Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 1 dicembre 2012

Sinistra, cambiare (forse) si può!

     
Le conclusioni di Revelli all'assemblea nazionale convocata dall'appello dei 70. Next stop: assemblee in tutta Italia 
di Checchino Antonini - popoff -

«Ci siamo costituiti identità collettiva, tali rimaniamo e non perdiamoci di vista. Cambiare forse si può». Marco Revelli, uno dei professori, uno dei 70, da sempre vivace voce critica a sinistra, chiude la prima assemblea nazionale di "Cambiare si può", convocata dall'appello in cui svetta come firmatario. Parla in fondo a 47 interventi serrati, dentro un teatro testaccino stracolmo, con la gente anche fuori nonostante la giornata infame per muoversi dentro la Capitale sotto la pioggia battente prima e un vento gelido poi. A portare lì una platea policroma c'è la speranza di un'altra politica, un'altra Italia. «Quando abbiamo lanciato l'appello non sapevamo come andava a finire - dice Revelli - sapevamo che si dovrebbe offrire a quella massa di cittadini disgustati dalla politica un luogo politico in cui riconoscersi un'alternativa» tanto al grillismo quanto a un centro sinistra organico al neoliberismo dentro un contesto segnato da una «catastrofe antropologica non solo politica, che ha sedimentato un clima acre». Ma per Revelli qui non s'è respirato quei veleni.

Allora cambiare forse si può, forse è possibile portare in parlamento un'altra Italia». Ma perché? Per fare l'ago della bilancia? «Non mi illudo che chi per anni ha portato avanti la tav, le privatizzazioni, i tagli, ha vulnerato l'articolo 18, possa essere riconvertito», si risponde il politologo torinese spezzando una lancia in favore di chi, nel magma in costituzione, non crede che sia possibile una relazione con l'asse Pd-Sel. Se si riuscirà a portare «qualcosa di più di un pugno di persone in Parlamento» sarà per dire che «è necessario un altro modello, una svolta di sistema, perché dentro questo sistema si muore, e dietro Monti c'è un modello terribile che occupa l'Europa». Revelli restituisce all'assemblea lo spettacolo appena visto ad Atene di condomini e aule d'università al freddo, di lavoratori pubblici in sciopero pressoché permanente, di negozi vuoti e la scritta gialla "affittasi" che ritorna ossessivamente. «Quella ricetta comporta quell'ordine di devastazione sociale, dobbiamo scardinare l'asse del Nord, imporre la rinegoziazione del debito».

Si vota a stragrande maggioranza la prosecuzione del percorso. Ora ci saranno in tutti i territori assemblee aperte, un "cambiare-si-può-day" tra il 14 e i 15 dicembre, per «innescare pratiche virtuose». Conclude Revelli: «Ci si parli, si aprano le porte, si discuta il che fare in uno spazio pubblico, ecco il cambio di stile». Un nuovo incontro nazionale entro il mese di dicembre sarà convocato per trarre le conclusioni ma il dado sembra tratto: uno spazio politico pubblico è stato appena aperto in Italia per non morire di malgoverno del Pd e populismo grillino. In sala, tra le centinaia di persone intervenute, si riconoscono Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, Paolo Ferrero, leader di Rifondazione comunista che da anni cercava la strada di una coalizione "sudamericana", ci sono Giulietto Chiesa, Giorgio Cremaschi del comitato No debito. Età media non più alta di altre occasioni dunque un alto tasso di esperienza ma l'atmosfera rimandava a una diffusa disponibilità a compiere una nuova esperienza.

Alcune voci colte al volo all'uscita (continueremo a monitorare il nuovo spazio politico): «Positiva la scelta di un percorso coinvolgente e partecipato per aprire uno spazio pubblico a sinistra - dice Ferrero a Popoff - che è anche un modo per sciogliere in avanti il nodo dei rapporti con le forze organizzate che ha attraversato il dibattito». «La dialettica è aperta - aggiunge anche Piero Maestri di Sinistra critica - purché sia un processo reale, purché nei territori non prevalgano i piccoli ceti politici».

In pieno medioevo ...

La prima volta della Walmart

di FELICE MOMETTI - connessioniprecarie -
 
I numeri e le dimensioni fanno una certa impressione. La Walmart è la più grande multinazionale al mondo che opera nel settore della grande distribuzione. Ha 10 mila punti vendita in 27 paesi, 4 mila negli Stati Uniti, più di due milioni di dipendenti, un milione e 400 mila negli USA, un fatturato di 440 miliardi di dollari nel 2011 che la collocherebbe tra i primi 30 paesi al mondo per prodotto interno lordo. Walmart è famosa anche per altri motivi. È la catena commerciale che pratica i prezzi più bassi, l’azienda con un tasso di sfruttamento della forza lavoro tra i più alti e un’organizzazione del lavoro molto simile a una caserma. Le merci sugli scaffali della Walmart vengono prodotte in Cina, nelle Filippine, in Vietnam e nel Bangladesh a dei costi bassissimi e, sembra quasi inutile dirlo, con salari irrisori per lavoratori costretti in terribili luoghi di lavoro. Il sistema degli appalti e dei subappalti sembra una matrioska con bambole infinite. Le fabbriche cinesi o filippine, per fare degli esempi, nella maggioranza dei casi non sono a conoscenza del vero committente. La settimana scorsa in una fabbrica di abbigliamento nel Bangladesh, che lavora esclusivamente per Walmart, sono morte in un incendio 112 persone, in gran parte lavoratrici, perché le uscite di sicurezza erano bloccate dall’esterno. Mike Duke, amministratore delegato della Walmart, si è affrettato a dichiarare che un fornitore, a tutt’oggi sconosciuto, aveva appaltato a quella fabbrica il confezionamento di capi di abbigliamento senza la sua autorizzazione. Se non ci fosse di mezzo la tragedia di 112 vittime sarebbe da prendere come una barzelletta. Chi invece non sta scherzando sono i lavoratori americani della Walmart che per la prima volta, dalla fondazione della società 50 anni orsono, sono scesi in sciopero. E lo hanno fatto nel giorno in cui potevano recare maggiore danno all’azienda, il Black Friday. Il venerdì dei grandi sconti, dopo il Giorno del ringraziamento, che negli Stati Uniti coincide con i maggiori incassi dei grandi centri commerciali. Si sono svolte iniziative con cortei, picchetti e flash mob dentro i punti vendita in 46 città coinvolgendo migliaia di lavoratori con anche il supporto di parecchi attivisti del movimento Occupy. La maggior partecipazione e radicalità delle iniziative si sono avute nel New Jersey, in California e nella zona di Chicago. Nel New Jersey, a pochi km da New York, i lavoratori in sciopero insieme a 99 Pickets – il gruppo di sostegno alle vertenze sui luoghi di lavoro di Occupy Wall Street che si rifà alle pratiche dei vecchi wobblies – hanno bloccato per un paio di ore le casse della più grande Walmart della costa orientale. In California e nella zona di Chicago si è registrata la più alta partecipazione allo sciopero. Il motivo è presto detto. Tutto è iniziato un paio di mesi fa alla Walmart di Pico Rivera, un quartiere di Los Angeles, quando una trentina di lavoratori si sono messi spontaneamente in sciopero per protestare contro orari di lavoro di una durata e di una flessibilità insostenibili con un salario che non arriva a 9 dollari all’ora senza assicurazione sanitaria e fondo pensione. Nei giorni successivi ci sono state le prime Wal-March di protesta nella zona di Chicago. Nel mese di ottobre ci sono stati scioperi nei magazzini e nei punti vendita di Seattle, con 17 arresti, Dallas e Elwood – un sobborgo di Chicago – dove la Walmart ha truffato decine di lavoratori non pagandogli gli straordinari, peraltro obbligatori. Fino ad arrivare allo sciopero del Black Friday che ha interessato tutta la catena americana con il timido sostegno esterno del WWU, uno dei sindacati del commercio. Scioperi illegali secondo la legislazione americana, senza copertura sindacale anche perché la Walmart si è sempre opposta alla sindacalizzazione dei propri dipendenti. Lo ha potuto fare perché, secondo le leggi in vigore, un sindacato per essere riconosciuto dall’azienda deve indire e organizzare un referendum e ottenere il consenso dei due terzi dei lavoratori. In queste condizioni è fin troppo facile per la Walmart imporre che i due terzi siano calcolati sui 2 milioni e 200 mila di dipendenti in 27 paesi. Una legge che Obama, sull’onda della vittoria nel 2008, si era solennemente impegnato a modificare. Le cose, come si è visto, sono andate in modo diverso, e non solo su questo aspetto. E dopo la rielezione, con scioperi locali e marce di protesta contro la Walmart, si è ben guardato dal fare altre promesse del genere. I lavoratori della Walmart sono in gran parte ispanici e afroamericani con un’alta percentuale di donne con contratti precari o part-time. L’organizzazione del lavoro nei centri commerciali, nei magazzini di stoccaggio just in time, nella vendita online è un manuale di taylorismo applicato fino alla tempistica dei bisogni corporali. Uno spaccato di medioevo nella postmodernità? Molto più probabilmente una subordinazione del lavoro vivo all’altezza di una data composizione sociale e di classe della forza-lavoro.

