E che se facevano la polizia del mondo, era proprio per garantire l’uguaglianza degli esseri umani.
Questo intervento non ha nulla di rassicurante: questo perché gli Stati Uniti si dichiarano superiori al resto del mondo e non considerano l’uguaglianza degli esseri umani se non come quella di chi gli è assoggettato.
Ma l’incantesimo si è rotto. La presidente del Brasile, Dilma Rousseff, si è fatta applaudire nel reclamare delle scuse da Washington per il suo spionaggio universale, mentre il presidente della Confederazione elvetica ha denunciato la politica della forza USA. Il presidente della Bolivia, Evo Morales, evocava la traduzione del suo omologo USA davanti alla Giustizia internazionale per crimini contro l’umanità, mentre il presidente serbo, Tomislav Nikolić, ha denunciato la farsa dei tribunali internazionali che condannano solo i nemici dell’Impero, ecc. Si è passati così da una critica proveniente da alcuni Stati antimperialisti a una rivolta generalizzata che comprendeva gli alleati di Washington.
Mai, l’autorità dei padroni del mondo era stata così pubblicamente contestata, segno che dopo la loro ritirata siriana non fanno più paura.

domenica 29 settembre 2013

Modello Syriza per gli anti-austerità, proposta per un'«Altra Europa»

Fonte: Il Manifesto| Autore: Roberto Ciccarelli
Una lista di sinistra, transnazionale ed euromediterranea, fuori dal perimetro dell'austerità da presentare alle elezioni europee previste nella prossima primavera, tra otto mesi. È uno degli obiettivi esposti ieri durante l'incontro «Europa che fare?» alla Casa delle Donne di Roma da una rete di associazioni che hanno già partecipato all'AlterSummit di Atene e al forum sociale di Tunisi. Presenti, tra gli altri, Arci, Alba, Cobas, Altramente, European Alternatives, Transform, Global Project, esponenti della Fiom.
Si sono incontrati ad una settimana dal voto in Germania che ha visto il trionfo di Angela Merkel (Cdu) e la probabile santuarizzazione delle «larghe intese» con i socialdemocratici (Spd) che torneranno a indossare il vestito dell'austerità. Dicono per renderlo più presentabile. Sono in molti invece a sospettare che sarà ugualmente paternalistico in patria e autoritario fuori.

Il progetto presentato ieri a grandi linee dovrebbe raccogliere l'appello di Alexis Tsipras, presidente di Syriza, che veleggia verso il 30% dei consensi in Grecia. Tsipras ha rilanciato l'idea di una sinistra distinta dai socialisti europei e dai loro alleati che si candidano a co-gestire l'austerità con i democristiani tedeschi e la Troika. I promotori parteciperanno alla manifestazione «La via maestra» per l'attuazione della Costituzione del 12 ottobre, promossa da Stefano Rodotà e da Maurizio Landini (Fiom). Ieri in sala c'era anche chi parteciperà a quella promossa dai sindacati di base e dai movimenti per il diritto all'abitare il 18 ottobre e sfileranno anche il 19 ottobre a Roma nel corteo «Costruiamo l'assedio all'austerity e alla precarietà». Argomento che è stato discusso dai movimenti interessati in un'assemblea nazionale alla Sapienza di Roma.

Nel giorno delle dimissioni annunciate dei ministri Pdl dal governo delle larghe intese, e in attesa di un nuovo esecutivo, alcune carte predisposte sul tavolo fino ad oggi potrebbero cambiare. Le europee potrebbe intrecciarsi con le elezioni politiche in Italia, ad esempio. Mentre ciò che si addensa a «sinistra», e non si riconosce nel Movimento 5 Stelle di Grillo, si troverebbe nuovamente scoperto e impotente davanti al prevedibile ritorno del populismo e dell'antipolitica.

I promotori dell'iniziativa sono consapevoli che non basta una sommatoria di sigle e partitini per avviare un necessario, ma non sufficiente, processo di ricomposizione. In questa situazione avrebbe risultati ancora più umilianti di «Rivoluzione Civile».
Dal 2008 si sono susseguite crisi, rotture e autocombustioni che hanno annientato la rappresentanza parlamentare, diviso o silenziato fino a questo momento un movimento anti-austerità. Il riferimento a Syriza potrebbe essere anche utile, anche se bisogna considerare le differenze. Perché il partito di Tsipras è il frutto della sintesi di sedici realtà diverse, di un duro percorso di opposizione alle politiche di austerità, al capitalismo declinato nella modalità neo-liberista, oltre che ad un attento studio della crisi del «ceto medio», come delle classi lavoratrici. Tentativi in questo senso si registrano in Spagna o in Portogallo. In Italia, invece, non esiste nulla di paragonabile. «Sinistra» resta un significante vuoto.

Per evitare la dispersione, e il rumore, non basteranno probabilmente i tradizionali dogmi della sinistra italiana sul lavoro dipendente, sull'idea della «governabilità» o sulla concertazione. I promotori di «Europa che fare?» propongono di aderire a un'alleanza tra le sinistre dei paesi del Sud d'Europa. I soggetti di riferimento potrebbero essere i giovani e i lavoratori indipendenti (in primis i precari) e tutti coloro che sono fuori dalla Costituzione europea e senza diritti.
I punti della «piattaforma» che sarà proposta a partire dalla prossima settimana sarà il «lavoro» e il «reddito» (minimo o di base).

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