Quarto polo

Di cosa parliamo quando parliamo di quarto polo

di Checchino Antonini da popoff.globalist.it
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Venticinque giorni dopo la campagna “Cambiare si può”, l’appello cosiddetto dei 70 passa l’asticella delle cinquemila adesioni e si fa assemblea nazionale. Alle adesioni vanno sommate le attenzioni di soggetti organizzati per cui il perimetro può diventare davvero indefinito mentre il nucleo programmatico dovrebbe consolidarsi attorno all’autonomia dall’angusto recinto della bicicletta Pd-Sel condannata dal fiscal compact a seguire le tracce di Monti.
Le prossime due settimane devono segnare la nascita del progetto nei territori con il censimento e la raccolta delle energie disponibili, la discussione più ampia e partecipata delle linee programmatiche e organizzative, l’individuazione delle disponibilità a compiti organizzativi e di coordinamento. Sarà lanciato un “cambiare-si-può-day” da sviluppare entro dieci giorni in tutti i territori possibili, con assemblee pubbliche convocate da una pluralità di associazioni, movimenti, realtà locali; un momento di sintesi e di confronto avverrà in una assemblea aperta entro il 20 dicembre in cui definire progetto, nome, simbolo, struttura organizzativa e relativi responsabili. Oggi, probabilmente, potrebbe uscire dal Teatro Vittoria di Testaccio (l’appuntamento è tra le 10,30 e le 18) un comitato provvisorio che gestisca questa fase di passaggio.
«”Cambiare si può” continua la sua ricerca di una organizzazione adeguata alle necessità di una campagna elettorale», dice Livio Pepino, magistrato democratico, che oggi pronuncerà l’intervento introduttivo dell’assemblea costituente. «Limitando gli interventi a sei minuti ciascuno potremo averne 45 – si legge nell’intervento già in rete (lo puoi trovare qui) alcune ore prima dell’assemblea – molti, ma certo insufficienti per dare spazio a tutti coloro che hanno idee e contributi da portare. Per questo abbiamo chiesto ai rappresentanti delle realtà organizzate – che hanno altre possibilità di parlare – di stare, questa volta, ad ascoltare, lasciando spazio a chi, per lo più, non ha parola. Per questo faremo scorrere su uno schermo, in teatro, gli interventi di chi ha inviato un testo scritto. Per questo soprattutto l’assemblea non sarà il momento finale ma quello iniziale di un confronto che proseguirà nei prossimi giorni, sui territori». Pepino spiegherà che l’appello è nato «per evitare che il pensiero dominante diventi pensiero unico e si consolidi la convinzione, veicolata quotidianamente anche dalle alte cariche dello stato, che l’agenda del dopo elezioni sia necessitata e già scritta all’insegna del montismo».
«Esiste un’altra agenda, possibile e più realistica di quella dei professori della Bocconi e dei banchieri europei. Un’agenda che prevede un’uscita dalla crisi fondata sulla rinegoziazione delle politiche economiche europee (in un nuovo asse tra i paesi mediterranei), su una diversa politica fiscale, sul ritiro da tutte le operazioni di guerra e sull’abbattimento delle spese militari, sulla definitiva rinuncia alle grandi opere, sulla previsione di un tetto massimo per i compensi pubblici e privati, sulla riconversione di ampi settori dell’economia, su migliaia di piccole opere di utilità collettiva, su un piano di riassetto del territorio nazionale e dei suoi usi».
Conseguenza «obbligata» la dismissione, «una volta per tutte», dei “voti utili”, del perseguimento del meno peggio: «Chi ritiene che il Governo Monti sia stato la salvezza del paese e che non ci fosse una possibilità diversa di affrontare la crisi, che i diktat dell’Europa delle banche siano un boccone amaro ma inevitabile, che il futuro del Paese stia nelle grandi opere, insomma il centro sinistra rappresentato dalle primarie, è lontano da noi le mille miglia. Stiamo su pianeti diversi» Questioni di metodo (su cui potrebbe aprirsi un dibattito): «la stessa forma partito, che pure è stata l’asse portante dello sviluppo della democrazia del dopoguerra, è oggi superata, finita, travolta dagli eventi». La scommessa è nella ricerca di forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dei sistemi della rappresentanza che partano dal basso e consentano a tutti di partecipare realmente. «Per questo l’aggregazione che vogliamo costruire in vista delle elezioni o sarà totalmente ripensata rispetto al passato o non sarà. Ripensata nelle forme, nel nome, nei simboli, nei rappresentanti, nei candidati (che non potranno in nessun modo essere o anche solo apparire il riciclo di esperienze passate)». «Occorre contrastare il mantra dei nostri tempi – dirà Pepino – il leaderismo. Certo, se il sistema elettorale ce lo imporrà avremo anche noi un candidato premier, e sarà autorevole, credibile e mediaticamente forte. Ma non è questo il problema principale».
Il progetto: «un progetto di società alternativo che vuole diventare egemone… non ci interessa il piccolo cabotaggio (che, tradotto in cifre, significa 10 o 15 parlamentari). Vogliamo un mondo diverso e consideriamo questo obiettivo il vero realismo: quello stesso realismo che ha portato alla vittoria referendaria sull’acqua pubblica e contro il nucleare, quel realismo che sa investire sul protagonismo dei vari movimenti che hanno attraversato il paese negli ultimi decenni. Serve un milione e mezzo di voti per superare lo sbarramento attuale del 4% e alcune centinaia di migliaia in più se quella soglia verrà portata al 5. Per questo «concorrere alle elezioni pone il problema del rapporto con le formazioni politiche e i partiti che, come noi, hanno contrastato e contrastano le politiche del governo Monti e che – anche con la loro presenza a questa assemblea – mostrano attenzione al progetto “Cambiare si può”. C’è al riguardo, come è normale che sia, un dibattito aperto che – credo – attraverserà l’assemblea». Pepino dirà la sua su questo: «Guai a riproporre confederazioni, alleanze, cartelli, che evocano solo storie di fallimenti. Il fatto nuovo non sta solo nell’escludere che la formazione delle lista avvenga attraverso spartizioni lottizzatorie tra le segreterie di vecchi e nuovi partiti: sarebbe già molto ma non basta. Il salto è più radicale e rimanda, appunto, a un’aggregazione con caratteri di visibile discontinuità rispetto al passato. La mia speranza è che la generosità e l’intelligenza di tutti la consentano».
Il futuro potrebbe cominciare alle 18 di oggi.

Fornero, Monti e le nostre vite.

di ALESSANDRO ROBECCHI –


arobecchiLasciamoli lavorare. Ora è presto. Sono in carica da poche settimane. Sono lì da pochi mesi, un po’ di pazienza. Una riforma del lavoro che risolve il problema generazionale. Un po’ di diritti in meno ai vecchi per assumere più giovani… Non so perché, dopo un anno e qualche giorno di governo Monti, mi vengono in meno certe frasi che certe persone (anche amici, anche gente intelligente) diceva all’indomani dell’insediamento dei tecnici. Spossati da anni di volgarità e rapina berlusconiana, sarebbe andato bene pure King Kong, è vero. Ma l’ottusa fiducia con cui si guardava a un manipolo di tecnocrati lontani anni luce dalla vita vera delle persone, mi lasciava perplesso. Aspetta un po’, mi dicevano i fiduciosi. Vedrai…
E’ passato un anno e qualche giorno. Ho aspettato (non potevo fare altro, del resto) e ho visto. La disoccupazione è al suo record storico. L’occupazione giovanile (quella per cui la riforma del lavoro doveva fare qualcosa) è crollata al suo minimo storico (36,5 giovani tra i 15 e i 24 anni su 100 sono disoccupati). Il precariato (che la riforma del lavoro doveva combattere) è aumentato a dismisura. Il divieto di cumulo di contrattini che doveva portare ad assunzioni a tempo indeterminato è naufragato tra mille eccezioni e deroghe. I precari della pubblica amministrazione sono prorogati fino a luglio, così di una riforma fatta col culo (nostro, soprattutto) si dovrà occupare il governo a venire, quando madama Fornero sarà tornata alle sue gardenie e alla sua cattedra. Il debito pubblico non è diminuito, anzi è aumentato. Il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito. Gli attacchi alla scuola pubblica sono quotidiani. L’attacco velato al sistema sanitario nazionale sembra una minaccia di tipo mafioso.
Non c’è niente di bello, né di consolatorio nel dire quella frase odiosa che è “io l’avevo detto”, ma insomma, io l’avevo detto. Ora, un caro pensiero va a tutti quei ragazzi, lavoratori, precari, salariati, dipendenti e semischiavi che per un attimo almeno ci avevano creduto, ci avevano sperato. A quelli che dicevano: massì, levate questo articolo 18, tanto io non l’avrò mai. A quelli che dicevano: massì, un po’ più di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, così ci sarà più occasione di entrata. Accecati dalla mancanza di prospettive, angosciati, indifesi, scambiavano i preparativi della nuova rapina per una buona azione. A loro, con affetto, va la solidarietà e l’appoggio che bisogna dare ai rapinati. Anche se per qualche mese hanno parlato bene del rapinatore. Magari, la prossima volta non si sbagliano (questa è una fesseria, si sbaglieranno di nuovo).
Alessandro Robecchi
(30 novembre 2012)

Sessantacinque anni dopo: è Palestina!


121127palestinadi Claudio Grassi
Sono passati ormai sessantacinque anni da quel fatidico 29 novembre del 1947, quando il voto sulla spartizione della Palestina storica in due stati, permise il riconoscimento dello Stato di Israele, che un anno dopo entrò poi a far parte dei paesi membri dell'ONU. Oggi, a distanza di tutto questo tempo, la Palestina è stata riconosciuta come stato osservatore dall'Assemblea generale della stessa Organizzazione. Non si tratta del riconoscimento di uno stato autonomo e indipendente, ma sicuramente è un viatico determinante in prospettiva del raggiungimento di quella condizione.
Appena un anno fa, fu fatto il primo tentativo dallo stesso presidente Abu Mazen, che ovviamente non andò a buon fine. Perché questa volta la Comunità internazionale si è rivelata più "compatta" votando a maggioranza la decisione dell'Assemblea che ha dato l'esito favorevole con 138 voti (su 193), 9 contrari e 41 astenuti? Probabilmente sono più di uno i fattori determinanti che sono entrati in gioco. Contrariamente a quanto si può pensare, gli ultimi eventi nella Striscia di Gaza non hanno certamente avuto una ricaduta positiva sullo stato d'Israele. Per molti la reazione di Hamas avrebbe fatto indebolire lo stesso Abu Mazen, ponendo una brusca frenata nei confronti del processo di riconoscimento della Palestina, ma alla fine così non è stato. Anzi, potremo forse pensare che sia stata la stessa preponderante (e prepotente) forza del piccolo quanto agguerrito stato d'Israele, a far riflettere la Comunità internazionale su quelle che potevano essere le conseguenze di un permissivismo che avrebbe lasciato troppa libertà d'azione nella regione Mediorientale. Insomma, puntare all'Iran senza pretendere che gli stati Arabi e Mussulmani non muovessero un dito, oltre che un possibile rischio, francamente sembrava eccessivo... Questa volta non c'è stata la solita posizione filo-americana neppure in ambito Europeo, dove Francia, Italia, e Spagna si sono espresse favorevolmente, lasciando alla sola Repubblica Ceca il voto di contrarietà ed alla Gran Bretagna ed alla Germania quello dell'astensione. Complessivamente sono stati nove i Paesi contrari e 41 gli astenuti. Hanno votato contro Stati Uniti, Israele, Panama, Palau, Canada, Isole Marshall, Narau, Repubblica Ceca e Micronesia. Non possiamo non riconoscere ad Abu Mazen il coraggio e l'orgoglio dell'Uomo di stato che sapeva di giocarsi una carta unica, forse addirittura fondamentale per la sopravvivenza del suo Popolo. Con piglio e determinazione il presidente dell'ANP si è così rivolto alla Platea dell'ONU chiedendogli “un certificato di nascita” come stato: "La Palestina viene all'Assemblea Generale oggi perché crede nella pace e la sua gente ne ha un disperato bisogno. Il popolo palestinese in questi giorni bui guarda all'Onu con grande speranza per la fine delle ingiustizie e per un futuro di giustizia e di pace. Il si alla risoluzione che ammette la Palestina all'Onu come stato osservatore non membro è l'ultima chance per salvare la soluzione dei due stati”. Scontata l'ira di Netanyahu che non manca ovviamente di marchiare come "velenoso" il discorso di Abu Mazen, aggiungendo che "non sono le parole di chi cerca la pace". "Il mondo - secondo Netanyahu - ha visto un discorso sobillatore, di tono velenoso, pieno di propaganda menzognera verso le forze armate israeliane e i cittadini israeliani. Non è così che si esprime - ha rincarato - un uomo che anela alla pace. La risoluzione dell'Assemblea generale <è comunque priva di significato e non cambierà alcunché sul terreno>, ha affermato ancora Netanyahu, secondo il quale "i palestinesi hanno infranto gli accordi con Israele, e Israele agirà di conseguenza". Non potevano essere di tenore diverso le dichiarazioni rilasciate da Hillary Clinton, "il riconoscimento della Palestina come stato non membro non aiuterà Gaza e Israele a trovare un accordo di pace". Secondo il segretario di Stato americano, una "soluzione di lungo termine" nella regione si può trovare solo "attraverso trattative e negoziati". E l'Italia? Ci resta difficile non rimanere sorpresi dalla pur positiva decisione di votare a favore della Palestina. Il Premier Monti, "falco" ed amico di Obama, come può aver maturato o favorito questo pronunciamento? Forse sarebbe ora di ricordare che nel Nostro paese conta molto l'influsso di un altro piccolo Stato, anch'esso da tempo riconosciuto quale Stato osservatore all'Assemblea dell'ONU, come Città del Vaticano... La cattolicissima Italia non poteva, almeno in questa fase storico-sociale non "proprio florida", distaccarsi dalla "parola" della Santa Sede, che non ha mancato di far sapere "di aver seguito direttamente e con partecipazione i passi che hanno condotto a questa importante decisione, sforzandosi di rimanere al di sopra delle parti e di agire in linea con la propria natura religiosa e la missione universale che la caratterizza, nonché in considerazione della sua attenzione specifica alla dimensione etica delle problematiche internazionali". Cerchiamo di essere chiari: in un paese che brucia, privato di una coesione sociale, e affossato dalle politiche liberiste degli ultimi governi, sarebbe stato ingenuo perdere l'occasione di ricompattare il centro cristiano attorno alla "proposta" (politica) della Chiesa di Roma. Tutt'altra "atmosfera" si respira invece nella Comunità ebraica di Roma, dove lo stesso presidente, Riccardo Pacifici, non ha mancato di definire "l'evento" di ieri (29 novembre, ndr) come una vera e propria "doccia fredda", badando bene di aggiungere che in questo modo "E' stata sovvertita una rotta di anni per sceglierne un'altra filo araba. Siamo dispiaciuti e amareggiati". Si apre dunque, un cammino nuovo per la Palestina e il suo Popolo, ed è lo stesso portavoce dell'Autorità palestinese Nour Odeh ad indicarne la direzione: "Ci sono diverse tappe e procedure a cui lavoreranno i nostri dirigenti politici. La priorità è consolidare lo spirito di unità tra tutte le fazioni palestinesi. Dobbiamo incarnare questo spirito, tradurlo in azioni concrete, in riunioni e dichiarazioni positive. Abbiamo constatato l’efficacia di questo modo di agire durante l’aggressione contro la Striscia di Gaza. Questo spirito di unità si concretizzerà in riunioni al Cairo e a Doha l’anno prossimo. Poi dovremo ricostruire le nostre istituzioni democratiche". Risulta evidente che le ricadute interne sul processo di riconciliazione palestinese non potranno che trarne vantaggio. “I principali dirigenti di Hamas, compresi Khaled Mechaal e Nasser al Shaer, hanno dato il loro chiaro appoggio per l'iniziativa di Abu Mazen all'ONU”. Ad affermarlo è ancora Nour Odeh, sottolineando che "Tutte le fazioni palestinesi, compreso il movimento di Hamas e la Jihad islamica, credono che questa decisione storica metta il nostro paese sul giusto cammino e che permetterà di rafforzare il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione".

Dopo le primarie, reinventare la politica

di Rossana Rossanda - sbilanciamoci -

Promemoria

Promemoria è la rubrica settimanale di Rossana Rossanda, a margine dell’economia, dentro la politica
Le primarie del Pd obbligano a riflettere. Prima di tutto sulla infondatezza del ritornello secondo il quale gli italiani ne avevano abbastanza della politica e dei suoi riti, sommo dei quali sembrano le elezioni. Più di tre milioni di persone sono andati a esprimere un parere su chi doveva essere il candidato sfidante della sinistra, istituzionalmente non più che una raccomandazione, e per un esito non scontato. Lo stesso fenomeno si era verificato in Francia, dove si attendeva un vasto astensionismo alle presidenziali, mentre la partecipazione è stata elevata. Se ai politici si deve rimproverare la scarsa vicinanza alla popolazione, non è che giornalisti ne sentano meglio il polso. La gente è ancora interessata alla politica, se ne emoziona ancora, la premia o la punisce, e alcuni di noi si ostinano a credere che se le si offrissero argomenti e ragionamenti più persuasivi di quelli che le scodellano le tv, sarebbe pronta ad accoglierli.
Secondo oggetto di riflessione sono i risultati: il bacino dell’ex Pci e delle sinistre, dal quale venivano i votanti, si è diviso in tre culture. Culture, non personaggi. Bersani, il più noto, è passato in testa, è prevedibile che vi resterà; ma si trova alla sua sinistra e a destra due personaggi fra loro diversissimi e diversi anche da lui. Certo non pacifici compagni di strada. Il più seguito, il sindaco di Firenze Matteo Renzi, è una versione inedita del populismo di sinistra in veste italica, anzi propriamente toscana; il populismo classico raccoglie e indirizza a destra lembi di popolo lasciati a margine dallo sviluppo, o furiosi per le scelte deludenti della sinistra, gente insomma che ha di che lamentarsi, mentre quello di Renzi è soprattutto un giovanilismo senza troppi interrogativi e senza complessi: spostatevi, vecchi e incapaci, e fateci posto. Non me la sento neanche di rimproverargli l’effetto che il giovanilismo fa a chi si ricorda “Giovinezza giovinezza” da piccolo, perché il fascismo aveva un carico di contenuti che Renzi non ha, salvo forse un certo disprezzo, ai limiti del turpiloquio anch’esso toscano. Per il resto il renzismo non vuol dire nulla, salvo una smania di cambiare il personale politico, resa dubbia dall’essere tutti e inevitabilmente circondati da giovani intelligenti e vecchi scemi o viceversa, praticamente in eguale misura. Il solo movimento generazionale che ha scosso la società è stato il 68.
L’altro sfidante di Bersani, Nichi Vendola, è uscito terzo con il 15 per cento dei voti, prova che una voglia di sinistra coerente c’è. Se quel 15 percento si esprimesse anche su scala nazionale sarebbe non poco. Ma che cosa occorre oggi per essere in grado di contare? Da Rifondazione sono piovuti su Vendola molti fulmini, come se fosse in partenza un traditore; ma bisogna ammettere che il piede messo dentro la porta non garantisce di per sé quel quindici per cento del peso politico che il governatore della Puglia si propone e del quale ha bisogno per reggere.
E questo per due ragioni di fondo, che nelle primarie non sono state troppo esplicitate. La prima è che la linea di Monti è un blocco compatto, non facilmente emendabile neanche sotto aspetti minori; la seconda è che non è chiaro se e quanto, una volta premier, Bersani la vorrebbe emendare. Fra i guai prodotti da Berlusconi è che ha permesso a molti di credere che un governo, liberato dalle sue illegalità e sozzure, sarebbe andato ovviamente a sinistra sul piano politico e su quello economico. Cosa niente affatto vera. Monti era esente da questo ordine di pattume e appunto con lui una destra nuda e cruda è uscita in tutto il suo, diciamo così, splendore. Monti è la versione italiana di Angela Merkel, è più intelligente di Cameron, e il suo progetto non presenta interstizi nei quali infilare un po’ di ammorbidente ovatta. Far rimandare il rimborso del debito o ringoiare l’art.18 non sono modeste varianti, e anche ammesso che Monti, magari da presidente della repubblica, non vi si opponga, il muro che chi le propone si troverà davanti è immediatamente l’Europa.
La schiera dei paesi del nord, quelli per intenderci virtuosi, è quella che comanda. Se a Monti è stata risparmiata la troika, cioè sentirsi le zampe dell’Europa monetaria direttamente addosso, non sarà risparmiata certo a Bersani. Un vero cambiamento d’indirizzo, almeno in senso keynesiano o socialdemocratico sul serio, implicherebbe un’alleanza dei paesi del sud, sorretta da una solida sinistra. Della quale non vedo traccia né in Portogallo, né in Spagna, soltanto l’alternativa di Syriza in Grecia. E in Italia? La domanda può essere espressa anche così: quanto è lontano Bersani dalla filosofia di Monti e della Merkel? Bersani non come persona ma come Pd, come ex Pds, come ex Pci – fin dove è andato nella mutazione subita ormai più di venti anni fa? Una mutazione ideale, prima ancora che politica, l’adesione all’inevitabilità del capitalismo e ormai anche l’incapacità di opporsi almeno alla sua forma liberista. Questo è il problema che Alberto Asor Rosa lascia in penombra. Contro il liberismo si sollevano, ora come ora, soltanto alcuni singoli, vecchi o giovani, un sindacato, i movimenti, le occupazioni, la collera della gente, ma i governi appena insediati smettono di vederli e, se li vedono, gli scagliano addosso polizia e manganelli.
Contro questa Europa sentiamo voci autorevoli, sia dagli Stati Uniti, sia da noi; ma, ahimè, isolate. Siamo lontani da quella lunga marcia all’interno delle istituzioni, fra le quali metto anche la cultura “democratica” dominante, di cui parlava Rudi Dutschke. Ma questo è il punto, già reso evidente dalla china rovinosa delle politiche europee, per il resto tutto da reinventare, e che va molto oltre una mera occupazione elettorale dei palazzi del potere.

venerdì 30 novembre 2012

Nuovi diritti: il catalogo è questo

Fonte: laterza.it - lavorincvorsoasinistra - 

Pubblichiamo un estratto dal nuovo saggio di Stefano Rodotà: “ll diritto di avere diritti” (Laterza, 2012).
È questo il mondo nuovo dei diritti. Un mondo non pacificato, ma ininterrottamente percorso da conflitti e contraddizioni, da negazioni spesso assai più forti dei riconoscimenti. Un mondo troppe volte e troppo spesso doloroso, segnato da sopraffazioni e abbandoni. E così «i diritti parlano», sono lo specchio e la misura dell’ingiustizia, e uno strumento per combatterla. Registrarne minutamente le violazioni non autorizza conclusioni liquidatorie. Solo perché sappiamo che vi è un diritto violato possiamo denunciarne la violazione, svelare l’ipocrisia di chi lo proclama sulla carta e lo nega nei fatti, far coincidere la negazione con l’oppressione, agire perché alle parole corrispondano le realizzazioni. Lo storico appello alla «lotta per il diritto» si declina, oggi, come lotta per «i diritti». E proprio il dilatarsi degli orizzonti spaziali e temporali, insieme alla percezione sempre più diffusa che la persona non può essere separata dai suoi diritti, scardina la cittadinanza come proiezione e custodia di una identità oppositiva, feroce, escludente, che separa e non unisce. La cittadinanza cambia natura, si presenta come l’insieme dei diritti che costituiscono il patrimonio d’ogni persona, quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, e così avvicina e non divide, offrendo anche all’eguaglianza una nuova, più ricca dimensione. È rivelatore questo mutamento di significato del riferimento alla cittadinanza, la cui connotazione «esclusiva» è ormai accompagnata, e spesso beneficamente offuscata, da una sua versione «inclusiva», appunto quella dei diritti di cittadinanza.
Questo mutare dell’idea di cittadinanza rende meno proponibile la tesi che vuole ogni discorso sui diritti solo come la coda lunga di una pretesa egemonica, irrimediabilmente colonialista, di un Occidente che vuole imporre i suoi valori a culture e tradizioni diverse, negandone ragioni e particolarità, continuando a praticare un imperialismo che si tinge con i colori della democrazia e invece legittima l’uso della forza. Oggi dobbiamo guardare assai più in profondo, oltre le stesse ipotesi e ricerche di chi, come Amartya Sen, si è impegnato nel mostrare come esistano radici culturali comuni proprio intorno a valori fondativi dei diritti. Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni; i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi; i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali; luoghi in tutto il mondo vengono «occupati» per difendere diritti sociali. E si potrebbe continuare.
Tutti questi soggetti ignorano quello che, alla fine del Settecento, ebbe principio intorno alle due sponde del «Lago Atlantico», non sono succubi d’una qualche «tirannia dei valori», ma interpretano, ciascuno a suo modo, libertà e diritti nel tempo che viviamo. Qui non è all’opera la «ragione occidentale», ma qualcosa di più profondo, che ha le sue radici nella condizione umana. Una condizione storica, però, non una natura alla quale attingere l’essenza dei diritti. Perché, infatti, solo ora tanti dannati della terra li riconoscono, li invocano, li impugnano? Perché sono essi i protagonisti, i rabdomanti di un «diritto trovato per strada»?
Un innegabile bisogno di diritti, e di diritto, si manifesta ovunque, sfida ogni forma di repressione, innerva la stessa politica. E così, con l’azione quotidiana, soggetti diversi mettono in scena una ininterrotta dichiarazione di diritti, che trae la sua forza non da una qualche formalizzazione o da un riconoscimento dall’alto, ma dalla convinzione profonda di donne e uomini che solo così possono trovare riconoscimento e rispetto per la loro dignità e per la stessa loro umanità. Siamo di fronte a una inedita connessione tra l’astrazione dei diritti e la concretezza dei bisogni, che mette all’opera soggetti reali. Certo non i «soggetti storici» della grande trasformazione moderna, la borghesia e la classe operaia, ma una pluralità di soggetti ormai tra loro connessi da reti planetarie. Non un «general intellect », né una indeterminata moltitudine, ma una operosa molteplicità di donne e uomini che trovano, e soprattutto creano, occasioni politiche per non cedere alla passività e alla subordinazione.
* Stefano Rodotà è professore emerito di Diritto civile dell’Università di Roma La Sapienza. È tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. È stato presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e ha presieduto il gruppo europeo per la tutela della privacy. Editorialista di “Repubblica”, autore di numerose opere tradotte anche in diverse lingue

È etico pagare il debito?

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La dittatura della finanza con i suoi governi tecnici ha imposto il pagamento del debito. La democrazia è cancellata. Dobbiamo ribellarci. Occorre subito una grande alleanza dal basso tra movimenti e cittadini di diversi paesi per una moratoria immediata e per avviare un’indagine popolare (audit) sulla formazione del debito pubblico. L’obiettivo è annullare la parte illegittima, rifiutando di pagare i debiti «odiosi» o «illegittimi», come hanno fatto altri paesi, dall’Ecuador all’Islanda
Ho riflettuto a lungo come cristiano e come missionario, nonchè come cittadino, sulla crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando, e sono riandato alla riflessione che noi missionari avevamo fatto sul debito dei paesi impoveriti del Sud. Per noi i debiti del Sud del mondo erano ‘odiosi’ e ‘illegittimi’ perché contratti da regimi dittatoriali per l’acquisto di armi o per progetti faraonici , non certo a favore della gente. E quindi non si dovevano pagare! «E’ immorale per noi paesi impoveriti pagare il debito», così affermava Nyerere, il ‘padre della patria ‘ della Tanzania, in una conferenza che ho ascoltato nel 1989 a Nairobi (Kenya). «Quel debito – spiegava Nyerere- non lo pagava il governo della Tanzania, ma il popolo tanzaniano con mancanza di scuole e ospedali». La nota economista inglese N.Hertz nel suo studio Pianeta in debito, affermava che buona parte del debito del Sud del mondo era illegittimo e odioso.
Perché abbiamo ora paura di applicare gli stessi parametri al debito della Grecia o dell’Italia? Nel 1980, il debito pubblico italiano era di 114 miliardi di euro, nel 1996 era salito a 1.150 miliardi di euro ed oggi a quasi duemila miliardi di euro. «Dal 1980 ad oggi gli interessi sul debito – afferma Francesco Gesualdi – hanno richiesto un esborso in interesse pari a 2.141 miliardi di euro!». Lo stesso è avvenuto nel Sud del mondo. Dal 1999 al 2004 i paesi del Sud hanno rimborsato in media 81 miliardi di dollari in più di quanto non ne avessero ricevuto sotto forma di nuovi prestiti.
E’ la finanziarizzazione dell’economia che ha creato quella ‘bolla finanziaria’ dell’ attuale crisi. Una crisi scoppiata nel 2007-08 negli Usa con il fallimento delle grandi banche, dalla Goldman Sachs alla Lehman Brothers, e poi si è diffusa in Europa attraverso le banche tedesche che ne sono state i veri agenti, imponendola a paesi come l’Irlanda, la Grecia… «Quello che è successo dal 2008 ad oggi – ha scritto l’economista americano James Galbraith – è la più gigantesca truffa della storia».
Purtroppo la colpa di questa truffa delle banche è stata addossata al debito pubblico dei governi allo scopo di imporci politiche di austerità e conseguente svendita del patrimonio pubblico. Queste politiche sono state imposte all ’Unione europea dal ‘Fiscal Compact’ o Patto fiscale , firmato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 capi di Stato della Ue. Con il Fiscal Compact si rendono permanenti i piani di austerità che mirano a tagliare salari, stipendi, pensioni, a intaccare il diritto al lavoro, a privatizzare i beni comuni. Per di più impone il pareggio in bilancio negli ordinamenti nazionali. I governi nazionali dovranno così attuare, nelle politiche di bilancio, le decisioni del Consiglio europeo, della Commissione europea e soprattutto della Banca centrale europea (Bce) che diventa così il vero potere’ politico’ della Ue. Il potere passa così nelle mani delle banche e dei mercati. La democrazia è cancellata. L’ha affermato la stessa Merkel: «La democrazia deve essere in accordo con il mercato». Siamo in piena dittatura delle banche.

La Palestina esiste?

di  

ramzies5Ricordo con emozione nel 1990 la proclamazione dello stato nazionale palestinese a Tunisi. Tutto sembrava possibile, la pace sembrava possibile con una OLP forte e con confini ancora chiari per una Palestina che poteva aspirare ad un’indipendenza reale che, se non garantiva un futuro prospero, almeno lasciava sperare nella fine dell’incubo dei campi profughi. Sappiamo com’è andata.
Le responsabilità palestinesi -innegabili- sono una pagliuzza rispetto al trave delle colpe della comunità internazionale e al cinismo di Israele e degli Stati Uniti dello spingere l’avversario alla disperazione e da lì al terrorismo per far passare da vittima il carnefice. Le pietre della prima Intifada sono diventate bombe mentre la preda, buona parte della Cisgiordania, passava di mano. Quelle colonie che crescono ogni giorno di più sono la dimostrazione più evidente di una pre-politica battaglia per la terra, che si continua a combattere in quella regione. Vi è un passaggio interessante di quanto afferma in questi giorni Abraham Yehoshua nel passare dal considerare Gaza e la Palestina da «terrorista» a «nemico». Con inguaribile ottimismo spero possa essere il primo passo per uscire almeno dall’ipocrisia. È una guerra, asimmetrica, che i palestinesi stanno continuando a perdere.
Il voto di ieri dell’ONU, un passo avanti, non la soluzione, testimonia allora 22 anni trascorsi invano nell’ignavia della comunità internazionale di fronte alla sistematica annessione di territori palestinesi da parte di Israele smembrando quello che poteva ancora essere un territorio omogeneo e con un senso. Israele ha vinto e continua a vincere. Chi parla più oggi, chi può ragionevolmente parlare oggi di «diritto al ritorno» per i profughi, che pure il diritto internazionale garantirebbe? Insomma i palestinesi passano oggi dall’essere un «popolo senza stato» ad essere uno «stato senza territorio». Non so se è un passo avanti.
Il voto all’ONU fotografa però anche la fine definitiva della guerra fredda e della pretesa unipolare degli Stati Uniti di essere sovrani dell’intero pianeta nel delirio millenarista del fondamentalismo protestante. Se tanti paesi amici, spesso supini, come l’Italia, possono permettersi di dire a Washington che «sta sbagliando», la politica internazionale sta entrando davvero in una fase nuova. Quel multipolarismo che da più di un decennio vedevamo venire e abbiamo raccontato su queste pagine, descrivendo per esempio l’integrazione latinoamericana, venendo trattati come utopisti nel migliore dei casi e come estremisti nel peggiore, è una realtà.
Però per la Palestina è tardi e l’esistenza di un’entità statuale frammentata, senza economia possibile e dipendente dagli aiuti della comunità internazionale è solo un miraggio di indipendenza. I ragazzi della prima intifada, quelli che nella seconda metà degli anni ’80 tiravano pietre contro l’occupante, sono oggi dei quarantenni che hanno perso la gioventù nella bantustanizzazione del paese e hanno visto la propria gente separarsi fisicamente e non solo. Sono passati dal carcere, dal dolore, dall’odio, hanno visto uccidere i propri cari e a volte hanno ucciso. Una generazione perduta, non la prima, speriamo l’ultima.

Euro, da sogno a incubo

 
Guido Viale - ilmanifesto -
I veri europeisti sono coloro che sostengono che non si può procedere verso un'Europa dei popoli se non si ha innanzitutto il coraggio, e poi la forza, di imporre una revisione radicale di tutto l'assetto finanziario su cui si è retta finora la sua costruzione. Ma bisogna che le forze sociali che lo vogliono veramente si uniscano in un movimento comune
L'euro sta portando a fondo l'Unione Europea e con essa il sogno federalista dei suoi ispiratori e il progetto politico dei suoi fondatori. Come mezzo di pagamento, moneta in tasca o sui conti correnti di ciascuno di noi, l'euro è stata una grande novità positiva per centinaia di milioni di cittadini europei, a cui ha dato finalmente la percezione materiale di una abolizione dei confini nel continente; la possibilità di pagare i propri acquisti all'estero - anche al di fuori dei confini dell'eurozona, e in diversi continenti - senza dover fare complicati calcoli mentali per capire quanto gli stessero costando effettivamente; e, per noi italiani, anche la prova evidente che con i salari e le pensioni tra le più basse d'Europa molti prezzi - bar, ristoranti, alberghi, farmaci, teatri, ecc. - sono i più alti del continente. Ma come mezzo di accumulo di valore, che è la radice e la ragion d'essere della finanza, l'euro ha enormemente favorito il meccanismo di universale indebitamento - di famiglie, di imprese, di banche, di Stati - su cui da almeno due decenni (e in molti casi da molto più tempo) si regge l'intero sistema economico mondiale, mettendo nelle mani di un ristretto numero di «operatori» dell'alta finanza la vita e il lavoro di miliardi di esseri umani.
Queste due funzioni della moneta sono difficilmente scindibili, anche se alcune ipotesi su come allentare la stretta dell'una sull'altra sono state fatte e andrebbero urgentemente riprese in considerazione. Ma negli scorsi decenni tutto quello che era possibile fare per renderle invece inestricabilmente connesse è stato fatto: a partire dall'azzeramento della separazione tra banche commerciali, che trattano soprattutto mezzi di scambio, e banche di investimento, il cui scopo è promuovere l'accumulazione del capitale; e dalla «libera circolazione dei capitali»: molto più libera di quella delle merci e soprattutto di quella delle persone, spesso costrette a salire su barconi fatiscenti o a traversare deserti nel cassone di un camion per spostarsi da un paese che non li vuole a uno che li vuole ancor meno, invece di viaggiare con semplici impulsi elettroni verso paesi sempre pronti ad accoglierli a braccia aperte.
Le conseguenze di quelle due misure di «liberalizzazione» sono davanti agli occhi di tutti: una generale situazione di insolvenza che ha coinvolto e coinvolge famiglie, imprese, banche e Stati, e che viene rimpallata dagli uni agli altri nel vano tentativo di procrastinare una generale resa dei conti. Prendete il caso della Grecia, dove i debiti di banche e governo sono stati e continuano a venir scaricati sulla popolazione, nel tentativo - fallito - di farne uscire indenni prima le banche straniere - soprattutto tedesche e francesi - che li avevano finanziati; e poi la Bce (Banca centrale europea), e il Fmi (Fondo monetario internazionale), che li hanno rifinanziati; e poi gli altri Stati dell'eurozona, che hanno finanziato o garantito i finanziamenti della Bce e quello dei nuovi marchingegni, come l'Efsf (il cosiddetto Fondo salvastati), con cui si sta cercato di rimandare la resa dei conti: con una catena di rimandi che, come ha rilevato Alessandro Penati su Repubblica del 24.11, non è che un gigantesco «schema Ponzi», ovvero una «catena di Sant'Antonio». A questo si è ridotta infatti la politica finanziaria della Bce.
Ma è almeno due anni che qualsiasi persona di buon senso e molti commentatori di questo giornale ripetono che la situazione finanziaria della Grecia è insostenibile e che il suo fallimento (default) è già iscritto nei fatti. Viene da chiedersi come mai un inossidabile liberista come Penati se ne sia accorto, o ne dia riscontro, solo ora. Ma il peggio deve ancora venire e quello che Penati non dice è che cosa succederà, all'euro e a tutta l'Unione Europea, quando il default della Grecia dovrà essere sancito. Ma forse a quel momento non si arriverà mai, perché a ritrovarsi ridotti nella condizione della Grecia, e prima ancora del suo fallimento ufficiale, saranno altri Paesi dell'eurozona, e ben più «importanti»: per esempio la Spagna o l'Italia. Penati non spiega infatti è come sia possibile che l'economia italiana o spagnola - e molte altre - possano evitare di avvitarsi sempre più su se stesse, esattamente come la Grecia, quando, oltre al pareggio di bilancio, dovranno fare fronte anche al cappio del fiscal compact: cioè rastrellare con le tasse e l'assalto alla spesa sociale altri 50 (Italia) o 30-40 (Spagna) miliardi all'anno per ripagare la loro quota di debito, oltre al peso degli interesse, che per l'Italia ammonteranno ad oltre 100 miliardi all'anno; mentre già le banche di entrambi i paesi (ma presto anche quelle francesi e probabilmente anche tedesche) sono in affanno per fare fronte agli impegni di ricapitalizzazione imposti dall'accordo Basilea 3. Una ristrutturazione o un consolidamento dei debiti dei principali paesi europei appare sempre più inevitabile; ma nessuno ne vuol sentir parlare. Perché?

SANITÀ La ricetta americana di Monti

Fonte: il manifesto | Autore: Felice Piersanti       
Il Presidente del Consiglio ha espresso le sue preoccupazioni circa le prospettive di aumento della spesa sanitaria nei prossimi anni e ha affermato che si deve pensare a «finanziamenti alternativi». Ma che cosa sono i finanziamenti alternativi? Sono le assicurazioni private, cioè il sistema americano. In altre parole, dai sistemi europei di sanità pubblica dovremmo avviarci verso un sistema misto, un po' europeo, un po' americano.
Ma il sistema americano, basato sulle assicurazioni private pagate dai cittadini, è pessimo e giustamente in via di trasformazione.
E' costoso (due-tre volte quello europeo), è meno efficace, perché la durata media della vita è più bassa rispetto a quella europea e sono peggiori le statistiche di funzionalità (mortalità infantile, mortalità neonatale, etc.); é ingiusto, perché i ricchi pagano direttamente le migliori prestazioni, mentre circa 50 milioni di cittadini sono privi di assistenza. Solo con la riforma Obama, nel 2013-2014 questa vergogna sarà eliminata. Ma il paradosso consiste nel fatto che lo Stato deve comunque intervenire con i propri finanziamenti per l'assistenza agli ultra sessantacinquenni (Medicare), perché senza finanziamenti statali le assicurazioni non assicurano gli anziani, e per l'assistenza ai poveri (Medicaid). Con questi due programmi spende quasi quanto in Italia si spende per l'assistenza sanitaria a tutti i cittadini.
Ha senso in queste condizioni parlare di finanziamenti alternativi? Le risorse sono poche e la proposta di Monti è quella di ricorrere, sia pure parzialmente, a un sistema notoriamente più costoso. Non è un progetto serio, ma non è casuale: risponde a una ideologia immobile, tolemaica, che pone i mercati invece della Terra al centro del mondo, non accetta discussioni, non si confronta con la complessa realtà.
L'intervento di Monti era stato preceduto da segnali premonitori. Il mese scorso, sul Corriere della sera, un autorevole consulente del governo, Giavazzi, sostenendo che non siamo in condizioni di garantire l'assistenza sanitaria a tutti, ha proposto di limitarla ai più poveri, facendo pagare direttamente le prestazioni al ceto medio. Il rinnovamento di Giavazzi consisteva dunque nel tornare al medico condotto per i poveri. Il ministro della sanità, invece, che pure conosce benissimo il nostro Servizio sanitario nazionale, avanza una proposta bizzarra, che si sta trasformando in legge: i cittadini meno poveri dovranno pagare di tasca propria i primi trecento euro di spese sanitarie di un anno e solo per le spese successive interverrà il Servizio sanitario nazionale. In tal modo, chi è in buona salute non avrà nessun problema, mentre chi non lo è pagherà un supplemento di tasse di trecento euro l'anno, una sorta di multa per la colpa di essere malato.
Sono tutti iniziali tentativi di mettere in discussione il principio fondamentale del Servizio sanitario nazionale: ognuno paga con le tasse in proporzione delle proprie entrate e riceve l'assistenza secondo le sue necessità. E non si tratta di questioni di scarsa entità, si tratta di attentati al diritto alla salute previsto dalla nostra Costituzione, in un quadro generale che tende a cambiare il segno della Repubblica italiana nata dalla Resistenza. Ma il problema della dinamica ascendente della spesa sanitaria per i prossimi anni è un problema reale. Pur razionalizzando ed eliminando sprechi e corruzione, la spesa sanitaria tenderà inevitabilmente a crescere: è una conseguenza del miglioramento della sanità e delle condizioni di vita che ha determinato, e ancor più determinerà in futuro, un vertiginoso aumento del numero degli anziani. Si tratta di un cambiamento epocale della demografia della nostra società, che non c'è modo di contrastare a meno che non s'imponga l'eutanasia obbligatoria degli utraottantenni.
Un governo serio dovrebbe affrontare serenamente il problema, meglio se a livello europeo, studiando dove reperire i fondi necessari - ad esempio diminuendo radicalmente le spese militari, introducendo una patrimoniale progressiva, tassando le rendite, etc., senza mettere in discussione il servizio sanitario nazionale, in una prospettiva di medio e lungo termine. A breve termine, tuttavia, piuttosto che ridurre il finanziamento, allo scopo di rendere più economica la sanità si possono individuare alcuni problemi da risolvere: l'intreccio pubblico-privato, le grandi multinazionali farmaceutiche e della diagnostica non correttamente controllate, la diabolica lottizzazione clientelare delle Asl, la corruzione imperversante che qualche regione talvolta alimenta. Resta poi il problema di fondo: quello dell'appropriatezza delle prestazioni che, in presenza di una forte spinta privata all'utilizzo di prestazioni anche inutili e perfino dannose, dovrebbe essere fondamentale. Ma questo presuppone che si ponga l'accento su un grande sviluppo culturale e che si mettano al centro della sanità gli operatori più qualificati invece dei direttori generali lottizzati.
DEUTSCHLAND REPEATS HERSELF
First as tragedy second as farce
 

giovedì 29 novembre 2012

SINISTRA ORNAMENTALE O QUARTO POLO

 

Giovanni Russo Spena e Dino Greco - Lo stupefacente battage mediatico che ha preceduto, accompagnato e seguito le primarie del centrosinistra, indicate con molta generosità come aria pura, anzi purissima, nel cielo torbido della politica, ha persuaso molti commentatori, taluni di pensiero fine, che proprio lì, in quell’area politica dall’incerto profilo sociale, risiedano le chance residue della democrazia minacciata di dissolvimento; e che in quei 3 milioni accorsi alle urne per scegliere (o credendo di scegliere) il conducator del futuro governo “progressista” si trovi la massa critica a supporto di un progetto riformatore.
Asor Rosa, ad esempio, ne è totalmente convinto, al punto di assegnare alla coalizione a trazione Democrat il compito (e l’intenzione) di battere il «nemico alle porte», cioè quel Monti che in un anno di esercizio del potere ha distrutto le pensioni, raso al suolo il diritto del lavoro e messo fuori legge la Costituzione, inserendo nella Carta medesima il pareggio di bilancio e, per sovrappiù, il fiscal compact.
Tutto il ragionamento di Asor Rosa si regge sull’equivoco, invero clamoroso, che il Pd abbia subito – e non condiviso – la svolta mercatista e monetarista pretesa dalla Bce. Questa credenza, non si sa bene da cosa suffragata, resiste persino alle chiarissime parole scritte nella Lettera di intenti dei democratici e dei progressisti, la cornice programmatica che vincola i partner del centrosinistra: osservanza dei patti internazionali sottoscritti dall’Italia, liberalizzazioni e alleanza di legislatura con il centro liberale. Insomma: la sostanziale continuità con la svolta liberista che ha reso l’Italia succube del capitalismo finanziario e che sta precipitando il paese in una recessione senza via di scampo non è in alcun modo in discussione.
Bene, l’esito delle primarie non fa che rafforzare questa evidenza. Matteo Renzi incassa il 36 per cento dei consensi, ipotecando una deriva centrista che già scorre forte nelle stesse file del suo segretario. Mentre Vendola coglie un risultato che, a meno di una fuga dal principio di realtà, lo consegna ad un ruolo, diciamo così, ornamentale. La presunta alleanza Bersani-Vendola ha dunque la consistenza di una bolla di sapone destinata a scoppiare al primo impatto con la politica reale, con le concrete opzioni economiche e sociali manifestamente collocate sulla scia del governo in carica.
Se ne è accorto, alla buon’ora, anche Claudio Tito (la Repubblica di martedì) che ha scoperto come il Pd «abbia cambiato pelle e non sia più lo stesso partito che eravamo abituati a conoscere e a descrivere». In verità, di metamorfosi in metamorfosi, la «fuga nell’opposto» di una parte degli epigoni del Pci, ben oltre ogni revisione socialdemocratica, è datata nel tempo ed ora raggiunge il suo epilogo estremo.
Se oggi – come suggerisce Asor Rosa – anche quanto di vitale rimane della sinistra e del conflitto sociale dei nostri giorni si rassegnasse a portare acqua a quel mulino, la crisi della democrazia e la definitiva abdicazione ad un progetto di trasformazione dei rapporti sociali sarebbero cosa fatta.
Lavoriamo invece, sin da queste ore, perché possa decollare quel quarto polo (e quella lista che lo incarni elettoralmente) senza il quale l’omologazione al pensiero e alla politica dominanti non avrebbero più alcun argine.

Il welfare degli egoisti

   

di Manuele Bonaccorsi - lavorincorsoasinistra -
«Il nostro Sistema sanitario nazionale potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento», ha dichiarato il premier Monti martedì scorso. Tradotto: niente certezza della cura, la sanità dobbiamo pagarcela da soli. Poco male: per noi “casta” dei giornalisti è già così. Abbiamo una cassa sanitaria professionale, si chiama Casagit, che ci garantisce senza spendere un euro un’assistenza sanitaria completa, comprese le lenti da vista, le costosissime cure dentistiche, riabilitazioni ortopediche. In pulitissime cliniche, senza lista d’attesa. Splendido, no? Per la precisione, cotanto lusso non è proprio gratis. Lo paghiamo nella nostra busta paga, un contributo mensile, tanto più alto quanto più elevato è il salario. Quindi, se lo Stato abbandona il diritto alla cura, per chi scrive e per i suoi colleghi non è un problema. Oddio, non proprio per tutti i colleghi. I giornalisti contrattualizzati, che sono sempre meno, stanno in una botte di ferro. Ma i nostri collaboratori, quelli che sono pagati a pezzo, i portavoce degli uffici stampa, la pletora di partite Iva delle televisioni, loro la Casagit non ce l’hanno. Peggio per loro, no?
Ecco, la questione posta da Mario Monti funziona proprio così. Siccome non possiamo permetterci più il diritto “universale” alla salute, non esiste altra soluzione che “privatizzare” la sicurezza sociale. La conseguenze è che solo chi lavora, è già forte contrattualmente e ha paghe più alte, può godere di quel diritto. Come in America: se lavori hai la sanità, se no fatti tuoi. Si chiama “welfare contrattuale”, è una battaglia della Cisl che sul tema aveva avviato un profondo dialogo con l’ex ministro Maurizio Sacconi. Il tema è precipitato anche nel recente accordo sulla produttività, non firmato dalla Cgil, dove si prevede di detassare i contributi per il welfare contrattuale a livello nazionale e aziendale. Secondo quell’accordo, addirittura, potrebbero esserci sistemi di welfare diversi tra diverse aziende di uno stesso settore produttivo. Se lavori in Maserati hai il welfare, se stai in Fiat no. E tutti gli altri? Non resta che chiedere la carità. Non è una boutade. Lo scriveva proprio Sacconi, nel suo libro bianco sul welfare. Servirebbe l’opposto: poiché il mondo del lavoro è cambiato, e la certezza dell’impiego è purtroppo un ricordo del passato, ci vuole un welfare universalistico, che sostenga tutti: lavoratori e disoccupati, precari e dipendenti stabili, anziani e giovani. Susanna Camsussosostiene che l’accordo sulla produttività «sancisce il principio che prestazioni pubbliche quali la sanità e il welfare possono trovare forme complementari solo per una parte della popolazione, sottraendo risorse pubbliche a beneficio di tutti». Tradotto: se i protetti “fanno da sé” pagano meno tasse. E se pagano meno tasse si riducono le protezioni per tutti i non protetti. Il welfare al contrario, l’egoismo fatto principio. Possiamo dirlo chiaramente? Il premier, con questa dichiarazione, dimostra la sua rispettabilissima natura politica. Il professore si troverebbe del tutto d’accordo con le proposte portate avanti da Romney che si opponeva al Medical care di Obama. è ideologicamente e politicamente l’ultimo epigono di una stagione dell’economia e della politica globale che si chiama neoliberismo. Che ha portato alla più grande “redistribuzione” di risorse dal lavoro ai ricchi che la storia recente ricordi. Ci risponderanno che il welfare è un lusso che non possiamo permetterci, ce lo dice l’Europa, che ci impone di tagliare la spesa pubblica. Ma se l’Europa davvero ha l’obiettivo politico di distruggere i sistemi di welfare nazionali, allora questa non è la nostra Europa. Non perché siamo “antieuropei”. Ma perché Bruxelles (e Berlino) ha dimenticato di essere europea. Ormai è americana, peggio di Romney.

Monti sbaglia, le risorse per la sanità ci sono

 
di Domenico Moro da Pubblico il giornale
Il premier Mario Monti, intervenendo in collegamento a Palermo durante l’inaugurazione di un centro biomedico della fondazione Ri.Med., ha rilasciato una dichiarazione preoccupante: «Il nostro sistema sanitario nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento. La posta in gioco è altissima».

Monti ha ribadito inoltre che «il momento è difficile, la crisi ha colpito tutti e ha impartito lezioni a tutti. E il comparto medico non è stato esente né immune dalla crisi». Il punto, dunque, è quello del finanziamento. Quello che Monti non dice, però, è che le difficoltà di finanziamento del sistema sanitario non dipendono direttamente dalla crisi economica. In primo luogo, dipendono dal decentramento, ovvero dalla regionalizzazione della sanità. In secondo luogo, dipendono dalle scelte del governo e della maggioranza parlamentare sia sul fiscal compact, che impone vincoli di bilancio molto stretti, sia a proposito di fisco e di ripartizione delle risorse tra i vari comparti statali. Il decentramento avrebbe dovuto risolvere i problemi dell’Italia, a partire dalla sanità. In realtà, li ha accresciuti favorendo il collegamento, non sottoposto a controlli centrali, tra ceto politico locale e imprese private sanitarie locali, che ha fatto lievitare i costi. Il problema è costituito non solo dalla corruzione, ma dall’inserimento nel sistema dell’impresa privata, che comporta la necessità di un profitto e quindi di un accrescimento della spesa statale. Un problema specifico è costituito dal federalismo fiscale, praticamente una finzione, visto che è lo Stato a decidere di quanto si possa aumentare le imposte locali e quanta parte ne vada agli enti locali. La fonte principale di finanziamento della sanità pubblica, per circa il 40 per cento, è l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, il risultato di un pastrocchio in cui alcune imposte già esistenti sono state messe insieme con i contributi sanitari per i lavoratori, cioè con una parte del salario indiretto.
L’Irap è stata da sempre oggetto di un attacco lobbistico da parte della Confindustria e delle grandi imprese, che ha portato alla sua progressiva riduzione nel corso degli anni, contribuendo ad inaridire le fonti di finanziamento della sanità pubblica. Un ulteriore colpo è stato inferto dalla Legge di stabilità, che già nelle stesura originaria vedeva la riduzione dei trasferimenti statali alle regioni: un miliardo di euro in meno. Riguardo alla sanità, oltre ai provvedimenti già adottati, si prevede un taglio di 600 milioni per il 2013 (500 in beni e servizi non sanitari e 100 in dispositivi medici), e un miliardo per il 2014 e per il 2015, di cui il taglio per i dispositivi medici ammonta a 500 milioni annui. Sempre la Legge di stabilità, nella sua stesura definitiva, prevede una ulteriore riduzione dell’Irap per le imprese. L’importo deducibile per un lavoratore dipendente sale da 4.600 a 7.500 euro e per un lavoratore donna o giovane fino a 35 anni da 10.600 a 13.500. Nel Mezzogiorno, l’importo è ancora più alto: da 9.200 a 15.000 e per giovani e donne da 15.200 a 21.000. Non consideriamo poi l’aumento della dotazione, deciso dalla maggioranza parlamentare, a quasi un miliardo nel 2013 e a 800 milioni nel 2014 della detassazione per il pagamento di straordinari, lavoro notturno e festivo, presentato impropriamente come “salario di produttività”.
Dunque, se oggi il sistema sanitario non ha risorse è perché sta facendo le spese di una redistribuzione del salario, indiretto e diretto, verso il profitto, cioè verso le imprese in genere. In effetti, Monti non è credibile neanche quando dice che tutti i settori pagano la crisi. Infatti, il ministero della Difesa vede crescere la sua dotazione, che passerà dai 19,96 miliardi del 2012 ai 20,55 miliardi del 2013, azzerando i tagli triennali previsti dal governo Berlusconi. A beneficiarne saranno gli acquisti di nuovi sistemi d’arma, tra cui i cacciabombardieri F35, la cui spesa salirà dai 2,48 ai 3,63 miliardi, mentre migliaia di militari saranno licenziati, preferendo evidentemente garantire le commesse alle imprese belliche. Inoltre, il bilancio della Difesa non tiene conto della spesa per le missioni all’estero e dei fondi per i sistemi d’arma contenuti nel bilancio del Ministero dello sviluppo economico, che dovrebbero ammontare insieme a circa due miliardi e mezzo.
Le dichiarazioni di Monti sulla necessità di reperire “altre fonti di finanziamento” potrebbero alludere al proposito di incrementare ancora la presenza dei privati, a partire dalle assicurazioni, nella sanità pubblica o a forme come quelle in vigore negli Usa che sono universalmente note per la loro inefficacia. Infatti, secondo Costantino Troise, segretario nazionale dell’Anaao Assomed, «quando Monti parla di dover trovare nuove modalità di finanziamento, sembra voler aprire al privato, magari con un modello come il Medicare statunitense. Forse è già in campagna elettorale?».
Peccato che Medicare abbia contribuito a rigonfiare il debito pubblico Usa a livelli ingestibili, malgrado non offra un servizio universalistico come quello italiano, coprendo appena il 48% dei costi di assistenza per gli anziani oltre i 65 anni e i giovani disabili. Già oggi andare nelle strutture pubbliche, a causa dell’aumento dei ticket, è in alcune regioni tutt’altro che più conveniente rispetto ai privati. Le parole di Monti potrebbero segnare l’inizio del definitivo smantellamento del servizio sanitario nazionale.

Il Magistrato Paolo Ferraro lancia un appello al Nuovo Ordine Mondiale.


TODAY

mercoledì 28 novembre 2012

Intervista a Fausto Bertinotti

«Operai lasciati soli. La sinistra oggi non esiste»
121128bertinottiIntervista a Fausto Bertinotti di Marco Berlinguer
«È da molto che preferisco non parlare, ma ho seguito le interviste che state facendo con Pubblico e lo trovo importante. Ci sarebbe bisogno di un luogo dove ricominciare a discutere».
Fausto Bertinotti mi riceve con la sua consueta gentilezza. Da tempo ha rinchiuso i suoi impegni tra sporadiche lezioni in alcune università e la sua rivista Alternative per il socialismo. Sono andato a trovarlo con curiosità. Provo a tirargli fuori qualcosa sulle primarie. Ma ci vuole quasi il forcipe.
«Ho una grande ritrosia a intervenire sulla prima linea. Comunque, se devo - al di là dell ’istanza della partecipazione, che scavalca lo stesso ragionamento politico - io credo che la carta d’intenti abbia costituito una prigione. Entro quei confini, non si è potuta aprire una dialettica veramente politica nelle primarie.
Per esempio, tra parità di bilancio o no. Ed ha prevalso inevitabilmente un conflitto fuorviante tra vecchio e nuovo». Va bene. Ci samo tolti il dente. E adesso, visto che hai letto le precedenti interviste, scegli tu da dove vuoi cominciare.
Forse potremmo iniziare da quello che rispondono sia Rossanda che Rodotà, quando gli chiedi che cosa c'è stato di interessante dopo l'89 sulla scena europea e mondiale: i movimenti. Immagino non ti sorprenderà: ma anche io credo che si debba partire da lì, da queste realtà e potenzialità.
Parliamo allora del tema dell'efficacia, che non c'è, come dice la Rossanda? Va bene, però facciamo un passo indietro. Partiamo invece dalla sconfitta. Nel 1989 c'è stata una sconfitta storica. Molti di noi l'hanno sottovalutata. Forse perché non amavamo quei regimi. Ma è vero, come dice Hobsbawm: il 1989 chiude il secolo breve. E lo chiude con una sconfitta storica. E allora, se vogliamo capire le difficoltà oggi dei movimenti, forse conviene partire da un'altra grande sconfitta, che è stata molto importante per il movimento operaio.
Quale?
La comune di Parigi del 1871.
Accipicchia. E perché?
Perché anche allora si dovette elaborare una sconfitta. E anche allora il tema che si posero tutti, da Marx in giù, fu quello di come conquistare la vittoria, o come diremmo oggi, l'efficacia. Alla fine quella ricerca generò l'invenzione geniale del partito operaio, sia nella versione tedesca che leniniana. Però, pensaci, per arrivarci, fu necessario un lungo ciclo, durato decenni, di transizione. Ci furono tanti tentativi, moti, grandi conflitti, una grande idea teorica che prende forza. Ma tutte le forme di organizzazione restarono a lungo incerte e labili.
Insomma tempi lunghi?
Capisco l'impazienza verso i movimenti. Ma siamo all'indomani di una sconfitta storica, ancora più grande, anche se meno violenta. D'accordo. Assumiamo l'analogia. Non c'è tuttavia qualcosa nei nuovi movimenti che mette in scacco le forme di organizzazione, unificazione e quindi di efficacia che abbiamo conosciuto nel '900?
Sono d'accordo. Anch'io come la Rossanda sono sicuro che qualcosa rinascerà. Ma non credo che il problema dell'efficacia si possa risolvere rifacendo il partito del '900. E neanche il sindacato. Però certe difficoltà non sono nuove. Pensa – alle origini del movimento operaio - ai conflitti a fuoco tra operai generici e specializzati, quando gli uni funzionavano come massa di manovra contro gli altri; o tra operai e contadini; tra operai e intellettuali. Anche allora, per superarli fu necessaria una grande costruzione culturale. Il problema dell'organizzazione è sempre un problema politico a tutto tondo.
Quindi niente di nuovo sotto il sole? No, naturalmente. Siamo di fronte a un grande mutamento della composizione sociale. E ogni volta che cambiano le figure sociali prevalenti, bisogna innovare i contenuti della politica e le forme di organizzazione. Pensa all'irruzione negli anni 60, dell'operaio comune di serie e dello studente di massa; e per restare solo alla prima di queste figure, all'invenzione dei consigli di fabbrica e all'egualitarismo nelle rivendicazioni sindacali. Ma oggi, la vera differenza è un'altra. Quale?

Businnes Schools

di Elisabetta Teghil - sinistrainrete -

“Il profitto è una forma mutata del plusvalore, una forma in cui viene dissimulata e cancellata l’origine del plusvalore ed il segreto della sua esistenza. In realtà il profitto è la forma fenomenica del plusvalore.”
(K.Marx-Il Capitale- III)

Come qualsiasi risorsa materiale e immateriale, la “risorsa umana” viene considerata una merce economica.

E’ una visione in cui tutto e tutte/i devono misurare la propria esistenza secondo l’unico valore importante a cui sottomettersi, il valore commerciale.

E’ la nascita e la diffusione della nozione di “capitale umano” che, declinato, significa la forza lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori letta come l’insieme delle facoltà fisiche, intellettuali, relazionali che queste/i possono mettere in vendita sul mercato del lavoro.

Secondo questa vulgata, in tutti i momenti o aspetti della propria esistenza, ognuna/o dovrebbe considerarsi e agire come un potenziale centro di accumulazione di ricchezza alla stregua di un’impresa capitalista.


In quest’ambito, anche la scuola è entrata , a pieno titolo nel mercato.

Perché è catena di trasmissione dei valori dominanti.

Il compito principale che ora le viene assegnato è quello di formare le ”risorse umane” al servizio dell’impresa. La scuola è trattata come un mercato, il mercato dell’istruzione.

La scuola, a cui, in passato, sia pure a livello più teorico che pratico, veniva chiesto di essere occasione e momento della promozione sociale, oggi, non è altro che un mezzo di legittimazione di una divisione sociale che favorisce le ineguaglianze.

In questo modo la sfera educativa si è trasformata in un luogo dove si insegna una cultura classista, razzista e di guerra.

Come sempre e come al solito, tutto comincia negli Stati Uniti, si irradia in Europa attraverso l’Inghilterra ed è stato, in Italia, diffuso attraverso una serie di “riforme” cominciate da Luigi Berlinguer, continuate con Letizia Moratti, con Giovanni Fioroni , Mariastella Gelmini e con l’attuale ministro dell’Istruzione Francesco Profumo.

Da quando è entrata in vigore la riforma dell’università, chiamata comunemente Gelmini, dalla ministra proponente, quello che balza agli occhi è che la riforma stessa è entrata subito in funzione con la partecipazione attiva di docenti e ricercatori.

Giovanni Giolitti, che è stato il presidente del consiglio di più lunga durata, diceva che la vera difficoltà non era tanto promulgare le leggi, quanto farle attuare. E lo diceva uno che se ne intendeva perché proveniva dalle file della burocrazia.

Se la riforma Gelmini fosse stata veramente estranea al corpo universitario, sarebbe stato sufficiente disattenderla.

Invece non è andata così.

A conferma che le lotte degli studenti sono state strumentalizzate, vedi l’Onda, che questi non hanno messo al centro i loro interessi, che i ricercatori erano impegnati solo nella soluzione dei loro problemi, possibilmente con i concorsi sanatoria, e che i professori erano interessati solo alla conservazione dei loro privilegi.

Eppure, la ristrutturazione dell’università piega la formazione del sapere alle esigenze e alle richieste del mercato, trasformando gli studenti in merce-lavoro prima ancora che siano inseriti nel mercato occupazionale.

Il personale docente viene derubricato a livello dei formatori dei corsi di aggiornamento che, come tali, devono costruire personale che aderisca ai valori della società/azienda in cui andrà inserito.

Il tratto più saliente che definisce l’ attuale insegnamento, in particolare nell’ambito universitario, è quello che caratterizza l’università anglosassone: la spoliticizzazione che colpisce in maniera particolarmente forte, e non poteva essere altrimenti, le facoltà umanistiche.

Per una Tassa sulle Transazioni Finanziarie efficace ed equa


- zerozerocinque -
L’Italia si sta finalmente dotando di una Tassa sulle Transazioni Finanziarie (TTF). Ma la buona notizia è messa fortemente a rischio dall’impianto normativo attualmente in discussione al Senato e dal dibattito sviluppatosi in queste settimane che rischia di disattendere quelli che sono gli obiettivi ispiratori della TTF.
Come organizzazioni promotrici della Campagna ZeroZeroCinque ci appelliamo al Governo e ai parlamentari affinché il testo legislativo possa contemplare i seguenti punti che riteniamo irrinunciabili per promuovere una tassa efficace nel frenare la speculazione e una tassa equa nella destinazione d’uso delle risorse che genera.
  • Contrastare l’high frequency trading tassando ogni singola operazione
Il commercio di titoli ad alta frequenza esaspera l’instabilità dei mercati pertanto è importante assicurare che la tassa si applichi a ciascuna operazione e non solo ai saldi di fine giornata. La tassa deve penalizzare in misura superiore proprio quei comportamenti maggiormente speculativi ovvero il trading ad alta frequenza.
  • Tassare secondo il criterio di residenza delle controparti e di nazionalità del titolo
Quando si applica la tassa in un solo paese è fondamentale farlo seguendo anche il criterio di nazionalità del titolo (non si diventa proprietari del titolo se non si paga l’imposta di bollo) così da stabilizzare il mercato interno, spostare gli operatori più speculativi su altri mercati e limitare l’elusione della tassa attraverso il cambio di residenza degli intermediari stessi.
  • Applicare la tassa alla più ampia base imponibile includendo tutti gli strumenti derivati
Il mercato dei derivati non regolamentati (OTC) in Italia è passato, tra il 2000 e il 2009, da 1.400 a oltre 10.000 miliardi di dollari. Una crescita del 642% in un decennio. Nello stesso periodo il PIL è aumentato del 26%. A cosa è dovuta questa crescita abnorme? Tutte operazioni di copertura di un rischio o lo sviluppo di un gigantesco mercato speculativo? E’ possibile costruire meccanismi che differenzino il trattamento di derivati usati per copertura assicurativa e derivati comprati e venduti per movente puramente speculativo. Nel primo caso il derivato non è “nudo”: c’è un’operazione su un’attività sottostante e il derivato ne assicura il rischio. Inoltre la posizione è tenuta in portafoglio per molto tempo ed aggiustata solo a scadenze non particolarmente frequenti. Nel caso invece di “giocatori fai da te” o di operazioni speculative realizzate da operatori istituzionali queste operazioni sono di solito aperte e chiuse in brevi lassi di tempo. E’ possibile costruire sistemi di tassazione differenziata che tengano conto della durata della posizione aperta e della presenza o meno di sottostante.
  • Contrastare il fenomeno del layering
Significa disincentivare le distorsioni che provocano sul mercato quegli operatori che lanciano una grande quantità di ordini che poi non eseguono solo per indirizzare nel senso voluto le scelte degli altri operatori. E’ possibile farlo tassando di più chi ha un rapporto troppo elevato tra ordini impostati e ordini eseguiti.
  • Destinare il gettito al welfare, alla cooperazione allo sviluppo e all’emergenza climatica
Ridistribuire le risorse a coloro che in Italia e nel mondo stanno soffrendo in maniera più drammatica gli effetti di una crisi di cui non hanno alcuna responsabilità diretta è una misura di giustizia sociale che non può essere disattesa.

Crisi occidentale, crisi europea, crisi italiana: facciamo il punto

- finansol -

la crisi europea e dell’euro
La crisi europea è, ad un primo livello di lettura, nata dalla crisi anglosassone. Ad un certo punto le banche statunitensi sono riuscite a scaricare una parte consistente dei loro prodotti finanziari spazzatura sulle banche europee.
Nel frattempo, peraltro, molti istituti del continente stavano già male per conto loro, per una loro cattiva politica creditizia (si pensi soltanto a quanto molte banche francesi e tedesche si erano impelagate nei prestiti alla Grecia e agli immobiliaristi spagnoli, oltre che a politiche clientelari in casa propria).
A questo punto intervengono i governi, cosa che avevano fatto anche negli Stati Uniti, per salvare la baracca. Negli Stati Uniti è stato calcolato che tra garanzie e interventi finanziari reali sono stati tirati fuori in poco tempo 14.500 miliardi di dollari e in Europa 4.500 miliardi di euro. Le banche ottengono così somme astronomiche in un baleno, mentre invece quando si chiedono i soldi per la sanità, per la scuola, per i servizi di assistenza alle persone disagiate i soldi non ci sono. La crisi europea, sempre ad una prima lettura di tipo se vogliamo cronachistico, nasce da una parte dalla crisi del 2007 delle banche statunitensi, dagli errori commessi da molte banche europee e poi anche dal fatto che esistevano, che come avrebbe detto Bush jr., alcuni stati “canaglia” sul fronte dell’indebitamento ( qui possiamo mettere dentro sicuramente la Grecia e l’Italia), che hanno speso negli ultimi decenni cifre che in parte almeno non dovevano spendere.
Si aggiunga poi la crisi del settore immobiliare di alcuni paesi, in particolare la Spagna, e si ha il quadro dei problemi.
Allora i governi sono obbligati a intervenire mentre le entrate fiscali si riducono per colpa della stessa crisi. Quindi il sistema degli stati, il sistema pubblico nei paesi europei va in grandi difficoltà, anche se chi di più chi di meno. Di fronte a questi problemi c’è chi, come i tedeschi, che ha la ricetta e la forza per imporla a quasi tutto il continente. Dal momento che per la Germania la crisi ha origine dall’eccessivo indebitamento pubblico degli spendaccioni stati del Sud Europa, si dovrà ricorrere a delle forti e prolungate misure di austerità per riequilibrare i conti, mentre eventualmente, per continuare a crescere, si doveva puntare sulle esportazioni.
Ma la politica di austerità + esportazioni non appare per molti versi la scelta giusta. Intanto alcuni dei paesi incriminati, come la Spagna e il Portogallo, non avevano affatto un alto livello di indebitamento. Anzi, esso prima della crisi era inferiore a quello della stessa Germania. Più in generale, non è l’indebitamento che genera la crisi, è semmai la crisi che genera l’indebitamento. Poi esportare di più non è certo facile; se lo facessero tutti i paesi non si saprebbe dove indirizzare i propri prodotti: forse verso Marte? Poi, l’austerità non risolve comunque niente, essa non porta allo sviluppo ma ad un aggravamento della crisi.
Di fatto, il problema degli stati del Sud e più in generale e sempre più anche di quelli del Nord non è il debito, ma lo sviluppo. Di recente, il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che ogni azione di riduzione della spesa pubblica in un paese, porta ad un ridimensionamento dei tassi di sviluppo del pil nello stesso paese con un fattore moltiplicativo che si colloca tra 0.9 e 1.7; qualcuno suggerisce che in media tale fattore può essere calcolato intorno ad 1.5. Ancora, i mercati percepiscono questa realtà di un’austerità che aggrava i problemi invece di risolverli e quindi aumentano le difficoltà dei paesi deboli e pretendono più alti tassi di interesse per continuare a sottoscrivere titoli pubblici di tali paesi.
In realtà la politica di austerità è un progetto ideologico, che mira nella sostanza a ridurre il ruolo dello stato e a ridimensionare o a cancellare in gran parte lo stato sociale. Una lettura più attenta delle cose porta comunque a dire che in realtà la crisi è originata da fattori diversi da quelli suggeriti dalla Merkel.
Primo punto: come ci ricorda E. Balibar, il filosofo francese, la crisi dell’euro non ha nulla a che fare con le colpe degli stati spendaccioni, ma essa è da collegare all’incapacità e alla scarsa volontà degli stati europei a neutralizzare il gioco speculativo dei mercati e a pesare in favore di una regolazione mondiale della finanza.
Secondo: c’è un problema politico-finanziario strutturale, alla lunga non si può avere una moneta senza stato, o si va verso l’unione politica europea, con tutte le gradualità del caso, o l’euro non regge. E’ inutile parlare di eurobond, di interventi più incisivi della BCE, o del fondo salva stati; tali possibili interventi diventano pressoché naturali solo una volta che si passi a una politica di unificazione europea, ma senza tale quadro essi sono sostanzialmente impensabili.
Terzo punto: un problema che abbiamo di fronte è anche quello della scarsa competitività degli stati del Sud Europa, Grecia, Portogallo, Spagna e, sia pure in minore misura, l’Italia. Si registra così, da questo punto di vista, una frattura crescente tra il Nord e il Sud Europa.
Quarto problema: tutto quello che si è approvato negli ultimi 2-3 anni lo si è fatto in assoluta carenza di processi democratici di decisione. Anzi i meccanismi operativi e procedurali a livello di Unione Europea sembrano proprio fatti per escludere dal gioco qualsiasi intervento di tipo democratico.
Quindi se si vuole salvare l’euro e la stessa costruzione europea, bisogna partire da un nuovo decollo del processo di unificazione politica, sia pure a tappe. Bisogna poi varare un grande piano infrastrutturale sempre a livello continentale e in particolare un grande piano per il sud; in effetti, con le sole politiche di austerità non si va molto avanti. Ci vogliono delle strategie per la crescita.
Il tutto può poi andare avanti soltanto con l’individuazione di un nuovo percorso di democrazia per tutto il continente.

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